Utente:Monozigote/sandbox14

Le dottrine fondamentali del cristianesimo: Foresta magica dei dogmi

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Non è questione di decisione individuale, il fatto che si creda o non si creda nel cristianesimo. E’ questo che le Chiese vogliono indurre a pensare di continuo. E forse è stato pure vero nel passato, allorquando il cristianesimo sembrava avvolto ancora nella nebbia del mistero. E quando ancora nulla si sapeva della molteplice esistenza e varietà di altre religioni, per cui riusciva facile ritenere vera soltanto la propria religione.

La liberazione scientifica dall’incantesimo del mondo ha affrancato dal sortilegio anche il cristianesimo. Il disincanto ha richiamato sulla terra il Cristo asceso su in cielo. Ha chiesto chi fosse e che cosa voleva e, inoltre, che cosa non aveva voluto di certo. Il risultato fu la conoscenza che il Cristo delle Chiese non ha quasi nulla da spartire col Gesù della storia. Il Cristo della Chiesa è una creatura di questa Chiesa: non fu lui a fondare la Chiesa. Al contrario, la Chiesa ha fondato Cristo.

Il Cristo delle Chiese è un prodotto artificiale e artistico; la sua prima rappresentazione nei Vangeli è già espressione d’una Chiesa che vuole credere. Le Scritture sacre sono testimonianze di fede, inadeguate e contraddittorie sul piano storico. La ricerca storica ha liberato Gesù dal mito, restituendogli il suo essere umano. Certo è che le Chiese preferirebbero tenerselo in qualità di Dio.

Nella foresta magica dei dogmi: le dottrine fondamentali del cristianesimo Il cristianesimo non è più un problema di fede. L’alternativa, se accettarlo o meno, non sussiste più in modo giustificabile sul piano intellettuale. Perciò essa non esiste più, in quanto le basi storiche di questa religione si sono rivelate fondamentalmente false. Non si può fare come se non fosse accaduto nulla. Ma è esattamente questo che tentano le Chiese, prima fra tutte il Cattolicesimo, che anche oggi si rifiuta ostinatamente di prendere atto dei risultati della ricerca scientifica sulla Bibbia, nella misura in cui essi non rientrano nella sua camicia di forza dogmatica, perseverando nella testardaggine teologica. Eppure, anche nelle Chiese protestanti, e naturalmente nelle loro rispettive aberrazioni fondamentalistiche, si preferisce non commentare i risultati dei propri teologi e professori. Dappertutto ci si imbatte nell’avvertimento che la fede non si debba far dipendere dai risultati storici, e che la fede sarebbe superiore ad ogni tipo di raziocinio.

A questa scappatoia si può controbattere senza esitazione. Con questo atteggiamento, infatti, sarebbe possibile giustificare persino la credenza in Biancaneve e i sette nani. Va da sé che debba avere ripercussioni sulla fede il dover constatare che il soggetto creduto non esistette affatto, o che fu del tutto diverso da quanto si è ritenuto finora. Chi non si lascia impressionare da fatti nuovi e da nuove conoscenze, non dev’essere in verità molto fiero della sua fede. Non si dovrebbe, per l’appunto, credere alla maniera d’un bambino. Un abitante aborigeno del Brasile, messo per la prima volta di fronte a un’automobile, la riterrebbe senz’altro una cosa miracolosa, forse addirittura un oggetto di venerazione e di culto (al pari di taluni contemporanei, ancora oggi!). Ma spiegandogli di che cosa è fatta, come sono costruite le sue componenti, come è stata assemblata e come funziona … ecco, costui ne trarrebbe un sicuro progresso conoscitivo. Una venerazione cultuale, per contro, sarebbe così divenuta impossibile. Analogamente, una riflessione storica ci mostra un oggetto nel suo divenire e nel suo condizionamento nella storia. Questo produce un effetto da un lato illuminante, dall’altro spesso deludente. Gesù Nella foresta magica dei dogmi: le dottrine fondamentali del cristianesimo – e con lui la cristianità nei suoi albori – perde molto del suo fascino, quando lo si osservi sul piano storico. In compenso, però, l’osservatore vede ormai l’oggetto con maggior chiarezza, traendone un incremento di conoscenza. E il fuggire, o rimaner fermo in un mondo fittizio, non è consentito a chi voglia vivere e pensare con sincerità. Da un lato, il cristianesimo è storicamente liquidato, eppure ancor sempre assai efficace nel divenire della storia. Perché, psicologicamente, è molto più semplice prendere atto d’una nuova conoscenza nel campo della biologia molecolare (che magari non interessa a nessuno) che non dover prender commiato da immagini ormai care, e più ancora da ideali modelli religiosi. Ancora per secoli, dopo la diffusione del cristianesimo, le religioni antiche e i vecchi politeismi si mantennero vivi nella fede popolare. Così sarà anche per il cristianesimo. Dogmi centrali e contenuti di fede di tutte le Chiese cristiane, divenuti parzialmente validi a partire dal II secolo, nel cui nome e per la cui affermazione milioni di persone dovettero perdere la loro vita, devono oggi – secondo quanto è stato dimostrato – essere considerati falsi. Non solo le loro vittime, anche i loro propugnatori sono morti invano. Il martirio religioso è assurdo di per sé. Le risposte cristiane non hanno nessun valore, una volta che la domanda si sia rivelata già posta nella maniera sbagliata.

L’incompatibilità di questo Gesù di Nazareth col Dio dei cristiani, che la ricerca storica ha dimostrato convincente e conclusiva, seppure non in tutti dettagli, è senz’altro il punto d’Archimede che scardina il mondo cristiano, il grande segno negativo davanti alla parentesi. La Chiesa si è sbagliata; col suo annuncio (sicuramente senza volerlo), essa ha fuorviato non solo masse innumerevoli di credenti, ma si è fatta essa stessa raggirare dalle proprie pie illusioni.

Pensatori critici hanno sempre obiettato come la storia della Chiesa si comprenda molto meglio non partendo dal dominio d’uno Spirito santo al suo interno. E’ possibile piegare molto di più e comprendere il mondo molto meglio, quando non si presupponga che lassù ci sia un Dio benevolo a guidare i destini del mondo. La storia della Chiesa è difatti mera storia profana. I non credenti l’avevano sempre vista come tale. E gli increduli hanno avuto ragione.

Ebbene, questa conoscenza rende ora tanto più eccitante lo sguardo puntato su ciò che la Chiesa riteneva di dover credere, e come doveva apparire il mondo che essa architettò a sua immagine e somiglianza. Nei capitoli seguenti, perciò, dovremo indagare al fondo di alcune dottrine essenziali delle Chiese.

Vero Dio e vero uomo: contraddizioni concepite come superiore saggezza

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Per i cristiani, Cristo è vero Dio e vero Uomo nel medesimo tempo. Gli acrobati della teologia hanno sempre amato fare giochi di destrezza con le antinomie. Nel controsenso, nel paradosso – teologica-mente – dovrebbe celarsi un significato più alto. Ciò che fu visto come un mistero della fede, ciò che in ogni modo la teologia protocristiana cercò di definire mediante concettualità pagane, rimarca un primo culmine dogmatico della Chiesa, che si apprestava intanto a mettersi in combutta con gli imperatori romani.

Per giungere a tanto, però, il cammino era ancora assai lungo. Abbiamo visto, d’altronde, che la cristologia, già nel primo secolo, aveva conosciuto enormi cambiamenti. Le visionarie apparizioni del Risorto si intrecciavano, nella comunità primitiva giudaico-cristiana, con titoli di sovranità maturati nell’apocalittica ebraica e col (non ancora canonizzato) Antico Testamento. Una prima espressione fu una cristologia di adozione. Con la risurrezione, Gesù venne adottato quale figlio di Dio. Con ciò, tuttavia, non s’intendeva ancora una natura divina, nel senso del dogma futuro. Il titolo di Figlio di Dio era applicato a connotazioni di regalità, soprattutto nei Salmi. Biograficamente, l’adozione di Gesù fu fatta retrocedere, e quindi sublimata, al battesimo di Gesù. In più, e forse in concorrenza con l’immagine del Figlio, Gesù fu identificato col Messia, il mediatore di salvezza per la fine dei tempi.

Per l’Ebraismo, come già il figlio di Dio, il Messia era comunque un uomo, sia pure un uomo speciale, scelto e prediletto da Dio. La comunità primitiva attendeva il suo ritorno, come già i vecchi Israeliti avevano atteso che i profeti sarebbero ritornati un giorno, per completare la loro missione. La cristologia crebbe in questo modo. Presto si diffuse pure la notizia che, già prima della nascita di Gesù, il suo arrivo fosse stato annunciato in guisa meravigliosa, che già alla sua nascita egli avrebbe avuto la dignità regale che i primi cristiani gli avrebbero attribuito solo più tardi. L’evangelista Giovanni la spinse all’estremo, interpretando Gesù – e rammentando il libro della Genesi – come preesistente figlio di Dio. Al più tardi qui, Gesù è univocamente più che uomo; come Dio, egli esiste fin dall’inizio della creazione.

Già coi primi passi dell’infanzia, la nascente cristologia si era molto allontanata da colui che essa cercava di descrivere, interpretando la sua missione. Per la Chiesa primitiva, la sua reale attività e la sua effettiva volontà, già nel corso del primo secolo, non furono più un segnavia definito. Da lungo tempo, ormai, si procedeva in tutt’altra direzione. La vita di Gesù somigliava ad un contenitore vuoto, che altri avrebbero poi riempito con la loro teologia. Ahimè, temo che mi stia trasformando in un Dio, si narra che Vespasiano avesse esclamato al termine della sua vita. (Svetonio, Vespasiano 23,4). Della propria apoteosi, al contrario, Gesù non ha potuto afferrare più nulla.

La comunità primitiva, trasfigurata idealisticamente da epoche successive, era condannata alla rovina, tanto che, specie dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., la città perdette molto della sua centralità. Ancora prima di Paolo, la nuova fede si propagò nel mondo greco-romano attraverso la metropoli di Antiochia. Nel mondo ellenistico, tuttavia, non si sapeva proprio che farsene dell’idea del Messia giudaico. Essa continuò a vivere solo ancora sotto il nome proprio di Cristo. Per la verità, l’idea del figlio di Dio venne mantenuta sulla base del nome, ma fu riempita ulteriormente da immaginazioni greche. L’Ellenismo pullulava di figli di Dio. Ciò che per gli ebrei sarebbe stato un orrore – una relazione genealogica tra dio padre e dio figlio! – nella cultura ellenistica non costituiva un problema. Il vero e proprio fondatore del Cristianesimo non fu Gesù, bensì Paolo di Tarso. Il cristianesimo che si andava diffondendo, iniziando la sua marcia trionfale, era nella sua essenza paolinismo. Grazie a questo Paolo, la giovane fede compiva il passo decisivo per penetrare nel mondo ellenistico. A Gesù di Nazaret, invero, Paolo si richiama ad ogni pie’ sospinto, ignorando d’altra parte il Gesù terreno in ogni momento della sua teologia. Non lo cita quasi mai, anzi dichiara il proprio ostentato disinteresse per il Gesù passato sulla terra. Solo la Croce e il Risorto sono al centro del suo interesse. Dell’insegnamento e della fede di Gesù non si ritrova in Paolo quasi nessuna traccia. A lui, che mai aveva conosciuto Gesù personalmente, questo fatto procurò conflitti con la comunità primitiva, dove sicuramente erano in vita ancora molti compagni di viaggio di Gesù. Purtroppo, dalle Lettere di Paolo, noi conosciamo solo la sua personale visione delle cose, che la Chiesa prossima ventura avrebbe naturalmente fatto proprie. Evidentemente, la comunità primitiva lo accusava di falsare il vangelo, di predicare non tanto Gesù quanto se stesso, oltre che di arricchirsi finanziariamente. Opponendosi a Paolo, la comunità sollecitava l’osservanza della Legge mosaica, insistendo sulla circoncisione. Perciò, si deve presumere che la comunità fosse effettivamente in sintonia col Gesù terreno, che voleva restare nei confini dell’ebraismo.

