Gesù, Galilea e Sion/Capitolo 3

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Mosaico delle Dodici Tribù di Israele,facciata della Sinagoga Givat Mordechai Etz Yosef, Gerusalemme — Ia fila da des. a sin.: Ruben, Giuda, Dan, Aser; IIa fila: Simeone, Issachar, Neftali, Giuseppe; IIIa fila: Levi, Zabulon, Gad, Beniamino.

Storie di conquista e insediamento

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« Zabulon abiterà lungo il lido del mare e sarà l'approdo delle navi, con il fianco rivolto a Sidone. »
(Genesi 49:13)

La discussione del Capitolo precedente si è concentrata su come Gesù si rapportava all'ambiente naturale della Galilea, e le indicazioni erano che la sua forte fede nel Dio creatore che era la fonte della fertilità della terra colorava non solo la forma itinerante del suo ministero, ma anche il suo contenuto. I segni della presenza di Dio si potevano discernere ovunque nel mondo della natura, e per qualcuno profondamente intriso del senso dell'attività creatrice di Dio nei ritmi mutevoli delle stagioni, l'impegno umano con il paesaggio nell'agricoltura, nella pesca e in altre attività di un popolo contadino parlavano subito e direttamente della cura di Dio, della promessa di Dio e della chiamata di Dio. Tuttavia, l'impulso per questa interpretazione del mondo naturale era venuto da una storia che non solo parlava della cura universale di Dio per tutta la creazione, ma che rappresentava la chiamata speciale e l'elezione di Israele. Il dono della terra d'Israele era un pegno dell'amore speciale di Yahweh per il popolo d'Israele. Infatti le caratteristiche stesse di quella terra, le sue colline e valli, le sue sorgenti e i suoi fiumi, potevano essere messe a confronto con altre terre, in particolare l'Egitto, dove prevalevano condizioni ecologiche diverse. La fertilità naturale della terra d'Israele era un segno di elezione speciale. Affinché tali condizioni fossero mantenute, tuttavia, Israele doveva vivere la sua vita nel paese come stabilito da Yahweh, e ciò significava vivere separatamente dalle nazioni circostanti, secondo il filone dominante nella storia a più livelli di Israele, quella del Deuteronomista e il racconto della storia di Israele che il suo punto di vista teologico aveva generato.

La questione che desideriamo esplorare in questo Capitolo, quindi, è: come si rapportava Gesù alla speciale elezione di Israele così come questa si era espressa nelle storie di conquista e occupazione del paese? Poiché la Galilea faceva parte di quella terra e nel corso dei secoli aveva sofferto per mano di diverse potenze imperiali invaditrici, è importante indagare sul modo in cui la Galilea in particolare è stata rappresentata come parte del patrimonio nazionale. Nelle diverse tradizioni che erano in circolazione nel I secolo, e quindi presumibilmente disponibili anche a Gesù, quali aspetti della partecipazione galilea al progetto di "tutto Israele" erano presenti e come questi influirono sulla successiva comprensione della regione nel sviluppare versioni "canoniche" e dissidenti che plasmarono l'atteggiamento del primo secolo nei confronti della nozione di galileianità? In che modo gli stessi galilei si relazionavano a queste storie fondamentali nel I secolo, e Gesù portò nuove prospettive su ciò che potevano significare per un'identità galilea, specialmente alla luce della sua visione di Dio e della terra incentrata sulla creazione, che è stato suggerito?

Un approccio a queste domande è stato quello di tentare di tracciare la storia dell'insediamento della Galilea, almeno dall'VIII secolo, al fine di comprendere la mescolanza etnica galilea dei tempi di Gesù. In una serie di importanti articoli scritti tra il 1935 e il 1954, lo studioso tedesco Albrecht Alt ha tracciato la storia amministrativa della Galilea dal periodo assiro a quello romano (VIII-I secolo A.E.V.), prestando particolare attenzione agli spostamenti della popolazione nella regione nel corso dei secoli.[1] L'esito della conquista assira di quello che allora era il regno settentrionale di Israele, distinto dal regno di Giuda a sud, si dimostrò di fondamentale importanza per la visione d'insieme proposta da Alt, e il dibattito sul suo impatto influenza ancora oggi gli studi galilei. Era opinione di Alt che nella prima ondata dell'assalto assiro, quella di Tiglatpileser III nel 734 A.E.V., la popolazione generale della Galilea ne fosse uscita relativamente indenne, con la deportazione solo dell'élite al potere. Al contrario, un secondo attacco di Salmanassar V, circa dodici anni dopo, che si concentrò sulla Samaria, capitale del regno, provocò una deportazione generale della popolazione e un reinsediamento nell'area da parte di persone di origine non israelita. Nel giungere a questa conclusione Alt fu colpito dai contrastanti resoconti biblici delle due invasioni ({{passo biblico2|2Re|15:29,17:5-8:24). Queste fortune contrastanti delle due parti del regno settentrionale gettarono le basi per le loro relazioni separate e spesso aspre in seguito. La popolazione della Galilea mantenne la sua forte identità israelita nel corso dei secoli e quando si presentò l'occasione sulla scia delle conquiste asmonee del II secolo A.E.V., si unirono volentieri alla nazione degli ebrei come correligionari con i loro cugini meridionali in Giudea, mentre gli abitanti della Samaria si svilupparono in modo del tutto separato, come riconoscono gli scritti successivi, inclusi i vangeli.

L'idea di una continua presenza israelita in Galilea è stata sviluppata in una direzione diversa da Richard Horsley nel suo importante studio sulla Galilea.[2] A suo avviso, i galilei avevano sviluppato nel corso dei secoli usanze, pratiche e rituali propri e indipendenti che erano piuttosto distinti da quelli dei giudei, che nel frattempo avevano subito il trauma dell'esilio in Babilonia e della successiva restaurazione. Nel corso dei secoli diverse proposte meridionali furono respinte. Pertanto, nel periodo compreso tra il crollo del regno seleucide e l'ascesa di Roma nel Mediterraneo orientale (II/I secolo A.E.V.), i giudei furono in grado di espandere il proprio territorio a nord sotto i sovrani indigeni Asmonei, colonizzando efficacemente la Galilea e imponendo ai nativi i costumi e le pratiche del Tempio di Gerusalemme. Il fatto che ciò fu fatto in nome della rivendicazione dell'eredità nazionale non minimizzava l'imposizione che rappresentava sui nativi israeliti della Galilea. La loro "piccola tradizione" fu avvolta dalla "grande tradizione" emanante da Gerusalemme, nonostante le resistenze, a volte tacite, a volte palesi, dei galilei, soprattutto quando gli effetti furono sperimentati a livello sociale e politico, in quanto distinto da quello religioso. In questa corrente sotterranea di conflitto, esacerbata dalla presenza del potere imperiale romano, entrò Gesù, quando iniziò il suo ministero in Galilea, dopo l'arresto di Giovanni.

In uno studio precedente anch'io ho adottato la posizione di Alt di una continua presenza israelita in Galilea, ma successivamente mi sono sentito costretto ad abbandonarla per ragioni che ho sviluppato in dettaglio altrove, e che saranno delineate di nuovo più avanti in questo Capitolo.[3] In breve, le crescenti testimonianze archeologiche della regione, basate su indagini e scavi stratificati in vari siti, non supportano l'idea di una continua presenza israelita nella regione. In effetti indica direttamente una rottura nel modello insediativo in molti siti della bassa Galilea nel VII/VI secolo A.E.V. con segni di un aumento del numero di insediamenti comparsi nel periodo persiano, cosa che continuò senza sosta fino al periodo bizantino. Questa evidenza ha a sua volta richiesto una rilettura dei resoconti biblici della conquista assira, nel contesto di ciò che ora sappiamo dai loro documenti sulle loro politiche imperialiste più in generale.[4]

Questi approcci all'identità galilea nel corso di una lunga storia presuppongono che la Galilea fosse in effetti completamente israelita fin dall'inizio. Tuttavia, come accennato nel Capitolo iniziale, la discussione più recente sulle origini israelite sembrerebbe mettere seriamente in discussione tale ipotesi. Le differenze tra le testimonianze provenienti dalle indagini archeologiche da un lato e le letture più critiche dei resoconti letterari della conquista e dell'insediamento dall'altro, hanno messo in discussione i presupposti di un simile approccio. C'è stato un cambio di paradigma virtuale nei recenti studi sul Pentateuco, con l'attuale tendenza accademica che ha optato per una data tarda nel periodo persiano per il suo completamento. Pertanto, l'enfasi è meno sulla riscoperta delle tradizioni precedenti attraverso la critica delle fonti e della redazione, e più sulla prospettiva ideologica della narrativa complessa finita. La ricerca dell'Israele "storico" dietro i testi ha lasciato il posto alla ri-figurazione dell'Israele "costruito" all'interno del testo. In altre parole, i resoconti delle narrazioni patriarcali e della conquista e dell'insediamento nel paese devono essere letti principalmente come affermazioni ideologiche di Giuda postesilico piuttosto che come reminiscenze storiche del periodo dei Giudici e della prima monarchia. Come per tutti questi cambiamenti di paradigma, c'è il pericolo che il pendolo possa oscillare troppo nella direzione opposta, e alcuni recenti dibattiti piuttosto aspri, specialmente riguardo alle origini di Israele, sono sintomatici a questo proposito.[5] Tuttavia, per gli scopi attuali del tentativo di comprendere l'"Israele" che Gesù e i suoi contemporanei avrebbero potuto immaginare sulla base di quelle narrazioni principali, non c'è, per fortuna, bisogno di entrare in tali dibattiti. Ammesso infatti che – prescindendo dal tema delle tradizioni storiche di epoca anteriore – le narrazioni bibliche siano nella loro forma attuale una produzione di provenienza giudea postesilica, una riconsiderazione di quelle narrazioni, con un occhio alle questioni che come conosciamo da altri scritti la comunità postesilica in Giuda stava affrontando, può essere abbastanza rivelatrice.

Galilea e la Lega delle Dodici Tribù

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A causa dell'influenza di Martin Noth e Albrecht Alt, gli storici del primo Israele hanno considerato assiomatico che la nozione di anfizionia, o lega sacra di tribù unite attorno a un santuario comune, conosciuto dalla Grecia e dall'Italia, fosse il modello migliore per comprendere la lega delle dodici tribù dell'antico Israele. Tuttavia, anche prima della recente svolta negli approcci al Pentateuco, alcuni studiosi avevano cominciato a vedere le difficoltà di questa teoria, dato che il modello stesso era basato su dati di un periodo molto successivo e in Israele non esisteva un santuario centrale intorno al quale si univano le tribù che costituivano "tutto Israele".[6] È, tuttavia, notevole la coerenza con cui viene mantenuto il numero dodici, anche quando i nomi delle tribù possono variare. Pertanto, il suo significato dovrebbe essere giudicato non sulla base della descrizione della realtà storica dell'Israele premonarchico, ma piuttosto sul fatto che è simbolico del modo in cui è stato mantenuto un senso di "tutto Israele". È questa funzione di esprimere l'ideale piuttosto che l'effettivo che rende la nozione del raduno delle tribù un aspetto così costante del pensiero della restaurazione, non solo nella Torah e nei Neviìm, ma in un ampio spettro degli scritti del primo ebraismo (Tobia, Siracide, Salmi di Salomone, Testamenti dei Dodici Patriarchi, Rotolo della Guerra di Qumran, Nuovo Testamento, Baruc siriano, Quarto Esdra) come anche gli scritti rabbinici.

