Lamento di Philip Roth/Capitolo 1
PRIMA FASE
modificaPer approfondire, vedi Ebrei americani, American Jews, American Jews in politics e History of the Jews in the United States. |
“Is it us?/Siamo noi?”: Goodbye, Columbus
modificaL'8 gennaio 1914, Franz Kafka scrisse nel suo diario:
Questa affermazione è istruttiva, in quanto parla dei pericoli insiti nell'assegnare lealtà di gruppo ad artisti essenzialmente individualistici.[2] Come avrebbe reagito Kafka, lo scrittore più scomodo e solitario, se gli avessero detto che un giorno sarebbe stato salutato come "the most quintessentially Jewish of writers"?[3] Come avrebbe risposto Kafka alle richieste della comunità ebraica di rappresentare le virtù di quella comunità al mondo più ampio? Naturalmente, Kafka pubblicò solo una manciata di racconti durante la sua vita e scrisse prima che ci fosse un'industria letteraria desiderosa di categorizzare gli scrittori in "scuole" etniche e religiose. Ma si può supporre che se fosse nato cinquant'anni dopo e fosse emigrato in America, sarebbe stato accomunato a Saul Bellow e Bernard Malamud nella "Jewish-American school", con tutte le ipotesi e le aspettative che un tale titolo implica.
Philip Roth nacque nel 1933, cinquant'anni dopo Kafka, e, come tale, sarebbe diventato il terzo nome di quel magico triumvirato, Bellow-Malamud-Roth, dopo la pubblicazione del suo esordio, Goodbye, Columbus, nel 1959. Si ritrovò anche nel mezzo di una tempesta di polemiche tra i normali lettori ebrei e i leader della comunità ebraica a causa della rappresentazione degli ebrei nei suoi racconti. A causa di molti fattori (come minimo, i guadagni economici della comunità ebraico-americana, l'esplosione della narrativa popolare ebraico-americana e la presenza ebraica di spicco in riviste intellettuali come Commentary e Partisan Review), le questioni dell'identità letteraria ebraica erano di grande interesse per molti nel 1959. Scrivendo quando scrisse, e scrivendo di ebrei, Roth non poteva essere semplicemente uno scrittore che per caso era ebreo. Piuttosto, le pressioni esercitate dalla comunità ebraico-americana e la natura specifica di quella comunità all’epoca, in molti modi dettarono la formazione della sensibilità letteraria di Roth e il suo senso di sé come scrittore per gli anni a venire.
Goodbye, Columbus è composto dal romanzo breve del titolo e da cinque racconti, tutti inizialmente pubblicati su riviste nel precedente anno e mezzo. Ognuno dei racconti è incentrato sulla vita ebraica contemporanea nella periferia americana, tranne "Defender of the Faith", che trasporta i suoi ebrei in una base dell'esercito americano nel Missouri verso la fine della Seconda guerra mondiale. Gran parte del fascino della raccolta risiede nell'occhio acuto che rivolge ai sobborghi ebraici. La popolazione ebrea americana attraversò un notevole cambiamento demografico nei quindici anni successivi alla guerra. Quando gli ebrei americani di seconda e terza generazione si spostarono nella classe media e medio-alta, si verificò una tremenda migrazione dalle città verso i sobborghi. La città di Newark, nel New Jersey, dove era cresciuto Philip Roth, aveva 58 000 residenti ebrei nel 1948. Nel 1958, quel numero era sceso a 41 000. Al contrario, la popolazione ebraica di West Orange, solo uno dei tanti sobborghi entro venti miglia da Newark, era aumentata da 1 600 a 7 000 nello stesso periodo di dieci anni.[4] La natura della vita ebraica, per così tanto tempo povera e urbana, era diventata, apparentemente da un giorno all'altro, ricca e suburbana.[5] Come osservò Saul Bellow nella sua recensione di Goodbye, Columbus, "nothing in history has so quickly and radically transformed any group of Jews".[6] È questa trasformazione che informa le storie d'esordio rothiane.
Questo significativo cambiamento demografico deve essere preso in considerazione quando si esamina la risposta ebraica a Goodbye, Columbus. La risposta fu notevolmente polarizzata, riflettendo i grandi cambiamenti che avevano interessato la comunità ebraico-americana e problematizzando la nozione di scrittore ebreo-americano. Come sosterrò, le questioni latenti riflesse nell'accoglienza del libro sono quelle che il libro stesso affronta.
Ogni analisi della reazione ebraica a un libro pubblicato negli anni ’40 o ’50 deve iniziare con i cosiddetti New York Intellectuals. Riunitisi per la prima volta negli anni ’30, i New York Intellectuals erano un gruppo (in gran parte ebraico) di critici, scrittori e pensatori che lasciarono il segno sulle pagine di riviste come Partisan Review, Commentary e Dissent. Forse il modo più utile per comprendere questo gruppo eterogeneo deriva dalla concezione di Norman Podhoretz dei New York Intellectuals come famiglia ebraica, composta da tre generazioni. La generazione fondatrice includeva Philip Rahv, Lionel Trilling, Clement Greenberg e Sidney Hook, tutti attivi a New York negli anni ’30.[7] Rahv, insieme a William Phillips, lanciò Partisan Review nel 1934, forse la rivista intellettuale americana più influente della metà del ventesimo secolo. La seconda generazione, arrivata negli anni ’40, includeva Irving Howe, Leslie Fiedler, Alfred Kazin, Irving Kristol e Saul Bellow.[8] La terza generazione portò Podhoretz, Susan Sontag e Midge Decter nel gruppo.[9] Sebbene Roth sia considerato da alcuni parte di questa terza generazione, il legame sembra labile. Inizialmente pubblicò due dei racconti di Goodbye, Columbus ("Eli, the Fanatic" e "You Can't Tell a Man by the Song He Sings") in Commentary, come anche "Writing About Jews" e "Writing American Fiction", ma tendeva a frequentare circoli diversi ed è raramente menzionato nelle varie storie del gruppo.[10] Come una famiglia, tutte queste figure "found themselves stuck with one another against the rest of the world whether they liked it or not".[11]
Le varie recensioni di Goodbye, Columbus dei New York Intellectuals sono notevoli per la loro somiglianza. Quasi unanimemente positive, ogni recensore nota la netta rappresentazione fatta da Roth delle comunità ebraiche suburbane in termini simili. Irving Howe elogia Roth per la sua rappresentazione "spietata" delle periferie ebraiche, definendola "ferocemente esatta". Alfred Kazin nota "Roth’s refusal of a merely sentimental Jewish solidarity [...] He cast[s] a cold eye on Jews as a group". Harvey Swados, una specie di lontano cugino ebreo del gruppo centrale di New York, ammira "Roth’s fiendishly accurate eye for the minutiae of middle-class Jewish life".[12] Forse la valutazione di Saul Bellow, in una recensione su Commentary, riassume al meglio la risposta dei New York Intellectuals:
Recensioni come queste si sforzano di dipingere un quadro di ciò che dovrebbe essere uno scrittore ebreo-americano. Dovrebbe essere "spietato" e "feroce"; lo sguardo che lancia verso la sua comunità dovrebbe essere "freddo" e "diabolicamente accurato"; e deve essere "esatto", responsabile di ritrarre "il nostro senso della realtà". Questa è l'idea modernista dell'artista come alienato e indipendente dalla sua comunità. Ma gli aspetti di Goodbye, Columbus che questi critici ebrei avevano elogiato – "the refusal of a merely sentimental Jewish solidarity" da parte di Roth – sembravano esattamente gli aspetti che suscitavano una risposta sorprendentemente diversa dai lettori ebrei più borghesi di Roth.
