Interpretare Gesù in contesto/Conclusione

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Volto di Gesù: ricostruzione artistica in otto fasi, dalla Sindone di Torino

Conclusione: Gesù nell'ebraismo modifica

Gesù e il suo movimento possono essere compresi solo nel contesto dell'ebraismo del loro tempo: questa è stata a lungo una verità lapalissiana dello studio biblico. In effetti, il riconoscimento della matrice ebraica del cristianesimo precede quello che di solito viene considerato il periodo di studio critico. La consultazione di Johannes Reuchlin con Jekiel Loans alla fine del XV secolo[1] e l'edizione magistrale della Bibbia ebraica e di quella cristiana del vescovo Brian Walton al suo tempo,[2] sono due esempi di un desiderio programmatico di collocare il Nuovo Testamento rispetto all'ebraismo, incoraggiato dalla curiosità storica del Settecento.[3]

Un ampio interesse per la storia forniva una condizione necessaria per la registrazione enciclopedica di Judaica, di solito in confronto al Nuovo Testamento. Horae Hebricae et Talmudicae[4] di John Lightfoot fornì un modello che è stato seguito e sviluppato molte volte da allora, tra gli altri da Emil Schürer (e dai suoi revisori),[5] da Paul Billerbeck,[6] da Claude Montefiore,[7] da George Foot Moore,[8] da Shmuel Safrai e Menahem Stern.[9] Le difficoltà di confrontare il Nuovo Testamento con Judaica sono state discusse spesso e accuratamente. Essenzialmente, sono stati identificati due tipi di problemi: le opere enciclopediche non forniscono abbastanza contesto per consentire una lettura sensibile di Judaica, e tipicamente non riescono a rendere giustizia allo sviluppo cronologico dell'ebraismo nella sua notevole varietà.

Nessuno dei due tipi di problema dovrebbe significare che il compito del confronto enciclopedico sia impossibile. Ma entrambi i problemi suggeriscono che gli studiosi del Nuovo Testamento dovrebbero ricorrere alle opere pertinenti di Judaica e ad introduzioni competenti. Forse la scarsità di traduzioni facilmente accessibili (fino a poco tempo fa) spiega perché, ripetutamente nel corso del ventesimo secolo, il rapporto di Gesù con l'ebraismo è stato negato o ignorato. A pensarci, la cosa pare assurda, illogica. La completa negazione è comune nelle opere popolari e/o devozionali, e fa una breve e deplorevole apparizione sotto le spoglie dello studio critico con l'esercizio dell'antisemita Walter Grundmann per un'organizzazione che prosperò durante il Terzo Reich, das Institut des jüduschen Einflusses auf das deutsche kirchliche Leben.[10] Ma gli studiosi critici prendono più tipicamente la strada di Rudolf Bultmann[11] e del suo allievo, Günther Bornkamm:[12] tentano un confronto diretto di Gesù coi Profeti, ignorando le fonti dell'ebraismo che loro descrivono come "tardive". L'ebraismo rabbinico è ritenuto una forma degradata di quella religione che Gesù e i profeti del canone sostenevano.

L'ebraismo di George Foot Moore segna l'inizio di un cambiamento epocale dal confronto enciclopedico che aveva trattato l'ebraismo come un'entità statica. Il progresso è forse una funzione dell'approccio di Moore all'argomento in un modo completamente storico; egli osserva costantemente che l'ebraismo di cui tratta è un fenomeno variegato.[13] Ma le implicazioni del pluralismo all'interno di Judaica per il compito comparativo non sono esplicitate, perché Moore si limita a una descrizione apparente dell'ebraismo, e lascia da parte un confronto analitico con le fonti del cristianesimo. Il grande problema dell'opera di Moore è ermeneutico, più che metodologico. Poiché scrisse in un ambiente in cui il contrasto globale tra ebraismo e cristianesimo era semplicemente presunto, nonostante i suoi avvertimenti contro tale presupposto, il suo lavoro è stato (erroneamente) considerato solo come un ulteriore esercizio di confronto enciclopedico.

Moore era particolarmente attratto dagli insegnanti all'interno del corpus rabbinico dove vengono attribuiti poteri miracolosi a certe figure. I suoi due migliori esempi sono Honi HaMe’agel ((חוני המעגל, lett. "il Segnacerchi"), e Hanina ben Dosa (חנינא בן דוסא‎‎).[14] Si dice che Honi fosse in grado di controllare la pioggia pregando all'interno di un cerchio che disegnava per terra, e si dice che Hanina procurasse la guarigione a distanza, per mezzo di preghiere. Moore osserva che né Honi né Hanina sembrano essere stati insegnanti molto influenti, ma li colloca entrambi nell'ebraismo rabbinico. Come sottolinea, si diceva che persino Rabbi Akiva pregasse con successo per ottenere pioggia.[15]

Nella sua opera popolare, Jesus the Jew (= Gesù l'ebreo), Géza Vermes riprende proprio questi due esempi nel suo ritratto di Gesù come un "carismatico" o "chassid".[16] Vermes differisce da Moore, tuttavia, nel presentare questa categoria come alternativa a quella di rabbino. La sua argomentazione è alquanto elastica, dal momento che conclude persino che Eliezer ben Hyrcanus era un carismatico, un saggio rinomato per la sua maestria della tradizione.[17] Nonostante la ricchezza di materiale halakhico ed esegetico attribuito a Eliezer, Vermes lo definisce un carismatico non rabbinico sulla base del suo ricorso a dimostrazioni miracolose durante la disputa sul "forno di Akhnai" in Baba Mesia 59b. In effetti, il presunto ricorso al miracolo da parte di Eliezer non è più incompatibile con la sua posizione nella discussione rabbinica di quanto non lo sia la designazione di Hillel come chassid.[18] Un altro segno dell'imbarazzo concettuale di Vermes è che improvvisamente si riferisce all'insegnamento di Hanina come "logia",[19] paragonabile a quello di Gesù, quando in realtà sono incorporati insieme alla saggezza di altri insegnanti all'interno di ’Abot, l'appendice della Mishnah (3:9-10), senza alcuna indicazione che – come invece sostiene Vermes – "rabbi" e "chassid" fossero categorie che si escludevano a vicenda.

Vermes non spiega le fonti del suo pensiero (né, in effetti, il suo debito con Moore), ma sono abbastanza chiare. Il modo neo-ortodosso del pensiero protestante (e, sulla sua scia, il pensiero cattolico) dopo la seconda guerra mondiale fece di Martin Buber un santo compagno di Karl Barth, e l'immagine del devoto chassid piacque sia a teologi come Reinhold Niebuhr che a storici come Roland De Vaux e André Dupont-Sommer nel loro lavoro sui Rotoli del Mar Morto.[20] Il quadro dei settari di Qumran come chassidim monastici da allora ha suscitato notevoli critiche. In effetti, Millar Burrows osservò già nel 1955:

« Non pochi studiosi hanno identificato le congreghe di Qumran coi Chassidim. Il termine Chassidim, tuttavia, sembra designare ebrei devoti e conservatori in generale piuttosto che una setta o un partito definito. Possiamo quindi dire che la setta organizzata dei Rotoli del Mar Morto sorse tra i Chassidim, ma ciò non fornisce ancora un'identificazione specifica.[21] »

Vermes, dapprima attivo all'interno dei circoli cattolici francofoni che propagavano l'ipotesi chassidico/essena, lavorò sui Rotoli durante il periodo in cui l'ipotesi era più in voga, e fu poi descritto come fermo sostenitore, "avendola ribadita senza essenziali modifiche sin da allora."[22]

L'aggettivo "carismatico" serve nell'interpretazione di Vermes per distinguere Gesù (con Honi e Hanina) da qualsiasi struttura comunitaria. Funziona alla maniera del ritratto fatto da Max Weber dell'eroe carismatico la cui personalità è alla base di un movimento religioso nella sua fase iniziale e rivoluzionaria; se il movimento continua, una gerarchia stabile è il segno della sua routinizzazione.[23]

Rimane una questione irrisolta all'interno dello studio critico, tuttavia, se quel paradigma di eroismo carismatico possa essere adeguatamente applicato a Honi, Hanina o Gesù. Come a compensare la mancanza di prove dirette per un ritratto di Gesù come figura così autocoscientemente eroica, Vermes ha spinto la discussione sulla locuzione aramaica "figlio dell'uomo" in una direzione nuova e interessante. Basandosi sul lavoro precedente di (e sugli esempi già addotti da) Hugo Odeberg,[24] Vermes ha suggerito che un interlocutore potrebbe riferirsi a se stesso come "figlio dell'uomo" come circonlocuzione per la propria esistenza personale, piuttosto che come appartenente all'umanità nel suo complesso.[25]