Galilea, che letteralmente significa "il cerchio", compare in greco come nome della regione settentrionale di Israele relativamente tardi nei testi amministrativi tolemaici del III secolo A.E.V. L'equivalente ebraico, ha-galil (הגליל), ricorre come designazione di territori più piccoli nelle immediate vicinanze di due centri del nord, Qadesh e Cabul (Giosuè 20:7; 1 Re 9:11), ma non per l'intera regione. Questo è di solito indicato con designazioni tribali, in particolare Zebulon e Nephtali (Isaia 8:23; 2 Re 15:29), e l'espressione galil ha-goyim/"Galilea dei gentili" sembra riferirsi ad aree non israelite, infine applicato all'ethos pagano dell'intera regione (1 Maccabei 5:15). Questa considerazione richiede un'indagine più approfondita dei due testi principali che trattano delle tribù che sono incorporati nelle narrazioni del Pentateuco, Genesi 49 e Deuteronomio 33, le cosiddette "Benedizioni di Giacobbe" e "Benedizioni di Mosè". Un confronto tra i due resoconti suggerisce prospettive diverse sull'identità di Israele, che ora sono state incorporate nella narrativa principale delle sue origini. Le impostazioni e la forma delle due composizioni poetiche differiscono. Le Benedizioni di Giacobbe sono pronunciate come discorso di addio ai suoi figli quali rappresentanti delle tribù, mentre il testo mosaico è sotto forma di una preghiera a Yahweh nel contesto dell'assemblea delle tribù unite davanti a un potente re di Jeshurun, un insolito e nome raro per Israele (Deuteronomio 32:15). Entrambi i testi mostrano i segni di una storia compositiva movimentata con una commistione di aforismi, preghiere e affermazioni, cosicché la descrizione di queste due poesie come "Benedizioni" è poco appropriata.[7] Mentre entrambi condividono una visione della fertilità della terra, come discusso nel Capitolo precedente, descrivendo in particolare il territorio di Giuseppe in termini simili all'Eden (Genesi 49:22-26; Deuteronomio 33:13-18), la prospettiva teologica è molto diversa quando sono visti nei rispettivi contesti dei libri della Genesi e del Deuteronomio.

Le benedizioni delle tribù

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12 Tribù in Israele

Il testo di Giacobbe descrive le caratteristiche di ciascuno dei figli, e le quattro tribù settentrionali sono rappresentate favorevolmente, sebbene la posizione di Zabulon, vicino a Sidone, sia insolita in vista della descrizione più dettagliata del suo territorio nella narrativa della conquista (Giosuè 19:10-16), dove è collocato più centralmente nella bassa Galilea. È sorprendente che Yahweh non appaia dappertutto e si presume che la parola di Giacobbe porti alla realizzazione delle benedizioni o delle maledizioni delle diverse tribù. Mentre si riconosce il ruolo speciale di Giuda dal quale "lo scettro non si dipartirà" (Genesi 49:10 s.), di particolare interesse dal punto di vista prospettico dell'intero libro è il trattamento negativo sia di Levi che di Simeone. Sono entrambi condannati per il loro comportamento violento, chiaro riferimento al loro ruolo nella strage degli uomini di Sichem (che è trattato come individuo e come città nel racconto di Genesi 34), come vendetta per lo stupro di Dina, loro sorella. In quell'incidente Hamor, padre di Sichem, propose di combinare matrimoni tra il suo popolo e la progenie di Giacobbe. I termini della sua offerta sono particolarmente generosi: "Abiterete con noi e il paese sarà a vostra disposizione; risiedetevi, percorretelo in lungo e in largo e acquistate proprietà in esso" (Genesi 34:10). I figli di Giacobbe si accordano a condizione che i sichemiti si sottopongano alla circoncisione, cosa che fanno volentieri, affinché diventino "un solo popolo" (v. 22). Tuttavia, Simeone e Levi rifiutarono l'accordo e massacrarono tutti i maschi della città per vendicare la sorella che era stata disonorata. Questo atto moralmente discutibile non può essere giustificato dall'autore della Genesi, e così le due tribù sono maledette nell'addio di Giacobbe (Genesi 49:5-7). Il loro peccato fu quello di rifiutare la possibilità di condividere la terra con i suoi abitanti che erano disposti a condividerla con loro, fino al punto di sottoporsi al rito della circoncisione per raggiungere l'unità dei due popoli. Questo comportamento etnocentrico dei due figli in questione, nonostante i loro sforzi per giustificarlo in termini di ripristino dell'onore della sorella, va contro tutta l'enfasi del racconto di Genesi con la sua visione aperta e universalista, sintetizzata nella promessa ad Abramo e ripetuta a Isacco e Giacobbe, che percorre tutto il libro come un ritornello: "In te saranno benedette (o benediranno se stesse) tutte le nazioni della terra" (Genesi 12:2,18:18,22:18,26:4,28:14).

La preghiera/discorso di Mosè a nome delle tribù viene eseguito davanti a un potente re di Jeshurun nel contesto dell'assemblea delle tribù unite. L'apertura offre un prologo storico che ricorda il Sinai e l'amore di Dio per il suo popolo, "tutti i suoi consacrati" (Deuteronomio 33:2-5). La conclusione è rivolta al re di Jeshurun, lodando il dio guerriero:

« 26 Nessuno è pari al Dio di Jeshurun, che cavalca sui cieli per venirti in aiuto e sulle nubi nella sua maestà. 27 Rifugio è il Dio dei tempi antichi e quaggiù lo sono le sue braccia eterne. Ha scacciato davanti a te il nemico e ha intimato: Distruggi! 28 Israele abita tranquillo, la fonte di Giacobbe in luogo appartato, in terra di frumento e di mosto, dove il cielo stilla rugiada. 29 Te beato, Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore? Egli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo. I tuoi nemici vorranno adularti, ma tu calcherai il loro dorso. »
(Deuteronomio 33:26-29)

L'enfasi iniziale sulle tribù unite sembra in contrasto con ciò che segue, dove viene espresso un desiderio per la sopravvivenza di Ruben, e allo stesso modo una richiesta affinché Giuda "sia restituito al suo popolo" (vv. 6-7). Quest'ultima affermazione suggerisce una prospettiva settentrionale, dove si ritiene che Giuda, non le tribù settentrionali, sia andato in scisma. Al contrario, tutte le tribù settentrionali sono ritenute benedette, anche se nel caso di Zabulon (insieme a Issachar) si percepisce una nota di avvertimento. (cfr. Mappa a destra). Devono prendersi cura del "loro monte, dove offrono sacrifici legittimi" (vv. 18-19), un riferimento, sembrerebbe, al dovere di rimuovere il culto cananeo dal Monte Thabor (cfr. Giosuè 19:12,22,34), e condividendo i ricchi prodotti dei loro territori per adorare Yahweh (cfr. Salmi 68:27). Anche Aser e Neftali ricevono una menzione favorevole: il primo deve immergere i piedi nell'olio, e il secondo è sazio delle benedizioni di Yahweh, poiché il Mare di Gennesareth fa parte del suo dominio (vv. 23-24), mentre Dan è descritto come "un cucciolo di leone, che balza da Basan" (v. 22). La descrizione conclusiva di Dio è di tono decisamente deuteronomico, con l'accento sulla distruzione degli abitanti originari, sulla dipendenza del re dalla protezione divina e sul dono della terra agli Israeliti (vv. 27-29). In diretto contrasto con il discorso di Giacobbe, Levi, non Giuda, è ora la tribù favorita. Il suo ruolo è insegnare la legge e farsi carico dei riti cultuali (vv. 8-11), e quindi la sua assenza dalle descrizioni territoriali dei territori tribali nella storia deuteronomica che seguirà in Giosuè.

Immagini contrastanti di "Tutto Israele"

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Dietro questi due discorsi attribuiti a Giacobbe e a Mosè si possono individuare due diverse concezioni sia della natura di Yaweh che del simbolismo della terra. Da un lato le benedizioni a Mosè si adattano bene all'ideale teocratico secondo cui Yahweh possiede la terra e l'ha concessa a Israele, ma il dono è subordinato all'osservanza da parte di Israele della legge pattizia, come discusso nel Capitolo precedente. Come proprietario della terra, Yahweh può scacciare tutte quelle altre persone che l'avevano abitata, ma che non vi hanno diritti. In particolare i loro culti non hanno valore davanti a Yahweh e gli israeliti devono evitare qualsiasi contaminazione con la costruzione di idoli, come gli altri popoli che vi avevano vissuto (Deuteronomio 4:25,6:14,7:4,8:19,11:6). La terra stessa non è considerata santa di per sé, ma devono adorare Yahweh solo nel luogo in cui ha scelto di far dimorare il Suo nome (Deuteronomio 12:5,14,16:11,21). Il nome di questo santuario in realtà non è menzionato, anche se ovviamente la comunità cultuale di Gerusalemme nel periodo persiano sosteneva che si riferisse al loro santuario. Questa centralizzazione del culto contrasta con il racconto della Genesi in cui Dio può essere incontrato in vari luoghi diversi e con nomi diversi.[8]

Il discorso di Giacobbe presenta una comprensione del tutto diversa della terra, che riflette lo spirito generale di Genesi e la sua visione universalista, rappresentata dalle figure di Adamo e Abramo. Ai figli di Giacobbe viene promesso un lotto in questa terra dove Yahweh-Elohim ospita molti popoli ed è conosciuto con nomi diversi: El, El-Olam, El-Elyon, El-Shadday. In vari punti tutti questi nomi si identificano con Yahweh, che è colui "che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (Genesi 15:7), e che può apparire ad Abramo e rassicurarlo circa il suo compimento della promessa a in qualsiasi momento (Genesi 12:7,13:14,15:1,17:1,18:1,22). Yahweh può apparire in vari siti nella terra di Canaan dove i Patriarchi costruiscono altari, contrassegnando così la terra come santa, ma non centralizzando la presenza di Dio in nessun luogo. La promessa di una quota della terra appare del tutto incondizionata e questo si riflette nel discorso di Giacobbe ai suoi figli. La cosa più sorprendente è il fatto che, come ha sottolineato Norman Habel nella sua lettura altamente stimolante del ciclo di Abramo in Genesi (Genesi 11:31-23:30), il Patriarca ottiene un punto d'appoggio nel paese, non per militarismo ma per negoziazione e accordo legale, nell'acquisto di un campo dall'ittita, Ephron, come luogo di sepoltura per sua moglie Sarah (cap. 23).[9]

Yahweh non è un Dio guerriero che scaccia le altre nazioni come nel Deuteronomio. Al contrario, viene fornito un lungo elenco di popoli che vivevano nel paese nel contesto dell'istituzione di un solenne trattato con Abramo e non vi è alcun suggerimento che questi debbano essere conquistati o scacciati (Genesi 15:7-21). L'intenzione di Dio per Abramo è dichiarata in modo piuttosto criptico: Abramo deve diventare una grande nazione, e "in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra (eretz)" (18:18). L'armonia etnica in una terra condivisa, piuttosto che la pulizia etnica, è ciò che è previsto. Abramo ha buoni rapporti con tutti i popoli del paese, che viene ripetutamente descritto come "la terra di Canaan". Ciò include i temibili nemici di Israele, i Filistei, il cui re, Abimelech, mostra una straordinaria generosità ad Abramo offrendogli un luogo di residenza nella sua terra "dovunque ti piace" (20:15). È per questa prospettiva tollerante e pacifica del libro nel suo insieme che Levi, celebrato da Mosè nel racconto deuteronomico delle benedizioni, è condannato, insieme a Simeone, per il loro violento atto di vendetta contro gli uomini di Sichem, come discusso in precedenza.