La controversia iniziò con la pubblicazione di "Defender of the Faith" sul The New Yorker nel marzo del 1959 e continuò quando la storia fu ristampata come parte di Goodbye, Columbus, nel giugno di quell'anno. "Defender of the Faith", narrato dal sergente dell'esercito americano Nathan Marx, si svolge in una base nel Missouri durante la Seconda guerra mondiale. Una delle nuove reclute della base, Sheldon Grossbart, procede a estorcere una serie di favori e privilegi a Marx, basati sulla loro comune eredità ebraica. Sebbene Marx sia profondamente a disagio e confuso nel riservare a Grossbart un trattamento speciale, Grossbart sfrutta la natura fondamentalmente compassionevole di Marx per i propri fini. La storia riguarda essenzialmente la coscienza turbata di Marx, poiché alla fine deve decidere tra la sua fedeltà a un altro ebreo e la sua fedeltà al suo senso di giustizia.
Non era questo dilemma morale a far infuriare i lettori che avevano denunciato la storia e il suo autore. Era piuttosto il personaggio di Sheldon Grossbart. La rappresentazione di un ebreo manipolatore, subdolo e avido, sostenevano, avrebbe solo gettato benzina sul fuoco degli antisemiti, che sono ansiosi di caratterizzare tutti gli ebrei come tali. Quasi immediatamente dopo la pubblicazione iniziale della storia, piovvero lettere, sia alla redazione del New Yorker che allo stesso Roth. Un lettore scrisse, in una lettera personale a Roth, "With your one story, ‘Defender of the Faith,’ you have done as much harm as all the organized anti-Semitic organizations have done to make people believe that all Jews are cheats, liars, connivers".[14] Un'altra lettera, al New Yorker, trasmetteva il messaggio "we cannot escape the conclusion that [this story] will do irreparable damage to the Jewish people. [...] Cliches like ‘this being art’ will not be acceptable".[15]
La controversia si estese presto alle sinagoghe americane, dove Roth e il suo lavoro divennero oggetto di un acceso dibattito. I rabbini fecero di Roth l'argomento dei loro sermoni, sottolineando i pericoli che si nascondevano in Goodbye, Columbus. Un rabbino scrisse, nel suo notiziario della sinagoga: "the only logical conclusion any intelligent reader could draw from [Roth’s] stories or books, is that this country—nay that the world—would be a much better and happier place without the ‘Jews’".[16] Un altro rabbino scrisse all'Anti-Defamation League, chiedendo: "What is being done to silence this man? Medieval Jews would have known what to do with him".[17] All'età di ventisei anni, con un solo libro pubblicato, Roth ebbe improvvisamente più notorietà all'interno della comunità ebraica di quanto chiunque avrebbe potuto prevedere.
Ciò che spero emerga da questo resoconto della controversia che circonda Goodbye, Columbus è un senso della comunità ebraica americana della fine degli anni ’50 come molto sensibile ai modi in cui gli ebrei venivano ritratti rispetto al mondo più ampio, e un senso che la comunità era disposta e in grado di esercitare una pressione enorme su coloro che avrebbero tentato di fare quelle rappresentazioni. Vorrei sostenere che c'erano due principali ragioni storiche per questa sensibilità.
Il primo aspetto da considerare è l'effetto dell'Olocausto. Lo sterminio di sei milioni di ebrei europei ebbe un impatto immenso sulle loro controparti americane. Man mano che gli ebrei americani diventavano più prosperi e abbandonavano i tradizionali quartieri ebraici delle città per anonimi sobborghi americani, la natura della vita ebraica in America era in rapido cambiamento. E tuttavia, come sottolinea Irving Howe, "Memories of the Holocaust pressed deep into the consciousness of Jews, all, or almost all, making them feel that whatever being a Jew meant, it required of them that they try to remain Jews".[18] Non importa quanto gli ebrei diventassero sicuri e americanizzati, l'Olocausto rimase sempre impresso nella psiche ebraica collettiva come un promemoria permanente della tenue sopravvivenza del popolo ebraico. Ciò si manifestò in modo più evidente in un accresciuto sospetto dell'esistenza dell'antisemitismo. Howe prosegue affermando:
Quando il racconto di Philip Roth, “Defender of the Faith”, descriveva l'ebreo Sheldon Grossbart come egoista, avido e manipolatore, molti lettori ebrei sembravano temere cosa ne avrebbe pensato un antisemita americano.