Alla fine, però, Paolo non ebbe più alcun ritegno verso istanze del genere. Egli aveva le sue personali “rivelazioni”, e le fece valere in modi bruschi ed efficaci nella propria teologia. In Antiochia, egli si scontra di brutto con Pietro (Gal 2,11–21), che è pur sempre il discepolo principale del suo Signore, e a lui – l’uomo che i papi vedono come loro capostipite – rivolge l’accusa di ipocrisia. Paolo è abbastanza accorto da non tagliare del tutto il legame con Gerusalemme, sebbene agitatori inviati dalla comunità primitiva penetrassero nei territori della missione paolina e, almeno in Galazia e a Corinto, tentassero di dirottare le giovani comunità seguaci di Paolo nell’alveo giudaico della Legge.

Nessun dubbio: vent’anni appena dalla morte di Gesù va in scena una spietata lotta di potere tra gli adoratori di Gesù in Gerusalemme da una parte, e il riformatore Paolo dall’altra. Questi ha sempre la risposta pronta, e attacca impetuosamente i suoi avversari. Con vigore polemico investe l’antagonista accusandolo di falsare e sovvertire il vangelo (Gal 1, 6–9), non trattenendosi neppure dal lanciare anatemi. Nella seconda lettera ai Corinzi inveisce contro costoro, che annunciano altrettanto il Cristo (e che in effetti sono più di Paolo vicini al loro Signore) definendoli falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ai suoi occhi, costoro sono addirittura manovali di Satana.

Poiché la posizione di Paolo è stata alla fine quella vincente, oggi i credenti hanno facilmente l’impressione che Paolo avesse ragione anche nei contenuti. Sul che è lecito avere dubbi legittimi. E i suoi toni polemici (pur sempre contro fratelli cristiani) risuonano già nei Padri della Chiesa antica, tutt’altro che delicati nel linguaggio, proiettando già le loro ombre sul leggendario “Sinodo dei briganti” di Efeso, dell’anno 449, allorquando masnade di monaci armati di bastoni aiutarono gli argomenti teologici ad ottenere maggior forza di persuasione.

Per Paolo, semplicemente, la comunità primitiva non aveva ancora afferrato l’importanza di Gesù. Ma Paolo, dal canto suo, non aveva conosciuto Gesù. Allora, da dove prese Paolo la sua teologia? Si può farla derivare dall’ambiente circostante? Quanto meno, esistono forti parallelismi tra la dottrina di Paolo e le coeve rappresentazioni ellenistiche. Nel mondo ellenistico, dèi sofferenti, morenti e risuscitanti, non erano certo una novità. Facevano parte dell’immaginario collettivo, ricorrente in quasi tutte le religioni misteriche, che godevano di grande popolarità nella popolazione, oltre che tra le legioni romane. Nei culti di Attis, Adonis, Osiride, eppoi nel culto di Dioniso, si riscontrano numerosi parallelismi con le rappresentazioni cristiane. Ce ne siamo già occupati trattando delle leggende sulla risurrezione. Ciò che però non abbiamo ancora menzionato, sono le equivalenze col culto di Mitra.

E queste analogie, già al primo sguardo, sono in realtà sconcertanti. Il culto di Mitra ebbe origine dalla eliolatria, cioè dall’adorazione del Sole: Mitra era il Dio della Luce celeste. La fede in Mitra ebbe le sue radici in Persia e in India. Di là si diffuse, verso l’inizio della nuova èra, per tutto l’Impero Romano. Il punto di irradiazione per l’Occidente fu la Cilicia, terra natale di Paolo, dove il culto era penetrato già 100 anni prima di Paolo. (Sul Mitraismo si veda Deschner, op.cit. p. 69–74)

Mitra discese dal cielo e si racconta che alla sua nascita fu adorato dai pastori, che gli recarono in dono le primizie dei greggi e dei frutti della terra. In seguito ascese in cielo, venne posto sul trono accanto al dio del Sole […] e infine fu parte di una Trinità. Si credeva, inoltre, che un giorno sarebbe tornato a suscitare e a giudicare i morti. (Deschner, op.cit. p. 70)

La domenica (= il giorno del Sole) era il giorno consacrato a Mitra, la data della sua nascita il 25 dicembre. Successivamente, i cristiani fissarono in questo giorno la nascita di Gesù, allo scopo di rimuovere Mitra, rimpiazzandolo nella coscienza del popolo. Per celebrare la nascita di Mitra, si iniziavano ai misteri i nuovi membri del culto. All’alba i fedeli lasciavano in processione il luogo sacro, portando con sé la statuetta di un bambino, simbolo del figlio del dio del Sole appena nato dalla Vergine, la Dea Caelestis. E non appena sorgeva il sole recitavano in coro la formula liturgica : “La Vergine ha partorito, la luce cresce”. (Deschner p. 71)

Il culto mitraico conosceva sette sacramenti, tra cui un battesimo, una cresima ed un banchetto liturgico, consistente in pane, acqua o vino. Il culto di Mitra possedeva un battesimo, una cresima e una comunione, celebrate come nel cristianesimo, in memoria dell’ultima cena del Maestro […] coi suoi discepoli; le ostie erano poi contrassegnate da una croce […] La messa veniva celebrata quotidianamente, ma la più importante era quella domenicale (nel dies Solis) […]. Sugli altari dei templi di Mitra era accesa una sorta di Luce Perenne […] e in particolari festività cultuali i peccati venivano purificati col sangue. (Deschner, op.cit. p. 72–73)

Parallelismi sconcertanti. Nondimeno, a differenza di Deschner, la ricerca parte oggi dal ritenere un influsso del culto mitraico molto più esiguo di quanto si supponeva ancora nella prima metà del Novecento. Per la verità, anche il culto di Mitra era gradito – al pari del cristianesimo – agli strati inferiori della società. Come il culto cristiano, infatti, il Mitraismo credeva in una immortalità dell’anima e in una risurrezione della carne. Come nel cristianesimo, il culto mitraico si richiamava ad una rivelazione e restava in attesa di un giudizio finale. Per la verità, si rivolgeva soltanto ai maschi, ed era per giunta una religione segreta; il che doveva necessariamente ostacolarne la diffusione. Nel IV secolo, il Mitraismo fu rigorosamente perseguitato; molti sacerdoti subirono il martirio per mano di cristiani fanatizzati, i santuari saccheggiati e, sopra quelle rovine, vennero edificate chiese cristiane. V’era un’altra grande differenza: Mitra, al pari di Osiride, di Dioniso ed Eracle, era una figura mitica. Per contro, Gesù ha vissuto realmente. Le Chiese non si stancano mai di sottolinearlo. E’ tuttavia evidente che qui, le rappresentazioni, comunque già note nella società ellenistica, sono state semplicemente intrecciate con un personaggio storico. Forse proprio questa relazione dell’uomo reale Gesù con rappresentazioni mitologiche, fu l’autentica ricetta garante del successo del cristianesimo. Grazie ad essa, concezioni come redenzione e vita eterna guadagnarono qualcosa di tangibile, di più credibile. Così, calandosi dal mito nella storia, la nuova mitologia cristiana poté sprigionare con più efficacia la sua forza peculiare. Le analogie che accomunano religioni misteriche e cristianesimo sono comunque troppo vistose per poter accettare che qui non avesse luogo nessuna interferenza. Dove stia precisamente il confine, è però oggetto di controversia. Ma è possibile che parti anche rilevanti del patrimonio intellettuale, sentito come genuinamente cristiano, si debbano ricondurre ad influssi pagani. Forse è per questo che si accusò Paolo d’una falsificazione del Vangelo. Ma non c’è dubbio che fosse un innovatore.

Da Paolo fino alla dogmatizzazione della divinità di Gesù – avvenuta nel primo Concilio ecumenico di Nicea nell’anno 325 –, il cammino era ancora lungo. Eppoi, con tutte le innovazioni, anche Paolo rappresentò ancora una cristologia che Nicea, duecento anni dopo, avrebbe respinto come eretica. Perché Paolo pensava ancora secondo la teoria subordinazionista, vale a dire che per lui Gesù, pur con ogni dignità, era sempre subordinato a Dio. Cristo stava una gradino al di sotto di Dio: era ancora una specie di semi-dio. Solo a Nicea diventò maggiorenne, toccando la qualità di Dio.

A Paolo non si può imputare di non essere stato ancora all’altezza dogmatica di epoche avvenire. Certo è che, se fosse vissuto nel quarto o nel quinto secolo, avrebbe dovuto temere conseguenze personali, in quanto non ortodosso. Nel primo, e ancora nel secondo secolo, il subordinazionismo era non solo permesso, ma costituiva anzi la forma autentica della cristologia. A nessun teologo, in quel tempo, sarebbe venuto in mente di mettere Gesù al medesimo livello di Dio. Grandi filosofi e teologi del primo cristianesimo pensavano tutti secondo la teoria subordinazionista: Giustino il martire (morto nel 165), alla stessa maniera di Ireneo di Lione (202), e più tardi ancora Tertulliano (230). Persino Origene (morto da eretico intorno al 254) era ancora dell’avviso che Gesù stesse chiaramente al di sotto di Dio. Oltretutto, Origene giunse fino a respingere la preghiera per Cristo. Perché la preghiera doveva rivolgersi unicamente a Dio stesso (si veda Deschner, op.cit, p. 405 ss.)