Dalla pubblicazione di Jesus the Jew, il ritratto di Vermes del Chassid carismatico è stato indebolito sotto tre aspetti. In primo luogo, William Scott Green ha dimostrato che Honi e Hanina furono entrambi rivendicati da rabbini di un periodo successivo come se fossero rabbini propri, cosicché non si giustifica una qualsiasi biforcazione di "Chassidim" dai rabbini nel I secolo.[26] (Ma comunque, il riferimento di Vermes a Eliezer e quello di Moore ad Akiva, avrebbero già dovuto essere presi come avvertimenti contro una tale biforcazione.) In secondo luogo, la nozione dell'isolamento della Galilea dalla Giudea (e dal mondo greco-romano), che viene affermata più volte da Vermes senza prove a sostegno, è stata effettivamente smentita da studi successivi.[27] In terzo luogo, è stato dimostrato che "figlio dell'uomo" in aramaico è una forma generica di linguaggio in cui un interlocutore include se stesso nel reame dell'umanità, piuttosto che l'eroica designazione di se stessi come distinti dagli altri che Vermes sosteneva. [28]

Nonostante la debolezza della propria argomentazione, Jesus the Jew ha creato a un rinnovato interesse per la matrice giudaica di Gesù e del cristianesimo.[29] The Aims of Jesus di Ben F. Meyer segnalò poi un nuovo e vitale impegno con l'ebraismo da parte degli studiosi del Nuovo Testamento.[30] Meyer si concentrò in primo luogo sui testi dei Vangeli, con una capacità critica che teneva conto delle tendenze di sviluppo prese dal tempo di Gesù. Nella sua attenzione esegetica così come nella sua sensibilità allo sviluppo letterario, Meyer presagivao il lavoro del decennio successivo, la discussione più intensa e critica su Gesù a partire dal secolo scorso. Allo stesso tempo, Meyer non perse mai di vista il ruolo catalitico dell'escatologia all'interno dell'ambiente giudaico di Gesù, e dei principali termini di riferimento all'interno dell'ebraismo del periodo di Gesù. Il libro di Meyer è un monumento duraturo della sua stessa intuizione e di ciò che doveva venire, tanto importante ai suoi tempi quanto lo era stato Die Predigt Jesu di Johannes Weiss nel secolo precedente.[31]

L'intuizione principale offerta da Meyer è che Gesù deve essere compreso solo nell'ambito dell'ebraismo, ma che il movimento di cui il Nuovo Testamento è il più grande monumento rappresenta di per sé una comprensione dell'ebraismo così come un ritratto di Gesù.[32] Dove Vermes abbozzò una versione del primo ebraismo sulla base di fonti rabbiniche all'interno delle quali tentò di classificare Gesù, Meyer individuò Gesù all'interno dell'ebraismo, ma poi ammise il carattere distintivo e la logica del movimento di Gesù, perché il primo ebraismo fu più pluralista di quanto la sola letteratura rabbinica possa suggerire. Tale avrebbe dovuto essere la prima lezione imparata dai Rotoli trovati vicino a Qumran. Il Gesù di Vermes è un operatore di miracoli carismatico il cui insegnamento era incidentale; il Gesù di Meyer è galvanizzato da uno scopo particolare e specificabile che il suo insegnamento esprime e le sue azioni mettono in pratica. Il fulcro degli obiettivi di Gesù, secondo Meyer, era la restaurazione di Israele:

« In sintesi, una volta compreso il tema della restaurazione nazionale nella sua piena portata escatologica quale significato concreto del regno di Dio, la carriera di Gesù inizia a diventare intelligibile come unità.[33] »

Il numero degli apostoli incaricati di predicare e guarire non è un arrotondamento casuale, ma corrisponde al paradigma delle tribù di Israele.[34] Gesù e i suoi seguaci erano motivati dalla speranza della restaurazione e dell'estensione del popolo di Dio, in quanto per loro "il fattore religioso doveva diventare assolutamente decisivo per l'autodefinizione di Israele".[35]

L'analisi di Meyer non era, e non pretendeva di essere, del tutto originale. Joachim Jeremias, in Jesu Verheissung für die Volker,[36] aveva già richiamato l'attenzione sulla simmetria tra (da un lato) l'attesa profetica e rabbinica dell'estensione escatologica di Israele, e (dall'altro) le rivendicazioni radicali attribuite a Gesù. Secondo Jeremias quelle attribuzioni sono corrette, mentre Meyer è più cauto nelle sue valutazioni di autenticità. Il libro di Meyer meriterebbe un'attenzione continua anche se il suo unico contributo fosse riorganizzare l'analisi di Jeremias per una nuova generazione di studi. Ma la sua genuina originalità è più profonda. Meyer non è stato intrappolato, come alla fine è successo a Jeremias, dal presupposto programmatico che i Vangeli siano affidabili come storia. Piuttosto, Meyer ha liberamente ammesso che i Vangeli siano tendenziosi, ma ha continuato a sostenere in modo convincente che le posizioni in ultima analisi attribuite a Gesù siano più facilmente spiegabili supponendo che la teologia della restaurazione fosse in realtà l'obiettivo di Gesù.

Meyer rettificò con eleganza un'anomalia nello studio critico di Gesù. L'anomalia era stata che, mentre gli studiosi del Nuovo Testamento sottolineavano generalmente l'importanza di sviluppare tendenze all'interno del corpus, i vecchi confronti enciclopedici con l'ebraismo erano inclini ad accettare le asserzioni dei Vangeli a valore nominale. Poiché i Vangeli sinottici nelle loro forme ricevute sono il prodotto di comunità nel mondo ellenistico (probabilmente a Roma [Marco], Damasco [Matteo] e Antiochia [Luca]) che vivevano in tensione con le istituzioni ebraiche, è fin troppo facile leggere un Gesù fuori pagina che trascende trionfante l'ebraismo. Vermes cede inavvertitamente a tale facile ermeneutica, dando il primato alle storie di miracoli piuttosto che all'insegnamento, sebbene la letteratura critica avesse da tempo dimostrato che la probabile progressione era l'opposto. Il Chassid carismatico di Vermes è meno una funzione del primo ebraismo che di alcuni degli elementi più anti-giudaici all'interno dei Vangeli.[37]

La sfida del contributo di Meyer fu raccolta in vari modi da tre opere nel decennio successivo. Sebbene Borg, Chilton e Sanders lavorassero indipendentemente, nell'approccio di ciascuno è evidente uno sviluppo della prospettiva di Meyer. La necessità di sviluppo era pressante, perché, sebbene Meyer avesse effettivamente inquadrato le sue preoccupazioni con riferimento sia alla prima escatologia ebraica che alle tendenze emergenti del Nuovo Testamento, alla fine poté solo argomentare in modo generale per una teologia della restaurazione di cui Gesù si avvalse. Le sue fonti principali erano i Profeti classici della Bibbia e il ritratto che i Vangeli avevano fatto del ministero e dell'insegnamento pubblico di Gesù. Meyer lasciò inesplorati i realia della pratica e della fede che avrebbero potuto causare una carriera come quella di Gesù all'interno dell'ebraismo, e i particolari che lo distinguevano dagli altri.