Forse l'aspetto più significativo della carriera di Abramo dal punto di vista del ministero di Gesù è che, anche se acquisisce proprietà, quello di Abramo è uno stile di vita essenzialmente itinerante, mentre continua a viaggiare attraverso la terra come un ger, o residente straniero (20:1,21:3,23:4). Egli è invitato a percorrerla in lungo e in largo:

« 14 Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l'oriente e l'occidente. 15 Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. 16 Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. 17 Alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a te. »
(13:14-17)

Questo avviso troverà un'elaborazione molto più dettagliata in un secondo momento nell’Apocrifo della Genesi da Qumran. Lì, Abramo in una visione notturna è rappresentato mentre viaggia dal Grande Mare all'Eufrate a est, e dalle montagne del Tauro a nord al Mar Rosso e al fiume Gihon a sud, prima di tornare per fare un altare al "Dio altissimo" (El Elyon), essendo stato raggiunto da tre fratelli amorrei che erano "suoi amici".[10]

Questi due resoconti contrastanti su come deve essere costruito "tutto Israele" corrispondono a due diverse tendenze del periodo del Secondo Tempio, per quanto riguarda la vita in Giuda. La natura condizionale del dono della terra diede origine a un atteggiamento etnocentrico nei confronti dei non-israeliti in generale e all'evitamento di influenze culturali esterne, mentre la prospettiva inclusiva e più tollerante del racconto di Genesi riflette l'ambiente cosmopolita generato da gli imperi persiano e greco in quel periodo. Tuttavia, nella redazione finale del Pentateuco questa visione più aperta viene in una certa misura cooptata come prefazione o preistoria ai filoni deuteronomici e sacerdotali dominanti. Il Dio del roveto ardente che li ha introdotti nel paese viene ripetutamente identificato con il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe (Esodo 3:15; Deuteronomio 26:4-10; Giosuè 24:2-13). Tuttavia, il fatto che due diverse prospettive sulla federazione tribale siano tollerate e vagamente fuse in questo modo, suggerisce che nessuna visione unitaria di ciò che costituiva "tutto Israele" era stata in grado di imporsi pienamente. Il processo di definizione di tale entità era ancora in fase di negoziazione quando il Pentateuco raggiunse la sua fase finale di composizione. La Persia, la Grecia e Roma sostituirono successivamente l'Egitto, l'Assiria e la Babilonia nel fornire i parametri e le politiche all'interno dei quali l'ideale di "tutto Israele" doveva trovare espressione. L'ideale delle dodici tribù forniva un simbolo dell'unità perduta del passato nelle narrazioni fondamentali del Pentateuco. Tuttavia, come questo ideale potesse essere realizzato, era ancora da decidere.

Galilea e narrazioni di conquista e insediamento

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Se Yahweh possiede la terra, allora solo lui è responsabile di decidere chi vi abiterà, secondo il punto di vista del Deuteronomio, una prospettiva che viene mantenuta nel racconto noto come Storia Deuteronomica (da [[w:Libro di Giosuè|Giosuè| a 2 Re). Le narrazioni della conquista e dell'insediamento delle tribù sono di particolare interesse per questo studio, con particolare attenzione a come se la cavarono le tribù settentrionali, poiché dovrebbero indicare i problemi incontrati nel periodo post-esilico e le configurazioni del futuro che si stava prospettando. Il ruolo di Yahweh quale conquistatore si riflette nella "guerra santa" che intraprende per conto di Israele, come riportato nella prima metà del Libro di Giosuè (Giosuè 1-12), mentre nella seconda metà, occupandosi dell'insediamento (Giosuè 13-24), ci si aspetta che le tribù rivendichino la loro terra assegnata. Non tutti hanno lo stesso successo, e Giosuè li rimprovera in un'assemblea generale a Silo: "Fino a quando trascurerete di andare ad occupare il paese, che vi ha dato il Signore, Dio dei padri vostri?" (Giosuè 18:1-3). Il libro termina con un'altra assemblea di tutto Israele, questa volta a Sichem, dove Giosuè avverte gli Israeliti che vivranno al sicuro nel paese solo se elimineranno dèi stranieri (Giosuè 24:20,23,27). In contrasto con questo racconto della conquista e dell'insediamento, quello dei Giudici dipinge un quadro più realistico delle difficoltà incontrate dagli Israeliti e della continua lotta con gli abitanti cananei del paese (Giudici 1-2,5). Una breve considerazione di ciascuna di queste questioni separatamente aiuterà nella discussione dei problemi che l'identità ebraica deve affrontare nella Galilea dei giorni di Gesù.

Fallimenti delle tribù

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Phoenicia & Palestine

Una descrizione dettagliata dei confini tribali e delle principali città in ciascun territorio è data in Giosuè 13-20. L'intenzione generale di queste descrizioni, che senza dubbio attingevano a distretti amministrativi esistenti e ai loro centri, probabilmente risalenti al periodo della monarchia unita (cfr. 2 Samuele 24:1-9; 1 Re 4:7-19), doveva riaffermare l'idea della conquista totale e dell'unità di tutto Israele all'interno del suo territorio assegnato nella terra di Canaan. Tra le descrizioni dei lotti tribali, quella di Giuda riceve la trattazione più estesa, come ci si aspetterebbe da un documento redatto da una prospettiva meridionale. È particolarmente degna di nota la rappresentazione di Giuda che conquista la pianura filistea, così che il suo confine occidentale diventa quello del Mar Grande, cioè il Mediterraneo (Giosuè 15:1-12). Questa è chiaramente un'immagine idealizzata poiché rappresenta un territorio più grande di quello mai rivendicato per Davide o Salomone, anche se il Mar Grande è menzionato più di una volta altrove come i limiti occidentali dell'Israele ideale. Due aspetti del trattamento delle tribù settentrionali sono significativi. Da un lato vi è una dettagliata descrizione del confine tra il territorio di Aser e i territori fenici di Tiro e Sidone (Giosuè 19:28-30), e dall'altro una striscia di territorio a nord che va da Sidone ai contrafforti dell'Hermon è elencato tra "i territori ancora da soggiogare" (Giosuè 13:1-7, specialmente vv. 4-5) (cfr. Mappa a destra).

Come già accennato, due descrizioni dei confini della terra di Canaan nella sua massima estensione sono fornite in modo del tutto indipendente dai confini tribali. Nel nord questo confine è descritto come se andasse dal Mar Grande al monte Hor, e da lì al passo di Hamath, e il confine terminerà a Zedad (Numeri 34:7-9; Ezechiele 47:15). La linea di questo confine corrisponde bene con la descrizione più dettagliata dei limiti settentrionali della "terra rimanente" e dei popoli non ancora scacciati, nel racconto dei territori ancora da sottomettere (Giosuè 13:4-5; cfr. Giosuè 11:8; Giudici 3:3). Senza entrare in una discussione sulla topografia dettagliata di questi passaggi, è chiaro che ciò che è previsto è un confine che include la valle del fiume Litani mentre scorre a sud dal Libano, girando a ovest per entrare nel mare tra Sidone e Tiro.[11]

Questa striscia di territorio non conquistato nel nord avrebbe dovuto essere occupata da una delle tribù settentrionali, idealmente la tribù di Dan, a cui fu assegnato il territorio intorno all'Hermon dopo che non era riuscita a stabilirsi nel sud secondo Giudici 1:34-35, ma non viene suggerita una tale estensione dei suoi confini.[12] Un'altra possibilità per rivendicare questo territorio per gli Israeliti sarebbe stata la tribù di Neftali. Curiosamente, tuttavia, non vi è alcuna menzione di un confine settentrionale per questa tribù, anche se viene fornita una descrizione dettagliata per tutti gli altri lati (Giosuè 19:32-39), e diversi insediamenti che ci si sarebbe aspettati di menzionare, mancano dall'elenco delle città tribali. Queste sono intriganti omissioni dalla descrizione del territorio di Neftali e delle sue città in Giosuè. Indipendentemente da quale tribù – Dan o Neftali – si intenda, le implicazioni da una prospettiva meridionale sembrano essere che, a differenza di Giuda, le tribù galilee non solo non erano riuscite ad occupare l'intero territorio loro assegnato, ma non erano nemmeno riuscite a stabilire alcun confine tra loro e gli altri gruppi etnici della regione.

La situazione sul lato occidentale dei territori tribali settentrionali differiva da quella sul fronte settentrionale. Viene data una descrizione dettagliata del confine tra la tribù di Aser e le città fenicie (Giosuè 19:29-30). È interessante notare che qui non si fa menzione del Mar Grande, anche se altrove è indicato come il confine occidentale della terra ereditata di Canaan, come abbiamo appena visto. Sebbene la questione sia dibattuta, è probabile che né Tiro né Sidone siano mai state all'interno del territorio di Aser, ma fossero certamente considerate parte del paese di Canaan, e quindi appartenessero alla categoria della "terra rimanente".[13] Perché allora il resoconto dettagliato del confine tra Aser e questa regione, in contrasto con il caso di Neftali appena discusso? La risposta sembrerebbe essere che questo particolare confine è rimasto una questione molto delicata nel corso della storia ebraica, come vedremo in seguito. Questo continuo centro di attenzione nel corso dei secoli suggerisce che c'era una maggiore pressione, e quindi, una maggiore preoccupazione a mantenere la separazione etnica in questa regione che nell'area di Hermon, indipendentemente da quali immagini ideali della terra potessero dettare. Le implicazioni di questo suggerimento per i viaggi di Gesù nella regione richiederanno un'ulteriore discussione.