Questo venne giustificato, nella misura in cui fu giudicato necessario, con versetti come quello di Giovanni 14,28: “perché il Padre è più grande di me.” Dunque, persino il Vangelo di Giovanni, già assai generoso sul piano cristologico, non si trova ancora al livello del più alto “stadio gnoseologico” dei futuri dottori della Chiesa. Neppure Giovanni, al pari dello stesso Paolo, è ortodosso nel senso della successiva dogmatizzazione. E naturalmente, oggi, lo stesso Gesù dovrebbe necessariamente fare i conti con una revoca dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. E con questo, nel confronto con quanto gli sarebbe capitato nei secoli precedenti, se la caverebbe ancora bene. La dottrina delle due nature, che intende cioè Cristo come vero Dio e vero uomo, venne dogmatizzata solo a Nicea, e ribadita nei Concilii successivi. Fino a Nicea vi furono molti tentativi – con l’aiuto della filosofia greca – di avvicinarsi al problema dell’essenza di Cristo. Il colpo decisivo per la dogmatizzazione della teoria delle due nature l’aveva dato l’opera di Ario, un sacerdote di Alessandria, dal cui nome vennero poi chiamati gli Ariani. Per Ario, solo il Padre era Dio in senso stretto, il Figlio invero il più perfetto fra tutte le creature, ma pur sempre creatura, e pertanto separato dal padre. Gli avversari sostenevano una procreazione del figlio da parte del padre. Sa il cielo che cosa si debba immaginare concretamente con questa procreazione; la discussione teologica si era da lungo tempo allontanata per occupare spazi totalmente estranei alla realtà. Persino la maggioranza dei chierici non erano più in grado di seguirla, tanto meno i fedeli, relativamente incolti, dell’Impero d’Occidente. Nessuna ragione, tuttavia, per non combattersi aspramente tra credenti. L’imperatore Costantino, unico autocrate dopo la sua vittoria su Licinio nel 324, indisse a Nicea il primo Concilio ecumenico. Fatto assai ragguardevole, giacché Costantino era pagano. Che si fosse fatto Vero Dio e vero uomo: contraddizioni concepite come superiore saggezza battezzare, è questione ancora irrisolta. A lui, in ogni modo, davano molto fastidio i coevi battibecchi teologici; voleva soprattutto riportare quiete sul fronte delle religioni, e intervenne attivamente nel dibattito. Situazione paradossale: la persecuzione di Diocleziano era superata da pochi anni, ed ecco i delegati sinodali trovarsi riuniti d’un tratto nel palazzo imperiale, faccia a faccia col l’imperatore, che per giunta li lusingava, rendendoli partecipi della sua pomposa esistenza.

Chi avrebbe osato opporsi ai desideri imperiali? Dei 56 vescovi, per gran parte provenienti dall’Oriente, solo pochi erano in grado di comprendere la questione. La formula di Nicea era un compromesso, elaborato probabilmente nella cancelleria dell’imperatore pagano. Di tutti i presenti, infatti, nessuno aveva sostenuto fino allora quella risoluzione: d’ora in poi, Cristo doveva essere considerato omologo al Padre, simile nella sostanza, cosicché gli Ariani furono condannati. Ciò nonostante, le differenze continuarono a sussistere fino al secondo Concilio ecumenico a Costantinopoli (anno 381), ed oltre.

Un dottrina centrale del Cristianesimo, la domanda su chi fosse Cristo e quale dignità gli spettasse – nella storia della Chiesa e nell’arco di appena tre secoli – ebbe così risposte totalmente differenti, mantenendo invero la comune tendenza a gonfiare sempre di più il pallone cristologico. Alla fine ne uscirono definizioni che non avevano più nulla da spartire coi testi e le rappresentazioni del Nuovo Testamento. Alla fin fine, ecco un imperatore pagano, con l’approvazione di pochi vescovi veramente competenti, pronto a mettere la chiave di volta su questo primo grande castello in aria dogmatico della Chiesa, ormai riconosciuta anche dallo Stato.

La divina Trinità

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Ancor più a lungo che per il dogma cristologico, la Chiesa trafficò intorno al dogma della Trinità. Forse fu, anche qui, l’ambiente e la cultura ellenistica a mettere le ali alla fantasia. Già lungo tempo prima del cristianesimo, in realtà, le triadi divine erano note e venerate. V’erano state già presso i Sumeri e i Babilonesi. In Egitto, Iside Osiride e Horus furono venerati come triade divina; la religione di Stato romana venerava i tre dèi capitolini: Giove Minerva e Giunone. Il dio Ermete venne spesso definito e venerato come l’Ermete tre volte grande, noto come Ermete trismegisto. In più, il fatto che un Dio si mostrasse e fosse venerato sotto tre forme o modalità di apparizione, non era certo nuovo nel mondo antico, esistendo già nell’Induismo e in certe varietà del Buddismo. La storia delle religioni conosce molte documentazioni di triplice deità, che spesse volte furono riguardate come emblema di perfezione. Anche l’unità di un Dio, o la dualità d’una coppia di dèi, poteva rappresentare un simbolo di perfezione. Inoltre, tra migliaia di culti e di religioni, per forza devono emergere senza tregua determinate rappresentazioni. Esistono delle costanti, nella storia delle religioni, che si manifestano nei culti, che non hanno d’altronde nulla in comune tra di loro: ad esempio, riti di iniziazione e di purificazione, banchetti sacri, riti di fertilità, scenari di redenzione, di creazione del mondo e di catastrofi, caste di sacerdoti in via di formazione, sacrifici di immolazione, luoghi sacri, immagini divine, feste cultuali. Contribuisce non poco a smaltire la sbornia, da parte dei credenti, il fatto che debbano constatare una buona volta come i rituali da loro tanto amati vengano praticati anche – in forma lievemente mutata – da tribù dell’età della pietra, poniamo in Amazzonia. Bisogni religiosi e relativi appagamenti liturgici si controbilanciano, appunto. Il rigoroso monoteismo degli Ebrei non ammetteva alcun principio trinitario. Tuttavia, una volta stemperato questo monoteismo con l’elevazione di Gesù a Dio, anche la via per una Trinità finiva per essere percorribile.

La Bibbia, tuttavia, non conosce alcuna dottrina trinitaria. La parola Trinitas è una creazione del teologo della Chiesa antica Tertulliano, intorno all’anno 200. Ciò che si trova nella Bibbia, sono tutt’al più formule cosiddette triadiche, come ad esempio il cosiddetto ordine battesimale in Matteo 28,19: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, di cui abbiamo parlato sopra, e che non risale a Gesù. Sennonché i Padri della Chiesa, animati da grande zelo, si sforzarono di scovare ancora nella Bibbia l’insegnamento ormai dogmatizzato. Tirati per i capelli, si snidarono alcuni gracili passi, che dovrebbero alludere ad una trinità, per esempio il triplice santo, santo, santo, in Isaia 6,3. Più di tutti, si prestò all’uopo il Vangelo di Giovanni. Le cui parole di Gesù, anche quelle interpretate in senso trinitario, sono peraltro, secondo l’unanime giudizio della critica, libere invenzioni. Se Gesù dovesse aver parlato dello Spirito, cosa non inverosimile, avrebbe inteso in ogni modo non una persona divina, bensì la rappresentazione veterotestamentaria dello spirito di Dio, (Ruach Jahwe), una sorta di forza divina o di presenza di Dio. Paolo parla invero di Spirito, ma non lo riflette all’interno della propria teologia. Oppure lo identifica col Cristo (2 Cor 3,17). ma poi lo Spirito affiora nelle leggende sulla nascita, quindi in uno stadio successivo della tradizione. Maria viene ingravidata “dallo Spirito Santo”. Anche nel tardo vangelo di Giovanni lo Spirito riceve profili personali. (Gv 16,15). Inoltre, v’erano pure altre rappresentazioni, secondo cui Gesù veniva parificato allo Spirito: così nella Seconda lettera di Clemente (9,5; 14,2), non più inserita nel Nuovo Testamento. Formule trinitarie senza Spirito, vale a dire Dio-Figlio (dell’uomo)- angeli, si trovano in I Timoteo 5,21 e Luca 9.26. “Più tardi sarebbero spuntate anche avvisaglie d’una quaternità. Così, intorno al 150 della nuova èra, Giustino martire parla di quadruplicità: Dio padre, figlio, schiere angeliche e Spirito santo.” (Deschner, op.cit., p. 404 ss.) Eppoi, aggiungendovi pure Maria, sarebbero già cinque. Chi offre di più? Così abbiamo di nuovo una lunga serie di rappresentazioni, che nella sostanza hanno un elemento in comune: nessuna risale al Gesù storico, tutte sono invenzioni di epoche successive. Dopo che la speculazione religiosa, anche qui, ebbe preso l’aire, rendendosi presto autonoma, non si preoccupò più del problema d’un appiglio nella vita reale di Gesù. Anche la discussione venne presto gonfiata con teorie greche; anche qui si pose la questione del rapporto dello Spirito rispetto al Padre e al Figlio, anche qui lo Spirito venne dapprima subordinato a Dio, anche qui questa subordinazione verrà presto tacciata di eresia. Nel secondo Concilio ecumenico – quello di Costantinopoli nell’anno 381 – il dogma della Trinità venne saldamente blindato, di nuovo sotto la regia dell’imperatore. E qui anche lo Spirito diventò Dio al cento per cento. Con la Trinità, il cristianesimo barattò una dottrina che doveva necessariamente sfidare l’accusa di triteismo: una teoria sulla triplice divinità. Per sottrarsi alla quale, il dogma fu caricato d’una quantità enorme di concetti tipici della filosofia greca, aspirando a raggiungere una unità nella triplicità, che in ultima analisi è impossibile a pensarsi. Soluzioni di problemi talmente tortuose possono pure risultare dal fatto che l’oggetto è in sé assai complicato. Ma possono anche mettere in rilievo che l’impostazione è sbagliata nella sua interezza. Si pensi magari ad un paragone col sistema cosmico di Tolomeo, dove i pianeti dovevano avere orbite del tutto innaturali e, comunque, allorquando si immaginava ancora che la Terra stesse al centro dell’universo. In seguito, allorché si estromise la Terra dal centro e al suo posto si collocò il Sole, tutto l’insieme ne ricevette forma e senso logico. La questione su dove stia l’errore della dottrina trinitaria, sarebbe tuttavia ancora troppo candida. Il dogma, nel suo complesso, è uno storico castello in aria, un teologico gioco di perle di vetro: un monito di come si può prendere un granchio quando, in luogo della ragione, si tengono le briglie sull’irrazionale religioso. Ma i teologi anche qui, come nella teoria delle due nature, tornarono a vedere proprio nella contraddittorietà, ancora una volta, una dimostrazione di sapere e di logica “superiore”. Per il luterano Paul Althaus, ad esempio, precisamente l’assurdo, proprio l’impossibile per la logica, è una testimonianza per la verità del dogma trinitario (P. Althaus, Die christliche Wahrheit [sic!] //La verità cristiana//§71,3). Che cosa si dovrebbe dirne e pensarne ancora?

Il dogma trinitario, in ogni modo, come tutte le deliberazioni conciliari, divenne non solo legge della Chiesa, ma anche dell’Impero, e la sua inosservanza perseguitata dal braccio secolare. Neppure i Riformatori misero in discussione le decisioni prese dalla Chiesa antica. Durante l’Umanesimo, per la verità, e nei confini della Riforma luterana, si fecero conoscere correnti di pensiero che rifiutarono le teorie trinitarie. Il loro esponente più noto, Michele Serveto, fu fatto bruciare a Ginevra da Calvino nel 1553. Nella moderna teologia protestante, la dottrina trinitaria ha avuto un’esistenza oscura. Schleiermacher, ad esempio, la accantonò in coda alla sua dogmatica. Una rinascenza l’ebbe solo nel Novecento, con l’opera imponente di Karl Barth, che ne fece senz’altro il portale d’accesso al suo pensiero teologico. Nel cattolicesimo ufficiale, del resto, cristologia e dottrina trinitaria non sono mai state messe in discussione. Molti cattolici giudicano positiva questa situazione.