Nel 1984, Marcus Borg pubblicò una versione riveduta della sua dissertazione dottorale, scritta sotto la supervisione di George Caird all'Università di Oxford. Intitolata Conflict, Holiness and Politics in the Teaching of Jesus, Borg tentava di localizzare l'attività di Gesù nel mondo degli interessi giudaici riguardo alla purezza.[38] Basandosi sull'approccio fenomenologico alla religione sviluppato da Huston Smith, Borg sostiene che Gesù, alla maniera di sciamani, profeti e il Buddha, hanno agito sulla base di una visione speciale della "tradizione primordiale" accessibile dall'esperienza mistica.[39]

L'ipostasi di una presunta esperienza comune in una "tradizione" monista, come nel lavoro di Smith (e di Otto ed Mircea Eliade prima di lui, come anche di Campbell al suo fianco) non ha retto bene alle critiche tra studiosi delle religioni.[40] Borg fa di Gesù un eroe dell'esperienza religiosa; qualsiasi considerazione sull'impostazione del suo insegnamento all'interno dell'ebraismo è subordinata all'affermazione che la sua intuizione mistica era profonda e che era maturata in una fase relativamente precoce della sua vita:

« Occasionalmente e notevolmente, la sagacia si trova nelle persone più giovani, come in Gesù e nel Buddha. In tali casi, il punto di vista non è ovviamente il prodotto dell'età; piuttosto, la trasformazione della percezione è il prodotto della loro esperienza spirituale.[41] »

Tuttavia, per la prima volta all'interno di una discussione critica dalla fine della seconda guerra mondiale, Borg iniziò – nella sezione centrale del suo libro[42] – a considerare l'atteggiamento di Gesù verso la purezza come di primaria importanza per la comprensione del suo ministero. Sosteneva in effetti che fu la comprensione particolare di Gesù che Dio stava creando un nuovo territorio santo, uno spazio per il suo trono celeste, che in particolare lo mise in conflitto con molti dei suoi contemporanei, in particolare i suoi contemporanei farisaici.[43]

Ma accanto a una valutazione positiva del programma di purezza di Gesù, Borg scivola anche nella biforcazione di Gesù e dell'ebraismo:

« Laddove l'ebraismo parlava della santità come paradigma della vita di comunità, Gesù parlava della misericordia.[44] »

Il suo appello alla "tradizione primordiale" alla fine inghiotte la sua attenzione alla pratica della purezza, così che la vecchia antinomia apologetica, "la battaglia ermeneutica tra misericordia e santità",[45] prende il posto di una seria discussione sulla purezza come categoria centrale del ministero di Gesù. La battaglia non si risolve mai nella mente di Borg, in quanto accetta che "un cuore puro" fosse l'obiettivo di Gesù.[46] Non considera mai, tuttavia, che proprio quelle antinomie che egli evita – purezza/misericordia e fuori/dentro – sono quelle che caratterizzano gli strati più ellenistici dei Vangeli (si veda, ad esempio, Marco 7 e suoi paralleli). Fa quello che fecero molti paleocristiani che si erano avvicinati a Gesù con una formazione culturale diversa da quella di Gesù stesso: incapaci di comprendere il senso di purezza, ne fecero un anacronismo "farisaico" e descrissero Gesù come un araldo trionfante di buonsenso anticultico. Ma nonostante la sua confusione concettuale, Borg stabilì uno standard per la successiva discussione storica: se Gesù deve essere compreso all'interno dell'ebraismo, c'è una sfida implicita a scoprire la sua visione della purezza.

Il libro di Chilton apparve nello stesso anno di quello di Borg, e procedette lungo una linea di analisi molto più ristretta.[47] Il suo lavoro precedente, sulla posizione del regno di Dio all'interno della proclamazione pubblica di Gesù, aveva suggerito che le tradizioni esegetiche incorporate nel Targum di Isaia furono riprese e sviluppate in detti dominicali.[48] A Galilean Rabbi and His Bible esplora ulteriormente la relazione tra Gesù e il Targum. Conferma che la storia letteraria del Targum iniziò solo dopo l'incendio del Tempio nel 70 e.v., ma che ci sono associazioni verbali, contestuali e tematiche tra le tradizioni esegetiche all'interno del Targum e l'insegnamento di Gesù.

La datazione proposta del Targum è stata confermata da successive discussioni e il legame tra le tradizioni targumiche e l'insegnamento di Gesù è stato generalmente dato per certo. In un lavoro pubblicato nel 1982, Chilton aveva suggerito che il Targum di Isaia doveva essere inteso come sviluppato in due fasi principali.[49] Una versione – senza dubbio incompleta – di Isaia in aramaico fu composta da un meturgista che fiorì tra il 70 e il 135 e.v. Quel lavoro fu completato da un altro meturgeman (מְתוּרגְמָן mǝturgǝmān), associato a Rav Yosef bar Hiyya di Pumbedita, che morì nel 333.[50] Durante tutto il processo, tuttavia, fu sottolineata la natura comunitaria del lavoro interpretativo del meturgeman; nella misura in cui gli individui erano coinvolti, parlavano quale voce di sinagoghe e scuole.[51] Dati i periodi di sviluppo del Targum di Isaia, l'argomentazione secondo cui gli accordi tra le versioni targumiche e i detti di Gesù sono semplicemente una questione di coincidenza, appare dubbia.[52]

Il problema posto dal libro di Chilton non è nelle sue affermazioni, ma nell'interpretare il significato di tali affermazioni.[53] Lo stesso Chilton applica la sua scoperta all'interno della discussione sull'uso della Scrittura da parte di Gesù.[54] Giunge alla conclusione che il metodo di Gesù non dovrebbe essere descritto come midrash, poiché non c'è un piano generale di commentario evidente nei suoi detti. Piuttosto, Gesù impiegò le Scritture, le immagini scritturali e il linguaggio delle Scritture (tutto nella forma comunemente accettata, che in seguito sarebbe stata cristallizzata nei Targumim) come analogia. Quell'analogia implicita ma potente – che comprendeva sia somiglianze che distinzioni critiche – era sempre tra ciò che veniva detto di Dio e ciò che Gesù affermava di Dio come questione di esperienza.

L'ultimo terzo di A Galilean Rabbi è dedicato apertamente alle implicazioni teologiche dell'uso strumentale delle Scritture da parte di Gesù. Il libro è stato infatti scritto in una certa misura in vista del continuo dibattito sull'autorità all'interno della Chiesa, ed è stato pubblicato da una casa anglicana oltre che da un editore cattolico. C'è stata la tendenza a confondere l'analisi storica e letteraria del libro (il rapporto tra Gesù e il Targum di Isaia) con il suo argomento teologico (che l'analogia è l'approccio appropriato alla Scrittura all'interno della Chiesa).[55] Una lettura così confusa del libro porta alla falsa impressione che Chilton abbia attribuito a Gesù una teologia sistematica, quando invece la sua conclusione dichiarata è che Gesù abbia impiegato le Scritture al servizio di un'esperienza di Dio. La domanda che il suo libro pone non riguarda la teologia della Scrittura da parte di Gesù, per il semplice motivo che l'esistenza di una tale teologia è negata. La comprensione di Gesù su come Dio venga sperimentato, è la questione che viene aperta e lasciata irrisolta.

In Jesus and Judaism, E. P. Sanders ha fatto un tentativo lungo le linee di discussione precedenti al contributo di Vermes, per fare una distinzione globale tra Gesù e il suo ambiente giudaico.[56] Sanders essenzialmente prende la prospettiva di Meyer come assiomatica e sostiene che Gesù era motivato da una teologia ambientale della restaurazione di Israele.[57]

La sua costruzione della teologia è più apocalittica di quanto vorrebbe Meyer, in quanto Sanders accetta il contributo di Albert Schweitzer praticamente come scontato.[58] A questo proposito, Sanders non è al passo con la critica dell'escatologia semplicistica che Schweitzer attribuisce a Gesù.[59] Borg in particolare negli ultimi anni è stato identificato con una rigorosa sfida alle costruzioni puramente temporali del regno di Dio nell'insegnamento di Gesù,[60] ed è sorprendente che Sanders affermi la posizione di Scwheitzer senza difenderla dalle critiche di Borg. Il suo trattamento delle precedenti critiche di T. F. Glasson e C. H. Dodd[61] non affronta la questione centrale, se ci siano effettivamente prove di uno scenario apocalittico sostenuto da Gesù, tale da ritenere che le sue azioni stessero realizzando il regno.

Alla fine, la questione dell'escatologia per Sanders è sussidiaria. Ciò che distingue Gesù da Giovanni il Battista e dall'ebraismo in generale non è la sua visione del regno: che secondo Sanders era un luogo comune. Gesù si separò dai suoi contemporanei sulla questione del pentimento. Laddove loro vedevano il pentimento come un requisito per rimanere all'interno dell'Alleanza, Gesù immaginò che il regno di Dio si stesse rendendo disponibile a tutto Israele, che ci fosse pentimento o meno. In particolare, Sanders insiste sul fatto che Gesù offrì il regno anche ai malvagi senza pentimento.[62] Sanders è stato criticato per l'esile base probatoria della sua affermazione.[63] Poiché una crescente enfasi sul pentimento è evidente man mano che la tradizione cristiana si sviluppò, Sanders ritiene che Gesù stesso non disse assolutamente niente sul pentimento.[64] Sebbene la debolezza della logica invocata da Sanders sia ovvia, due delle sue caratteristiche costitutive dovrebbero essere identificate, perché sono argomenti ricorrenti nello studio di Gesù.