Città cananee nella terra assegnata

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Se, quindi, la questione della "terra che rimane" in Giosuè può essere plausibilmente intesa come una critica da un punto di vista della Giudea al fallimento delle tribù del nord nel mantenere i confini assoluti della terra come Yahweh li aveva stabiliti, il resoconto in Giudici dà un risalto ancora maggiore al timore di una contaminazione culturale nel nord.[14] Sebbene il resoconto interrompa la narrazione della conquista, l'effetto complessivo è quello di suggerire una versione più realistica, simile alla storia, dei problemi incontrati dagli Israeliti. Nel caso di Giuda, ad esempio, in contrasto con l'affermazione di Giosuè secondo cui il confine occidentale si estendeva fino al Mar Grande, viene riconosciuta la sua incapacità di scacciare i Filistei dalla pianura, a causa della loro superiore abilità militare con il carro di ferro. Tuttavia, "Il Signore fu con Giuda" nel conquistare la regione montuosa a sud (Giudici 1:8-21, specialmente v. 19). Delle quattro tribù settentrionali, Aser riceve le critiche più serie, per non aver cacciato gli abitanti di una lunga lista di luoghi importanti. Come nel caso della descrizione del confine di Aser discussa in precedenza, questa tribù sembra aver attirato un'attenzione speciale, suggerendo difficoltà nel mantenere un'identità separata nella regione. Ciò spiegherebbe anche la censura che la tribù, insieme alla tribù di Dan, riceve nel Cantico di Debora per non aver risposto alla chiamata alle armi contro il re cananeo di Hazor, Iabin. Entrambe le tribù sembrano aver trovato i benefici dell'attività marittima troppo allettanti, implicando così stretti contatti con i Fenici marinari (Giudici 5:17). Al contrario, sia Zabulon che Neftali sono lodati per la loro alacrità nell'affrontare il nemico, fornendo leader nella battaglia (Giudici 5:14,18). Tuttavia, entrambe le tribù sono nominate tra coloro che non riuscirono a scacciare completamente i Cananei dai loro territori, più o meno seguendo una formula fissa, suggerendo che quei Cananei che rimasero furono ridotti ai lavori forzati (Giudici 1:30,33).

Gesù e la Galilea israelita

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Tre questioni interconnesse che emergono da queste considerazioni sui problemi incontrati dalle tribù settentrionali sembrano essere cruciali in termini di successive preoccupazioni giudaiche sulla Galilea. Queste sono: l'estensione del territorio israelita nel nord e le sue relazioni con i popoli non-israeliti; la minaccia della continua presenza cananea nei territori tribali e l'attrattiva dei legami commerciali con i fenici. È solo con l'ascesa degli Asmonei come forza politica nativa dalla metà del II secolo A.E.V. che è possibile vedere come l'ideologia israelita della terra assegnata e del suo insediamento cominciò a manifestarsi chiaramente. La situazione politica dei secoli precedenti, prima sotto i persiani e poi sotto i greci, non aveva lasciato spazio all'autodeterminazione giudaica di esprimersi. Tuttavia, la disgregazione del regno seleucide in Siria fornì una tale opportunità e i giudei dovettero consegnare i resoconti del territorio ancestrale e poterono attingevi per rafforzare il loro diritto a reclamarlo. L'autore del Primo libro dei Maccabei esprime chiaramente l'ideologia di questa posizione attribuendo a Simone, il terzo dei fratelli Maccabei, la seguente affermazione:

« Non abbiamo occupato terra straniera né ci siamo impossessati di beni altrui ma dell'eredità dei nostri padri, che fu posseduta dai nostri nemici senza alcun diritto nel tempo passato. »
(1 Maccabei 15:33)

Anche se il dominio asmoneo durò meno di 100 anni, si risvegliò un desiderio di indipendenza ebraica dalla dominazione straniera che alla fine avrebbe portato a due scontri sanguinosi e disastrosi con il potere imperiale romano, le rivolte del 66-7 e del 132-35 E.V. I dibattiti sull'identità nazionale si intensificarono, come risulta dalla letteratura dell'epoca, in particolare sulla questione del territorio nazionale.[15] Diversi e contrastanti orientamenti di opinione riguardo a come Israele doveva comportarsi tra le nazioni, si fecero allora più stridenti. La narrazione delle origini di Israele ebbe un ruolo in questi dibattiti, cosa che si riflette per esempio nella riscrittura di alcuni aspetti di quella storia in libri come Giubilei, I Testamenti dei Dodici Patriarchi e l’Apocrifo di Genesi. Segnali di un settarismo in via di sviluppo sono stati rilevati già nel periodo persiano, e non è un caso che una volta sorta la possibilità di autodeterminazione questi emergano rapidamente in piena luce, con la menzione dei Farisei, dei Sadducei e degli Esseni per la prima volta nelle nostre fonti (Ant 13.171-173). È all'interno di questa matrice di dibattito e dissonanza che segnò l'ebraismo del Secondo Tempio di epoca romana che dobbiamo collocare il movimento di Gesù con la sua posizione distintiva rispetto alle grandi questioni del tempo, basata sulla comprensione e sul recupero da parte del suo fondatore di alcuni aspetti del patrimonio nazionale.

Gesù e la terra restante

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Nel Capitolo precedente la visita di Gesù nella regione dell'alta Galilea è stata esaminata alla luce dell'importanza ecologica dell'Hermon per tutta la Galilea. C'erano altre ragioni, più tangibilmente storiche, per cui avrebbe potuto voler visitare anche questa regione. Come parte della catena dell'Anti-Libano, l'Hermon rientra bene nei confini del grande Israele, come previsto in varie descrizioni bibliche dei confini ideali del paese. (Oltre a Numeri ed Ezechiele già citati, cfr. 1 Re 8:65; 1 Cronache 13:5; 2 Cronache 7:8; Amos 6:14). Come profeta interessato alla restaurazione di Israele, sarebbe stato naturale per lui viaggiare, come Abramo, attraverso la Terra Promessa. Condivideva il punto di vista di Abramo sui rapporti con altri popoli nella terra (eretz)?

Quando si discute della possibilità di un viaggio di Gesù al nord, di solito è in relazione al suo recarsi in un territorio gentile. Gli studiosi sono riluttanti ad attribuire una tale mossa al Gesù storico, tuttavia, preferendo discutere le informazioni in relazione all'interesse di Marco nel collegare la missione gentile dei suoi giorni con Gesù.[16]

Ci sono, tuttavia, buone ragioni per cui qualcuno, operando all'interno dei parametri delle preoccupazioni sull'identità ebraica, avrebbe potuto desiderare di recarsi nella regione. Sappiamo che c'erano ebrei che vivevano a Cesarea di Filippo e in Siria più in generale, alla vigilia della prima rivolta, i quali, se si deve credere a Flavio Giuseppe, erano interessati a ricevere olio che era stato prodotto entro i confini di Eretz Israel, come questi erano a loro noti all'epoca (Vita, 74-75; Guerra 2.592). Sulla base dell'allineamento di Gesù con Giovanni il Battista nel mantenere le distanze dai "palazzi reali" e da coloro che vi abitavano (Matteo 11:15), è altamente improbabile che abbia deviato da questa pratica durante una visita in Alta Galilea. Tuttavia, i villaggi ebraici nella regione sarebbero stati una questione diversa. Marco è meticoloso nel suggerire che Gesù operò nell'orbita delle città della regione – "i confini di Tiro", "il territorio di Gadara", "nel mezzo della Dekapoli" e "i villaggi di Cesarea di Filippo" – ma in nessuna delle città in questione. Nell'attribuire questi riferimenti "di quadro" alla redazione marciana, si presta poca attenzione alla loro accurata consapevolezza degli assetti amministrativi locali o delle tensioni urbano-rurali che suggeriscono.[17] Se Marco avesse avuto interesse a proiettare su Gesù la missione paolina ai gentili, ci si sarebbe potuto aspettare che lo rappresentasse in visita nei centri urbani, e non nei villaggi rurali.

Oltre a Flavio Giuseppe, ci sono altre prove letterarie di ebrei che vivevano nella regione. Diversi dibattiti rabbinici discutono la questione degli obblighi di decima sui prodotti che erano stati coltivati in Siria. "Chi acquista terra in Siria è come chi l'acquista nella periferia di Gerusalemme' (M. Hall 4.1), è il principio enunciato nell'accettare doni dalla Siria in contrasto con altre parti della Diaspora. Ai fini dell'osservanza della halakhah, la Siria era considerata parte della Terra d'Israele, cosa a cui sembra alludere anche Flavio Giuseppe quando parla della mescolanza dei due popoli a causa della vicinanza dei loro paesi (Guerra 7.43).[18] Chiaramente, la discrepanza tra i confini reali e quelli ideali del paese era evidente nel I secolo E.V., specialmente quando il paese confinava con la Siria.

Di interesse ancora più immediato, in considerazione dell'attenzione biblica sul confine tra il territorio di Aser e Tiro, è un elenco di luoghi negli scritti rabbinici risalenti al II secolo E.V., noto come la "Baraita dei Confini". Questo elenco mostra che i rabbini erano particolarmente interessati a stabilire confini esatti della terra ai fini delle osservanze religiose, con particolare attenzione a quel particolare confine. Nessuna città di confine è elencata per la regione di Banias/Cesarea di Filippo, e un villaggio del Passo di Ayun, un sito ben a nord di Cesarea nella Valle del Litani, è tra quelli abitati da gente "venuta da Babilonia", cioè da ebrei osservanti.[19] In contrasto, diversi luoghi nel territorio di Tiro sono elencati come "villaggi proibiti", nel senso che, secondo il giudizio dei rabbini, si trovavano al di fuori della terra santa ai fini delle osservanze halakhiche (cfr. Mappa supra). È difficile sapere se questi elenchi si riferiscano a situazioni storiche reali o se riflettano l'idealizzazione rabbinica della terra. Se così fosse, ci aspetteremmo che non ci sarebbe stato alcun cenno al territorio di Tiro, ma piuttosto che tutta l'area fino al Mediterraneo sarebbe stata ritenuta appartenente alla Terra d'Israele secondo i mandati biblici già discussi.

Indipendentemente dall'intenzione storica di questi elenchi, l'incidente riportato da Flavio Giuseppe riguardante gli ebrei di Cesarea di Filippo suggerisce che la questione dei confini corretti preoccupasse alcuni ebrei che vivevano nella regione di Cesarea nel I secolo. Il fatto che i rabbini abbiano continuato a discutere la questione in seguito mostra che essa era di particolare interesse all'interno di un'interpretazione di ciò che costituiva "tutto Israele". Non c'è nulla di storicamente inverosimile, quindi, nel suggerire che un viaggio di Gesù nella regione avrebbe potuto ben basarsi sulla sua preoccupazione "per queste pecore smarrite della casa di Israele", pur operando con una prospettiva diversa su ciò che costituiva l'Israele ideale. Le persone che vivevano nelle zone di confine avrebbero potuto benissimo sentirsi emarginate, persino escluse, alla luce di una comprensione prevalente di ciò che costituiva l'ebraicità. Dal punto di vista di Gesù essi vivevano entro i confini di Israele, come idealmente si intendeva, e anche loro dovevano essere rassicurati d'essere invitati a partecipare alla nuova "famiglia" che stava radunando per il banchetto con Abramo, Isacco e Giacobbe.