Il secondo aspetto della comunità ebraico-americana che deve essere preso in considerazione ha a che fare con la sua posizione socio-economica all'epoca. Come già notato, la tendenza generale degli ebrei americani dopo la guerra era verso la classe medio-alta e verso i sobborghi. Dopo secoli come popolo errante senza una nazione, mai sicuro per molto tempo, gli ebrei avevano apparentemente trovato, in America, un posto dove potevano essere membri di successo della comunità più ampia. Albert Gordon, nel suo studio sociologico del 1959 Jews in Suburbia, osservava: "The uniqueness of present-day Jewish suburbanites, then, is associated with the fact that they, unlike their fathers’ generation, feel ‘at home’ and secure in their Americanism".[19] Avendo finalmente raggiunto comfort e sicurezza, c'era un enorme desiderio collettivo di proteggerli e mantenerli. Gli ebrei avevano finalmente fondato comunità sicure e prospere e, comprensibilmente, volevano mantenerle tali. Lo storico ebreo Milton Plesur sostiene che, nelle nuove comunità suburbane, o "Golden Ghettoes", "one’s affiliation with the Jewish community is compulsive; he is subject to its claims and demands in the way the metropolitan Jew has never been".[20] Philip Roth sentì certamente queste rivendicazioni e richieste dopo la pubblicazione di Goodbye, Columbus.
La reazione ebraica a Goodbye, Columbus ebbe due filoni distinti. I New York Intellectuals elogiarono il ritratto tagliente fatto da Roth in merito ai prosperi sobborghi ebraici, affermando una visione modernista dell'artista che deve mantenere uno sguardo critico nei confronti della sua comunità. I lettori indignati, al contrario, erano effettivamente preoccupati di proteggere tale comunità, soprattutto per quanto riguarda il modo in cui è vista dagli estranei. Il contrasto solleva la questione della responsabilità dell'artista, o in effetti di qualsiasi individuo, nei confronti della sua comunità. Un artista può, o dovrebbe, essere un rappresentante della propria comunità etnica o religiosa? Quanto le azioni di un individuo sono limitate dai desideri collettivi della sua comunità? Ciò che è più interessante nelle domande sollevate dalla reazione ebraica a Goodbye, Columbus è che sembravano riecheggiare le domande sollevate nei racconti stessi. Nei migliori racconti della raccolta, Roth si concentra sulla complicata relazione tra un singolo protagonista e la comunità ebraica di cui fa parte.
La questione della responsabilità di un artista nel rappresentare la sua comunità è esposta in modo più esplicito nell'ultimo racconto del libro, "Eli, the Fanatic", poiché l'eroe eponimo deve letteralmente rappresentare la sua comunità. Come avvocato, Eli è stato assunto dagli ebrei della sua città per sfrattare, appellandosi alle leggi di zonizzazione, i membri della Yeshiva appena arrivata — un collegio talmudico che ospita due adulti e diciotto bambini chassidici. Gli ebrei chassidici hanno uno stile di abbigliamento tradizionale che risale all'Europa orientale del diciannovesimo secolo e credono in una comunione estatica con Dio attraverso la preghiera gioiosa. Eli informa il preside chassidico: "The town of Woodenton is a progressive suburban community whose members, both Jewish and Gentile, are anxious that their families live in comfort and beauty and serenity".[21] Sembra che il comfort, la bellezza e la serenità di Woodenton siano stati tutti turbati dalla Yeshiva, le cui antiche pratiche e lo strano abbigliamento minacceranno il delicato equilibrio dell'assimilazione.
Gran parte della storia è incentrata sulle pressioni che i cittadini di Eli esercitano su di lui, sottolineando l'importanza della sua missione. Ogni momento libero di Eli viene rovinato da un telefono che squilla, portando con sé la supplica di un altro cittadino di liberare la città dalla Yeshiva. La caratterizzazione individuale dei cittadini preoccupati di Woodenton è minima: la comunità nel suo insieme diventa un personaggio, urlando le sue richieste nell'orecchio di Eli. Attraverso queste pressioni, Roth ritrae una moderna comunità ebraica suburbana in cui la protezione del comfort e della prosperità supera tutte le altre considerazioni.
Diventa subito chiaro che ciò che spinge la comunità ebraica di Woodenton a voler sfrattare la yeshiva è il desiderio di mantenere la propria comunità suburbana assimilata, con la sua cultura omogeneizzata che non lascia spazio a pratiche così "estreme". La concezione della periferia come via di fuga dalle tradizionali comunità urbane ebraiche americane è resa abbastanza chiara da uno dei vicini di Eli, che, parlando della yeshiva, esclama: "When I left the city, Eli, I didn’t plan the city should come to me" (GC 237). Ciò è in linea con una visione accettata della periferia ebraica del ventesimo secolo, in cui "whatever spoke too emphatically of traditional ways in religious practice, or too stridently of traditional ideologies in Yiddish secular life, was left behind".[22] Ma Roth va oltre questa affermazione, descrivendo il rifiuto persino dei valori e delle pratiche religiose ebraiche fondamentali in tali comunità.
Un residente esprime la sua preoccupazione che presto la città sarà piena di bambini chassidici, che indossano kippah e cantano le loro preghiere nel centro della città. Continua ammettendo:
Il disgusto mostrato per le pratiche religiose tradizionali della Yeshiva evidenzia la misura in cui un desiderio di normalità ha attanagliato la comunità ebraica moderna, eclissando persino gli aspetti più fondamentali della religione, la fonte apparente dell'identità ebraica. Lo stesso cittadino arriva persino a insinuare che è stata l'incapacità degli ebrei europei di "integrarsi" a portare alle atrocità dell'Olocausto: "‘The way things are now are fine—like human beings. There’s going to be no pogroms in Woodenton. Right? ’Cause there’s no fanatics, no crazy people [...] just people who respect each other, and leave each other be’" (GC 257).
