L'origine letteraria, nell'antichità classica, della figura delle Sirene è nell'Odissea di Omero dove vengono presentate come cantatrici marine abitanti un'isola presso Scilla e Cariddi, le quali incantavano, facendo poi morire, i marinai che incautamente vi sbarcavano. La loro isola mortifera era disseminata di cadaveri in putrefazione. Ma Odisseo, consigliato da Circe, la supererà indenne.
(IT) « Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti
gli uomini incantano, chi arriva da loro.
A colui che ignaro s'accosta e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa
di uomini putridi, con la pelle che raggrinza »
Omero non descrisse l'aspetto fisico delle Sirene; a tal proposito si è presupposto[5] che ciò sia dovuto alla consapevolezza di Omero che il proprio uditore conoscesse le forme di queste creature grazie ad altri racconti mitici come le avventure di Giasone e degli Argonauti[6].
Come Odisseo anche Orfeo, nelle Argonautiche riportate da Apollonio Rodio, salva il suo equipaggio composto dagli Argonauti:
« La brezza favorevole spingeva la nave, e ben presto avvistarono la splendida Antemoessa, isola in cui le canore Sirene, figlie dell'Acheloo, annientavano chiunque vi approdasse, ammaliandolo coi loro dolci canti. La bella Tersicore, una delle Muse, le aveva generate dopo essersi unita all'Acheloo; un tempo erano ancelle della potente figlia di Deò, quando ancora era vergine, e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli. Sempre appostate su una rupa munita di buoni approdi, avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno, consumandoli nello struggimento. Anche per gli eroi effusero senza ritegno le loro voci, soavi come gigli, ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia: ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra Bistonia con le sue mani, fece risuonare le note allegre di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle: Zefiro e insieme le onde sospinsero la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto. » (Apollonio Rodio. Argonautiche IV, 890-912. Traduzione di Alberto Borgogno. Milano, Mondadori, 2007, pag.277)
Apollonio Rodio riprende quindi la narrazione delle Sirene figlie di Acheloo (in altre fonti di Forco[7]) che, come ricorda Károly Kerényi[8], era la divinità fluviale e marina, figlia di Teti e di Oceano[9] ma che Omero[10] pose una volta davanti allo stesso Oceano "origine di tutte le cose".
Libanio, nella Progymnasmata IV, ricorda che Eracle aveva staccato un corno al dio acquatico quando lottò con lui per conquistare l'affascinante Deianira, e dalle gocce di sangue cadute dalle ferite provocate al Dio erano nate le sue figlie, le Sirene[11].
Un'altra tradizione, riportata da Pseudo-Apollodoro, le vuole figlie di Acheloo e di Melpomene, una delle Muse:
« Le Sirene erano figlie di Acheloo e di una delle Muse, Melpomene; si chiamavano Pisinoe, Aglaope e Telsiepia. Una di esse suonava la cetra, la seconda cantava, la terza suonava l'aulo: con questa musica persuadevano i navigatori a fermarsi. Dalle cosce in giù esse avevano la forma di uccelli. [...] Una profezia diceva che le Sirene sarebbero morte se una nave riusciva a passare: ed esse, infatti, morirono » (Pseudo-Apollodoro. Epitome VII, 19-20. Traduzione di Maria Grazia Ciani in I miti greci Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, 2008, pag. 405)
Seirênes (Σειρῆνες), nome plurale femminile nella antica lingua greca, nella sua forma maschile significa "vespe" o "api", è collegato quindi alla figura di Penfredo una delle Graie, le "vergini simili a cigni"[12]. I pittori vascolari rappresentavano le Sirene anche come esseri maschili con la barba, e sia se fossero di forme maschili o femminili, si può individuare la loro natura per il corpo che richiama sempre quello di un uccello (con le parti inferiori a volte a forma di uovo) con una testa umana, a volte con braccia e mammelle, quasi sempre con artigli ai piedi, artigli non aventi però la funzione del rapimento, funzione propria delle Arpie, in quanto, altra caratteristica loro fondante, le Sirene sono strettamente collegate al mondo della musica, suonando la lira o il doppio flauto e accompagnandosi col canto.