Due autori del primo periodo asmoneo possono illustrare come queste diverse visioni della restaurazione si esprimessero sulla dimensione territoriale dell'Israele restaurato in un momento di crisi, causato dal tentativo di Antioco Epifane di trasformare il culto di Yahweh a Gerusalemme in quello di Zeus. Primo Maccabei è scritto in stile eroico per onorare il successo dei fratelli Maccabei nel gettare le fondamenta di uno stato ebraico indipendente. La geografia delle varie campagne è di particolare interesse, poiché riflette un misto di ideale e di pragmatica nell'affrontare il nord, come parte della terra ereditata. Nella prima delle due incursioni contro il nemico seleucide, Gionata sconfisse Demetrio II nella piana di Hazor, sbaragliandolo fino alla roccaforte di Qadesh (1 Maccabei 11:63-74), il che significa che l'episodio avvenne ben entro i limiti politici di Galilea del tempo successivo. Nella seconda occasione, invece, Gionata procedette a bloccare Demetrio ad Amat, situata secondo tutti i racconti sul confine ideale, poi fece girare il suo esercito e si spinse fino a Damasco, "attraversando tutta la provincia". Ciò che le tribù settentrionali non erano riuscite a realizzare, Gionata, come un nuovo Giosuè, lo stava ottenendo con l'abilità militare in nome della rivendicazione della terra assegnata.

Frammenti del racconto di Eupolemo sui "Re d'Israele" sono stati conservati dallo scrittore cristiano Eusebio, permettendoci di discernere elementi dell'ideologia del "grande Israele" all'opera anche nella sua composizione. La prospettiva si basa sull'ideologia regale dei regni di Davide e Salomone come raffigurato in 2 Samuele e I Re. Descrivendo le conquiste di Davide, l'elenco dei popoli soggiogati comprende Assiri a Galadene (Gilead), Siri che abitavano nella regione dell'Eufrate, Iturei, Idumei, Nabatei e gli altrimenti sconosciuti Nabdei. Inoltre Souron, re di Tiro, fu costretto a pagare un tributo e fu stabilito un trattato di amicizia con Vaphres, re d'Egitto. Di conseguenza, Salomone, figlio di Davide, poté chiedere assistenza ai re di Tiro e d'Egitto per costruire il Tempio di Gerusalemme del "grande Dio, che fece il cielo e la terra". Questa deliberata revisione del racconto biblico, sebbene formulata in parte nei termini della cultura ellenistica prevalente, si basa sulle speranze di restaurazione ebraica. Il tempio è stato costruito per onorare "il grande Dio" (theos megistos), la stessa designazione dell'iscrizione trovata sul Monte Hermon, tuttavia la fede israelita nel potere creativo di Dio è affermata. L'approvvigionamento degli operai stranieri deve essere effettuato dalle "dodici tribù degli ebrei" (non Israele), una tribù per ogni mese, che possono anche essere designate in base alle diverse regioni della terra allargata: Galilea, Samaria, Moab, Ammon e Gilead. Non si fa menzione della "terra rimanente" ma ci possono essere pochi dubbi sul fatto che la fonte del pensiero dell'autore sia quella del grande Israele, che si estende fino all'Eufrate. Il fatto che l'elenco dei popoli conquistati includa alcuni dei vicini di Giuda nel II secolo – Iturei, Idumei e Nabatei – suggerisce che anche Eupolemo nutre la speranza che Israele possa ancora una volta governare le nazioni in una terra allargata.

Questi stralci di scrittori vicini al periodo dei Maccabei indicano che la nozione della "terra rimanente" era altamente pertinente al pensiero e alla legittimazione ideologica dell'espansione asmonea, sia che questa fosse basata sulla narrazione della conquista dei Giudici o sull'ideologia regale della monarchia davidica. La tensione tra l'ideale e il reale, che incontrò quel periodo assiale della storia di Israele, continuò nel periodo romano, come risulta dai vari scritti di Flavio Giuseppe. Anche lui ha una visione espansiva della terra di Israele nella sua descrizione dell'assegnazione originale (Ant. 1.134-142, 185, 2.194-195, 4.300). Allo stesso tempo è fin troppo ben consapevole dei confini effettivi della Galilea di cui fu nominato governatore per conto del consiglio rivoluzionario nel 66 E.V., nonché della presenza ostile che si annidava al di fuori di quei confini, specialmente nei dintorni città (Guerra 2.452-480, 3.35-38). Ai suoi tempi le ambizioni territoriali di Israele erano incentrate sull'ottenimento del controllo dei territori che erano diventati completamente giudaizzati nel corso dei due secoli da quando gli Asmonei avevano ampliato i confini della terra assegnata, a nord e a sud. A causa del mutato clima politico derivante dall'avanzata di Roma in Oriente, questi territori erano solo una frazione di ciò che avrebbe potuto essere incluso sulla base delle narrazioni di conquista e insediamento. Le speranze di Israele basate sulle aspirazioni territoriali a un territorio più vasto dovevano trovare altre espressioni oltre al militarismo dei Maccabei, se volevano essere significative. Sia Gesù che i rabbini, nonostante le loro prospettive molto diverse, avevano scoperto altri modi di sfruttare il simbolismo territoriale della restaurazione, l'uno includendo gli ebrei territorialmente emarginati nel suo invito al banchetto, e gli altri estendendo i confini della terra, non per la conquista militare, ma per l'osservanza halakhica.

Benvenuti Cananei?

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Le prove per la popolazione della Galilea nel periodo persiano e nei primi periodi greci sono scarse, ma dai pochi frammenti disponibili sembrerebbe che "Galilea dei Gentili" non fosse un termine improprio. Una presenza prevalentemente gentile in Galilea spiegherebbe la motivazione e il modo dell'espansione asmonea, come descritto nel tono letterario eroico di I Maccabei, e l'ulteriore abbellimento di Flavio Giuseppe. I dettagli della conquista sono alquanto oscuri, non ultimo il fatto che Aristobulo I, a cui si attribuisce la sua giudaizzazione, regnò per un solo anno (104/3 A.E.V.). Suo padre, Giovanni Ircano, figlio del terzo fratello dei Maccabei, Simone, iniziò la campagna nel nord, piuttosto tardi nel suo regno (111/10 A.E.V.). Il suo primo obiettivo sembra essere stato il tempio samaritano sul Monte Garizim (Ant. 13.255), un atto che replica quello di Giosia, il re riformatore di Giuda circa 400 anni prima. Giosia demolì gli alti luoghi di Bethel e altrove in Samaria, distruggendo gli altari che erano usati nel culto di Baal, il dio cananeo, massacrando i loro sacerdoti e riducendone in cenere le ossa (2 Re 23:15-20). Le somiglianze tra i due eventi non sfuggono a Flavio Giuseppe, il sacerdote-autore gerosolimitano con il suo forte pregiudizio antisamaritano (Ant. 13.255s).

Successivamente, le campagne di Giovanni lo portarono nelle città greche di Samaria e Scitopoli, la prima rasa al suolo e la seconda presa dai figli di Ircano, che devastarono l'intera pianura di Jezreel fino al Monte Carmelo (Ant. 13.280s). Allo stesso tempo gli Idumei del sud, un popolo arabo che si era infiltrato dal territorio di Edom in Transgiordania, furono forzatamente circoncisi (Ant. 13.258). Flavio Giuseppe non riporta alcuna campagna concertata nella Galilea vera e propria, ma è chiaro che sia lui che la sua fonte, Primo Maccabei, presumevano che anche questo territorio appartenesse all'eredità israelita. Il suo racconto di come Aristobulo, uno dei figli di Giovanni Ircano, avesse ottenuto ulteriore territorio per i giudei e "portato una parte della nazione iturea, che unì a loro con il vincolo della circoncisione" (Ant. 13.318s), è particolarmente importante, anche se altamente problematico. La fonte di Flavio Giuseppe per queste informazioni è uno scrittore egizio/romano, Timagene, come citato da Strabone, suggerendo così che lui stesso non avesse informazioni dirette sulla questione. Il racconto ha suscitato una vivace discussione, soprattutto in considerazione del fatto che l'influente storico moderno dell'epoca, Emil Schürer, ha concluso che il territorio itureo conquistato da Aristobulo era identico alla Galilea, "o la maggior parte di essa", dando così origine alla visione diffusa dei galilei come iturei convertiti.[20] È difficile evitare il sospetto che Flavio Giuseppe abbia semplicemente fornito un resoconto della conversione dei galilei in modo che corrispondesse a quella degli idumei nel sud, soprattutto perché, a differenza degli idumei, i galilei non vengono mai successivamente etichettati come mezzi ebrei, e inoltre le prove archeologiche di una presenza iturea in Galilea sono singolarmente carenti.

Nonostante questi dubbi, il resoconto illustra l'ideologia di fondo del periodo dei Maccabei, poiché questa continuava ad essere attuale in certi circoli di Gerusalemme ai tempi di Gesù. Come gli Idumei del sud, gli Iturei del nord avevano solo due opzioni: unirsi al popolo ebraico con il rito della circoncisione o lasciare il territorio. È interessante notare che i due popoli in questione, gli Iturei e gli Idumei, sono di origine araba, i quali, a differenza delle altre "nazioni circostanti", in particolare i Filistei, erano ritenuti imparentati con Israele tramite i fratelli Giacobbe e Ismaele, figli di Abramo. Questo atteggiamento riflette un trattamento molto positivo degli arabi, come figli di Ismaele, in altra letteratura del periodo asmoneo, in particolare il Libro dei Giubilei.[21] Tuttavia, dal punto di vista dell'ideologia della conquista su cui si basa il racconto di Flavio Giuseppe, non c'è posto per i non-ebrei in Galilea. Né vi è alcun segno di un atteggiamento tollerante, simile a quello raffigurato nella Genesi, verso gli altri abitanti del paese. Invece, l'immagine disegnata riflette il Dio guerriero del Deuteronomio che scaccia le altre nazioni, non il Dio "ospitale" della Genesi che include generosamente tutti i popoli circostanti che vivono insieme pacificamente nel paese.

