Storia della letteratura italiana/Giambattista Vico

Storia della letteratura italiana

Nonostante sia oggi riconosciuto come il più importante filosofo della cultura napoletana durante l'età dell'Arcadia, Giambattista Vico ha ricevuto scarso interesse da parte dei suoi contemporanei. La sua è una fortuna postuma, che è andata crescendo a partire dal 1765, quando è stato riscoperto da una nuova generazione di intellettuali, che lo hanno innalzato al ruolo maestro. Con la sua opera principale, i Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, è considerato uno dei massimi filosofi italiani dell'età moderna.[1]

La vita

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Giambattista Vico

Gran parte delle notizie sulla sua vita ce le fornisce lo stesso filosofo nella sua autobiografia, la Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo. Nato il 23 gennaio 1668 in una famiglia di modeste condizioni – il padre Antonio era un povero libraio,[2] la madre, Candida Masulla, era figlia di un lavorante di carrozze[3] – Vico è un bambino molto vivace, ma, a causa di una caduta verificatasi forse nel 1675, si procura una frattura al cranio che gli impedisce di frequentare la scuola per tre anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, quantunque «il cerusico ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvissuto stolido», contribuì a sviluppare «una natura malinconica ed acre».[3][4]

Segue senza continuità le lezioni presso il Collegio dei Gesuiti di Napoli, abbandonandoli due volte per dedicarsi agli studi privati. Successivamente, per assecondare il desiderio paterno, è «applicato agli studi legali»: frequenta per circa due mesi le lezioni private e, dal 1688 al 1691, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università di Napoli, senza tuttavia seguirne i corsi, cimentandosi invece in privati studi di diritto civile e canonico.[3] Conseguita la laurea, forse a Salerno, fra il 1693 e 1694, si appassiona subito ai problemi filosofici che il diritto pone.[5][6]

Il periodo tra il 1689 e il 1695 è denominato dell'«autoperfezionamento». Dal 1689-1690 svolge attività di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca, e usufruendo della grande biblioteca padronale studia Platone e il platonismo italiano (Ficino, Giovanni Pico, Patrizi), appassionandosi al problema della grazia in Agostino. Approfondisce anche gli studi aristotelici e scotisti, e legge le opere di Giovanni Botero e di Jean Bodin, scoprendo al contempo Tacito (che diverrà, insieme a Platone, Bacone e Grozio, uno dei quattro maestri cui s'ispirerà il suo pensiero maturo).[7]

Ritornato a Napoli nell'autunno del 1695, all'età di ventisette anni, affetto dalla tisi, rientra nella misera dimora paterna. A causa delle difficoltà economiche è costretto a tenere ripetizioni di retorica e grammatica. Nel gennaio 1699 vince, con striminzita maggioranza, il concorso per la cattedra di eloquenza e retorica presso l'Università di Napoli, da cui non riesce, con suo grande rammarico, a passare a una di diritto.[6][8] Anche dopo la nomina accademica, per poter mantenere il padre e i fratelli, deve aprire uno studio privato dove dà lezioni di retorica e di grammatica elementare, e impegnarsi a lavorare su commissione alla stesura di poesie, epigrafi, orazioni funebri, panegirici, ecc.

Nel 1699 può finalmente sposare la giovane Teresa Caterina Destito dalla quale avrà otto figli.[9] Da quel momento non avrà più la tranquillità necessaria per condurre gli studi. A questo periodo risale, inoltre, la conoscenza col filosofo Paolo Mattia Doria e l'incontro con il pensiero di Bacone.