Una cruenta redenzione sulla croce

“Quale primitiva mitologia è questa, che una divinità incarnatasi nell’uomo espii col suo sangue i peccati dell’uomo!” Certamente nessuno ha espresso il problema d’una redenzione sulla croce in maniera più drastica dello studioso neotestamentario di Marburgo, Rudolf Bultmann, nel suo saggio Neues Testament und Mythologie (1941). Al pari di molti teologi moderni, egli voleva rendere vivibile e credibile la credenza cristiana proprio per il nostro tempo. Perché la croce non fu solamente, come scrive Paolo, uno scandalo per i Giudei e una follia per i pagani (I Cor 1,23); essa è altresì ardua da comunicare all’uomo moderno. Bultmann tenta un nuovo approccio alla fede personale del singolo che, presuntivamente attraverso questo Gesù e attraverso la croce, viene posto di fronte alla propria scelta individuale. La mitologia primitiva non è che un mezzo espressivo d’un tempo trascorso: una valuta che oggi non possiede più nessun potere d’acquisto. Solo pochi hanno imboccato le vie nuove proposte da Bultmann. Presso i clericali spaventati, se e per quanto ne avessero preso conoscenza, lo studioso Bultmann non aveva comunque prospettive di successo, giacché costoro pensano e credono ancora oggi, in misura preponderante, senza deviare dai binari d’una mitologia ormai antica di secoli.

Se la dottrina delle due nature e quella trinitaria sono assurde, ecco che l’insegnamento dell’opera salvifica di Dio sulla croce è ripugnante e disgustoso. In quale scantinato maleodorante di muffa si viene qui condotti? “Una sanguinosa redenzione sulla croce è una pagana religione di sacrifici umani secondo modelli religiosi da età della pietra”: così dichiara la teologa U. Ranke-Heinemann nel suo Negatives Glaubensbekenntnis. E Joachim Kahl chiede accusando: “Che cos’altro è la croce di Gesù Cristo se non la quintessenza d’una sadomasochistica esaltazione del dolore?” (J. Kahl, Das Elend des Christentums, S.19 //La miseria del cristianesimo//). Se non si fosse cresciuti all’interno d’una società equipaggiata di relitti cristiani, ebbene, questo centrale articolo di fede cristiano avrebbe effetti ancora più alienanti e problematici. Sono nondimeno le continue ripetizioni che hanno quasi abituato la gente a questo pensiero: Dio in persona è morto sulla croce in espiazione dei peccati dell’umanità. A prezzo del suo sangue, egli ha riconciliato gli uomini con sé. La redenzione degli uomini fu, di conseguenza, la più nobile missione di Cristo. Per poterla compiere, egli ha bisogno di potere e autorità speciali. E li ottiene per mezzo della sua divinizzazione, che le Chiese gli hanno appunto assegnato. Questo accadimento è, in effetti, di carattere assolutamente mitologico. Per chi trovasse difficile riconoscerlo, si immagini semplicemente una tribù indiana che sacrifica ritualmente una persona per placare col suo sangue gli dèi. Ciò che a noi in quel caso fa paura e ci sembra tanto primitivo, ci viene qui ammannito dalle Chiese – da duemila anni – come divino evento di salvazione. Gesù sacrifica la propria vita; anche il suo sangue è destinato alla riconciliazione, come il sangue d’un animale ucciso durante il sacrificio. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù muore nell’ora medesima in cui nel tempio si macellano gli agnelli pasquali. In questo modo, Gesù dev’essere interpretato come il vero agnello pasquale. Cristo, agnello di Dio, che porti i peccati del mondo, si recita ancora oggi nella liturgia ecclesiastica. Il Dio dev’essere ammansito, riconciliato per la salvezza degli uomini. E certamente, oltre alla preghiera per la fertilità, non v’è nessun’altra intenzione di culto che si trovasse e che si trovi nelle civiltà umane con maggior chiarezza e frequenza di quella riguardante la conciliazione o la redenzione. Della fertilità degli animali e dei campi l’uomo ha bisogno per la propria esistenza fisica, ma della conciliazione o della redenzione ha bisogno per la propria struttura psichica. Questa sembra essere una legge fondamentale dell’antropologia. E così non suscita meraviglia il fatto che nell’antichità fossero largamente diffusi culti ed ideali di salvezza. Nel culto di Mitra, in virtù del sangue d’un toro ammazzato, si lavavano i peccati dei fedeli. Eracle e Dioniso furono note figure di redentori. In quasi tutti i culti del mondo antico la vittima ricopriva un ruolo importante. Dappertutto si trovavano altari, are sacrificali e aree per il fuoco sacro: il culto degli olocausti era spesso il servizio precipuo della classe sacerdotale. Ininterrottamente, un Dio doveva essere riconciliato, oppure (anche solo per antica consuetudine), era necessario offrirgli una vittima sacrificale. Nel Tempio di Gerusalemme le cose non andavano diversamente; solo che qui si sacrificava ad un Dio unico. Di vittime umane, ancora presenti in epoche preistoriche (si veda la storia del sacrificio di Isacco, Gen 22), non c’era più traccia; in compenso, agnelli, tori e anche colombe venivano immolati in quantità incalcolabili. Dal momento che al centro del Cristianesimo si colloca un evento sacrificale, non suscita stupore che un patibolo sia diventato il simbolo supremo di questa religione. Goethe si è mostrato inorridito di fronte a questo atroce simbolo d’una religione.

Quando Feuerbach pensava che l’antropologia fosse il mistero della teologia, allora, in un contesto analogo, si può ben dire: la mitologia è il mistero del Cristianesimo. Non solo la dottrina trinitaria è in ultima analisi una mitologia adornata di concetti filosofici; anche la cristologia, ed in più la teologia, trovano luogo tra le categorie mitologiche. Ma è la dottrina della salvezza nel cristianesimo – la soteriologia – dove questo si fa particolarmente evidente. Perché, ciò che una filosofia forse crea ancora (o in epoche passate ha creato), cioè di installare in qualche modo un Dio dentro un edificio concettuale, ecco, non le riuscirà invece l’incorporamento di una vittima sacrificale. Del tentativo fatto perciò da Anselmo di Canterbury, nel suo libro Cur deus homo – (perché Dio si fece uomo, anno 1098), verremo a parlare più avanti. Tutto ciò non sarebbe un problema, se gli uomini seguitassero a pensare ancora secondo categorie mitologiche. Così facevano gli eroi della fede presentati nella Bibbia. A Gesù e Paolo era familiare un’immagine mitologica del mondo; per i Padri della Chiesa, per Tommaso d’Aquino, per gli esponenti della Riforma, non esisteva un altro universo: un cattolicesimo retrogrado e il protestantesimo devoto, oggi, continuano a pensare alla stessa maniera. E anche papa Ratzinger, come a suo tempo Lutero, non scaglierebbe oggi il calamaio addosso al diavolo? Giovanni Paolo II l’avrebbe fatto sicuramente. Ebbene, chi altrimenti lo farebbe ancora? Se l’uomo moderno, oggi, non sa più che farsene d’un sacrificio sanguinolento, se persino i parroci si sentono imbarazzati con la teologia sangue-e-ferite, si pone naturalmente la domanda se tutto ciò possa intendersi del tutto diversamente, senza mitologia. Come si deve addobbare la sposa, per non far vedere che ha già cent’anni? In concreto: come si vuole reinterpretare un sacrifico cruento – anticamente inteso proprio alla lettera – al fine di distillarne in qualche modo un contenuto senza tempo? I numerosi teologi moderni, che ci hanno provato, non sembrano aver trovato ancora una soluzione convincente. S’impone di nuovo imperioso il sospetto: esistono idee talmente legate ad una forma specifica, che non possono non morire quando le si spoglia di codesta forma. Il cristianesimo si dissolve, non appena si vuole rimuovere la mitologia dalle sue dottrine determinanti. Senza mitologia, la dogmatica delle Chiese è devitalizzata. Ciò che ne avanza, è solo un mucchietto di etica. L’interno del variopinto pallone aerostatico è troppo prosaico, e un bel sogno non ha un passaporto per il mondo reale. Non meno problematica è anche la deduzione che Paolo ci propina in una apparente argomentazione probatoria. In quella che i teologi definiscono la tipologia Adamo-Cristo, Paolo afferma: Come dunque per la caduta di uno solo [Adamo] si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo [Cristo] si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. (Rom. 5,18) Paolo crede davvero, in maniera così realisticamente ingenua, nelle storie bibliche della creazione? Parecchi teologi lo mettono in dubbio, vedendoci piuttosto un discorso simbolico. In tal caso, però, la sua argomentazione avrebbe ancora senso? E Dio, quale spettacolo mette qui in scena? E’ lui, colui che provoca il sacrificio, ed insieme colui che lo accetta? E la risurrezione non annulla forse il sacrificio postumo? “L’azione d’un uomo che va volontariamente a morire per i suoi simili è universalmente considerata come nobile. La pretesa aggiuntiva che non sia realmente morto, rende l’intero sacrificio truffaldino e pacchiano. (Dunque chi dice Cristo è morto per i miei peccati, mentre egli in realtà non è affatto morto, fa un’affermazione falsa nei suoi stessi termini.).” (Chr. Hitchens, Dio non è grande, p. 137) Perché un Dio ha bisogno d’un siffatto procedimento complicato e sanguinoso, per farsi riconciliare? Noi tutti, nelle relazioni di ogni giorno, veniamo trattati talora ingiustamente: le persone “peccano”, cioè fanno del male a noi, come noi ne facciamo a loro. Non è forse un segno di autocontrollo e di carattere il fatto che, semplicemente, si perdoni e si dimentichi? Pretendiamo dai nostri debitori, per questo, una resa dei conti, una soddisfazione immediata? Perché dunque, per Dio, cotanta messinscena per la salvezza?