I dati archeologici supportano il tenore complessivo delle testimonianze letterarie. Un importante luogo di culto situato al confine tra l'Alta e la Bassa Galilea nel massiccio del Meiron, giustamente chiamato Har Mispey Yamim, poiché da questo punto si possono vedere sia il Mar Grande che il Mare di Galilea, fu abbandonato nel II secolo A.E.V., e mai più occupato.[22] Sulla base dei ritrovamenti si trattava di un sito importante, un "luogo alto" dove si veneravano sia divinità egizie che fenicie. Sebbene non vi siano documenti letterari della distruzione del sito, la probabile data del suo abbandono suggerisce che esso, così come altri siti di culto quali Tabor e Carmelo nella Bassa Galilea, furono tutti vittime della "pulizia" asmonea della regione. Le testimonianze suggeriscono anche spostamenti di popolazione nello stesso periodo e i cambiamenti nel profilo della moneta dai tipi di monete cittadine fenicie ai bronzi asmonei, che proclamano "l'Assemblea degli Ebrei" sono chiari indicatori di un insediamento dal sud.[23] Il processo proseguì anche in altri siti, e il numero di punti in cui queste monete asmonee appaiono sul substrato roccioso suggerisce molte nuove fondazioni nei successivi 100 anni.[24]

Nel I secolo E.V. i successori di questi coloni asmonei costituivano la maggior parte degli ebrei galilei, anche se altri elementi, ebrei e non ebrei, erano entrati nel miscuglio come risultato delle conquiste e del dominio di Erode il Grande e di suo figlio Antipa. È importante riconoscere, quindi, contrariamente a diverse affermazioni moderne sull'opposizione galilea a Gerusalemme, che c'era un forte attaccamento alla città-madre, al suo Tempio e ai suoi costumi, tra gli ebrei galilei del tempo di Gesù. L'indagine archeologica di Sepphoris di epoca romana, così come di altri siti in Galilea, ha prodotto prove convincenti dell'osservanza ebraica in ambienti domestici in questi centri, sulla base della frequenza di prove simili dalla Giudea e da Gerusalemme.[25] Questo spiegherebbe il continuo interesse per la Galilea da parte delle autorità religiose di Gerusalemme, come gli scribi che secondo Marco erano venuti da Gerusalemme per screditare il ministero di guarigione di Gesù nei villaggi della Galilea (Marco 3:31;7:1). Va anche ricordato che Gesù stesso, se non giudeo, era stato influenzato da quella zona durante il suo soggiorno con Giovanni nel deserto. Anche lui, quindi, potrebbe essere considerato come un portatore di una prospettiva meridionale in Galilea.

È significativo che oltre al silenzio dei vangeli su una visita di Gesù ai centri erodiani di Sepphoris e Tiberiade, non vi sia nemmeno menzione di visite a luoghi come Jotapata e Gamla durante i suoi viaggi attraverso la Galilea. Questi sono luoghi in cui le prove dell'osservanza delle leggi alimentari ebraiche e della purezza rituale da parte di alcuni, almeno dei loro residenti, sono state portate alla luce nelle recenti indagini archeologiche dei siti.[26] Entrambi i luoghi erano anche centri di forte resistenza ebraica al militarismo romano circa 30 anni dopo il ministero di Gesù, a differenza di Sepphoris, che aveva optato per la pace con Roma. Si potrebbe facilmente leggere troppo in tale silenzio, ma le prove evangeliche di conflitti con i Farisei su questioni di osservanza del Sabbath, purezza e regole dietetiche – tutti argomenti che hanno a che fare con il mantenimento della separazione etnica ebraica – potrebbero spiegare la questione, nonostante lo scetticismo degli studiosi moderni sulla datazione di questi conflitti durante il ministero di Gesù.[27] Pertanto, quando si mostra una mappa dei movimenti di Gesù in Galilea, contro il modello di una descrizione più dettagliata della regione che indica luoghi noti di osservanza ebraica, è più frequente trovarlo nei dintorni, se non addirittura all'interno, di città pagane, piuttosto che in luoghi riconoscibilmente ebraici. Secondo Flavio Giuseppe, i Farisei erano particolarmente apprezzati dai cittadini, un'informazione che potrebbe suggerire la necessità di differenziare in Galilea come altrove tra i vari tipi di insediamento e coloro che li abitavano (Ant. 18.15). Fonti ebraiche successive indicano una gamma più varia di tipi di insediamento rispetto a quella coperta dai termini "città", "cittadina" e "villaggio". Se ci fossero stati Farisei in Galilea, i luoghi più probabili in cui trovarli sarebbero o le città erodiane o luoghi di medie dimensioni come Jotapata, Gamla, Gischala, Meiron e Khirbet Shema – tutti siti in cui testimonianze di una più attenta forma di identità ebraica sono state scoperte per il primo secolo – e non nei piccoli borghi rurali sparsi per la campagna.

È stato suggerito in precedenza che non vi è alcuna buona ragione per affermare che i movimenti di Gesù nella regione delle città pagane nella cerchia della Galilea, significassero che aveva inaugurato la missione gentile. Gli ebrei, abbiamo visto, vivevano in quelle regioni e il contatto con questi potrebbe essere stato l'obiettivo di tali visite. Forse perché Gesù si sentiva più seriamente in pericolo di assimilazione ai modi pagani, o perché lui stesso era meno minacciato dai contatti con il mondo pagano di quanto lo fossero gli ebrei più osservanti delle città galilee, meticolosi nel mantenere visibili i segni della religiosità ebraica e identità etnica? Sono domande interessanti, più facili da porre che da rispondere, e che si ripresenteranno anche nel prossimo Capitolo. Un esame dei detti di Gesù non fornisce troppa evidenza o preoccupazione per i gentili. Anzi, ogni tanto sottolinea la questione: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele" (Matteo 15:21-28). Della loro partecipazione al banchetto escatologico con i Patriarchi si parla più come una minaccia per "questa generazione", intendendo gli ebrei del suo tempo, che come una buona notizia per i non-ebrei (Matteo 8:10-12; Luca 13:28-29). Tuttavia, la menzione qui dei Patriarchi – Abramo, Isacco e Giacobbe – così come il riferimento ai punti cardinali da cui devono venire le persone, riportano alla mente la visione di Abramo della terra che si estende in tutte le direzioni e la promessa a lui che la sua discendenza sarebbe stata innumerevole e tutte le nazioni della terra si sarebbero benedette per mezzo di lui. Secondo l’Apocrifo di Genesi, dopo essere tornato dai suoi viaggi Abramo pranzò con i suoi fratelli madianiti. Forse questo è il miglior indizio che possiamo raccogliere per l'atteggiamento di Gesù verso i gentili in questo frangente. In tal caso non sembrerebbe troppo azzardato suggerire che egli debba aver condiviso alcuni atteggiamenti di Abramo, piuttosto che agire secondo la tradizione di conquista con un atteggiamento di sospetto e ostilità verso i pagani che vivevano nel paese.

Ai confini di Tiro

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(IT)
« Quanto a noi, quindi, non abitiamo un paese marittimo, né ci dilettiamo in commerci, né in tali rapporti con altri che ne deriva; ma le città in cui abitiamo sono lontane dal mare, e avendo per nostra abitazione un paese fruttuoso, ci prendiamo cura di coltivare solo quello. La nostra principale cura di tutto è questa, educare bene i nostri figli; e pensiamo che sia il compito più necessario di tutta la nostra vita osservare le leggi che ci sono state date e mantenere quelle regole di pietà che ci sono state trasmesse. »

(EL)
« Ἡμεῖς τοίνυν οὔτε χώραν οἰκοῦμεν παράλιον οὔτ᾽ ἐμπορίαις χαίρομεν οὐδὲ ταῖς πρὸς ἄλλους διὰ τούτων ἐπιμιξίαις, ἀλλ᾽ εἰσὶ μὲν ἡμῶν αἱ πόλεις μακρὰν ἀπὸ θαλάσσης ἀνῳκισμέναι, χώραν δὲ ἀγαθὴν νεμόμενοι ταύτην ἐκπονοῦμεν μάλιστα δὴ πάντων περὶ παιδοτροφίαν φιλοκαλοῦντες καὶ τὸ φυλάττειν τοὺς νόμους καὶ τὴν κατὰ τούτους παραδεδομένην εὐσέβειαν ἔργον ἀναγκαιότατον παντὸς τοῦ βίου πεποιημένοι. »
(Flavio Giuseppe, Contro Apione, 1.60)

Questa descrizione piuttosto ironica della posizione di Israele, priva di accesso diretto al Mediterraneo soprattutto a nord, fu senza dubbio formulata tenendo d'occhio i vicini fenici, le cui imprese marittime avevano reso le città di Tiro e Sidone l'invidia dei mondo antico. Flavio Giuseppe, uno sospetterebbe, comprendeva le pressioni su Aser e Dan affinché si godessero i frutti del mare piuttosto che impegnarsi in una guerra contro i Cananei. Si può infatti rilevare un senso di riluttante ammirazione per l'opulenza di Tiro in particolare, nei molti oracoli profetici rivolti contro quella città (Isaia 23; Ezechiele 26-29; Geremia 25:22; Amos 1:9-10; Gioele 4:4-8; Zaccaria 9:2-3). A differenza dell'Egitto, di Babilonia o dell'Assiria, Tiro e Sidone non avevano mai rappresentato una seria minaccia dinastica per Israele. Era la loro opulenza e il presunto orgoglio che ne derivava ciò che è maggiormente aborrito negli oracoli profetici. Eppure c'era anche la consapevolezza dell'importanza di queste città e delle loro necessità per la vita commerciale israelita e giudaica. Il profeta Ezechiele giustappone un oracolo di calamità contro Tiro (cap. 26) con un lamento per la sua caduta (cap. 27) in considerazione della sua posizione un tempo orgogliosa tra le nazioni, riconoscendo anche il contributo di Israele e Giuda al suo successo come fornitori di grano, cera, miele, sego e balsamo (v. 17).

In epoca ellenistica e romana l'attrattiva di avere accanto un vicino così potente diede origine a un rapporto piuttosto ambivalente. Le testimonianze iscritte e letterarie suggeriscono forti legami commerciali nei primi tempi ellenistici con centri come Marisa, la capitale dell'Idumea e della Samaria (Ant. 11.344, 12.257s). L'associazione con Tiro era forte anche tra l'élite di Gerusalemme di questo periodo, che era favorevole all'ellenizzazione del loro culto. Un atteggiamento eccessivamente separatista, si sosteneva, precludeva la condivisione dei benefici provenienti dall'aumento del commercio in età ellenistica (1 Maccabei 1:11). Organizzarono una colletta per i giochi in onore di Eracle – l'equivalente greco del dio di Tiro, Melqart – ma gli inviati che portarono il denaro a Tiro rifiutarono l'idea di usarlo per il sacrificio al dio pagano, organizzando il suo uso per altri scopi (2 Maccabei 4:18-20).