La menzione dei pogrom nazisti non è solo incidentale alla storia, poiché i venti residenti della Yeshiva sono tutti D.P., ovvero "displaced persons" (sfollati), ebrei sopravvissuti alla Shoah, rimasti senza famiglia, comunità o casa. La Yeshiva nella periferia di Woodenton è il loro rifugio; l'America, con le sue tradizioni di tolleranza religiosa, offrirà loro un posto dove vivere come ebrei. L'ironia che Roth introduce qui è chiara. L'ascesa degli ebrei americani da poveri immigrati alla fine del diciannovesimo secolo a prosperi abitanti della periferia negli anni ’50 è stata forse il cambiamento demografico più notevole nella storia americana del ventesimo secolo. Gli ebrei, per i quali il mondo apparentemente non aveva una casa per secoli, potevano finalmente sentirsi a loro agio e al sicuro. Ma, almeno in questa storia, questo comfort e questa sicurezza hanno un prezzo elevato. I sopravvissuti all'Olocausto, il simbolo dell'era moderna più sorprendente del popolo ebraico senza casa, cacciato dalle atrocità naziste, non si adattano al piano degli ebrei di Woodenton per la loro comunità. Qui sono gli stessi ebrei a dare inizio al pogrom.[23]
Eli si distingue come l'unico membro della comunità ebraica di Woodenton che cerca di comprendere gli elementi del conflitto. Tenendo a mente l'esperienza di Roth con gli indignati lettori ebrei di Goodbye, Columbus, Eli potrebbe essere visto come una specie di figura artistica per Roth, nel tiramolla delle pretese della sua società, che lotta per mantenere la sua prospettiva individuale. Per tutto il tempo, è pieno di dubbi su se stesso e di auto-interrogativi. Questi dubbi su se stesso sono in netto contrasto con la voce sicura e unificata della comunità, che afferma solo di volere far scomparire la Yeshiva. Ma l'approccio investigativo di Eli lo porta a una vera comprensione delle motivazioni di entrambe le parti del conflitto e, alla fine, a una sorta di risoluzione. Comprende i desideri della città e, per la maggior parte della storia, cerca di essere conciliante nel soddisfare le loro richieste. Guidando attraverso il prospero sobborgo, pensa ai suoi antenati, che hanno lottato per generazioni nell'Europa orientale per stabilire una comunità stabile e sicura:
Allo stesso tempo, Eli trascorre del tempo a parlare con il preside chassidico, ascoltando effettivamente la storia dei sopravvissuti. Prova compassione per la loro situazione e tenta di raggiungere un compromesso che consentirebbe alla Yeshiva di restare. Il compromesso, in cui i due adulti della Yeshiva accettano di indossare abiti moderni (in realtà completi che Eli fornisce loro) quando sono in città, mostra la comprensione che la maggior parte delle lamentele della città riguardano l'aspetto esteriore della normalità. L'atto finale di Eli, tuttavia, trasgredisce le convenzioni di normalità di Woodenton, sottolineando il suo carattere ribelle. In una sorta di epifania empatica e comprensione per i chassidim, indossa il tradizionale abito e cappello chassidici e sfila lungo la strada principale della città. È solo un atto simbolico di sfida, forse, ma è sufficientemente sovversivo da convincere i suoi concittadini che sta avendo un crollo nervoso.
La sensibilità della comunità ebraica suburbana in "Eli, the Fanatic" è il prodotto del fervente desiderio di quella comunità di essere normale, americana e poco appariscente per il mondo laico più ampio. Questa comunità immaginaria prefigurava in modo inquietante gli oppositori schietti di Goodbye, Columbus, che vedevano Roth interpretare il ruolo di Eli, sfilando per strada ed esponendo all'America ciò che avrebbe dovuto essere nascosto.
In un altro racconto più spensierato della raccolta, "The Conversion of the Jews", Roth descrive la sensibilità di un'altra comunità ebraica suburbana e ne descrive l'atteggiamento sospettoso nei confronti del dissenso individuale e dell'autocritica. Ozzie Freedman, il protagonista tredicenne del racconto, è nei guai con il rabbino Binder, l'insegnante della sua classe di scuola ebraica. Per la terza volta di recente, la madre di Ozzie dovrà andare a discutere delle trasgressioni di Ozzie con il rabbino. Ognuno di questi incontri è sollecitato dalla persistente curiosità di Ozzie e dal mettere in discussione le accettate pratiche ebraiche. La prima volta, Ozzie chiede "how Rabbi Binder could call the Jews ‘The Chosen People’ if the Declaration of Independence claimed all men to be created equal". La seconda volta si verifica dopo un incidente aereo. La madre di Ozzie, dopo aver trovato otto nomi ebrei nell'elenco delle vittime, dichiara l'incidente una tragedia. Ozzie solleva questo argomento in classe e, dopo che Rabbi Binder spiega "cultural unity and some other things", Ozzie urla che avrebbe voluto che tutti sull'aereo fossero stati ebrei.[24] La terza delle offese di Ozzie deriva da una discussione teologica in classe. Rabbi Binder spiega alla classe che, sebbene, come i cristiani, gli ebrei credano che Gesù Cristo sia esistito, non credono che fosse il figlio di Dio. Fa appello al buon senso degli studenti per convincerli che Gesù Cristo era "storico": "‘The only way a woman can have a baby is to have intercourse with a man’" (GC 128). Questa spiegazione, tuttavia, non va a genio a Ozzie. Se Dio ha potuto creare il mondo intero in sei giorni, si chiede ad alta voce, non è possibile che possa permettere che una donna abbia un bambino senza avere un rapporto? Rabbi Binder prende le osservazioni di Ozzie come pura impudenza e gli dice che sua madre dovrà venire a colloquio. Nel frattempo, il rabbino dice a Ozzie che dovrebbe riflettere su ciò che ha detto. Ozzie in seguito ammette al suo amico Itzie: “‘Itz, I thought it over for a solid hour, and now I’m convinced God could do it’” (GC 130).
Questa formulazione della presunta bestemmia di Ozzie è importante per la spinta principale della storia, poiché la trasgressione di Ozzie si presenta sotto forma di una dichiarazione di fede. Mentre in "Eli, the Fanatic", Roth descrive una comunità ebraica non-religiosa che persegue uno stato omogeneizzato di assimilazione a spese di ebrei religiosi palesemente strani, qui Roth opera all'interno di un contesto ebraico specificamente religioso. In "The Conversion of the Jews", invece della periferia, è un ebraismo istituzionalizzato e intellettualmente stagnante che resiste alle differenze individuali. Ozzie viene punito perché la sua fede onesta e ingenua differisce dal dogma accettato.
Rabbi Binder, in quanto capo della sinagoga di Ozzie e della scuola ebraica, è raffigurato come una figura autoritaria, o quantomeno, uno che aspira a tale posizione. Il suo è "the attitude of a dictator, but one—the eyes confessed all— whose personal valet had spit neatly in his face" (GC 136). Come voce figurativa della comunità ebraica, è sorprendente che sia la sua voce a ricevere i dettagli più descrittivi da Roth. Viene descritta per la prima volta come "the monumental voice of Rabbi Binder" (GC 127). In seguito, Ozzie racconta che quando il rabbino lo rimprovera per le sue osservazioni su Dio, parla "in that voice like a statue, real slow and deep" (GC 130). Infine, il narratore riferisce che la voce del rabbino, "could it have been seen, would have looked like the writing on scroll" (GC 135).[25] Le pressioni della comunità ebraica vengono esercitate sull'individuo attraverso una voce che si sforza di raggiungere un'autorità indiscutibile. Naturalmente, il ruolo di Rabbi Binder nella storia è chiaramente segnalato dal suo stesso nome. I suoi tentativi di legare (bind) i suoi studenti, di limitare la loro risposta alle idee che vengono loro insegnate, sono frustrati da Ozzie Freedman, il cui stesso nome suggerisce che non può essere legato.