La risposta è, in fondo, oltremodo semplice. La dottrina della salvazione sulla croce è diventata parte della fede cristiana solamente perché si volle, e si dovette, conferire un senso all’evento sulla croce. Dal momento che Gesù era morto sulla croce, i suoi seguaci dovevano vederci in qualche modo un significato. Non potevano tollerare la sua disfatta, dovevano ridefinirla e convertirla in una vittoria. Se Gesù fosse morto, come morì Buddha da vecchio, insegnando sotto un albero, non ci sarebbe stato bisogno d’una tale teologia del sangue e della ritorsione. La teoria cristiana della salvezza (soteriologia) è dunque una reazione alla morte di Gesù, divenuta tosto incomprensibile per i suoi seguaci. Non è un eterno piano di salvezza proveniente dal theatrum mundi divino, quello che qui si rappresenta: è una pièce teatrale inedita che qui va in scena, in prima visione assoluta. E il suo autorevolissimo regista non è Dio, tanto meno Gesù, bensì Paolo. E’ a Paolo che noi dobbiamo questa riconciliazione mediante il sangue. Anche prima di lui ed oltre a lui ci saranno state, naturalmente, altre possibilità di interpretazione: quella paolina, tuttavia, ha finito per imporsi. Paolo ha infatti combinato sia le idee sacrificali giudaiche sia i miti di redenzione ellenistici, interpretando la morte di Gesù come avvenimento di salvezza. Attraverso le sue Lettere, con la sua teologia, divenne ortodosso ciò che – dalla prospettiva della comunità primitiva, che lo criticava aspramente – non era ancora esistito. A lui e alla sua teologia si richiamarono i padri della Chiesa, specialmente Agostino, ma anche i futuri riformatori. Una presunta elaborazione filosofica derivò alla soteriologia paolina ad opera del già ricordato libro Cur Deus homo, dell’arcivescovo Anselmo di Canterbury. Nel suo libro, scritto poco prima del 1100, Anselmo cerca di dimostrare il mito di Cristo come fatto plausibile. Egli tenta di provare che solo in questo modo Dio poteva riconciliarsi con l’uomo. In un fittizio dialogo con un monaco ci si accorda sul fatto che a Dio era necessario offrire una soddisfazione giacché, diversamente, Dio sarebbe ingiusto. Sennonché l’uomo non può dare questa soddisfazione; questo può farlo solo Dio. Per questa ragione (così Anselmo vuole dimostrare), era necessario che nascesse il Gesù dio-uomo, il quale può realizzare questa missione. Con la sua morte sulla croce, pertanto, egli ha riconciliato l’umanità con Dio. Questo trattato teologico, influenzato giuridicamente anche da concezioni feudali tipiche del Medioevo, godette di grande popolarità durante il Medioevo e all’inizio della modernità, in quanto sembrava conferire all’evento della croce un’interiore necessità. Ragion per cui, ancora oggi, esso gode di alta considerazione presso i cattolici più colti. Nondimeno, ciò che più di tutto depone a sfavore di Anselmo, contro i riformatori e i cattolici, anzi contro Paolo, mettendosi di traverso, è ancora e sempre lo stesso Gesù storico, che non si lascia qui incorporare nelle dogmatiche, cattoliche o protestanti che siano. In realtà, di una redenzione col sangue, di una remissione sulla croce, non si trova traccia in Gesù. Tutto al contrario, il suo Dio perdona, anche senza che debba scorrere sangue. Tra l’altro, è proprio questa annunciata accettazione degli uomini peccatori l’aspetto che ha reso così attrattivo il messaggio del Nazareno. Dove Paolo ha bisogno di drammatizzare la storia del mondo, Gesù assolve semplicemente dai peccati. Nella parabola del figliuol prodigo, il peccatore pentito viene accolto di nuovo dal padre, e una soddisfazione non è necessaria (del che suo fratello persino si lamenta). Con franchezza, Gesù assicura agli uomini la remissione dei peccati, senza che per questo sia necessario nient’altro che devota fiducia, penitenza e rimorso. Nessun uomo, nessun Dio deve morire per questo. Che il Figlio dell’uomo debba immolare la propria vita per molti (Mc 10,45) altro non è, secondo la quasi unanime opinione degli esegeti, che una tarda interpretazione della comunità. Personalmente, Gesù non aveva alcuna dottrina di salvezza, e non ne sentiva bisogno. Il perdono di Dio è un dono per tutti gli Israeliti che siano disposti alla conversione. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori è la preghiera che fa fare ai suoi discepoli; e non sussiste alcun dubbio sulla sua opinione, cioè che questo perdono fosse pure concesso. Visto in questa luce, l’annuncio di Gesù è un’autentica “buona notizia” per gli uomini, mentre la cupa legge di colpa e di morte determina il pensiero di Paolo. A questo punto risplende, nell’opera di Gesù, un breve momento di umanità innovativa, aperta a nuovi orizzonti: è qui che egli cresce davvero al di là del suo tempo. Paolo, all’opposto, non sa liberarsi dalle sue catene legalistiche, per quanto egli predichi anche contro la Legge come tale. Di questo Dio filantropo, del Padre amoroso, Paolo ha fatto di nuovo un Dio delle vendette, che deve essere placato col sangue. La redenzione attraverso il sangue di Cristo, nell’apostolo Paolo, sta dunque in crassa antitesi con l’annuncio di Gesù. Si constata ancora una volta con quanto rigore Paolo ponga in risalto la propria visione delle cose, e quanto poco trovi spazio, nella sua teologia, il Gesù vissuto sulla terra. Tuttavia, il fatto che Paolo facesse valere adeguatamente il pensiero di Gesù, fu il tacito presupposto di tutte le Chiese. Fu la ragione per cui la stessa Riforma protestante non fece ricorso a Gesù. Anch’essa arrivò fino a Paolo. Solo la ricerca sul Nuovo Testamento ha scoperto e descritto la differenza tra il pensiero di Gesù e il pensiero di Paolo; solo grazie ad essa si è riusciti a liberare Gesù dalle catene e dalle pitture sovrapposte della teologia paolina. Quanto più chiari e numerosi sono i contorni del Gesù reale, tanto più deve impallidire il Gesù dogmatico delle Chiese. Il Gesù che ci viene incontro è invero più autentico della sua controfigura clericale, ma non può più essere oggetto di adorazione religiosa. Nel migliore dei casi, è un uomo buono o saggio, un maestro, forse un modello ideale. Ma non un dio, non un redentore, non un giudice.

Un’immagine distorta del mondo e dell’uomo

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Non sono i nostri peccati quelli di cui Gesù dovette farsi carico. Al contrario, egli si è trascinato attraverso i secoli la dogmatica caricatagli addosso, trascinando di concilio in concilio una soma sempre più pesante, fino a quando, alle soglie dell’età illuministica, incespicò e dovette cadere. Il Cristianesimo è un esempio emblematico di come un’idea religiosa può acquisire una propria totale autonomia. Non è lo Spirito Santo, come credono le Chiese, che qui è all’opera. Questo spirito non è che un’invenzione di epoche successive, anch’esso il prodotto d’una evoluzione. Le forze propulsive sono fantasia religiosa e una gagliarda porzione di sogni e pii desideri. Ecco qui la stoffa di cui sono intessuti i sogni religiosi. E’ possibile che una persona ci stia, all’inizio, ma non è assolutamente indispensabile. Ciò che l’individuo ha detto e voluto, è secondario: la configurazione della teoria religiosa non ha molto riguardo per la persona presa in considerazione. Le religioni non vengono costruite dai presunti fondatori, bensì dai loro seguaci. Sono loro a decidere dove e come evolveranno le problematiche religiose. Non è un’invenzione consapevole, quella che avviene in questo processo. Piuttosto, gli attori sono convinti soggettivamente dell’oggettività delle loro opinioni e del loro agire. Sono infatti rei convinti. Il mondo fittizio, che essi costruiscono, è per loro reale; la verità, in cui credono di credere, è per loro stringente e ineludibile. Sul fertile terreno di coltura della fantasia religiosa crescono lussureggianti creature fantastiche: parti fisiologici veracemente e vanamente religiosi. Così si arriva a tanto: che un uomo si trasforma lentamente in Dio, una madre diventa piano piano una madre di Dio, una morte tragica significa la manifestazione d’un volere divino. No, non è frode né impostura, ciò che qui si consuma. E’ autosuggestione, è mero autoinganno.

Per chi l’osserva dall’esterno, l’edificio della religione appare grottesco ed alieno, fuori dalla realtà; per i credenti, invece, è il traguardo ultimo, il livello supremo della saggezza. In realtà, all’interno di un gruppo religioso, i credenti si confermano reciprocamente la giustezza del loro patrimonio di fede; e quando amici e parenti assicurano credibilmente la stabilità d’un edificio religioso, si è ormai conquistati per metà in favore della nuova fede. Religione significa autoinganno mutuo, basato appunto sulla reciprocità. In pratica, già i cristiani della seconda e terza generazione non ebbero più alcuna possibilità di mettere al sicuro, con collegamento a terra, il loro edificio di fede con la figura del Gesù storico. Anzi, è da presumere che non ne avessero alcun interesse. Le concezioni cristiane su Dio si potrebbero forse lasciar perdere, se alla teologia (e più di tutto alla cristologia) non fosse ancora appesa tutta un’antropologia, anzi, di più ancora, un intero modo di vedere l’umanità e il mondo. Quando l’uomo accetta che Gesù sia morto per i suoi peccati, ebbene, questo ha ripercussioni sulla propria visione di sé e del mondo. Se il mio peccato è così brutto da far sì che un Dio debba perciò essere issato sulla croce, allora il peccato non può essere pensato mai abbastanza brutto. L’escogitata azione salvifica di Gesù comporta una dottrina del peccato estremamente realistica ed estremamente problematica. La derivazione mitologica del peccato Nella Bibbia, il peccato viene concepito non solo come concreta azione individuale, ma ancor più come un fondamentale allontanamento da Dio. Questo distogliere lo sguardo da Dio è di per sé peccato. Sullo sfondo c’è il pensiero che Dio abbia diritto ad essere venerato, dal momento che ha creato l’uomo. E Dio esige anche ubbidienza dall’uomo. Peccare è pertanto anche disubbidienza nei confronti di Dio. Per il credente, dunque, etica e moralità sono derivati dalla fede. Non fa meraviglia che, in una siffatta fondazione dell’etica, le trasgressioni religiose stiano al primo posto del religioso codice penale.