Le Sirene sono anche onniscienti e in grado di placare i venti, forse con il loro canto[13], cantando le melodie dell'Ade[14].
Il rapporto tra le Sirene e il mondo dell'Ade è presente anche in Euripide quando, nell'Elena, così la protagonista invoca:
« Voi, piumate vergini figlie della Terra, voi Sirene invoco, ai pianti miei venite qua, col libico flauto o con le cetre: siano per i miei tristi lutti, consone lacrime, pianti per pianti, per musiche musiche: ai gemiti consoni complessi Persefone mi mandi, voci di morte, e da me con le lacrime s'abbia un peana nel regno di tenebra omaggio per i defunti sepolti là » (Euripide. Elena, 167-179. Traduzione di Filippo Maria Pontani, Milano, Mondadori, 2007, pag. 485)
George M.A. Hanfmann[15] ricorda che questo stretto collegamento con il mondo dei morti, testimoniato soprattutto dal fatto che fin dai tempi più antichi le loro immagini fossero a corredo delle tombe, fa supporre ad alcuni autori che le Sirene fossero in origine degli uccelli in cui trovavano dimora le anime dei defunti.
Con la identificazione delle località omeriche, in età antica si ritenne che le Sirene abitassero l'Italia meridionale. Strabone, in Gheographikà I,22, ci dice che i popoli marinari di Napoli, Sorrento e della Sicilia, le veneravano.
Il loro corpo, per metà donna e metà uccello sarebbe frutto di un incantesimo vendicativo da parte di Afrodite disprezzata dalle vergini Sirene per i suoi amori[16]. Un'altra tradizione le vuole punite da Demetra per non aver impedito il ratto della figlia Persefone da parte di Ade mentre insieme coglievano dei fiori.
Ovidio, nelle Metamorfosi, offre una spiegazione poetica alla loro natura e al loro destino: esse non furono punite da Demetra, ma le stesse Sirene chiesero di essere trasformate in uccelli per cercare in volo l'amica perduta.
(IT) « Lui certo può essersi meritato il castigo parlando troppo e facendo la spia; ma voi, figlie dell'Acheloo, da dove vengono piume e zampe d'uccelli, quando avete volto di donna? Forse perché Proserpina coglieva i fiori primaverili, eravate nel numero delle sue compagne, dotte Sirene? Dopo che inutilmente l'avete cercata per tutto il mondo, avete desiderato, perché il mare sentisse la vostra pena di potervi fermare sulle onde col remeggio delle ali, e avendo il consenso degli dèi, avete visto improvvisamente i vostri arti fiorire di penne; ma perché il vostro canto, nato a blandire le orecchie, e il tesoro della vostra bocca non perdesse l'uso della lingua, vi restò volto di vergini e voce umana »
(LA) « Hic tamen indicio poenam linguaque videri commeruisse potest; vobis, Acheloides, unde pluma pedesque avium, cum virginis ora geratis? an quia, cum legeret vernos Proserpina flores, in comitum numero, doctae Sirenes, eratis? quam postquam toto frustra quaesistis in orbe, protinus, et vestram sentirent aequora curam, posse super fluctus alarum insistere remis optastis facilesque deos habuistis et artus vidistis vestros subitis flavescere pennis. ne tamen ille canor mulcendas natus ad aures tantaque dos oris linguae deperderet usum, virginei vultus et vox humana remansit » (Ovidio. Metamorfosi V, 555-563. Traduzione di Guido Paduano, Milano, Mondadori, 2007, pag. 225)
Vi sono due tradizioni apparentemente contraddittorie, quindi, su queste figure mitiche: una le vuole mortifere e dannose per gli uomini, mentre l'altra le indica come consolatrici per gli stessi rispetto al proprio destino e, soprattutto, alla morte. Da notare, tuttavia, che nel primo caso nulla indica una loro natura volutamente crudele, bensì è il loro destino e la loro funzione di cantatrici/incantatrici ad essere disastroso per gli uomini.
Ma 'cosa' cantano le Sirene di così struggente e mortifero per gli esseri umani?