Il rabbino usa la sua voce autoritaria al servizio di un ebraismo istituzionalizzato e senza vita. Ad esempio, rimprovera Ozzie in classe perché legge troppo lentamente dal libro di preghiere ebraico. "Ozzie said he could read faster but that if he did he was sure not to understand what he was reading". Tuttavia, quando Ozzie continua a leggere al suo passo di lumaca, il rabbino somministra un "soul-battering" allo studente (GC 132). La lettura meticolosa di Ozzie è chiaramente in contrasto con il perpetuo borbottio di Yakov Blotnik, il custode settantunenne che sembra parte integrante della struttura della sinagoga tanto quanto il suo tetto o le sue pareti. "To Ozzie the mumbling had always seemed a monotonous, curious prayer; what made it curious was that old Blotnik had been mumbling so steadily for so many years, Ozzie suspected he had memorized the prayers and forgotten all about God" (GC 131-2).
Nel loro studio sociologico del 1961 su tre generazioni di immigrati ebrei americani, Judith R. Kramer e Seymour Leventman sostenevano che, per gli ebrei americani di terza generazione nei sobborghi, la pratica religiosa aveva più a che fare con il desiderio di sopravvivenza del gruppo che con una fede autentica. Per questi ebrei, sostenevano, "religious observance has been reduced to an occasional acknowledgment of synagogue and ritual. Sentiment exceeds commitment in the third generation, sufficing to assuage the conscience without isolating the Jew from the general community". In questo modo, la comunità suburbana in "The Conversion of the Jews" differisce poco dalla comunità in "Eli, the Fanatic". Mentre gli ebrei in quest'ultimo sono sospettosi di qualsiasi pratica visibilmente religiosa, la comunità del primo sembra mantenere queste pratiche semplicemente per il proprio bene, sospettosa di qualsiasi pratica religiosa che differisca dalla norma. È un ebraismo memorizzato e anestetizzato quello contro cui Ozzie si scontra. Kramer e Leventman continuano:
La voce di Rabbi Binder può essere monumentale, come una statua, o come la scrittura su un rotolo, ma non è mai perplessa. È Ozzie che si adatta al ruolo del giovane intellettuale meravigliato.
La seconda metà di "The Conversion of the Jews" contiene la scena più memorabile della storia, con Ozzie in piedi sul tetto della sinagoga e una grande folla di persone sotto che lo guarda. Ozzie è scappato sul tetto dopo uno scontro con Rabbi Binder. Il ragazzo urla al rabbino, dicendogli: "You don’t know anything about God!" e il rabbino aveva (accidentalmente) colpito Ozzie, facendolo scappare sul tetto (GC 133-4). La scena che segue ha un tocco di ridicolo, terminando con l'intera folla che segue gli ordini dati da Ozzie di inginocchiarsi "in the Gentile posture of prayer" (GC 143). Ma funziona perché giustappone chiaramente l'individuo (Ozzie) e la sua comunità (la folla sotto, composta da molte persone, tra cui Rabbi Binder, Yakov Blotnik e la madre di Ozzie). Ciò consente a Roth di sviluppare il suo tema in una progressione chiara, poiché l'auto-interrogazione e l'iconoclastia portano a mettere in discussione la comunità più ampia e l'azione collettiva.
Quando Ozzie si ritrova per la prima volta sul tetto, una domanda gli attraversa la mente: ‘“Is it me? Is it me ME ME ME ME! It has to be me—but is it!”’ (GC 135). Poteva chiedersi se era stato lui a chiamare bastardo il suo capo religioso dopo che il rabbino lo aveva colpito. Oppure poteva chiedersi se era davvero lui in cima al tetto della sua sinagoga. In entrambi i casi, questa vena di auto-interrogazione lo attraversa, proprio come attraversa Eli. Tuttavia, è la scena bizzarra che segue, con il rabbino e la madre di Ozzie che supplicano che il ragazzo non si lanci verso la morte, e i compagni di classe di Ozzie allegramente anarchici che urlano che dovrebbe saltare, che spinge Ozzie a pensare: "If there was a question to be asked now it was not ‘Is it me?’ but rather ‘Is it us?’" ("Se c'era una domanda da porsi ora non sarebbe ‘Sono io?’ ma piuttosto ‘Siamo noi?’" — GC 142). Poteva finanche chiedersi: "Who are we?". Alla fine, rendendosi conto del suo potere sulla folla di persone sotto di lui, Ozzie fa inginocchiare tutti, altrimenti salterà. Poi procede a far dire a tutti che Dio può permettere a una donna di avere un figlio senza avere rapporti sessuali. Infine, chiede a sua madre di promettere che "she will never hit anyone about God". "He had asked only his mother, but for some reason everyone kneeling in the street promised he would never hit anybody about God" (GC 145). Ciò che era iniziato con la domanda onesta e sfacciata di un bambino che incontrava il rimprovero di un rabbino impaziente, porta una piccola comunità a impegnarsi a cambiare i propri modi. Come "Eli, the Fanatic", "The Conversion of the Jews" suggerisce i modi in cui le azioni di un individuo possono cambiare la sua comunità, se quell'individuo è sufficientemente curioso e indipendente. Ancora una volta, possiamo vedere la figura dell'artista manifestarsi nel protagonista della storia. Questa scena — con Ozzie sul tetto e la sua comunità laggiù, che lo ascolta, dà credito alle sue idee, persino esegue i suoi ordini — è una specie di fantasia artistica. Roth, che avrebbe insistito con la sua comunità sul fatto che gli ebrei in America devono essere più curiosi e auto-interrogativi, poteva solo sognare un simile pubblico nel 1959.
A differenza di "Eli, the Fanatic" e "The Conversion of the Jews", "Defender of the Faith" non è ambientato in una comunità ebraica. Ma, nell'ambiente decisamente non-ebraico di una base dell'esercito statunitense, Sheldon Grossbart importa efficacemente il potere coercitivo della comunità ebraica per manipolare il sergente Nathan Marx. Grossbart è profondamente consapevole del potere della convinzione diffusa che gli ebrei abbiano bisogno di conformismo per sopravvivere, e sfrutta quel potere per i propri fini egoistici.