I delitti sono spesso violazioni e deviazioni dalla norma cultuale. In essi rientrano naturalmente l’adorare, o anche solo il tollerare divinità straniere. Vi si annoverano sacrifici offerti in modi erronei, violazioni contro le regole del culto o l’offesa di luoghi sacri. Siccome questi delitti sembrano essere rivolti direttamente contro Dio, nell’Antico Testamento, ma anche in molte altre religioni, si minacciano punizioni draconiane, di regola la pena di morte. Nell’Antico Testamento l’idolatria era considerata il peggiore di tutti i crimini, come pure, nel primo cristianesimo, apostasia e idolatria erano giudicati peccati mortali. Come dovrebbe dunque comportarsi l’uomo? Nell’Ebraismo, è la Legge mosaica a disegnare la cornice di ciò che si deve fare o non fare. Ma che cosa fanno i pagani, che non conoscono la Legge? Nella prospettiva ebraica, costoro non possono agire in conformità con Dio. I pagani sono dunque peccatori nati, in sé e per se stessi: il loro modo di vivere può essere lodevole quanto si voglia, ma saranno esclusi dalla salvezza. Un tale sciovinismo religioso non è un fenomeno individuale, al contrario. Lo si trova in molti culti e religioni. I seguaci di altre fedi non hanno, generalmente parlando, carte buone da giocare. Anche per Paolo i concetti di pagani e di peccatori erano sinonimi. E nella quasi intera storia della Chiesa cristiana valse l’identico principio: chi non era cristiano, doveva per forza essere peccatore. Le sanguinose guerre e i massacri contro l’Islam e contro l’Ebraismo si spiegano in larga misura muovendo da questo presupposto. Un raffronto con una società moderna fa risaltare la differenza delle culture. Una società moderna non ha alcun ancoraggio dell’etica in una determinata fede religiosa, e neppure sarebbe lecito che l’avesse. Perché una fondazione di carattere religioso comporta sempre anche intolleranza rispetto alle religioni non privilegiate. Per una società pluralistica (non solo in senso religioso) uno Stato ideologicamente neutrale non è solo auspicabile: è costitutivo dello Stato stesso. Per la nostra società, questa è una verità ovvia, addirittura lapalissiana. Ma non lo è affatto per la Bibbia, appunto. Qui si trova, infatti, ancora senza trucco, un’emarginazione religiosa che esclude gli altri, sulla base di appartenenze etniche e fideistiche. La tolleranza non è un valore della Bibbia, nella quale essa è una concezione del tutto estranea. In essa, al contrario, si trova dappertutto l’appello all’intolleranza. Una falsa dogmatica cristiana ha legittimato un’etica intollerante. E siccome, anche oggi, molti guardano alla Bibbia come modello ideale, ecco traghettate fino ai nostri giorni rappresentazioni non democratiche e non umane. Torneremo a parlarne in seguito. Trasgressioni di culto, nelle culture arcaiche delitti meritevoli di morte, nelle società moderne non hanno più – a buon diritto – alcuna importanza. Il codice penale religioso è cancellato completamente. Chi vorrebbe negare che anche qui il nostro ordinamento sociale sia più prezioso e più meritevole di conservazione di quanto siano le immaginazioni bibliche? Il destinatario dell’etica, inoltre, non è nella Bibbia principalmente il prossimo, bensì Dio. Il credente agisce per ottemperare alla parola di Dio, per adempiere le sue leggi. Il prossimo, cioè i nostri simili, rientra nella visuale solamente in seconda battuta, ammesso che ci rientri. La Bibbia è assai lontana dal sogno ideale di Lessing: l’ideale di fare il bene per amore del bene. Un’etica, che non ha o non abbia abbastanza nel suo orizzonte l’interlocutore umano, perché si sente in prima linea obbligata ad un Dio immaginario, non può essere un modello per l’avvenire. I cristiani dovrebbero chiedersi se il vincolo retrospettivo della loro etica costituisca realmente un vantaggio di questo genere, come essi amano affermare. Se soltanto il credente è in grado di agire moralmente, i diversamente credenti diventano automaticamente persone malvagie. E’ sconvolgente come questo modo di pensare ricorra, ancora nel nostro tempo, nelle rappresentazioni chiesastiche. Chi vive senza fede in Dio, viene respinto nell’angolo dell’immoralità, essendo per ciò stesso in sospetto di essere una persona malvagia. Là dove manca il riferimento a Dio – così suggeriscono spesso le Chiese – subentrerebbe al suo posto uno sfrenato egoismo, una vita egocentrica.

Con l’abbandono di Dio da parte della comunità, anche la comunione tra gli uomini viene distrutta, o ribaltata in pseudoforme di comunità, giacché la vera motivazione della comunità umana è l’inclusione dell’amore di Dio. Sotto questo riguardo, l’essenza del peccato è dunque uno spaventoso restar solo dell’uomo con se stesso. Da ciò conseguono […] superbia, alterigia e narcisismo, ma del pari rassegnazione priva di fede e depressione, che porta all’odio per se stessi. Così il dogmatico evangelico Wilfried Joest si esprime nell’enciclopedia Religion in Geschichte und Gegenwart (RGG), nell’articolo intitolato Sünde und Schuld: peccato e colpa, per l’appunto. La sua “Dogmatica” in due volumi è studiata ancora oggi con piacere dagli studenti di teologia. Nel ripetere in maniera pappagallesca i rispettivi pregiudizi e le denigrazioni bibliche, le persone che consciamente non derivano la propria etica da categorie religiose, vengono diffamate come distruttrici del consorzio umano, come persone deplorevoli, come asociali o altezzosi odiatori di se stessi. E ciò che si trova all’interno delle corrispondenti dogmatiche cattoliche, si presenta spesso ancora molto peggio. Come se una collettività umana potesse esistere solo a condizione che vi sia incluso un Dio, in qualche modo. Eppure la storia conosce bene, per la verità, parecchi esempi di come, malgrado o addirittura a causa di codesta relazione con Dio, si giungesse ai più ripugnanti crimini e alla più disumane efferatezze. La devozione religiosa è lungi dal rendere amanti della pace, e chi crede in un Dio è ancora lontano dal diventare una persona umanitaria e filantropica. In tutti i paesi, nonché in tutte le religioni e ideologie, vivono persone provviste di alte esigenze etiche e d’uno stile di vita responsabile. Anche il teologo Joest potrebbe ammetterlo senza dubbio. Eppure si rileva dalle sue esternazioni come sia possibile smarrirsi quando ci si muove sui sentieri consunti della Bibbia e d’una tradizione teologica. Perché l’immagine del mondo trasmessa dalla Bibbia è, per molti aspetti, inadeguata e superata. E non è assolutamente utile aspettarsi aiuti, oppure qualche orientamento, proprio da persone che si sentono vincolate a testi antichi, senza più punti di contatto con la realtà del nostro vivere quotidiano.

Stupefacente, a questo proposito, anche la mitologica derivazione del peccato. Ne abbiamo già accennato. Orbene, gli Ebrei derivarono l’origine del peccato dal progenitore Adamo. Attraverso il suo peccato in paradiso, il castigo divino cadde sugli uomini. Adamo dovette abbandonare il paradiso terrestre e sopportare da allora lavoro e tribolazioni. Addirittura la morte scese nel mondo, in conseguenza del suo gesto. Adamo avrebbe potuto vivere nel Paradiso in eterno, se non avesse perso al gioco della vita. Noi comprendiamo bene questa narrazione come leggenda. Paolo e Lutero l’hanno intesa alla lettera, e così, interpretata alla lettera, la si ritrova ancora oggi presso i dogmatici cattolici. Paolo ci costruisce sopra la propria teoria del peccato e della giustificazione: lo fa, dunque, sopra una base mitologica. Prescindendo del tutto da questo fatto: che, in lui, l’intero evento salvifico è già mitologia. Nella sostanza, non cambia nulla se si concede che qui viene mitizzata una persona reale, un uomo in carne e ossa; l’evento rimane mitologico in ogni caso. In più, per una comprensione critica non infonde affatto fiducia il fatto che anche Abramo – un altro personaggio leggendario – venga incorporato nella teoria paolina della giustificazione: “Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia.” (Rom 4,3b). Su questo gracile versetto, Paolo ritiene di poter basare la sua giustificazione soltanto sulla credenza. Su un personaggio, cioè, la cui storicità è più che problematica (ciò che Paolo non poteva certo sapere). In più, ammesso che Abramo fosse vissuto realmente, il suo dio non era certamente il dio di Paolo: era piuttosto una sconosciuta, e da lungo tempo defunta, divinità di popolazioni nomadi dalla Mesopotamia. Come i primi cristiani, come tra gli evangelisti soprattutto Matteo, e come ancora di più gli apologeti e i Padri della Chiesa greci e latini – tutti quelli che trascinarono penosamente ogni assurdità come presunta prova scritturale per qualcosa – anche Paolo attinse a piacimento nel magazzino degli attrezzi religiosi. Per quasi due millenni, la sua pièce teatrale ha saputo mantenersi in repertorio. Fondamenti mitologici e immagini divine erano fattori sospetti già presso gli antichi Greci. Nel nostro tempo, sono inaccettabili e ridicoli. Ciò nondimeno, il Cristianesimo ha saputo, oggi come in passato, essere presente in molti credenti proprio nella sua veste mitologica. Nessuna meraviglia, trattandosi d’una religione le cui dottrine principali sono sostanzialmente mitologiche, e le cui scritture sacre conservano il mito sotto la veste di sedicente storia. La concezione moderna del mondo ha una visione dell’uomo e del cosmo non soltanto diversa, ma per di più migliore. Il concetto di peccato è antiquato, sovraccarico di suggestioni religiose, e assolutamente inidoneo a regolare le convivenza degli uomini. Persone e società emancipate possono farne a meno, e se la cavano senza relitti mitologici, cercando di normare la convivenza umana senza ricorrere all’aiuto di idee irrazionali. Solo così possono fare appello all’intelligenza di tutti. Oggi, inoltre, noi non conosciamo più il rapporto tra peccato e malattia, quale è presupposto in molti passi della Bibbia. Ci sembra assurdo il pensiero che una malattia possa provare la colpevolezza di qualcuno in quanto peccatore. A questo proposito, sembra che Gesù avesse già pensato in maniera più progressista rispetto al suo ambiente; il che depone nuovamente a suo favore. E’ proprio ai malati e ai reietti che egli si rivolge. Non sembra che amasse tormentare i suoi ascoltatori con tante chiacchiere sui peccati, simili a quelle che in avvenire avrebbero presunto di richiamarsi a lui. Per converso, tuttavia, Gesù condanna come peccaminosi già i cattivi pensieri. In lui, i pensieri non sono liberi in nessun modo. Un tipo davvero singolare, quest’uomo di Nazareth! La libertà di opinione, nella Bibbia, è ancora sconosciuta. La Bibbia non conosce nemmeno la libertà di pensiero. Perché, a differenza dei potentati laici, un Dio è in grado di sorvegliare e punire i pensieri dei suoi sudditi. Anche se questo terrore nella mente era ancorato in fondo solo sull’immaginario collettivo, per milioni di credenti era estremamente reale, avvelenando la loro vita e infettandola di angoscia e di sensi di colpa. Sotto questo aspetto (ma naturalmente non solo per questo), un mondo senza Dio è un’autentica benedizione. Di più; il pensiero moderno non conosce una sfera sovrapersonale della colpa, alla quale il singolo sarebbe esposto. Non esiste una natura peccaminosa dell’uomo: anche questo è un relitto d’una religione repressiva. Naturalmente, l’uomo non è libero in senso assoluto. Tuttavia l’uomo è quantomeno libertà finita, per usare una felice definizione del teologo Paul Tillich. Noi siamo variamente vincolati e determinati da molteplici fattori, quali nascita, famiglie dei genitori, milieu sociale ed economico, in conseguenza di impronte genetiche ed educazione, di esperienze e modelli disparati. Tutto ciò è reale, concreto, ed è oggetto di studi delle scienze sociali, della pedagogia, della psicologia. Purtuttavia, non siamo certo determinati da un peccato atavico. L’uomo può bensì diventare colpevole, ma non lo è di per se. E non può esserlo per natura. Oltretutto, il pensiero del peccato d’origine non è così antico. Non si trova né nell’Antico né nel Nuovo Testamento. Al contrario, anche in quegli scritti si rimarca piuttosto la responsabilità personale, malgrado la colpevole caduta del primo uomo. Solo con Agostino, solo nel V secolo, troviamo elaborata la concezione d’un peccato ereditato. Questo padre della Chiesa – a torto tanto celebrato – spinge il feticismo della colpa, presente nella Chiesa antica, fino al parossismo. Sforzandosi di rappresentare il peccato in termini sempre più efficaci e fondamentali, (con il fine ultimo di far apparire sempre più eccelsa la grazia di Dio), e con costante riferimento alla colpa di Adamo, Agostino disconosce all’uomo ogni possibilità di operare se non come peccatore. L’uomo non può non peccare (non posse non peccare). L’essere umano si trova in un generale stato di peccato, e precisamente fin dalla nascita. Già i neonati sono peccatori e destinati quindi all’inferno. Perché, attraverso il concepimento, hanno ereditato la colpa di Adamo. Si può già presagire quali ripercussioni una dottrina siffatta avrebbe avuto sulla posizione della Chiesa riguardo alla sessualità. Nessuna persona capace di raziocinio ritiene una tale teoria ancora giusta, o che sia in qualche modo d’aiuto. Su questo punto, i cristiani stessi tacciono imbarazzati. Eppure la dottrina del peccato originale si trova definita e proclamata nel Concilio di Trento, nel XVI secolo, ed è pertanto un dogma da credere, così peculiare della Chiesa cattolica. Bell’esempio di vetusti relitti mitologico-religiosi, oltre che modello paradigmatico d’una concezione deformante del mondo e dell’uomo. Agostino sviluppò questa sua teoria in aspra polemica col monaco britannico Pelagio, che respingeva l’idea del peccato originale. Con la caduta di Adamo, pensava Pelagio, il volere dell’uomo era sì indebolito, ma pur sempre capace di fare il bene. Per lui, la colpa di Adamo viene trasmessa ai posteri attraverso l’imitazione, più che tramite la procreazione e la riproduzione sessuale. Pur con tutta la problematica motivazione, anche in Pelagio: il suo approccio non è molto più intelligibile e più umano di quello di Agostino? Libertà condizionata dell’uomo, nessun asservimento al peccato? Ciò nonostante, sulla sua concezione cadde l’anatema: Pelagio entrò e rimase nella storia come eretico, mentre il peccato originale immaginato da Agostino ha fatto la storia. Anche gli uomini della Riforma hanno ribadito con forza il peccato. Questo è ormai ovvio, dal momento che si eleva la giustificazione per la fede (e non per le opere buone) a cardine centrale della teologia. Solo che bisogna comprendere la storia di questo sviluppo. La morte di Gesù non poteva essere stata senza senso, e quindi gli fu ascritta una funzione redentrice. Egli avrebbe riscattato gli uomini dal peccato; così pensano almeno i credenti. Era quindi consequenziale il fatto di rimarcare sempre di più il peccato, col quale anche la sua morte in croce diventava tanto più significativa. Il pervertimento di questo cammino non poteva che essere la teoria del peccato originale che, in Agostino, procede mano nella mano con la sua dottrina della grazia. Tutto ebbe inizio, ovviamente, con la morte di Gesù nella croce. Fosse morto in età avanzata, da rabbino stimato, nella sua patria di Galilea, una gonfiata dottrina di redenzione – con tanto di sangue e morte – di un uomo deificato, sarebbe stata tanto superflua quanto l’amplificazione inflazionata del concetto di peccato. Sennonché Gesù non morì nel suo letto, bensì sulla croce; e questo necessitava d’una spiegazione. In questo modo, pure e semplici casualità storiche vengono avvolte artisticamente nel mantello della necessità, e smerciate ai fedeli come verità eterne.