(IT) « Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose »
« Si dice che a queste parole Odisseo abbia voluto sciogliere i vincoli che lo legavano, ma i suoi compagni lo abbiano legato ancora più saldamente. E non si potrebbe stupire di un simile effetto del canto, poiché le Sirene si presentavano con tali parole come dee oracolari onniscienti, quali forse effettivamente erano nei luoghi dove si tributava loro un culto. Non di meno però esse erano le dee della morte e dell'amore a servizio della dea degli Inferi. In un certo qual modo la dea del regno dei morti era essa stessa morta. Le Sirene servivano la morte e dovevano morire esse stessa-così diceva un racconto- se la nave passava vicino e un equipaggio non cadeva loro preda. Esse si uccisero quando Odisseo e i suoi compagni poterono salvarsi » (Károly Kerényi. Op.cit. pag.58)
Così Alessandra Tarabocchia Canavero commenta:
« È un canto che è una promessa: se si fermerà presso di loro, se ne andrà "sapendo più cose". Le Sirene, pur consapevoli della loro voce di miele, sanno che è irresistibile, per gli uomini che arrivano a sentirla, non tanto è la dolcezza del canto, quanto il conoscere il proprio passato e sapere "ciò che accade nella terra ferace". Così è stato per tutti coloro che si sono accostati alla loro isola: si sono fermati... Sembra al di fuori delle loro intenzioni trattenere per sempre gli uomini che hanno accettato il loro invito: mentono o, incoerenza del mito che le vuole onniscienti, non sanno che il desiderio di "sapere più cose" ha portato tutti coloro che si sono fermati presso di loro per soddisfarlo a dimenticare gli affetti familiari, a trascurare tutto ciò che ha a che fare con la vita, fino a lasciarsi morire: sembrano non rendersi conto che, dal mare, si possono vedere tra i fiori, le loro ossa e loro membra imputridite... La bella voce è solo l'involucro della vera tentazione delle Sirene omeriche: "sapere più cose". È la tentazione "originaria" dell'onniscienza. Cedere a questa tentazione, assecondare, in modo assoluto, questo desiderio porta a rompere i legami famigliari, a perdere la dimensione sociale e civile, a morire. Per questo Omero le condanna. Per questo l'eroe deve fuggirle, non deve interrompere il suo nóstos» (Alessandra Tarabocchia Canavero. Op.cit. pag.133)
Nel V secolo d.C. le Argonautiche orfiche riassumeranno il mito arricchendolo di particolari:
« La rupe scoscesa che dall'alto incombe sporgendo coi suoi nudi crepacci, si spinge dentro il mare e di sotto, nel cavo, freme l'onda azzurra. Là sedendo alcune fanciulle ammaliano i mortali che all'udirle non vogliono più tornare. Piacque allora a Minii di conoscere il canto delle Sirene e non vollero sottrarsi a quella funesta melodia e dalle mani avevano già lasciato andare i remi e Aneo aveva messo la prora verso l'alto promontorio, ma io tra le mie mani tesi la corda della lira, infusi su ispirazione di mia madre la piacevole armonia di un canto. Intonavo con dolce melodia un inno divino, di come un tempo contesero, per i cavalli dai piedi veloci come il turbine, Zeus dall'alto tuono e il marino scuotitore della terra Adirato col padre Zeus il signore dalla nera chioma percosse la terra Licaonia col suo tridente d'oro e la disperse celermente sul mare infinito per formare le isole marine che hanno nome Sardegna, Eubea e poi ancora Cipro ventosa. Allora al suono della mia cetra stupirono le Sirene dall'alto della rupe cessarono il loro canto. Si lasciarono cadere di mano l'una il flauto l'altra la lira, ed emisero angosciosi gemiti perché era giunto il triste destino della morte fatale. Dalla rupe scoscesa si gettarono nell'abisso del mare ondoso. E in pietra mutarono il corpo e la loro fiera bellezza. » (Argonautiche orfiche 1265-90. Traduzione di Luciano Migotto in Argonautiche orfiche. Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994, pagg. 96-8)
L'origine del termine sirena è dubbio. Tra le molte ipotesi Alessandra Tarabochia Canavero[17], collegandosi alle osservazioni di Kurt Latte[18] secondo le quali cessando il vento all'approssimarsi della loro ierofania, e quindi con l'approssimarsi dell'ora meridiana, sostiene che esse potrebbero indicare dei dèmoni del calore meridiano (daemones meridiani) indicazione che potrebbe suggerire un collegamento con l'aggettivo séirios (incandescente, splendente) da cui Sirio, a sua volta collegato al sanscrito Sūrya (il deva del Sole). Altra ipotesi lega tale termine al verbo syrízo ("fischiare", "sibilare") quindi dèmoni della tempesta, collegati ai vedici Marut. Oppure da seirà ("corda", "fune", da cui anche éiro, "legare"), riprendendo il fatto che le Sirene "legano" a sé i naviganti, li irretiscono[19]. O più semplicemente da un semitico sir ("cantare").