La prima caratteristica è l'applicazione globale del "criterio di dissomiglianza", sviluppato in modo più articolato da Norman Perrin.[65] Il criterio è utilizzato per isolare elementi all'interno dell'insegnamento di Gesù che sono caratteristici dell'ebraismo e del cristianesimo; vengono poi messi da parte, come probabilità che siano stati attribuiti a Gesù durante la trasmissione dei suoi detti. Il residuo del suo insegnamento, tutto quello che è "dissimile" da ciò che un insegnante ebreo o cristiano avrebbe potuto sostenere, viene quindi considerato autentico.

L'ipotesi di Gesù come il grande originale, eroicamente dissimile dal suo ambiente, è intrinseca a ogni applicazione del criterio che sia mai stata tentata. Inoltre, da Perrin in poi, c'è stata la volontà di scartare ciò che sembra ebraico e ciò che sembra ortodosso, ma ad abbracciare come autentici quegli elementi che sono coerenti con lo gnosticismo e con le convenzioni filosofiche greco-romane. (Il lavoro di Crossan, discusso appresso, è un esempio di tale tendenza.) Un tale pregiudizio può solo portare al privilegio della cristologia di alcune ali del paleocristianesimo, ali all'interno delle quali era di moda vedere Gesù come mago, come cinico, e/o come Redentore trascendente. In quanto tali mode furono chiaramente generate dopo la fondazione del movimento, renderle la pietra di paragone dell'autenticità è di per se stesso un esercizio di cristologia moderna.

L'applicazione da parte di Sanders del criterio di dissomiglianza esacerba la sua intrinseca debolezza. Ovviamente non è nella posizione di affermare che un detto attribuito a Gesù contraddica la necessità del pentimento. L'unico indice a sua disposizione per suggerire che Gesù non richiedeva il pentimento è che i Vangeli affermano che Gesù richiedeva il pentimento! A meno che non si accetti che il criterio della dissomiglianza sia di tale certezza che si potrebbe impiegarlo per invertire il significato dichiarato dei testi, il ritratto di Sanders non ha nulla che lo raccomandi, se non il fascino di un Gesù antinomiano.

La seconda caratteristica costitutiva dell'argomento di Sanders, che illumina anche molte discussioni recenti, è l'assunto che Gesù debba essere inteso in termini storici rispetto a una presunta rottura con l'ebraismo. Le coordinate della rottura sono disposte con cura, e in effetti sono state enunciate nel corso della carriera di Sanders. Dalla parte dell'ebraismo, Sanders aveva (come constatato in Paolo e nell'ebraismo palestinese)[66] già definito la religione come una forma di "nomismo di alleanza", in modo tale che "l'obbedienza alla Torah" era "il mezzo per mantenere l'appartenenza all'Alleanza stabilita per grazia di Dio".[67] Di conseguenza, rifiutare la necessità del pentimento equivarrebbe a un rifiuto sistematico (e – si dovrebbe pensare – cosciente) dell'ebraismo ricevuto. Dalla parte di Gesù, Sanders afferma che la sua interpretazione è virtualmente positivistica, basata sulla "certa conoscenza del ministero di Gesù" (cioè, il suo battesimo da parte di Giovanni, la sua chiamata di discepoli, la sua caratteristica attività di guarigione e predicazione, il suo "attacco" al Tempio, la sua esecuzione).[68] L'antinomia tra l'ebraismo nomista e un Gesù apertamente antinomico sembra ineludibile.

Sanders tuttavia insiste sul fatto che la sua lettura non implica una "opposizione polare" tra Gesù e l'ebraismo.[69] Anche se il suo Gesù in effetti non nega formalmente l'ebraismo, la questione della Torah è di importanza strutturale all'interno della tesi di Sanders:

« È importante non semplificare eccessivamente la posizione di Gesù nei confronti dei suoi contemporanei nell'ebraismo e nei confronti della legge e della tradizione ebraica. Non era un antinomiano selvaggio, né era un ebreo antiebraico. Limitò la sua predicazione e guarigione al suo stesso popolo, agì nel nome del Dio dei Patriarchi, e sembra che abbia anche osservato comandamenti come quelli che governano il mangiare e l'osservanza del Sabbath. Dobbiamo ripetere che i discepoli di Gerusalemme, dopo la sua morte, non intesero che avesse "abrogato" la Torah. D'altra parte, predicò l'eredità del regno a coloro che non accettarono il giogo della Torah, e così estese le promesse salvifiche non solo oltre ciò che un legalismo apparentemente ossificato e ostinato poteva accettare, ma oltre ciò che poteva essere ragionevolmente dedotto dalla tradizione ebraica e dalla Scrittura.[70] »

L'antinomia ideologica tra "la Torah" e "le promesse salvifiche" è tanto inevitabile nella sua influenza sull'interpretazione quanto l'appello esagerato al criterio della dissomiglianza. Selvaggio o no, il Gesù di Sanders è antinomiano.

Naturalmente, nessuno dei due lati dell'antinomia è più che possibile, ed entrambi sembrano supposti. La centralità del patto per l'ebraismo è una verità lapalissiana virtuale, ma il ruolo strumentale che Sanders assegna alla legge è più caratteristico delle fonti rabbiniche della Mishnah e successive che delle fonti del I secolo. E solo le ultime tradizioni più ellenistiche all'interno dei Vangeli attribuiscono a Gesù un'intenzione espressamente antinomiana o anticultica. Il tentativo di interpretare il programma di Gesù come una rottura cosciente o sistematica con l'ebraismo, per trasformare Gesù e l'ebraismo in una dualità, è fattibile solo in termini teologici, non all'interno della discussione di Gesù come figura storica.

Una costruzione criticamente più fattibile di Gesù è offerta da Richard Horsley in Jesus and the Spiral of Violence.[71] Horsley inquadrò il movimento di Gesù nel contesto dell'aumento del banditismo all'interno della Palestina romana durante gli anni che precedettero la rivolta che incluse elementi dell'aristocrazia sacerdotale a partire dal 66 e.v.:

« Il brigante è un simbolo di resistenza all'ingiustizia e un paladino della giustizia nel riparare i torti per gli abitanti poveri del villaggio coi quali rimane in stretto contatto. Inoltre, i briganti forniscono le occasioni ai contadini solidali di resistere alle autorità stesse.[72] »

In contrasto con il ritratto di Gesù come zelota, che era stato sviluppato in precedenza da S.G.F. Brandon,[73] Horsley sostiene che Gesù si oppose programmaticamente alla violenza, sebbene osservi anche che Gesù non può essere descritto come un pacifista sulla base delle prove disponibili.[74]

Secondo Horsley, la missione di Gesù fu quella di portare la restaurazione nel mezzo di un'oppressione sistematica:

« ...Gesù era impegnato in manifestazioni dirette del regno di Dio nella sua pratica e predicazione, ed era fiducioso che Dio stava per completare la restaurazione di Israele e giudicare le istituzioni che avevano mantenuto l'ingiustizia.[75] »

L'affascinante ritratto che fa Horsley è evidentemente in debito con quello di Meyer,[76] ma l'ambientazione del ritratto sviluppa l'ipotesi di Brandon. L'analisi di Horsley è più sofisticata di quella di Brandon, in quanto non si presume che ci sia stato un "sostenuto movimento di violenta resistenza al dominio romano durante il I secolo e.v."[77] Ma come Brandon, Horsley proietta un desiderio di rivoluzione su Gesù, che è quindi ritratto come un rivoluzionario.[78]

Non si argomenta che Gesù o il suo movimento abbiano interpretato lo scopo della sua attività entro termini di riferimento politici. Non c'è dubbio che l'ebraismo e il cristianesimo siano meglio compresi rispetto a Roma, ma per concludere che un dato insegnante, giudaico o cristiano, fosse motivato da considerazioni politiche, richiede prove all'interno dei testi disponibili. Gesù non ha bisogno di pensare in termini politici o sociali per aver ispirato Martin Luther King.