Il peccato al servizio della Chiesa

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Col possente sostegno del peccato, la Chiesa esercita il potere sull’umanità. Questa opinione, oggi largamente diffusa, è stata formulata in forma autorevole da Nietzsche:

« Il peccato […] questa forma par excellence di autoprofanazione dell’uomo, è inventato per rendere impossibile scienza, cultura, ogni elevazione ed emancipazione dell’uomo; il sacerdote domina grazie all’invenzione del peccato. »
(Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, 49)

Se questo è vero per grandi settori della storia ecclesiastica, allora Nietzsche ha ragione solo in parte, almeno per quanto riguarda gli inizi del Cristianesimo. In principio, infatti, non v’erano ancora sacerdoti nel mondo cristiano e, fino a Costantino, la Chiesa non ebbe nemmeno un potere temporale sui credenti. Il peccato non fu inventato al fine di dominare; esso scaturì invece dalla necessità di dare un senso alla morte insensata di Gesù sulla croce. Solo più tardi, solo con la formazione d’un ufficio sacerdotale, e di un potere anche temporale – costituitosi di fatto a partire dal IV secolo – la Chiesa stessa si rese conto di quale geniale strumento avesse in pugno. A quel punto, la Chiesa impresse nelle coscienze le due grandi novità: proclamò l’uomo peccatore, ma, al tempo stesso, gli promise la remissione dei peccati mediante il sangue di Cristo. Col metodo del bastone e della carota. Più potente e più efficace di qualunque altro governo politico, la Chiesa pretese ubbidienza. E dominò non solo in forza di leggi civili, ma soprattutto riuscendo ad inculcare nei credenti la propria visione del mondo. I fedeli vennero pertanto convinti della propria “natura peccaminosa”, diventando così carcerieri e aguzzini di se stessi. Ciò ha funzionato a lungo, e funziona, a tutt’oggi, con molti fedeli.

L’uomo è tuttavia migliore della sua reputazione clericale. Non è malvagio, viene solo rappresentato e dipinto come tale. Alla cupa dottrina clericale sulla natura scellerata dell’uomo, l’Illuminismo ha contrapposto la propria ottimistica immagine dell’essere umano. Grazie alla quale l’uomo è finalmente libero, padrone del mondo e creatore sovrano d’una società migliore. Con l’applicazione costante della ragione, i problemi del mondo saranno senz’altro risolti. Questo ottimismo progressista del pensiero illuminista ha potuto esaudire le sue grandi promesse solo a certe condizioni, ed è stato indubbiamente alquanto ingenuo. Nel complesso, però, la cultura illuminista non è fallita, come vorrebbero far credere certi critici reazionari delle odierne società occidentali.

Sembra essere chiaro, in ogni caso, che non vi potrà essere alcuna via che riconduca ad un’antropologia biblica, e quindi mitica. Persino quando psicologia e filosofia moderne riconoscono e rappresentano l’uomo nella sua finitezza e immaturità esistenziali, tematizzando sia i suoi molteplici condizionamenti sia la sua sincerità nella ricerca di senso – ebbene, non potrà più esserci un regresso a modi di sentire biblici, ancora e sempre auspicati dalle Chiese come via di scampo dalla crisi di senso.

In effetti, non solo la cristologia e la teologia del cristianesimo sono false in quanto finzione storica, e non solo la teoria della giustificazione con la morte del dio-uomo è finzione, in quanto generata dall’imbarazzo storico. Anche la dottrina dell’uomo come peccatore è incompatibile con la realtà. Anche l’antropologia della Bibbia – oltre a teologia, cristologia e soteriologia – si rivela gratuita, priva di qualsiasi fondamento. La derivazione mitologica delle costanti antropologiche è anacronistica. Certo, in ogni vita esistono colpe personali e azioni sbagliate; però non esiste nessun uomo peccatore in sé, nessuna natura peccaminosa, men che meno un peccato d’origine.

Sussiste tuttavia la necessità di sanzionare sul piano sociale le azioni erronee, se e in quanto abbiano rilevanza penale. Ma qui, al posto d’un concetto religioso di peccato, si tratta semmai di delitti concreti. I peccati di pensiero potranno essere forse moralmente riprovevoli, però non hanno rilevanza giuridica. Non c’è bisogno di nessun redentore, di nessuna indole, che debba liberare gli uomini dal loro inesistente stato peccaminoso, men che meno al prezzo del sangue e della morte.

Di massima, l’etica non abbisogna di alcuna motivazione religiosa che, in una società multiculturale, è senz’altro controproducente. Quale dio, tra le migliaia di divinità esistenti, dovrebbe essere mai quello garante di un’etica?

Si potrebbe ripetere anche qui: perché mai ci riguardano i superati modelli biblici della realtà? Il fatto è che, giustappunto, essi non sono affatto superati nelle teste di molti credenti. Ancora e sempre – nelle questioni etico-morali – esponenti della Chiesa vengono considerati individui dotati di peculiare competenza, trovando posto nelle commissioni etiche e negli organi consultivi. Eppure la visione del mondo delle loro Scritture sacre è in molti casi non solo in contrasto con la realtà, ma addirittura un pericolo per una società pluralistica. E ancor sempre i bambini, nelle scuole pubbliche, devono confrontarsi con scritti antichi che promuovono quella falsa immagine del mondo. Eppure, nel migliore dei casi, quella collezione di scritti serve da esempio negativo … simile ad uno che, sotto gli occhi dei bambini, attraversi la strada col rosso.

Miserie e deficienze nella concezione dell’uomo

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L’immagine dell’uomo nella Bibbia è troppo unilaterale per poter essere verace. Troppo intensamente, attraverso un paraocchi religioso, viene offuscato lo sguardo sulle condizioni della vita reale; tutto ubbidisce eccessivamente alle necessità fittizie d’una dogmatica tirata per i capelli, che non fa un effetto ancora più alienante soltanto perché si viene abituati, fin da bambini, alle sue incredibili massime fideistiche. Solo la Chiesa avrebbe trasformato gli uomini in creature peccatrici

« in quanto spregevoli e colpevoli peccatori, [gli uomini] dovranno gettarsi ai piedi di un Dio arrabbiato e geloso […] Gli atteggiamenti della preghiera somigliano spesse volte alla postura degli schiavi […] »
(Ch. Hitchens, Dio non è grande, S. 95)

L’uomo dipende dalla grazia, ha bisogno del perdono per i suoi peccati, e questo glielo può impartire soltanto la Chiesa. Ed è davanti ai rappresentanti di questa istituzione che egli deve comparire in qualità di postulante, di peccatore pentito. Rinunziando alla propria autostima e confessando i suoi peccati (il che starebbe bene ad un assassino), egli ne riceve un pezzo di pane e un sorso di vino. Quest’ultimo, poi, gli viene persino negato dai cattolici. “Così gli inculca la predica domenicale, secondo cui gli uomini sono peccatori indegni, creature interiormente asservite e angosciate” (Joachim Kahl, op. cit., S. 25).

I credenti più convinti hanno sofferto in massimo grado di questa ideologia della loro stessa Chiesa, tanto che ancora oggi non poche patologie nevrotiche dipendono da questa dottrina ecclesiale. Perché, se alle persone si mette in testa in modo permanente di incorrere nel peccato, di meritare perciò la morte, non ci si deve poi stupire se una parte di esse interiorizza queste idee. Ma Gesù non aveva predicato in tutt’altra maniera? Non aveva annunciato una novella lieta? Una salvezza, per la verità, è annunciata dalla Chiesa ancora oggi (una salvezza certo ben diversa da quella annunciata da Gesù), e tuttavia la Chiesa non permette che raggiunga l’isola dei beati nessuno che essa non abbia prima fatto passare a guado attraverso la palude acquitrinosa dei peccati.

In luogo della cupa immagine clericale dell’uomo, è stato l’Illuminismo a rappresentare qualcosa che facesse pensare alla buona novella. Il “rischiaramento” prodotto dai lumi della ragione ha raddrizzato l’uomo dalla sua gibbosa, mortificante postura, aiutandolo a superare il suo servilismo e a passare ad un’andatura eretta; ed è la ragione per cui – agli occhi soprattutto del cattolicesimo romano – l’Illuminismo rappresentò quasi un secondo peccato originale: una creazione del diavolo, in tutti i casi.