Nel 1703 il governo partenopeo commissiona al Vico la scrittura del Principum neapolitanorum coniuratio e, nel 1709, in una cena a casa del Doria, espone le sue idee sulla filosofia della natura che lo condurranno, fra il novembre e il dicembre del medesimo anno, alla composizione del perduto Liber physicus. Fra il 1699 e il 1706 pronuncia in latino le sei Orazioni inaugurali, ossia le prolusioni all'anno accademico e, durante il 1708, se ne aggiunge una settima, più ampia e importante, con il titolo di De nostri temporis studiorum ratione, la quale si concentra molto sul metodo degli studi giuridici.[6][10]

Fra il 1708 e il 1709, l'insieme delle prolusioni universitarie sono rielaborate per essere raccolte in un unico volume mai pubblicato, dal titolo di De studiorum finibus naturae humanae convenientibus.[8] È aggregato, dal 1710, all'Accademia dell'Arcadia e, nel novembre, pubblica il primo libro dell'opera dedicata al Doria, De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda, con il sottotitolo Liber primus sive metaphysicus. Accanto al Liber metaphysicus l'opera vichiana avrebbe dovuto comprendere anche il perduto Liber physicus e un mai composto Liber moralis.

Nel 1713 pubblica un trattatello perduto sulle febbri ispirato alle bozze del Liber physicus, con il titolo di De aequilibrio corporis animantis, e si dedica alla stesura del De rebus gestis Antonii Caraphaei, una biografia del maresciallo Antonio Carafa, che vedrà la luce nel marzo 1716. Vico si dedica poi alla rilettura del suo quarto «auttore», l'olandese Ugo Grozio, cui dedicherà, nel 1716, un perduto commento al De iure belli ac pacis.[11] L'incontro di Vico con la filosofia di «Ugon capo»[12] ha un'importanza decisiva per il suo sviluppo intellettuale, poiché da quel momento il suo interesse sarà completamente assorbito dai problemi giuridici e storici.

L'idea dell'esistenza di un'umanità ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia, ed entro cui si producono gli «ordini civili» diventa centrale in tutto il pensiero vichiano.[11] Nel luglio 1720 vede la luce un'opera di filosofia del diritto, intitolata De uno universi iuris principio et fine uno, seguita, nel 1721, dallo scritto De constantia iurisprudentis, diviso in due parti (De constantia philosophiae e De constantia philologiae)[13], e che, nonostante il titolo si riferisca alla tematica giuridica, è meno incentrato sull'argomento rispetto al De uno.[6] Benché le due opere del 1720 e del 1721 si differenzino, segno di un rapido sviluppo del pensiero vichiano, è d'uso considerarli, come invero fece anche il Vico, insieme alle Notae aggiunte nel 1722 e le Sinopsi premesse al testo, sotto l'unico titolo di Diritto universale.[6]

Nel 1725 vengono pubblicati i Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, più conosciuta con il titolo abbreviato di Scienza Nuova. Alla Scienza Nuova Vico lavora per tutto il corso della sua vita, con un'edizione integralmente riscritta nel 1730 anche a seguito delle critiche ricevute e, infine, rivista completamente, senza grandi modifiche, per la terza edizione del 1744, pubblicata pochi mesi dopo la sua morte dal figlio Gennaro, che lo aveva sostituito nell'insegnamento accademico.[14]

Dopo la fama ottenuta dalla pubblicazione della Scienza Nuova, nel 1732 ottiene dal re Carlo III di Borbone la carica di storiografo regio.[15] Tanto nuova è la sua dottrina che la cultura del tempo non può apprezzarla. Vico rimane appartato e quasi del tutto sconosciuto negli ambienti intellettuali, dovendosi accontentare di una cattedra di secondaria importanza all'università napoletana. Le ristrettezze economiche lo costringono inoltre, per pubblicare il suo capolavoro, a toglierne alcune parti in modo che risulti meno costoso per la stampa. A queste difficoltà economiche per la pubblicazione delle sue opere, che influiscono certo negativamente sulla sua notorietà nel mondo accademico, va aggiunto il suo stile di scrittura poco lineare che rendeva difficile la lettura del suo pensiero.[16]

Nello stesso anno della pubblicazione della Scienza Nuova Vico, afflitto da difficoltà e disgrazie familiari, incomincia a scrivere la sua Autobiografia pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729. Giambattista Vico muore il 20 gennaio 1744 dopo aver appena superato i 76 anni d'età.