Le Sirene in Omero sono due, infatti il poeta greco utilizza il duale Seirḗnoiïn, ma senza nominarle. Alcuni tardi commentatori ne suggeriscono i nomi in Aglaophḗmē e Thelxiépeia[20], nomi che ne indicano la "voce" (phoné/*óps) come "splendida" (agláe) e "incantatrice" (thélgo).
Tradizioni successive di matrice "pseudo-esiodea" portano il numero delle Sirene da due a tre indicando la terza con il nome di Peisinóē (da peítho, "persuadere" e noús "mente").
La teologia classica si è occupata delle Sirene fin da Platone che nel Cratilo faceva osservare da Socrate che non bisognava temere il dio Ade (Ἅιδης) il quale raccoglieva presso di sé le anime dei morti spoglie dei loro corpi, corpi che da vivi le avevano costrette all'agitazione e alla follia; infatti, evidenzia Socrate, è il desiderio di permanere nel regno di Ade che fa sì che le anime dei morti non si allontanino da lui. E le Sirene partecipano di questo desiderio che corrisponde al desiderio della virtù e alla figura del "filosofo".
« Allora, per questo, diciamo, Ermogene, che nessuno di coloro che sono laggiù desidera tornare qui, nemmeno le Sirene stesse, bensì vengono affascinati, sia quelle, sia tutti gli altri: tanto belli, a quanto pare, sono i discorsi che Ἅιδης [Ade] sa fare. E codesto dio, secondo questo ragionamento, è un Sofista perfetto ed un grande benefattore di quelli che gli stanno vicino, egli che manda anche a chi sta quassù beni così grandi: οὕτω πολλά [:così tanti] sono i beni che lo circondano laggiù, che da ciò ebbe il nome Πλούτων [Plutone][21]» (Platone. Cratilo, 403D-403E. Traduzione di Maria Luisa Gatti in Platone. Tutti gli scritti. Milano, Bompiani, 2008, pag. 151)
Nella Repubblica, Platone narra il mito di Er figlio di Armenio soldato della Panfilia che morto in combattimento torna improvvisamente tra i vivi e racconta ciò che ha visto nell'aldilà. Ed Er racconta di essere stato condotto, insieme alle altre anime dei caduti, in un luogo meraviglioso dove sedevano dei giudici che indicavano ai giusti di dirigersi verso il Cielo e agli ingiusti nelle profondità della Terra. Questi giudici disposero per Er di limitarsi ad osservare ciò che accadeva di modo che potesse raccontarlo una volta resuscitato. Il racconto di Er si sofferma nel momento in cui le anime di ritorno dal Cielo e quelle di ritorno dalle profondità della Terra si scambiano le esperienze vissute, beate le prime, terribili le seconde. Dopo aver vissuto il proprio premio o la propria punizione (tranne i tiranni come Ardieo condannati per l'eternità a permanere nelle profondità), le anime venivano condotte in un diverso luogo dove si sarebbe deciso il loro nuovo destino. Lì Ananke tesseva il suo fuso da cui dipendevano i moti dei corpi celesti. Questo fuso, o meglio si direbbe un planetario, conteneva al suo interno altri sette fusaioli:
« Il filo ruotava sulle ginocchia di Ananke. Sui suoi cerchi, in alto, si muoveva insieme a ciascuno una sirena, che emetteva un'unica nota, con un unico suono; ma tutte insieme formavano un'armonia[22]. Altre donne, disposte in cerchio, ognuna sul suo trono a uguale distanza, erano le figlie di Ananke, le Moire biancovestite, cinte il capo di bende: Lachesi, Cloto e Atropo; e al suono delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo l'avvenire » (Platone. La Repubblica 617B-617C. Traduzione di Giuseppe Lozza in Platone Opere vol.2. Milano, Mondadori, 2008 pag. 460)