Ancora più sorprendente è il fatto che il mezzo siclo di Tiro fosse considerato nei successivi testi rabbinici come "la moneta del santuario" che ogni ebreo maschio doveva pagare annualmente per la manutenzione del santuario di Gerusalemme. Non ci sono prove che questa pratica abbia turbato gli ebrei devoti, nonostante il fatto che la moneta portasse le immagini di Eracle/Melqart, il dio protettore della città, e quello di Zeus, a meno che l'azione di Gesù nel Tempio non fosse da intendersi come una tale protesta. Tuttavia, ciò sembra improbabile, come verrà discusso in un Capitolo successivo. Secondo un resoconto dell'avidità di Giovanni di Gischala nell'acquistare tutto l'olio della regione, egli fu in grado di pagarlo in "denaro di Tiro" (Vita, 72s). Tali atteggiamenti tra coloro che almeno in teoria praticavano una forma di culto aniconico sono difficili da comprendere. La spiegazione più plausibile è che tra tutte le diverse monete dell'antichità, quella di Tiro fosse la più pregiata perché mantenne il suo peso per diversi secoli e non fu quindi soggetta a deflazione. Nell'antichità, il denaro buono non rispettava i confini culturali — cosa che comunque sembra avvenga anche oggi.[28]

 
Mappa della Terra d'Israele come definita in Numeri 34 ed Ezechiele 47

Queste indicazioni sparse suggeriscono che, nonostante le differenze ideologiche tra Israele e Tiro, espresse in relazione all'estensione del territorio assegnato al primo, gli scambi commerciali tra le due regioni non erano del tutto preclusi. Tuttavia, è chiaro che le relazioni variavano in periodi diversi. C'è da chiedersi quanto fosse tipico Giovanni di Gischala, soprattutto in un momento in cui la comunità ebraica di Tiro, come altrove nelle città circostanti, era sottoposta a un'estrema pressione da parte delle popolazioni gentili del luogo. Nel caso di Giovanni, non solo si presume che abbia usato denaro di Tiro, ma il suo esercito personale includeva anche fuggitivi da Tiro. L'ostilità tra i galilei e Qadesh, che secondo Flavio Giuseppe apparteneva un tempo alla Galilea (Ant. 5.63), è meglio spiegata alla luce delle recenti scoperte dei resti di un importante archivio amministrativo del periodo greco presso il sito. La scoperta di oltre 2000 sigilli suggerisce che Qadesh fosse un importante avamposto di Tiro in termini di tasse e altre entrate nell'area.[29] Dietro l'osservazione casuale di Flavio Giuseppe si nasconde una storia più lunga di territorio conteso, brigantaggio e occupazione occasionale, ma questo tipo di relazione potrebbe essere stato il risultato di difficoltà di confine e atipico in termini di rapporti più ampi con le città costiere.

Risultati più sicuri per quanto riguarda gli scambi commerciali possono essere ottenuti da recenti testimonianze archeologiche, basate su ceramiche e monete, tanto più che sembra possibile stabilire un modello definito. La preponderanza di monete di Tiro in siti non solo nell'Alta Galilea, vicino all'entroterra di Tiro, ma anche nella Bassa Galilea, deve significare che l'attività commerciale continuò lì, anche tenendo conto di fattori distorsivi come l'uso del denaro di Tiro per le offerte del Tempio tra gli ebrei e il fatto che la zecca di Tiro potrebbe aver prodotto più monete di qualsiasi altra nella regione. L'entità di questo commercio è stata variamente stimata da diversi studiosi, ma il riconoscimento che la percentuale maggiore di monete sia di bronzo, sembra suggerire che il commercio non fosse così esteso come talvolta si sostiene.[30]

Tuttavia, quando vengono effettuati confronti tra siti diversi, emergono variazioni interessanti. Così, Jotapata, importante centro di resistenza ebraica nel I secolo E.V., come accennato in precedenza, era situata non lontano dai confini di Tolemaide, la più vicina delle città fenicie alla bassa Galilea. C'è stato un netto calo del numero di monete cittadine fenicie a partire dalla metà del II secolo A.E.V., una tendenza che corrispondeva ad altri cambiamenti nel sito, in coincidenza, sembrerebbe, con la riconquista asmonea della Galilea. A Gamla, invece, situata a est del Giordano, ma ugualmente nazionalista nel I secolo, le monete della zecca di Tiro continuarono ad essere utilizzate per tutto il periodo.[31] La vicinanza alla minaccia percepita di contaminazione culturale potrebbe essere stata un fattore di questo modello variegato. In tale ipotesi, l'esempio del cedimento di Aser alle seduzioni del mare avrebbe potuto fornire ai giudei osservanti che vivevano a Jotapata motivi per considerare le città fenicie un ambiente "pericoloso", interrompendo così ogni contatto commerciale.

Gli studi di provenienza, che possono rintracciare i resti di ceramica fino al luogo di produzione, sono diventati sempre più importanti come indicatori di legami commerciali, sia interni che esterni. Ciò vale sia per articoli casalinghi che per i contenitori di prodotti di olio, vino e pesce sotto sale per l'importazione e l'esportazione. C'erano due importanti centri di produzione di ceramica in Galilea – Kfar Hanania e Shikhin – entrambi al servizio del mercato interno degli articoli per la casa, compresi i vasi per la conservazione. Ci sono anche alcune prove dell'esportazione di tali articoli in siti non ebraici nel Golan in un arco di tempo dal periodo ellenistico a quello bizantino, indicando così uno sviluppo dell'economia galilea per soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita.[32] Il fatto che queste merci fossero anche ritenute altamente adatte ai requisiti delle leggi di purezza secondo le fonti talmudiche deve essere stato sicuramente un fattore del loro continuo successo. Questa osservazione sullo sviluppo di un'industria ceramica autoctona galilea per soddisfare le esigenze religiose locali sembrerebbe essere confermata dai risultati di un'importante indagine su un altro tipo di ceramica, descritta come "Phoenician semi-fine ware" con un probabile provenienza da Tiro.[33] Questa collezione di vasi domestici, brocche e anfore, oltre a unguenti e unguentari, è particolarmente significativa in quanto databile al periodo dell'espansione giudea in Galilea e del suo consolidamento in quel luogo. Tracce della ceramica sono state trovate in siti lungo tutto il perimetro della Galilea, ma non all'interno, confermando così l'atteggiamento conservatore dei galilei nei confronti delle importazioni dalla Fenicia nel periodo asmoneo.

I cambiamenti nelle attività commerciali, soprattutto in relazione alle modalità di produzione e distribuzione, comportano anche cambiamenti nei valori. Era questo aspetto, non lo scambio in sé, ad essere più minaccioso per un ambiente religioso che era separatista e conservatore nel suo atteggiamento. I resoconti degli insediamenti tribali suggerivano che fin dall'inizio le tribù del nord fossero le più a rischio da questo punto di vista, con Aser e Dan che richiedevano un'attenzione speciale. Non c'è dubbio che le tensioni di fondo fossero il risultato degli straordinari successi dell'impero commerciale fenicio e delle richieste di beni e servizi che questo portava all'entroterra. La forte visione etnocentrica espressa da Flavio Giuseppe riguardo al "voltare le spalle" di Israele al mare, può essere vista per quello che era, vale a dire retorica apologetica a beneficio dei lettori greco-romani. Altri individui più religiosamente interessati, come i rabbini del II secolo, cercarono modi diversi per proteggere la purezza di Israele definendo accuratamente i confini tra il territorio di Tiro e la terra di Israele ed elencando alcuni villaggi che si trovavano al di fuori di quella linea come "dubbi" in termini di purezza.[34] Sviluppando il porto di Cesarea Marittima, a sud della Galilea, Erode il Grande cercò una parte dell'azione nel Mediterraneo per finanziare i suoi numerosi progetti in patria e all'estero. Sotto suo figlio Antipa, la Galilea non fu immune da questi cambiamenti infrastrutturali e le opportunità che offrivano costituivano una seria minaccia per i valori tradizionali che il popolo di Jotapata, ad esempio, aveva abbracciato evitando i contatti commerciali con i Fenici. Come suggerito nel Capitolo precedente, questi cambiamenti rappresentavano una seria minaccia per le condizioni ecologiche della Galilea, ma incidevano anche sulla situazione sociale e religiosa che Gesù cercava di affrontare.

Lo stile di vita alternativo di Gesù, unito alla sua sfida al sistema di valori dei ricchi, significava che non era impressionato dalla ricchezza dei Fenici. Tuttavia, a differenza dei profeti israeliti che avevano ripetutamente invocato il giudizio sulle nazioni, comprese Tiro e Sidone, l'avvertimento di Gesù del prossimo giudizio è rivolto invece alle città della Galilea. Corazin, Betsaida e Cafarnao sono sfavorevolmente paragonate a Tiro e Sidone, le quali, se avessero avuto gli stessi i favori conceesi a questi luoghi, avrebbero fatto penitenza con sacco e cenere, come Ninive, (dove aveva predicato un profeta di Galilea, Giona).[35]

« 38 Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: "Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno". Ed egli rispose: 39 "Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. 40 Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. 41 Quelli di Nìnive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c'è più di Giona! 42 La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!" »
(Matteo 12:38-42)

Per un pubblico galileo tali paragoni erano straordinari data la dimensione e l'importanza delle città fenicie e la loro reputazione all'interno della tradizione israelita. L'intenzione era quella di svergognare le città galilee. Tuttavia, dietro la retorica c'è un velato riconoscimento che anche tali luoghi hanno un posto nel piano di Dio, cosa difficile da accettare per coloro che aderivano all'idea deuteronomica delle nazioni.

Gesù, ci dice Marco, si recò nella regione di Tiro, presumibilmente per ragioni simili a quelle che lo avevano portato nei villaggi di Cesarea di Filippo. C'erano, come si è visto sopra, ebrei che vivevano oltre i confini riconosciuti dalle pratiche politiche e religiose dell'epoca, ma secondo l'ideologia della terra ideale, era il Mediterraneo che era considerato il vero limite della terra assegnata. Tuttavia, non vi è alcun suggerimento che Gesù fosse interessato a fare rivendicazioni territoriali. La sua scelta dei Dodici non prevedeva un ritorno storico delle tribù, richiedendo quindi una ridistribuzione dei territori tribali come aveva suggerito Ezechiele, con l'effettiva esclusione di qualsiasi luogo sulla sua mappa sia per Tiro che per Sidone (Ezechiele 47:13-23, in particolare v. 20):

« 13 Dice il Signore Dio: "Questi saranno i confini della terra che spartirete fra le dodici tribù d'Israele, dando a Giuseppe due parti. 14 Ognuno di voi possederà come l'altro la parte di territorio che io alzando la mano ho giurato di dare ai vostri padri: questa terra sarà in vostra eredità. 15 Ecco dunque quali saranno i confini del paese. A settentrione, dal Mar Mediterraneo lungo la via di Chetlòn fino a Zedàd; 16 il territorio di Amat, Berotà, Sibràim, che è fra il territorio di Damasco e quello di Amat, Cazer-Ticòn, che è sulla frontiera di Hauràn. 17 Quindi la frontiera si estenderà dal mare fino a Cazer-Enòn, con il territorio di Damasco e quello di Amat a settentrione. Questo il lato settentrionale. 18 A oriente, fra l'Hauràn, Damasco e Gàlaad e il paese d'Israele, sarà di confine il Giordano, fino al mare orientale, e verso Tamàr. Questo il lato orientale. 19 A mezzogiorno, da Tamàr fino alle acque di Meriba-Kadès, fino al torrente verso il Mar Mediterraneo. Questo il lato meridionale verso il Negheb. 20 A occidente, il Mar Mediterraneo, dal confine sino davanti all'ingresso di Amat. Questo il lato occidentale. 21 Vi spartirete questo territorio secondo le tribù d'Israele. 22 Lo dividerete in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, i quali hanno generato figli in mezzo a voi; questi saranno per voi come indigeni fra gli Israeliti e tireranno a sorte con voi la loro parte in mezzo alle tribù d'Israele. 23 Nella tribù in cui lo straniero è stabilito, là gli darete la sua parte". Parola del Signore Dio. »
(Ezechiele 47:13-23)