Il contributo di Horsley, insieme a quello di Sean Freyne,[79] rimane utile come abbozzo di alcune delle realtà sociali più urgenti della Palestina nel primo secolo. Ma nel lavoro di Horsley, come in quello di Sanders, diventa evidente una tendenza inquietante della recente discussione tra biblisti. Poiché la discussione negli ultimi cinquant'anni circa ha notevolmente accresciuto l'apprezzamento critico dell'ebraismo, a volte si presume che ciò che si intende dell'ebraismo possa essere trasferito direttamente alla valutazione di Gesù. Sanders trova una teologia della restaurazione nell'ebraismo e ne attribuisce una forma antinomica a Gesù; Horsley sa che c'erano banditi in Galilea e vede le loro motivazioni (ma non le loro tattiche) riflesse nei Vangeli.

Ci sono due complicazioni nello studio di Gesù nell'ambiente del suo ebraismo. In primo luogo, la portata e la diversità di tale religione prima della distruzione del Tempio sono enormi, e per la maggior parte solo indirettamente attestate nella letteratura sopravvissuta. In secondo luogo, naturalmente, gli stessi Vangeli attestano solo il movimento di Gesù dal tempo in cui la separazione dall'ebraismo era diventata un fatto compiuto o uno sviluppo inevitabile. Uno dei motivi per cui il campo è incline a respingere l'importanza dell'ebraismo per lo studio di Gesù è che la valutazione delle fonti giudaiche non è più semplice della valutazione dei Vangeli.

Il contributo apportato da John Dominic Crossan nel 1991 attesta la forza della tentazione di ritirarsi dall'ebraismo nella valutazione di Gesù.[80] Il suo libro può essere letto come un esteso tentativo di costruire un ritratto di Gesù senza riferimento all'ebraismo. Incredibile, no? Inizia con una prima lamentela secondo cui gli studiosi che hanno analizzato Gesù in relazione all'ebraismo hanno ottenuto risultati diversi:

« C'è Gesù come rivoluzionario politico di S.G.F. Brandon (1967), come mago di Morton Smith (1978),[81] come carismatico galileo di Geza Vermes (1981, 1984), come rabbino galileo di Bruce Chilton (1984), come un hillelita o proto-fariseo di Harvey Falk (1985), come un esseno di Harvey Falk e come un profeta escatologico di E.P. Sanders (1985).[82] »

Tali differenze vengono prese non come un segno di salute in una sotto-disciplina emergente, ma come un motivo per utilizzare un diverso fondamento di analisi. Crossan opta per il modello di Gesù come filosofo popolare sulla scia dei cinici (che definisce "hippies in un mondo di yuppies augustei"),[83] poiché c'erano molti non-ebrei in Galilea. Nel corso della sua descrizione, ammette che Gesù fosse diverso dai cinici nella sua chiamata di discepoli,[84] nel suo rifiuto che quelli che inviava portassero un bastone,[85] nella sua preoccupazione per le questioni di purezza, nel suo evitamento delle città, nella limitazione della sua attività a Israele.[86]

Il mistero è solo perché Crossan si aggrappi a un modello così evidentemente difettoso. Quel mistero si risolve quando critica la comprensione di Gesù come rabbino. La sua critica si basa su un equivoco elementare. Crossan vede i rabbini durante il secondo secolo come l'equivalente del papato da parte cristiana: entrambe sono asserzioni gerarchiche di unità dottrinale che tentano di omogeneizzare il pluralismo intrinseco dei rispettivi sistemi religiosi.[87] Sbagliato. Qui è evidente una doppia proiezione. Crossan, cattolico liberale, vede il papato del ventesimo secolo riflesso nell'uso precedente della comunione con Roma come standard di continuità cattolica. Per quanto utile questa prima proiezione possa (o meno) essere, la seconda è ingiustificata: la conoscenza dell'ebraismo rabbinico del secondo secolo non incoraggerebbe il confronto, finanche un confronto attenuato, con il Vaticano nella sua forma post-tridentina.

La confusione di Crossan diventa eclatante, quando continua a confrontare i rabbini con il sacerdozio nel Tempio, come se formassero un fronte unito. Evidentemente, la sua accettazione di un modello sociologico di eroe carismatico della religione contrastato dalle forze della routine ha completamente sopraffatto anche soltanto un gesto verso la comprensione della complessità dell'ebraismo durante il primo secolo:

« In tutto questo il punto non è realmente la Galilea contro Gerusalemme, ma la dicotomia molto più fondamentale del mago come potere personale e individuale contro sacerdote o rabbino come potere comunitario e rituale. Prima della distruzione del Secondo Tempio, era: mago contro Tempio, e quindi mago contro rabbino.[88] »

Crossan è contento di usare l'immagine del chassid di Vermes per tale motivo, ma si rende conto che non ha funzionato bene. Di conseguenza, scambia il chassid carismatico con un saggio carismatico, prendendo in prestito la categoria del mago da Morton Smith.[89]

Il punto è apparentemente sfuggito all'attenzione di Crossan secondo cui gli insegnanti che chiamiamo rabbini, maestri (a vari livelli) di discussione, parabola, esposizione, giudizio, etica, purezza, salute, guarigione e altri aspetti di saggezza dell'Alleanza, si riferivano l'un l'altro come "saggi". È stato a lungo un luogo comune nel campo di riconoscere che il formalismo di un rabbinato, inclusa la preoccupazione per la successione e la nozione di un programma che deve essere padroneggiato dai discepoli, prevalse solo con l'emergere dei rabbini come base della ridefinizione sistemica nel periodo dopo il 70 e.v.[90] Queste sfumature vengono trascurate da Crossan, che afferma: "C'era, nel mondo e al tempo di Gesù, solo un tipo di ebraismo, ed era l'ebraismo ellenistico..."[91] L'ebraismo rabbinico escludeva le influenze ellenistiche; Gesù era inclusivo.[92] All'interno di una tale tipologia, il fatto che Gesù sia chiamato "rabbi" dai suoi seguaci è semplicemente irrilevante.

Solo l'identità di Gesù come rabbino è presa come un punto di partenza appropriato da John P. Meier.[93] Sebbene il primo volume (di cinque) di Meier sia apparso poco prima di Crossan, egli reagisce a molte delle sue principali argomentazioni (che erano apparse in opere precedenti). Sebbene ammetta cautamente le scoperte di Seán Freyne riguardo all'ambientazione galileiana del ministero di Gesù, Meier si domanda se possiamo ragionevolmente rivendicare un progresso nella nostra conoscenza chiamando Gesù un contadino. Il romanticismo moderno spesso oscura il significato del termine, e nella misura in cui Gesù era membro di una società contadina, lo era perché era un rabbino falegname.[94] L'uso di Crossan dei cosiddetti Vangeli Apocrifi è anche severamente criticato in un trattamento giudizioso delle probabili cronologie e storie della composizione.[95] Infine, Meier abbraccia in modo molto specifico la categoria di "rabbino" come designazione appropriata del ministero pubblico di Gesù, e conclude persino che Gesù fosse istruito in ebraico.[96] Il volume di Meier rappresenta le prime due parti di un progetto in quattro parti e cinque volumi. La prima parte è dedicata a "questioni di definizioni, metodi e fonti" e la seconda tratta di "alcune delle origini linguistiche, educative, politiche e sociali". Il ministero pubblico è al centro della parte tre, mentre la quarta parte considera la morte di Gesù.[97]

L'analisi di Gesù all'interno dei termini di riferimento giudaici è stata perseguita da Chilton in The Temple of Jesus.[98] Mentre A Galilean Rabbi ha sviluppato un confronto tra la citazione di Isaia fatta da Gesù e la tradizione interpretativa del Targum, il punto focale di The Temple of Jesus è l'occupazione del Tempio da parte di Gesù.[99] Si sostiene che ciò che Gesù fece nel suo intento iniziale non fosse né una protesta contro il sacrificio né una previsione della distruzione del Tempio, ma una forte insistenza sul fatto che una condizione di purezza nel sacrificio era che gli israeliti avrebbero dovuto offrire i loro propri prodotti nella casa di Dio. La purezza, in altre parole, non è la materia estranea che spesso viene considerata, ma – come nel caso dei sistemi sacrificali in generale,[100] nella Bibbia ebraica,[101] e persino nell'orientamento di Flavio Giuseppe[102] – una componente vitale all'interno di qualsiasi sacrificio che sia considerato efficace. La purezza si riferisce sia ai prodotti che vengono offerti sia ai gesti con cui vengono offerti e, prestando attenzione a quelle questioni pragmatiche, le comunità sacrificali credono di godere dei benefici affettivi e ideologici che associano al sacrificio. Poiché la purezza è una preoccupazione sistemica che collega il sacrificio nel Tempio con la pratica domestica della pulizia, è proprio il punto di vista e la pratica della purezza di Gesù che probabilmente gli avrebbero fatto guadagnare amici e nemici sia a livello locale che a Gerusalemme.