La Scienza Nuova

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Frontespizio della terza edizione 1744 della Scienza Nuova.

L'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano a essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli appartiene

« questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, 3a ediz., libro I, sez. 3)

L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana. Nella storia l'uomo verifica il principio del verum ipsum factum creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose. La definizione dell'uomo, della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione. La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo credere, come fanno i cartesiani o i neoplatonici, che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico.

« La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia[17] osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde viene la coscienza del certo...Questa medesima degnità (assioma) dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi »
(Giambattista Vico, Scienza nuova, Degnità X)

Ma la filologia da sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo. Compito della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di leggi che ne siano a fondamento com'è per tutte le altre scienze.

Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini.

La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla Provvidenza che prepone alla storia divina. Secondo Vico il metodo storico dovrà procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli antichi «poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue», e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni civili.

Questo metodo ha fatto identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre età:

  • l'età degli dei, «nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; e finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane»[18]
  • l'età degli eroi dove si costituiscono repubblica|repubbliche aristocrazia|aristocratiche;
  • l'età degli uomini «nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana».[19]

La legge delle tre età costituisce la «storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Tutti i popoli indipendentemente l'uno dall'altro hanno conformato il loro corso storico a questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta.

Se nella storia pur tra le violenze, i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo ciò è dovuto, secondo Vico, all'azione della Provvidenza che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si presenta in modo diverso nelle tre età: nelle prime due età il vero si presenta come certo.

Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che Vico definisce poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma molto vicino alla poesia che

« alle cose insensate dà senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degnità XXXVII)

Se vogliamo quindi conoscere la storia dei popoli antichi dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito non è solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé elaborata dagli antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servivano di universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentavano modelli ideali universali: come fecero ad esempio i Greci antichi che non definirono razionalmente la prudenza ma raccontarono di Ulisse, modello universale fantastico dell'uomo prudente.

  1. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 441.
  2. Francesco Adorno, Tullio Gregory e Valerio Verra, Storia della filosofia, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 368.
  3. 3,0 3,1 3,2 Giambattista Vico, La scienza nuova, a cura di Paolo Rossi, Milano, BUR, 2008, p. 43.
  4. Cioffi e altri, I filosofi e le idee, vol. II, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 543.
  5. Francesco Adorno, Tullio Gregory e Valerio Verra, Storia della filosofia, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 367-368.
  6. 6,0 6,1 6,2 6,3 6,4 Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 213-216.
  7. Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 3, Roma, Gruppo Editoriale L'Espresso, 2006, pp. 262-264.
  8. 8,0 8,1 Giambattista Vico, La scienza nuova, a cura di Paolo Rossi, Milano, BUR, 2008, p. 44.
  9. Fausto Nicolini, Giambattista Vico nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Venosa, Osanna, 1991.
  10. Giambattista Vico, Autobiografia, Milano, Bompiani, 1947, p. 57.
  11. 11,0 11,1 Giambattista Vico, La scienza nuova, a cura di Paolo Rossi, Milano, BUR, 2008, p. 45.
  12. Ugo Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di Guido Fassò, Morano, 1979, p. 16.
  13. Giambattista Vico, La scienza nuova, a cura di Paolo Rossi, Milano, BUR, 2008, p. 46.
  14. Rivista di studi crociani, Volume 6, a cura della "Società napoletana di storia patria", 1969
  15. Ugo Maria Palanza, Letteratura italiana: storia e vita, Federico & Ardia, p. 305.
  16. Giambattista Vico, Autobiografia, a cura di M. Fubini, Torino, Einaudi, 1965.
  17. Per Vico la filologia non è solo la scienza del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, religioni...ecc. dei popoli antichi.
  18. Giambattista Vico, Scienza Nuova, Idea dell'Opera)
  19. G. Vico,Scienza Nuova, Idea dell'Opera