È nella regione di Tiro che Marco colloca la storia dell'incontro di Gesù con la donna di nascita siro-fenicia, ma "greca", a significare presumibilmente qualcuno che religiosamente era "pagano" e culturalmente ellenizzato, ma anche un persona di alto rango sociale. La storicità del racconto è stata contestata da molti studiosi, più recentemente da John Meier sulla base del fatto che è "so shot through (=permeato)" dalla teologia missionaria paleocristiana, da ritenerlo il prodotto dei cristiani di prima generazione.[36]

Questo giudizio pone allora un'altra questione. Si dovrebbe ancora indagare sul probabile atteggiamento di Gesù nei confronti della presenza dei gentili nella sua nuova famiglia, e sul modo in cui i suoi incontri al confine galileo con i gentili potrebbero aver influenzato le sue opinioni, o almeno provocato la sua riflessione sull'argomento. Nel Capitolo successivo questo problema si pone a proposito del pellegrinaggio delle nazioni a Sion, ma qui è opportuno ricordare che l'opposizione giudaico/gentile avvenne in contesti diversi dalla sfera religiosa, anche in Palestina. Così, ad esempio, Flavio Giuseppe vede il proprio ruolo di storico per informare i suoi lettori, "i Greci", sui privilegi che agli ebrei d'Asia erano stati tradizionalmente concessi dai vari governanti, sostenendo anche il loro modo di onorare Dio, affinché egli possa "riconciliare con noi le altre nazioni e rimuovere le cause dell'odio che si sono radicate tra le persone sconsiderate tra noi e tra loro" (Ant. 16.175).[37]

La questione della riconciliazione tra ebrei e greci era un luogo comune in Oriente, a causa delle ostilità di lunga data che esistevano da entrambe le parti, anche, o forse più specialmente, in Palestina. Sembra inevitabile, quindi, che il problema sia stato affrontato anche da Gesù, una volta ammesso che si fosse trasferito fuori dai confini della Galilea politica nei territori delle città greche circostanti.[38] Poiché il punto di vista di Gesù sulla restaurazione di Israele non era una conquista territoriale o l'espulsione di non-ebrei dai territori tribali tradizionali, allora dobbiamo sicuramente ammettere che si era preoccupato della questione quanto lo era Flavio Giuseppe, all'interno, ovviamente, dei parametri del suo ruolo auto-attribuito, che non era lo stesso dello statista/apologista nato a Gerusalemme. Anche altre voci profetiche prima di Gesù avevano affrontato il tema della riconciliazione con i gentili all'interno del complessivo disegno divino, senza per questo annacquare il senso di Israele della sua speciale elezione. Con la dovuta considerazione per Meier e altri accademici, il modello missionario paleocristiano di "prima gli ebrei poi i greci" non è stato inventato dai missionari cristiani del I secolo, anche se è variamente usato da loro nei termini dei rispettivi dibattiti e dilemmi, specialmente da Paolo e da Luca. La forte colorazione locale della storia della donna siro-fenicia che si dice abbia incontrato Gesù nella regione di Tiro suggerisce che, se l'incidente non è storico, è con ogni probabilità palestinese, e affronta una questione che anche Gesù dovette affrontare nella sua vita in quella regione.[39] È improbabile che il modo della sua risposta, se non la formulazione precisa, sia stato molto diverso da quello riportato da Marco, o dalla sua fonte. Dopotutto, parlava di amare il nemico, e nella Galilea di Gesù non mancavano coloro che stavano da entrambe le parti.

Tutti e tre i temi che erano emersi nelle narrazioni di conquista e insediamento del Pentateuco – la terra restante, i Cananei che dimoravano nella terra e gli allettamenti delle città fenicie – erano estremamente attuali nella Galilea romana. Nell'affrontare questi problemi così come si sono presentati in Galilea, i modelli di risposta ispirati ai racconti di conquista erano facilmente distinguibili, poiché varie idee e atteggiamenti verso la restaurazione erano in competizione tra loro all'interno della Galilea ebraica. Abbiamo cercato di leggere aspetti della storia di Gesù così come riportati nei vangeli alla luce di tali questioni, spesso affidandoci al criterio della plausibilità contestuale nel valutare la probabile storicità dei modelli, se non i dettagli suggeriti dalla storia evangelica. Le incertezze sono molte, e spesso si è costretti a fare i conti con generalità, data la natura altamente selettiva delle fonti, soprattutto i vangeli. Sembrerebbe, tuttavia, che avvicinarsi alla storia di Gesù dalla prospettiva di una lettura contestuale sullo sfondo delle narrazioni bibliche apra nuove prospettive sulla sua vita e sul suo ministero, evidenziando in particolare i punti in cui i suoi atteggiamenti differiscono notevolmente da quelli del suo contemporanei. Come in tutte queste discussioni, è più facile identificare le scelte che non ha fatto a partire dalle tradizioni ereditate piuttosto che essere positivi riguardo a quelle che lo hanno ispirato. Tuttavia, l'immagine di Abramo che viaggia attraverso una terra abitata da vari gruppi etnici, compresi i tradizionali nemici dell'Israele storico, e incontra il Dio che dirige i suoi viaggi in molti luoghi all'interno della terra, ha una risonanza piuttosto sorprendente con la storia di Gesù in diversi punti. Mentre il posto speciale di Israele è effettivamente affermato, soprattutto attraverso il racconto della benedizione delle tribù da parte di Giacobbe, il fatto che due di loro siano fermamente condannati per il loro comportamento, anche quando agirono in nome del ripristino dell'onore, mostra che l'elezione comporta responsabilità per altri e quella violazione delle leggi dell'ospitalità fu davvero una cosa molto seria.[40]

 
Immagine artistica di Gesù ricostruita da più fonti, tra cui la Sindone di Torino (XIV secolo)
  Per approfondire, vedi Serie cristologica, Serie delle interpretazioni e Serie misticismo ebraico.
  1. Albrecht Alt, "Galilaische Probleme, 1937-40", in Kleine Schriften zur Geschichte des Volkes Israel, 3 voll., Munich: Ch. Beck, 1953-64, vol. II, 363-435.
  2. Richard A. Horsley, Galilee. History, Politics, People, Valley Forge, PA: Trinity Press, 1995, 25-29.
  3. Cfr. la mia Serie cristologica, nonché i risultati delle ricerche di Zvi Gal, Lower Galilee During the Iron Age, ASOR Dissertation Series 8, Winona Lake: Eisenbrauns, 1992.
  4. K. Lawson Younger Jr, "The Deportation of the Israelites", JBL 117(1998) 201-227.
  5. William Dever, "‘Will the Real Israel Please stand up?’ Archaeology and Historiography: Part I", ASOR 297(1995) 61-80; "Histories and Non-Histories of Ancient Israel", BASOR 316(1999) 89-105; Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman, The Bible Unearthed. Archaeology's New Vision of Ancient Israel and its Sacred Texts, New York, Londra: Simon and Schuster, 2001; Keith W. Whitelam, "Recreating the History of Israel", JSOT 35(1986) 45-70.
  6. A. D. H. Mayes, "The Period of the Judges and the Rise of the Monarchy", in John H. Hayes e J. Maxwell Miller, curr., Israelite and Judean History, Philadelphia: The Westminster Press, 1977, 285-331 (299-307).
  7. Hans Zobel, Stammesspruch und Geschichte, BZAT 95, Berlin: Topelmann, 1965, 53-59.
  8. Norman C. Habel, The Land is Mine, Six Biblical Ideologies, Overtures to Biblical Theology, Minneapolis: Fortress Press, 1995, 36-53.
  9. Habel, The Land is Mine, 115-133 (129s).
  10. Joseph Fitzmyer, The Genesis Apocryphon of Qumran Cave I, A Commentary, Biblica et Orientalia 18, Roma: Pontificio Istituto Biblico, 1966, 12-17 e 127-149.
  11. N. Na'aman, Borders and Districts in Biblical Historiography, Gerusalemme: Simor, 1986, 40-66.
  12. Na'aman, Borders and Districts, 75-79. Il censimento di Davide, su cui si ritiene si sia basata la topografia di questi resoconti, descrive il confine come comprendente il territorio da Dan intorno a Sidone, arrivando alla fortezza (o fontana) di Tiro (2 Samuele 24:6s.).
  13. Na'aman, Borders and Districts, 60-62; Z. Kallai, Historical Geography of the Bible. The Tribal Territories of Israel, Gerusalemme, The Magnes Press, 1986, 204-224; Y. Aharoni, The Land of the Bible. A Historical Geography, Londra: Burns & Gates, 1967, 237s.
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  15. Doron Mendels, The Rise and Fall of Jewish Nationalism, New York: Doubleday, 1992, 81-106.
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  28. Cfr. i saggi in Collins e Sterling, curr., Hellenism in the Land of Israel, 184-217, spec. 184-188 e 199-205.
  29. S. Herbert e A. Berlin, "A New Administrative Centre for Persian and Hellenistic Galilee: Preliminary Report of the University of Minnesota Excavations at Kadesh", BASOR 329 (2002) 13-59.
  30. D. Barag, "Tyrian Currency in Galilee", Israel Numismatic Journal, 6/7(1982/83) 7-13; U. Rappaport, "Phoenicia and Galilee. Economy, Territory and Political Relations", Studia Phoenicia IX(1992) 262-268.
  31. D. Adan-Bayewitz e M. Aviam, "Iotapata, Josephus and the Siege of 67", 161 e 164s; D. Syon, "The Coins from Gamla. An Interim Report", Israel Numismatic Journal 12(1992/93) 34-55.
  32. D. Adan-Bayewitz, Common Pottery in Roman Galilee. A Study of Local Trade, Ramat Can: Bar-Han University Press, 1993.
  33. A. Berlin, "From Monarchy to Markets", BASOR 306(1997) 75-86.
  34. Frankel, Getzov, Aviam, Degani, Settlement Dynamics and Regional Diversity, 112.
  35. Jonathan Reed, "The Sign of Jonah: Q 11:29-32", in Archaeology and the Galilean Jesus, 197-211, spec. 204-211.
  36. John P. Meier, A Marginal Jew, vol. II, 659s.
  37. T. Rajak, "Greeks and Barbarians in Josephus", in Collins e Sterling curr., Hellenism in the Land of Israel, 246-263.
  38. U. Rappaport, "Jewish-Pagan Relations and the Revolt against Rome, 66-70 C.E.", in L. Levine cur., The Jerusalem Cathedra, Gerusalemme: Yad Izhak Ben-Zvi Institute, 1981, 81-95.
  39. Gerd Theissen, The Gospels in Context, trad. (EN) Linda M. Maloney, Edinburgh: T&T Clark, 1992, 60-80 (79).
  40. Sulla "responsabilità per l'Altro", si veda il mio wikilibro sulla filosofia di Emmanuel Levinas.