Inizialmente, i suoi sforzi sono relativamente benigni. Supponendo (correttamente) che il sergente Marx, il suo superiore, sia ebreo, Grossbart chiede a Marx di chiarire agli altri soldati che, quando i soldati ebrei lasciano i loro doveri per partecipare ai servizi religiosi, non stanno semplicemente "goofing off". Il sergente Thurston, predecessore di Marx, non farebbe mai una simile affermazione, dice Grossbart, "but we thought that with you here things might be a little different".[26] Questo tipo di mentalità di gruppo insinuante colora molte delle affermazioni di Grossbart a Marx. Chiedendo a Marx un permesso per il fine settimana, Grossbart mente e dice che vuole andare a casa di sua zia per un seder, il pasto cerimoniale che segna l'inizio della festività ebraica della Pesach. "All I ask is a simple favor. A Jewish boy I thought would understand’”" (GC 173). Alcune cose sono importanti per gli ebrei, sottintende Grossbart, e gli ebrei devono fare affidamento gli uni sugli altri per mantenerle in un mondo gentile. La capacità persuasiva di Grossbart non deve essere sottovalutata, e alla fine Marx gli dà il lasciapassare, solo per scoprire, più tardi, che il “seder” di Grossbart era in realtà un pasto in un ristorante cinese.
Poiché gli eventi dell'Olocausto hanno avuto un ruolo importante nella creazione di questa particolare mentalità di gruppo negli ebrei americani, non sorprende che Grossbart evochi la decimata popolazione ebraica europea nei suoi intrallazzi. All'inizio della storia, Marx vede Grossbart e i suoi due compagni ebrei, Mickey Halpern e Larry Fishbein, parlare e ridere durante le preghiere dei suddetti servizi religiosi. Allora gli chiede se i servizi siano importanti per loro.
Come in "Eli, the Fanatic", il riferimento all'Olocausto aumenta il potere dell'argomentazione coercitiva della comunità. Mentre in "Eli", la presunta lezione della Shoah era che gli ebrei non si "integravano" abbastanza, qui è che non erano uniti. Più tardi, quando Marx inizialmente nega a Grossbart la sua richiesta di pass per il weekend, Grossbart si scaglia selvaggiamente in termini che sarebbero stati poi ripetuti dai detrattori di Roth: "Ashamed, that’s what you are [...] So you take it out on the rest of us. They say Hitler himself was half a Jew. Hearing you, I wouldn’t doubt it" (GC 172-3). Per Grossbart, la paura ebraica di una ripetizione delle atrocità dell'Olocausto diventa solo un altro strumento per i suoi scopi personali e la storia diventa, nelle parole di Michael Rothberg, "a warning to avoid turning [the Holocaust] into ethnic property and cultural capital".[27]
Molte volte nella storia, Marx coglie Grossbart in fallo e lo incalza per avere una spiegazione. Grossbart spiega che non sta semplicemente cercando di ottenere privilegi speciali per sé; vuole aiutare e proteggere i suoi compagni ebrei, Halpem e Fishbein. Per questo, ha un argomento religioso:
Insieme al desiderio ebraico di unità e ai riferimenti all'Olocausto, qui Grossbart usa precetti religiosi per soddisfare i suoi scopi. Tuttavia, il sentimento di questa affermazione piace a Marx.
Marx non è un uomo dal cuore duro. Prova compassione per i suoi commilitoni e, di tanto in tanto, è toccato dagli appelli di Grossbart alla compassione ebraica. A un certo punto, si rimprovera per la sua freddezza nei confronti del desiderio apparentemente onesto di Grossbart di andare a trovare sua zia, ricordando il modo gentile di sua nonna con il nipote maleducato. Si chiede: "Who was Nathan Marx to be such a penny pincher with kindness?" (GC 177). Dice a Fishbein: "You understand I’m not trying to deny you anything, don’t you? If it was my army, I’d serve gefilte fish in the mess hall, I’d sell kugel in the PX, honest to God" (GC 176). La ricchezza della storia deriva dal fatto che Roth è consapevole delle complessità della situazione. Ciò si realizza attraverso il personaggio di Nathan Marx, che, come Eli e Ozzie, sembra rappresentare la figura dell'artista per Roth, sempre in discussione sia con se stesso che con la situazione, alla ricerca angosciante della decisione giusta. Non importa quanto Grossbart sia sgradevole, Marx non può ignorare l'umanità del giovane soldato, o i suoi sentimenti compassionevoli per la comunità ebraica.
Tuttavia, quando le manipolazioni di Grossbart sfidano il senso di moralità di Marx, questi agisce. Marx informa Grossbart che tutti le reclute saranno presto spedite nella guerra del Pacifico. Dopo che Grossbart fallisce nel suo tentativo di convincere Marx a cambiare in qualche modo i suoi ordini, Marx scopre che Grossbart ha trovato un'altra corda ebraica da tirare. Facendo amicizia con un certo caporale Shulman, Grossbart è riuscito a diventare l'unica recluta ad essere inviata in servizio nella tranquilla Monmouth, nel New Jersey. Marx non può tollerare ciò. Fa una telefonata e si assicura che Grossbart sia sulla lista per andare nel Pacifico, insieme a tutte le altre reclute. Non è orgoglioso del suo atteggiamento vendicativo, ma l'atto è qualcosa che Marx sente di dover fare per rispondere alla propria coscienza.
In mezzo a tutte le polemiche che il suo primo libro aveva suscitato, Roth imparò rapidamente a difendere se stesso e il suo lavoro, insistendo sulla sua libertà di scrivere letteratura, non propaganda pro-ebraica. Molti dei corrispondenti arrabbiati sarebbero rimasti sorpresi nel trovare le confutazioni equilibrate e approfondite di Roth alle loro lettere in attesa nelle loro cassette della posta. Andò in molte sinagoghe e centri comunitari ebraici per parlare e rispondere alle domande dei membri del pubblico spesso arrabbiati.[28] E nel 1963, Roth pubblicò "Writing About Jews" in Commentary, un saggio che entrava molto dettagliatamente nella descrizione e nell'analisi degli attacchi contro di lui e il suo lavoro. L'intera esperienza fu certamente impegnativa; ripensandoci nel 1975, Roth afferma: "I seem to have felt called upon both to assert a literary position and to defend my moral flank the instant after I had taken my first steps".[29] Uno scambio particolare con un corrispondente illumina questa posizione letteraria e morale.