Gesù, in altre parole, deve essere compreso, non sopra e contro l'ebraismo, né accanto ad esso, ma dall'interno; necessariamente, ciò implica che egli deve essere ritenuto dotato di una definizione positiva di purezza. Questa definizione è correlata a un aspetto del ministero di Gesù che di solito viene trascurato: la sua preoccupazione programmatica per le questioni di chi sia idoneo al sacrificio, come una persona possa essere considerata pulita, quando si possano portare i cibi e con chi, e cosa dovrebbe essere sacrificato.[103] Il perdono per Gesù stabiliva una purezza escatologica tra le persone la cui comunione e sacrificio aprivano la strada al regno di Dio.[104] Questa interpretazione programmatica spiega la sua intenzionale insistenza sul mangiare in comune, e l'"ultima cena" in particolare.[105]

Sono passati più di sessant'anni da quando siamo stati avvertiti per la prima volta del pericolo di modernizzare Gesù.[106] Gesù ovviamente ha affrontato la dimensione religiosa della purezza, una dimensione che collegava un complesso di questioni che si rivelarono cruciali durante il suo ministero (incluso il sacrificio nel Tempio, fratellanza a tavola, perdono dei peccati, dichiarazione di purezza, definizione di chi potrebbe essere incluso nel banchetto escatologico). La purezza offre una prospettiva sull'attività di Gesù che non è un artefatto della tradizione apologetica che tenta di ritrarrlo come trascendente l'ebraismo. Piuttosto, la purezza è una preoccupazione sistemica all'interno del primo ebraismo che Gesù raccolse e che il suo movimento sviluppò finché non affermò che era stata stabilita un'alternativa alla purezza. Il Gesù non moderno, il Gesù storico, è il Gesù la cui passione era una purezza che l'Occidente cristiano ha creduto a lungo essere irrilevante. La purezza era la sostanza della restaurazione che Meyer ha correttamente identificato come la questione centrale nell'attività di Gesù. La discussione dopo il suo contributo fondamentale può aver finalmente scoperto un modo per parlare di Gesù, dell'attività e della sua esperienza di Dio che si può ragionevolmente affermare essere più storico che apologetico. Questo sarebbe un risultato appropriato dell'interesse per Gesù all'interno dell'ebraismo, che ci ha già insegnato ciò che era stato negato da una generazione: che dobbiamo affrontare la questione di Gesù se vogliamo comprendere il cristianesimo.

"Ultima Cena", olio di Alessandro Allori (1582)

Note modifica

  Per approfondire, vedi Biografie cristologiche, Ebraicità del Cristo incarnato e Ecco l'uomo.
  1. Cfr. Francis Barham, The Life and Times of John Reuchlin, or Capnion (Londra: Whittaker, 1843) 53–55. Alle pp. 271–284 presenta una bibliografia.
  2. Brian Walton, Biblia Sacra Polyglotta (Londra: 1655–57).
  3. Cfr. Henning Graf Reventlow, The Authority of the Bible and the Rise of the Modern World (Londra: SCM Press, 1984).
  4. Pubblicato in latino tra il 1658 e il 1674,la prima edizione fu ristampata e tradotta durante il XVII secolo e successivamente. È disponibile una buona ristampa dell'ediz. Oxford del 1859: John Lightfoot, A Commentary on the New Testament from the Talmud and Hebraica (4 voll., Grand Rapids: Baker, 1979).
  5. Si veda, per esempio, la revisione di M. Black, G. Vermes, F. Millar, P. Vermes, M. Goodman, The History of the Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 BC–AD 135) (4 voll., Edinburgh: T. & T. Clark, 1973–87).
  6. Hermann Leberecht Strack e Paul Billerbeck (poi con J. Jeremias e K. Adolph), Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch (6 voll., München: Beck, 1922–61).
  7. Claude Goldsmid Montefiore, Rabbinic Literature and Gospel Teachings (Londra: Macmillan, 1930); cfr. idem (con H. Loewe), A Rabbinic Anthology (Londran: Macmillan, 1938).
  8. George Foot Moore, Judaism in the First Centuries of the Christian Era: The Age of the Tannaim (3 voll., Cambridge: Harvard University Press, 1927–1930).
  9. S. Safrai e M. Stern, con D. Flusser e W. C. van Unnik (curr.), The Jewish People in the First Century: Historical Geography, Political History, Social, Cultural and Religious Life and Institutions (2 voll., CRINT 1.1–2; Assen: Van Gorcum; Philadelphia: Fortress, 1974–76). Cfr. anche S. Safrai, con P. J. Tomson (curr.), The Literature of the Sages: The Literature of the Jewish People in the Period of the Second Temple and the Talmud (CRINT 2.3; Assen: Van Gorcum; Philadelphia: Fortress, 1987).
  10. Teologo tedesco protestante e nazista antisemita nonché collaborazionista della Stasi durante i rispettivi regimi, Grundmann si asservì ad entrambe le dittature, in seguito diventando informatore segreto e spia della RDT. Cfr. il suo Jesus der Galiläer und das Judentum 1940 (il suo istituto è tutto un programma: Veröffentlichungen des Instituts zur Erforschung des jüdischen Einflusses auf das deutchse kirchliche Leben = "Istituto per lo studio e l'eliminazione dell'influenza ebraica sulla vita ecclesiastica tedesca" Leipzig: Weigand, 1940).
  11. Cfr. Rudolf Bultmann, Jesus (Die unsterblichen, die geistigen Heroen der Menschheit; Berlin: Deutsche Bibliotek, 1926); (EN) Jesus and the Word (New York: Scribner’s, 1934).
  12. Cfr. Günther Bornkamm, Jesus von Nazareth (Urban-Bütcher 19; Stuttgart: Kohlhammer, 1956); (EN) Jesus of Nazareth (New York: Harper & Row, 1960).
  13. Si veda, per esempio, George Foot Moore, "Character of Judaism", in Judaism, 1.110–21. Oggi, ovviamente, il pluralismo verrebbe enfatizzato molto di più, e l'asserzione di Moore sull'ottenimento di "unità e universalità" (p. 111) alla fine del periodo verrebbe negata.
  14. Si veda Moore, Judaism, 1.377–78; 2.222, 235–36; 3.119.
  15. Moore, Judaism, 2.209, 235.
  16. Geza Vermes, "Jesus and Charismatic Judaism", in idem, Jesus the Jew: An Historian’s Reading of the Gospels (Londra: Collins, 1973; rist. Philadelphia: Fortress, 1981), 69–82 (ital. Gesù l'ebreo, Borla, 1983). La prima edizione apparve nel 1967.
  17. Riguardo a Eliezer, si veda Jacob Neusner, Eliezer ben Hyrcanus: The Tradition and the Man (2 vols., SJLA 3–4; Leiden: Brill, 1973).
  18. Cfr. Nahum N. Glazer, Hillel the Elder. The Emergence of Classical Judaism (Washington: B’nai B’rith, 1959).
  19. Vermes, "Jesus and Charismatic Judaism", 77.
  20. Cfr. Reinhold Niebuhr, The Nature and Destiny of Man. A Christian Interpretation (2 voll., New York: Scribner’s, 1949) 2.110–14, per una lode di "autotrascendenza" che è — agli inizi del volume — attribuita anche a Buber, 1.133, 2.26. Insieme all'opera di Niebuhr, potrebbe essere istruttivo leggere Buber, The Origin and Meaning of Hasidism (cur. M. Friedman; New York: Horizon, 1960), specialmente "Spirit and Body of the Hasidic Movement", 113–49. In merito ai Manoscritti del Mar Morto, si veda Millar Burrows, The Dead Sea Scrolls (New York: Viking, 1955) 279–98, che anticipa in qualche modo il periodo di revisionismo corrente sell'ipotesi Essena nello studio di Qumran.
  21. Burrows, The Dead Sea Scrolls, 274–75.
  22. Philip R. Davies, "Qumran Beginnings", in idem, Behind the Essenes. History and Ideology in the Dead Sea Scrolls (BJS 94; Atlanta: Scholars Press, 1987) 15–31, here 15.
  23. Si veda Max Weber (cur. S. N. Eisenstadt), "Charisma and Institutionalization in the Sphere of Religion and Culture", in idem, On Charisma and Institution Building (The Heritage of Sociology; Chicago; University of Chicago Press, 1968) 251–309.
  24. Si veda Hugo Odeberg, The Aramaic Portions of Bereshit Rabbah (Lund Universitets Arsskrift 36.3; Lund: Gleerup, 1939) 92, 154–57.
  25. Vermes, Jesus the Jew, 160–91; idem, "The ‘Son of Man’ Debate", JSNT 1 (1978) 19–32.
  26. William Scott Green, "Palestinian Holy Men: Charismatic Leadership and Rabbinic Tradition", in W. Haase (cur.), Aufstieg und Niedergang der romischen Welt II.19.2 (Berlino: de Gruyter, 1979) 619–47, 646. Allo stesso tempo, Green riconosce, nella tradizione di Moore, la distinzione tra miracolo e tradizione a una base autorevole.
  27. Cfr. Eric M. Meyers, "The Cultural Setting of Galilee: The Case of Regionalism and Early Judaism", in W. Haase (cur.), Aufstieg und Niedergang der romischen Welt II.19.1 (Berlino: de Gruyter, 1979) 686–702. Vermes viene criticato specificamente a p. 690 (con n. 12).
  28. Si veda Bruce Chilton, "The Son of Man: Human and Heavenly", in F. Van Segbroeck et al. (curr.), The Four Gospels 1992: Festschrift Frans Neirynck (BETL 100; 3 voll., Leuven: Peeters and University Press, 1992) 1.203–18; anche disponibile in J. Neusner (cur.), Approaches to Ancient Judaism (Nuova Serie), Volume IV. Religious and Theological Studies (South Florida Studies in the History of Judaism 81; Atlanta: Scholars Press, 1993) 97–114.
  29. Cfr. G. Vermes, Jesus and the World of Judaism (Londra: SCM Press, 1983); idem, The Religion of Jesus the Jew (Londra: SCM Press, 1993). Da notare anche Donald A. Hagner, The Jewish Reclamation of Jesus. An Analysis & Critique of the Modern Jewish Study of Jesus (Grand Rapids: Zondervan, 1984), che fornisce una recensione delle letteratura in discussione. Poco dopo la pubblicazione dell'opera di Hagner, apparve Harvey Falk, Jesus the Pharisee: A New Look at the Jewishness of Jesus (New York: Paulist, 1985). Falk difende la posizione di Rabbi Jacob Emden (1697–1776), che cita (p. 19):
    « ...gli scrittori dei Vangeli non intesero mai dire che il Nazareno fosse venuto per abolire l'ebraismo, ma solo che era venuto a stabilire una religione per i Gentili da quel momento in poi. Né era cosa nuova, anzi in realtà era antica; come lo erano i Sette Comandamenti dei Figli di Noè, che furono dimenticati. »