Alla luce delle indicazioni teologiche di Platone, il medioplatonico Plutarco ci racconta come Ammonio l'Egiziano rese coerenti le Sirene platoniche con quelle omeriche:
« Quanto alle Sirene di Omero, lo spavento che ci incute il loro mito non ha fondamento; al contrario anche questo poeta ci ha fatto intendere simbolicamente una verità, precisamente che il potere della loro musica non è disumano e funesto; nelle anime che hanno lasciato questo mondo per il cielo e vagano, come sembra, dopo la morte, questa musica suscita l'amore per le cose celesti e divine e l'oblio delle cose mortali, essa le possiede e le incanta con il suo sortilegio, ed esse piene di gioia, seguono le Sirene e si uniscono a esse nei loro movimenti circolari. Qui sulla terra una sorta di debole eco di quella musica ci raggiunge e, attraendo le nostre anime con il potere delle parole, suscita in esse il ricordo di quello che hanno sperimentato nella vita precedente. Le orecchie della maggior parte delle anime, tuttavia sono tappate e bloccate non dalla cera, ma da ostacoli e affetti carnali. Ma l'anima che per la sua buona natura si accorge e ricorda prova qualcosa in tutto simile ai più folli trasporti d'amore, sospirando e desiderano liberarsi dal corpo, ma incapace di farlo » (Plutarco. Quaestiones convivales IX,14,6[23])
Il canto delle Sirene nei cieli è senza parole, è l'armonia, la musica delle sfere. Quella che, ci ricorda il neoplatonico Giamblico, Pitagora faceva ascoltare ai suoi allievi per purificarli:
« E la sera quando i seguaci andavano a dormire, li liberava dai turbamenti e dalle ripercussioni della giornata, purificandone la mente frastornata: così procurava loro un sonno tranquillo e animato di bei sogni, talora addirittura profetici » (Giamblico. De mysteriis Aegyptiorum, Chaldeorum et Assyriorum XV,65. Traduzione di Claudio Moreschi in Giamblico I misteri degli egiziani. Milano, Rizzoli, 2003, pag. 193)
E le Sirene acquisiscono un ruolo fondamentale anche per la scuola pitagorica degli acusmatici rammentata da Giamblico:
« La filosofia degli acusmatici consiste di detti (akousmata) cui non si accompagna una dimostrazione o una giustificazione razionale [...]. Inoltre essi si sforzano di custodire alla stregua di insegnamenti divini quant'altro Pitagora avesse avuto modo di affermare e per parte loro non pretendono di dire alcunché in prima persona anzi reputano illecito farlo. [...] Tutti i cosiddetti akousmata si dividono in tre gruppi. Quelli del primo gruppo indicano cos'è una determinata cosa; quelli del secondo che cosa gode nella massima misura di una determinata qualità; infine quelli del terzo gruppi indicano cosa si debba o non si debba fare. Quelli che definiscono cos'è una determinata cosa sono di questo genere: "Cosa sono le isole dei Beati? Sono il Sole e la Luna. Cos'è l'oracolo di Delfi? La tetrade, cioè l'armonia, nella quale sono le Sirene" » (Giamblico. Vita pitagorica 82. Traduzione di Maurizio Giangiulo. Milano, Rizzoli, 2008, pag.219)
↑Una tradizione attestata, ad esempio nelle Argonautiche orfiche, vuole che il loro katapontismós, il "tuffo" trasfigurante, le abbia trasformate in "rupi".