Una delle lettere che Roth ricevette in questo periodo gli chiedeva quale rancore nutrisse nei confronti del suo retaggio ebraico e, per rafforzare il punto, includeva un ritaglio di un'intervista rilasciata da Leon Uris al New York Post. Uris era una star culturale ebraica all'epoca, dopo la pubblicazione nel 1958 di Exodus, la sua opera di narrativa storica decisamente pro-Israele. Il corrispondente segnò una sezione del pezzo, in cui Uris afferma: "‘There is a whole school of Jewish American writers who spend their time damning their fathers, hating their mothers, wringing their hands and wondering why they were born. [...] Their work is obnoxious and makes me sick to my stomach".[30] La risposta di Roth all'implicazione di questo passaggio è rivelatrice e getta luce sul suo atteggiamento nei confronti della comunità ebraico-americana che indaga in Goodbye, Columbus:
L'insistenza di Roth qui sull'auto-interrogazione parla del tipo di individualismo artistico che aveva adottato, una posizione che è evidente nei tre racconti discussi qui e in tutto il suo corpus di opere. Ognuno di questi racconti presenta una comunità ebraica che si sforza di raggiungere un conformismo e un'unità forzata che esercita un'immensa pressione su qualsiasi individuo intellettualmente curioso, come Roth insiste che rimanga. Goodbye, Columbus, a differenza di molti dei libri successivi di Roth, non presenta protagonisti che siano scrittori. Tuttavia, visti in relazione alla risposta pubblica di Roth all'accoglienza del libro da parte della comunità ebraica, questi protagonisti sono forse i predecessori di Peter Tamopol e Nathan Zuckerman, i futuri alter ego di Roth. Auto-interrogativi, ambivalenti e fermamente indipendenti, Eli, Ozzie e Nathan sono scrittori proto-rothiani con altri nomi.[31] E, come Roth, devono combattere contro una comunità che detterebbe le loro azioni. In "Eli, the Fanatic", la comunità persegue un ideale americano di normalità e assimilazione a spese di qualsiasi altra visione dell'ebraismo. In "The Conversion of the Jews", la comunità desidera un ebraismo istituzionalizzato e stabile a spese di domande e curiosità individuali. E in "Defender of the Faith", Grossbart sfrutta un ampio desiderio ebraico di unità e solidarietà a spese della giustizia individuale. Tutte queste comunità, in qualche modo, spingono i singoli protagonisti a mettere in discussione tali pressioni, a nuotare controcorrente.
Scrivendo alla fine degli anni ’50, Roth non era affatto il solo a descrivere l'individuo in contrapposizione ai desideri collettivi della comunità o della società di massa. Goodbye, Columbus deve essere visto all'interno del mutevole discorso del pensiero liberale nell'America del dopoguerra, come dettagliato in American Fiction in the Cold War di Thomas Hill Schaub. Lo studio di Schaub sostiene che, dalla fine degli anni ’30 in poi, "the nature and obligations of writing were altered in response to the decline of the left, to the fact of Hiroshima, Nagasaki and the Holocaust, and to the anticommunism which dominated politics and culture for some years afterward".[32] Egli traccia una narrazione che attraversa il lavoro di un gran numero di intellettuali e scrittori liberali — semplicemente, il rifiuto del socialismo convinto in seguito alla disillusione nei confronti del comunismo russo sotto Stalin, che portò a uno spostamento verso destra, verso un liberalismo castigato, più realistico e deidealizzato. Questo “nuovo liberalismo”, come veniva spesso chiamato, incarnava una serie di potenti norme culturali che si esprimevano in tutta la letteratura e gli scritti critici dell’epoca e che non potevano non influenzare Roth.
Questo cambiamento fondamentale nel pensiero liberale è forse esemplificato in modo più completo dall'evoluzione dei New York Intellectuals. Gli inizi del gruppo sono solitamente ricondotti alla nascita di Partisan Review, nel 1934. La rivista fu lanciata da Philip Rahv e William Philips sotto la sponsorizzazione del New York John Reed Club, un'organizzazione comunista che mirava a promuovere la causa della letteratura proletaria americana. Lasciando New Masses per concentrarsi strettamente sulla politica, Partisan Review avrebbe affrontato questioni letterarie e culturali da una prospettiva socialista.[33] Quasi tutti i membri della prima generazione dei New York Intellectuals erano socialisti di qualche tipo negli anni ’30 e portarono questo orientamento a influenzare la loro critica letteraria e culturale.
[...]
Note
modificaPer approfondire, vedi Serie letteratura moderna, Serie delle interpretazioni, Serie misticismo ebraico e Identità e letteratura nell'ebraismo del XX secolo. |
- ↑ Citato in Philip Roth, ‘“I Always Wanted You to Admire My Fasting’; or, Looking at Kafka”, in Reading Myself and Others, 288. I riferimenti successivi saranno annotati tra parentesi nel testo.
- ↑ Naturalmente è anche significativo che Roth stesso citi questa affermazione. Mark Shechner sottolinea che Roth usa Kafka, negli anni ’70, come suo "punto di accesso" all'eredità storica della cultura ebraica europea, consentendogli di accedere a un'ebraismo più ricco e antico di quanto la sua educazione nel New Jersey gli avrebbe consentito. Il disagio dichiarato di Kafka per l'appartenenza etnica dovrebbe renderci scettici su qualsiasi allineamento diretto di Kafka con l'ebraismo, e tuttavia Roth usa Kafka per affinare il suo senso di identità ebraica. Affronterò questo problema nel Capitolo 3. Cfr. Shechner, Up Society's Ass, Copper, 98.
- ↑ David Brauner, Post-War Jewish Fiction (Hampshire: Palgrave, 2001), 8.
- ↑ Edward S. Shapiro, A Time for Healing: American Jewry since World War II (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1992), 145.