    Insieme al libro di Hagner, quello di Falk dimostra la continua influenza delle considerazioni apologetiche nell'ambito della discussione religiosa accademica.

  30. Ben F. Meyer, The Aims of Jesus (Londra: SCM Press, 1979).
  31. Sull'importanza di Weiss nell'ambito della discussione critica, si veda B. Chilton, The Kingdom of God in the Teaching of Jesus (Issues in Religion and Theology 5; Londra: SPCK; Philadelphia: Fortress, 1984).
  32. Meyer, Aims of Jesus, 223, 239–41.
  33. 33 Meyer, Aims of Jesus, 221.
  34. Meyer, Aims of Jesus, 153–54.
  35. Meyer, Aims of Jesus, 223.
  36. J. Jeremias, Jesu Verheissung für die Volker (Kohlhammer: Stuttgart, 1956); (EN) Jesus’ Promise to the Nations (SBT 14; Londra: SCM Press, 1958). Come Jeremias stesso osserva nella sua prefazione, egli a sua volta ha elaborato i suggerimenti di B. Sundkler, "Jésus et les païens", RHPR 16 (1936) 462–63.
  37. Perlomeno, tuttavia, la versione di Vermes dell'ermeneutica della trascendenza è relativamente sofisticata. Invece, nel caso di John Riches, Jesus and the Transcendence of Judaism (Londra: Darton, Longman & Todd, 1980), abbiamo un appello alla vecchia posizione che Gesù si propose di sostituire la religione che era in realtà il suo ambiente. Non sorprende, in considerazione della tendenza apologetica della discussione che è già stata notata, che l'ebraismo diventi il cifrario all'interno di una pretesa teologica di trascendenza. Dopo tutto, molto tempo dipo che fu pubblicato Jesus der Galiläer, Grundmann continò a sostenere una forma di tale posizione; cfr. W. Grundmann, Die Geschichte Jesu Christi (Berlino: Evangelische Verlagsanstalt, 1956); idem, Die Entscheidung Jesu. Zur geschichtlichen Bedeutung der Gestalt Jesu von Nazareth (Berlino: Evangelische Verlag, 1972); idem, Die frühe Christenheit und ihre Schriften: Umwelt, Entstehung und Eigenart der neutestamentlichen Bücher (Stuttgart: Calwer, 1983).
  38. M. J. Borg, Conflict, Holiness and Politics in the Teaching of Jesus (Studies in the Bible and Early Christianity 5; New York: Mellen, 1984; rist. Harrisburg: Trinity Press International, 1998). La tesi venne presentata nel 1972, ma la prefazione chiarisce che gran parte dell'argomento distintivo del libro fu sviluppato in seguito.
  39. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 230–47.
  40. A p. 380, Borg cita Smith, Forgotten Truth: The Primordial Tradition ed Eliade, Myth and Reality. Anche The Idea of the Holy di Otto è di importanza fondamentale per la definizione di Borg (p. 73). In un'opera successiva, che popolarizza tale suo approccio, Borg con approvazione cita Eliade, Shamanism, e Campbell, Hero with a Thousand Faces; cfr. Borg, Jesus, A New Vision. Spirit, Culture, and the Life of Discipleship (San Francisco: Harper, 1987), 53. Per critiche importanti dei concetti su cui si basa Borg, si vedano Robert D. Baird, Category Formation and the History of Religions (The Hague: Mouton, 1971; Berlino & New York: Mouton de Gruyter, 1991); Guilford Dudley, "Mircea Eliade: Anti-Historian of Religions", JAAR 44 (1976) 345–59; Jonathan Z. Smith, Map Is Not Territory. Studies in the History of Religions (SJLA 23; Leiden: Brill, 1978); Ivan Strenski, Four Theories of Myth in Twentieth-Century History. Cassirer, Eliade, Lévi-Strauss and Malinowski (Iowa City: University of Iowa; Basingstoke: Macmillan, 1987); Shlomo Biderman (cur.), Myth and Fictions. Their Place in Philosophy and Religion (Leiden: Brill, 1994).
  41. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 238.
  42. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 51–199.
  43. Si veda Borg, Conflict, Holiness and Politics, 93, 230–47.
  44. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 128.
  45. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 142.
  46. Borg, Conflict, Holiness and Politics, 246.
  47. Bruce D. Chilton, A Galilean Rabbi and His Bible: Jesus’ Use of the Interpreted Scripture of His Time (GNS 8; Wilmington: Glazier, 1984); anche col sottotitolo Jesus’ own interpretation of Isaiah (Londra: SPCK, 1984).
  48. Bruce D. Chilton, God in Strength: Jesus’ Announcement of the Kingdom (SNTU 1; Freistadt: Plöchl, 1979; repr. BibSem 8; Sheffield: JSOT Press, 1987).
  49. Cfr. Bruce D. Chilton, The Glory of Israel. The Theology and Provenience of the Isaiah Targum ( JSOTSup 23; Sheffield: JSOT Press, 1982). Si veda anche P. Churgin, Targum Jonathan to the Prophets (Yale Oriental Series [New Haven: Yale University Press, 1927]). In forma condensata, le conclusioni di Chilton appaiono in The Isaiah Targum. Introduction, Translation, Apparatus, and Notes (ArBib 11; Wilmington: Glazier; Edinburgh: T. & T. Clark, 1987) xiii–xxx.
  50. Chilton, The Glory of Israel, 2–3; idem, The Isaiah Targum, xxi. Per le sezioni del Targum più rappresentative di ciascun meturgeman, cfr. The Isaiah Targum, xxiv.
  51. Il modello sviluppato per il caso del Targum di Isaiah viene applicato in D. J. Harrington e A. J. Saldarini, Targum Jonathan of the Former Prophets (ArBib 10; Wilmington: Glazier, 1987) 3; R. Hayward, The Targum of Jeremiah (ArBib 12; Wilmington: Glazier, 1987) 38; S. H. Levey, The Targum of Ezekiel (ArBib 13; Wilmington: Glazier, 1987) 3–4; K. J. Cathcart e R. P. Gordon, The Targum of the Minor Prophets (ArBib 14; Wilmington: Glazier, 1989) 12–14. L'accettazione da parte di Levey del paradigma è particolarmente rimarchevole, in quanto precedentemente egli aveva sostenuto che il Targum Jonathan (specialmente Isaia) doveva essere posto nel periodo dell'influenza islamica, cfr. “The Date of Targum Jonathan to the Prophets,” VT 21 (1971) 186–96.
  52. Naturalmente, ciò non impedisce che tali discussioni vengano fatte; cfr. Michael D. Goulder, "Those Outside (Mk. 4:10–12", NovT 33 (1991) 289–302.
