Essenza trascendente della santità/Uno sguardo alla Bibbia

Indice del libro
"Maimonide medita su libri sacri e filosofici", scultura al Knesset di Gerusalemme
"Maimonide medita su libri sacri e filosofici", scultura al Knesset di Gerusalemme


Uno sguardo alle testimonianze bibliche modifica

Cosa viene chiamato santo nella Torah? Innanzitutto, ovviamente, Dio. In un testo che ha avuto una profonda influenza sulla liturgia ebraica, il profeta Isaia scrisse:

« Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del Suo manto riempivano il Tempio. Attorno a Lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l'uno all'altro: "Santo, santo, santo è il Signore degli Eserciti. Tutta la terra è piena della Sua gloria!" »
(Isiaia 6:1-3)

Dio viene anche chiamato "il Santo di Israele" circa quindici volte nella Bibbia, principalmente in Isaia. Che Dio sia il Santo di Israele ha conseguenze dirette:

« Poiché io sono il Signore, il Dio vostro. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non contaminate le vostre persone con alcuno di questi animali che strisciano per terra. Poiché io sono il Signore, che vi ho fatti uscire dal paese d'Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo. »
(Levitico 11:44-45)

Versi come questo, e altri, per esempio "Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo" (Lev. 19:2), ammettono, mi sembra, interpretazioni molto differenti. Un modo di esaminarli è quello di vederli come insegnassero che Dio è santo e mediante il processo di elezione anche Israele diventa santo.[1] Proprio come la santità di Dio è essenzialista, così lo è quella di Israele. Ma tutti questi versi propongono un'interpretazione differente, una che cercherò di dimostrare fosse mantenuta da Maimonide. Secondo tale interpretazione, Israele è santo quando si comporta in un certo modo. La santità, secondo questa interpretazione, è una sfida e non un dono.[2] Non voglio fare supposizioni sul modo in cui i libri biblici interpretavano la santità, solo che le loro parole sono ambigue e possono essere, e lo sono state, interpretate in molti modi differenti.[3]

La stessa ambiguità, vorrei affermare, la si può riscontrare nel linguaggio della formula di apertura delle benedizioni recitate comunemente prima dell'adempimento di un qualsiasi comandamento positivo: "Benedetto Tu sia, Signore nostro Dio, Che ci ha santificato con i Suoi comandamenti e ci ha comandato di..." Secondo Hayim ben Moses Attar, uno potrebbe comprendere questo linguaggio come affermasse che l'imposizione dei comandamenti ha reso Israele intrinsecamente santo, oppure, d'altro canto, come affermasse che la santità è una conseguenza dell'adempimento dei comandamenti e che non significhi nient'altro di più. Ancora una volta,, non sto facendo asserzioni su ciò che i Saggi talmudici intendessero quando istituirono questa formula (presumendo che tutti loro intendessero la stessa cosa, che non credo sia il caso); piuttosto, desidero mostrare come Maimonide deve averla intesa.

Note modifica

  1. Judah Halevi attribuisce santità intrinseca al popolo di Israele ancor prima del Sinai: cfr. spec. Kuzari ii.36 e iii.17. Si veda anche Lasker, "Proselyte Judaism".
  2. Anche 2 Sam. 6 e 1 Cron. 13, che spesso si considerava insegnassero che l'Arca dell'Alleanza avesse una qualche santità intrinseca e pericolosa, non insegnano così. La morte di Ozia non fu una conseguenza automatica dell'aver toccato l'arca santa; fu una punizione di Dio per averlo fatto. Parimenti con il resoconto in 1 Sam. 5: le sofferenze dei Filistei furono inflitte da Dio come punizione e ammonimento. Non c'è nulla di Indiana Jones nel testo biblico stesso.
  3. Menachem Kellner, ad loc., sottolinea che l'ebraico kedoshim tihiyu ("siate santi") può essere letto nel tempo verbale futuro (come promessa) o nell'imperativo (come comandamento o sfida). Maimonide, come verremo a provare, deve averlo letto nel secondo senso.