- ↑ Vale la pena notare che questo movimento verso i sobborghi non era affatto limitato alla comunità ebraica. Come nota Catherine Jurca: “In 1950, the suburban growth rate was ten times that of central cities.” Catherine Jurca, White Diaspora (Princeton: Princeton University Press, 2001), 218. Ma, forse più di ogni altro gruppo, la cultura ebraica sembrava inestricabilmente legata al paesaggio urbano. Per un'analisi di come questi legami fossero espressi attraverso la paura della natura nella narrativa del dopoguerra, cfr. Brauner, Post-War Jewish Fiction, 24-7.
- ↑ Saul Bellow, “The Swamp of Prosperity”, Commentary, July 1959, 79.
- ↑ Norman Podhoretz, Making It (London: Jonathan Cape, 1968), 111.
- ↑ Ibid., 120. Sebbene Bellow fosse di base a Chicago, non a New York, era considerato parte integrante del gruppo, la grande speranza dei New York Intellectuals tra i romanzieri. Le sue frequenti e lunghe visite a New York negli anni ’40 stabilirono connessioni tra il romanziere in erba e l'ambiente attorno alla rivista Partisan Review. Cfr. Alexander Bloom, Prodigal Sons: The New York Intellectuals & Their World (New York: Oxford University Press, 1986), 290-95; e James Atlas, Bellow: A Biography (London: Faber and Faber, 2000), 81-93.
- ↑ Bloom, Prodigal Sons: The New York Intellectuals & Their World, 211.
- ↑ Cfr. Bloom, Prodigal Sons, 297; e “The New York Jewish Intellectuals,” in Arguing the World—The New York Jewish Intellectuals (al sito: <http://www.pbs.org/arguing/nyintellectuals_geneology.html>.
- ↑ Podhoretz, Making It, 110.
- ↑ Irving Howe, “The Suburbs of Babylon [review of Goodbye, Columbus]", in Celebrations and Attacks: Thirty Years of Literary and Cultural Commentary (New York: Horizon Press, 1979), 37; Alfred Kazin, Bright Book of Life (Boston: Little, Brown and Company, 1973), 145; Harvey Swados, “Good and Short” [review of Goodbye, Columbus and other books], The Hudson Review 12 (Autumn 1959): 459.
- ↑ Roth prese in prestito i termini di Bellow quando si difese nel suo resoconto della controversia su Goodbye, Columbus: “The concerns of fiction are not those o f a statistician—or of a public-relations firm. The novelist asks himself, ‘What do people think?’; the PR man asks, ‘What will people think?”’ Roth, “Writing About Jews,” 200.
- ↑ Pearl Farberow to Philip Roth, undated, “Readers’ reactions and reviews, 1959,” Box 101, Philip Roth Collection, Manuscript Division, Library o f Congress, Washington, D.C.
- ↑ Adolph Levy to Philip Roth, 12 June 1959, “Readers’ reactions and reviews, 1959,” Box 101, Philip Roth Collection.
- ↑ Temple Topics, Progressive Synagogue, Brooklyn, New York, 30 December 1963, “‘Writing About Jews’ (essay/speech), Commentary, 1962-1964,” Box 247, Philip Roth Collection.
- ↑ Roth, “Writing about Jews,” 204.
- ↑ Irving Howe, World of Our Fathers (London: Phoenix Press, 2000), 627.
- ↑ Albert I. Gordon, Jews in Suburbia (Boston: Beacon Press, 1959), 16.
- ↑ Milton Plesur, Jewish Life in Twentieth-Century America (Chicago: Nelson-Hall, 1982), 166.
- ↑ Philip Roth, “Eli, the Fanatic,” in Goodbye, Columbus (London: Penguin, 1986), 242. I riferimenti successivi saranno annotati tra parentesi nel testo.
- ↑ Howe, World of Our Fathers, 614.
- ↑ Michael Rothberg, nel suo saggio sull'Olocausto nella narrativa di Roth, vede nella storia la rappresentazione di un momento cruciale per gli ebrei americani, quando "when knowledge of the fact of the Nazi genocide has not yet become consciousness of the rupture the Holocaust would soon represent. But the proximity of the yeshiva to the town and Eli’s deluded attempt to take over the identity of the Hasidic man also prophetically suggest that that consciousness is about to erupt and that, when it does, the results will sometimes be troubling.” Michael Rothberg, “Roth and the Holocaust,” in The Cambridge Companion to Philip Roth, cur. Timothy Parrish (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), 56.
- ↑ Philip Roth, “The Conversion o f the Jews,” in Goodbye, Columbus, 129. I riferimenti successivi saranno annotati tra parentesi nel testo.
- ↑ Roth avrebbe poi continuato a caricaturare ulteriormente la voce rabbinica per scopi più umoristici in Portnoy’s Complaint, raffigurando un rabbino che pronuncia la parola "G-o-d" in tre sillabe. Philip Roth, Portnoy's Complaint (London: Vintage, 1999), 73. I riferimenti successivi saranno annotati tra parentesi nel testo.
- ↑ Philip Roth, “Defender o f the Faith,” in Goodbye, Columbus, 151. I riferimenti successivi saranno annotati tra parentesi nel testo.
- ↑ Rothberg, “Roth and the Holocaust”, 57.
- ↑ Philip Roth, “Interview with The London Sunday Times”, in Reading Myself and Others, 115-16.
- ↑ Roth, Reading M yself and Others, xiii.
- ↑ Joseph Wershiba, “Daily Closeup: Leon Uris, Author of ‘Exodus,’” New York Post, 2 luglio 1959, 34, “Readers’ reactions and reviews, 1959,” Box 101, Philip Roth Collection.
- ↑ Victoria Aarons vede in particolare Eli, "with his obsession with identity, with trying on and discarding selves", come un precursore di molti dei personaggi successivi di Roth: "We hear, in Eli Peck’s uncontrolled anxiety and in his phobic responses to conditions that he unwittingly creates, the prototype for Roth’s later protagonists. Such characters may become more urbane, more sophisticated, and more self-ironic as his fiction develops, but they are no less comically and indelibly preoccupied and apprehensive as they attempt to negotiate the uncertain terrain of their American-Jewish lives". Victoria Aarons, "American-Jewish Identity in Roth's Short Fiction", in The Cambridge Companion to Philip Roth, 10, 14.
- ↑ Thomas Hill Schaub, American Fiction in the Cold War (Madison, WI: University o f Wisconsin Press, 1991), vii.
- ↑ Neil Jumonville, Critical Crossings: The New York Intellectuals in Postwar America (Berkley: University of California Press, 1991), 49.