  53. Per cui la notevole conclusione delle recensione di M. D. Hooker, che sebbene il collegamento postulato tra l'insegnamento di Gesù ed il Targum erano dimostrati, "c'era solo da spettarselo", cfr. New Blackfriars 66 (1985) 550–52. Cfr. la conclusione molto differente di M. McNamara in CBQ 47 (1985) 184–86 e 48 (1986) 329–31 e I. H. Marshall in EvQ 58 (1986) 267–70. È strano che il Professor Hooker ora trovi tale collegamento prevedibile, quando il suo esame della frase 2figlio dell'uomo" non cita per niente i Targumim; cfr. The Son of Man in Mark (Londra: SPCK; Montreal: McGill University Press, 1967).
  54. Chilton, A Galilean Rabbi, 148–98.
  55. Si veda la recensione di P. S. Alexander in JJS 36 (1985) 238–42 e, in contrasto, J. Neusner in JES 22 (1985) 359–61.
  56. E. P. Sanders, Jesus and Judaism (Londra: SCM Press; Philadelphia: Fortress, 1985).
  57. Si veda il cap. 2, "New Temple and Restoration in Jewish Literature", 77–90, e cap. 3, "Other Indications of Restoration Eschatology", 91–119.
  58. Si veda il trattamento di Sanders in relazione a Schweitzer in Jesus and Judaism, 327–34.
  59. Per le difficoltà insite nel concetto di Schweitzer riguardo all'apocalitticismo di Gesù, si veda T. Francis Glasson, "Schweitzer’s Influence: Blessing or Bane?" JTS 28 (1977) 289–302; disponibile anche in Chilton (cur.), The Kingdom of God in he Teaching of Jesus, 107–20.
  60. In aggiunta a Borg, Conflict, Holiness, and Politics, si veda idem, "A Temperate Case for a Non-Eschatological Jesus", Forum 2 (1986) 81–102.
  61. Sanders, Jesus and Judaism, 124–25, 154–56.
  62. Si veda Sanders, Jesus and Judaism, 187, 199, 206–208, 227, 322, 323, e il suo scritto precedente, "Jesus and the Sinners", JSNT 19 (1983) 5–36.
  63. Si veda Chilton, "Jesus and the Repentance of E. P. Sanders", TynBul 39 (1988) 1–18.
  64. Sanders, Jesus and Judaism, 106–13.
  65. N. Perrin, Rediscovering the Teaching of Jesus (Londra: SCM Press; New York: Harper & Row, 1967), 39.
  66. E. P. Sanders, Paul and Palestinian Judaism: A Comparison of Patterns of Religion (Londra: SCM Press; Philadelphia: Fortress, 1977).
  67. La formulazione è presa da E. P. Sanders, "Jesus, Paul and Judaism", in W. Haase (cur.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.25.1 (Berlino: de Gruyter, 1982) 39–450, qui 394. L'articolo è una dichiarazione succinta di una posizione sviluppata in svariate pubblicazioni differenti.
  68. Sanders, Jesus and Judaism, 321.
  69. Sanders, Jesus and Judaism, 337–40.
  70. Sanders, "Jesus, Paul and Judaism", 427–28.
  71. R. A. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence: Popular Jewish Resistance in Roman Palestine (San Francisco: Harper & Row, 1987).
  72. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 37, e cfr. l'analisi a pp. 20–58. Si veda anche Horsley e J. S. Hanson, Bandits, Prophets, and Messiahs (Minneapolis: Winston-Seabury, 1985).
  73. S. G. F. Brandon, Jesus and the Zealots. A Study of the Political Factor in Primitive Christianity (Manchester: Manchester University Press, 1967).
  74. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 319.
  75. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 321.
  76. Meyer, Aims of Jesus; cfr. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 340 n. 36.
  77. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 318.
  78. Horsley, Jesus and the Spiral of Violence, 326.
  79. Si veda S. Freyne, Jesus, Galilee, and the Gospels. Literary Approaches and Historical Investigations (Dublino: Gill and Macmillan, 1988).
  80. J. D. Crossan, The Historical Jesus: The Life of a Mediterranean Jewish Peasant (San Francisco: HarperCollins; Edinburgh: T. & T. Clark, 1991).
  81. Il riferimento di Crossan è a M. Smith, Jesus the Magician (San Francisco: Harper & Row, 1978).
  82. Crossan, The Historical Jesus, xxvii.
  83. Crossan, The Historical Jesus, 421.
  84. Crossan, The Historical Jesus, 349, 421.
  85. Crossan, The Historical Jesus, 339. In precedenza, Crossan si riferisce a "mantello, bisaccia e bastone" come a "quasi una triade ufficiale" (p. 82). Sul Gesù "cinico" abbiamo comunque già discusso nei precedenti capitoli, partic. in "Gesù altrove".
  86. Crossan, The Historical Jesus, 421–22.
  87. Crossan, The Historical Jesus, 417.
  88. Crossan, The Historical Jesus, 157.
  89. Crossan, The Historical Jesus, 137–67.
  90. Cfr. Hayim Lapin, "Rabbi", The Anchor Bible Dictionary 5 (cur. D. N. Freedman; New York: Doubleday, 1992) 600–602. Da notare che un precedente articolo di Pierson Parker, "Rabbi, Rabbouni", The Interpreter’s Dictionary of the Bible 4 (cur. G. A. Buttrick; New York: Abingdon, 1962) 3, arriva praticamente alla stessa onclusione. Cfr. anche Chilton, A Galilean Rabbi, 34–35.
  91. Crossan, The Historical Jesus, 418.
  92. Crossan, The Historical Jesus, 422.
  93. J. P. Meier, A Marginal Jew. Rethinking the Historical Jesus, 5 voll. (ABRL; New York: Doubleday, 1991-2016).
  94. Meier, A Marginal Jew, 278–315. Da notare che l'analisi di Crossan smentisce il sottotitolo del suo libro, in quanto egli conclude che Gesù non fu un contadino, bensì un artigiano (The Historical Jesus, pp. 29, 46, cf. 15–19). Insomma, Crossa ha in realtà scritto "The Life of a Judaeo-Cynic Artisan (La vita di un artigiano giudeo-cinico)".
  95. Meier, A Marginal Jew, 112–66.
  96. Meier, A Marginal Jew, 276; cfr. n. 125 on p. 306.
  97. Meier, A Marginal Jew, 13.
  98. Bruce D. Chilton, The Temple of Jesus: His Sacrificial Program Within a Cultural History of Sacrifice (University Park: Pennsylvania State University Press, 1992).
  99. Chilton, The Temple of Jesus, 91–111.
  100. Chilton, The Temple of Jesus, 3–42.
  101. Chilton, The Temple of Jesus, 45–67.
  102. Chilton, The Temple of Jesus, 69–87.
  103. Si veda Chilton, The Temple of Jesus, 121–36.
  104. Chilton, The Temple of Jesus, 130–36.
  105. Chilton, The Temple of Jesus, 137–54. L'ultima questione viene ripresa ulteriormente in uno studio esegetico, Bruce D. Chilton, A Feast of Meanings: Eucharistic Theologies from Jesus through Johannine Circles (NovTSup 72; Leiden: Brill, 1994).
  106. Si veda Henry Joel Cadbury, The Peril of Modernizing Jesus (Lowell Institute Lectures; New York: Macmillan, 1937).