Insieme con l’uomo moderno, anche le sue opere subirono il verdetto di condanna. Arte e cultura (quelle non cristiane) caddero vittime della calunnia. L’antico retaggio non cristiano venne spesso consciamente annientato, templi e luoghi di culto di precursori pagani distrutti, la maggior parte delle letterature antiche data alle fiamme. Parecchie opere dell’antichità sopravvissero solo perché, nei monasteri del Medioevo, ci si esercitava nella lingua latina, cioè non grazie al contenuto, ma a dispetto di esso. Non esisteva una filosofia libera, e nemmeno un’arte indipendente. Un diritto di parola l’aveva unicamente, sotto il controllo della Chiesa, una filosofia castrata; e un’arte cristianizzata poteva esercitarsi unicamente su soggetti biblici. Non solo la filosofia fu ridotta ad “ancella della teologia”; anche la musica e la poesia non trovarono salvezza al di fuori della Chiesa. Tutto ciò che derogava dal precetto religioso, diventava sospetto e non di rado oggetto di persecuzione. Ad un’antichità sensuale e voluttuosa succedette un cupo millennio clericale, subentrarono

« odio per il mondo, la maledizione degli affetti, la paura della bellezza e della sensualità, un aldilà trascendente inventato per diffamare sempre di più il mondo immanente […] »
(Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 5)

Giammai il disprezzo verso il mondo reale si è rivelato più evidente e più tragico se non nell’ostilità per il corpo, incarnatasi negli insegnamenti del clero. A Gesù, indubbiamente, un atteggiamento ostile alla corporeità era ancora del tutto alieno, giacché il pensiero giudaico vedeva l’umanità nella sua integrità fisica e mentale. Sennonché il pensiero greco, nella cui sfera d’influenza orbitò presto il nascente cristianesimo, aveva la tendenza verso la differenziazione ontologica dell’uomo.

Nel mondo ellenistico, si tendeva a separare la psiche dal corpo; e mentre l’anima partecipava quasi all’essere divino, il corpo perdeva sempre più valore, in quanto simbolo di fugacità e dell’effimero. Il neoplatonismo, ma anche la gnosi e il manicheismo, vedevano il corpo solo come veicolo dell’anima, degradandolo quindi in misura proporzionale. Vero che la Chiesa si è formalmente distaccata da questo dualismo anima-corpo; ciò nondimeno nel suo interno, in quanto figlia del suo tempo, finirono per insinuarsi non poche concezioni pagane. Tant’è che, anche per la Chiesa, la vita vera e autentica avrà luogo solo dopo il superamento di questo mondo.

Sensualità e piacere dei sensi erano già sospetti. Né la carne né lo spirito dovevano provare vero diletto. A somiglianza del ringhioso Jorge ne Il nome della rosa di Umberto Eco, la Chiesa, agitando la sua buona novella, ha troppo spesso perseguitato le gioie della vita.

« Un monaco chiese una volta al suo abate, se la lettura di un certo libro fosse peccato. “Ti fa piacere leggerlo?” chiese a sua volta l’abate. “Eccome mi piace!” rispose il monaco. “Allora è peccato!” »

Eppure Gesù fu tutt’altro che un asceta. Si rallegrava apertamente delle cose della vita, del mangiare e del bere. Tanto che i suoi avversari ritennero di poterlo bollare addirittura come mangione e beone (Mt 11:19). Nei confronti delle donne non mostrò tendenze discriminatorie, diversamente da quasi tutti i futuri padri della Chiesa. La sua frequentazione con peccatori, prostitute e adultere, rappresenta un bel pezzo di umanità vissuta nella comunanza. Analoghi rapporti spontanei con reietti ed emarginati dalla società non furono mai praticati dalla Chiesa futura, quantunque essa abbia sempre amato evocarli. A parole, però.

Ma è Paolo, ancora una volta, che su questo punto non vuole, o non può, ricalcare le orme del suo Signore. Alla sua cupa teologia della croce corrisponde una crescente alienazione dal corpo. Per lui, uomo di tendenze ascetiche, e per di più fiero di essere celibe, la carne è sede del peccato. Affetti e desideri della carne devono essere combattuti e repressi. Anch’egli, per la verità, è ancora lontano dalle successive antinomie di anima e corpo, men che meno è un dualista; eppure le sue inclinazioni ascetiche vennero presto usate e abusate per giustificare una radicale ostilità per il corpo. E in nessun altro campo questo atteggiamento ha avuto ripercussioni fatali quanto nel campo della sessualità. In esso, in effetti, i Padri della Chiesa, la letteratura patristica e la tradizione chiesastica credettero di poter localizzare il peccato nel modo più concreto e tangibile.

Già il Concilio degli apostoli (nell’anno 48 all’incirca) aveva posto come peccato mortale, accanto all’idolatria, all’assassinio e alla libidine, anche la trasgressione sessuale. Due di questi tre delitti, oggi, non lo sono più. Il concetto di culto idolatrico, tipico della polemica religiosa, è stato declassato, dovendo cedere il campo ad una moderna libertà religiosa. E la fornicazione, con la quale si deve intendere l’infedeltà coniugale e la frequentazione di prostitute, potrà ben costituire una categoria morale, ma in nessun modo giudiziaria. In tutti i casi, associare la libidine con l’assassinio dà la sensazione d’una alienazione dalla realtà, fatta eccezione, forse, per zelanti lettori della Bibbia.

Una certa ritrosia sulle funzioni corporali, tangibile in Paolo, si evolse presto nella nuda e cruda denigrazione della sessualità. D’ora in avanti, dai rappresentanti della Chiesa, l’atto sessuale verrà sommerso e discreditato con una marea di epiteti sconci e sudici, messo alla stessa stregua d’una foia puramente animalesca, e trascinato così intenzionalmente nel fango dell’abiezione. Se possibile, non si sarebbe dovuto praticarlo affatto; una dispensa si sarebbe ottenuta al solo fine procreativo, per fare bambini.

Il primo apice si toccò nel V secolo con la dottrina del peccato di Agostino. “Parlare dell’avversione alla corporeità […] significa parlare di Agostino.” (Uta Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli, p. 74; a quest’opera, classica sul tema sessualità e Chiesa, si rinvia anche per quanto segue). Per Agostino, il peccato originale venne tramandato alla successiva generazione attraverso l’atto sessuale. In maniera più negativa non è assolutamente possibile rappresentare la sessualità umana. La voluttà fa cadere l’uomo nell’animalesco, essendo espressione della lontananza da Dio e dell’attaccamento dell’uomo al peccato. Solo ed esclusivamente per la riproduzione può essere ancora ammesso il piacere sessuale. Ed affinché i partner non diventino infedeli reciprocamente. Ma già quest’ultima ammissione, per Agostino, è peccaminosa, sebbene sia un peccato ancora veniale. Al contrario, il rapporto sessuale per pura libidine è un peccato mortale. Secondo Agostino, l’uomo commette così un crimine sulla sua propria moglie. Fare sesso con donne incinte o mestruate è vietato, giacché qui non possono nascerne dei bambini. Da condannare è altresì il coito con la propria moglie che, a causa dell’età, non può più avere bambini. Agostino non si perita, anche in questo caso, di parlare di adulterio. “Al pari di molti nevrotici, Agostino separa in modo violento l’amore dalla sessualità” (U. Ranke-Heinemann, op. cit. p. 75).

Al suo posto, si propaganda l’ideale della verginità. Agostino raccomanda il matrimonio rato e non consumato, detto anche giuseppino, ossia la convivenza con la propria consorte senza sesso, come fratello e sorella e come, a quanto pare, fu quello tra Maria e Giuseppe (ma i fratelli carnali di Gesù?). In riflessioni assurde, ma da lui prese assolutamente sul serio, Agostino analizza il problema se in Paradiso vi fossero già stati rapporti sessuali. Fin dall’inizio, Agostino fantastica d’un accoppiamento asessuato tra uomo e donna: i bambini sarebbero stati procreati senza atto sessuale (Ranke-Heinemann, op. cit. p. 85). Nel prosieguo, crede che i bambini sarebbero stati sì generati per via sessuale giacché … ecco il suo ragionamento: a che scopo sono state poi create le donne, se non per fare i bambini? Per attività intellettive e fisiche le donne non servono in nessun modo. Ma per lui è cosa certa che, almeno in Paradiso, il piacere dei sensi non esistesse. L’atto sessuale, ammesso che ci fosse, era senza piacere (il fatto potrà sembrare ben noto a molte mogli), e i maschi avrebbero tenuto a freno gli istinti sessuali grazie alla volontà. Solo dopo la caduta nel peccato sarebbe nata la libidine. Tutto sommato, astrusi e strampalati vaneggiamenti del massimo Padre della Chiesa dell’Occidente. Ma come può un uomo giungere a tali e tante farneticazioni?

Ciò che Agostino qui ci rivela non sono saggezze divine, bensì gli abissi della propria psiche nevrotica, del suo personale estremo complesso di colpa. In realtà, prima della sua fatale conversione, nell’anno 387, Agostino aveva “assaggiato” una lunga serie di filosofie, simpatizzando per esempio con lo stoicismo e il neoplatonismo. Ma era stato pure uno zelante seguace del Manicheismo, ossia d’una dualistica concezione religioso-filosofica che rifiutava la procreazione di bambini adducendo che, in quel modo, scintille divine erano costrette a manifestarsi nella materia ostile. Però non si escludeva l’atto sensuale stesso, cercando solo di ostacolare la procreazione. Il che doveva funzionare mediante l’osservanza dei giorni sterili della donna.

Molti genitori, ancora sconcertati, possono testimoniare che quello non è un metodo per impedire il concepimento, ma piuttosto per averli, i bambini. Anche Agostino aveva sbagliato i calcoli, e divenne così padre d’un figlio con la compagna della sua vita, il cui nome egli non rivela in nessun luogo. Con la sua conversione, Agostino la respinse, la sua vita dissoluta ebbe termine d’un tratto, e la sua cattiva coscienza disprezzò la sua infedeltà non meno della sua precedente visione della sessualità. “La morale sessuale pessimistica di Agostino è unicamente frutto della rimozione della sua cattiva coscienza. La sua fobia nei confronti della donna, la sua misoginia è una permanente scoperta della causa colpevole del suo fallimento” (Ranke-Heinemann p. 78. op. cit.).

La dottrina di Agostino si diffuse nei secoli successivi soprattutto in Occidente. Come già in Paolo, l’ipoteca della propria esistenza quale violazione fattuale della Legge giudaica, configura la sua teologia della croce liberata dalla Legge, così anche la vita dissoluta di Agostino ha plasmato la sua più tarda dottrina del peccato. In realtà, come gli scrittori impiegano di preferenza materiale autobiografico, così anche i teologi amano interpretare l’edificio del mondo partendo dal principio della loro personale socializzazione religiosa. Sennonché, quanto negli scrittori diventa magari un buon romanzo, può nei teologi trasformarsi d’un tratto in una visione totalitaria e autoritaria del mondo, a cui altre persone con tutt’altre esperienze non possono più sottrarsi. Non fu forse tanto la teologia, quanto piuttosto la psicopatologia, ad aver creato non pochi caratteri peculiari del Cristianesimo. Ai livelli più alti, furono Paolo ed Agostino ad imprimere nel Cristianesimo la loro personalissima impronta. E i cristiani poterono solo stare a guardare come quei teologi ne venissero a capo.

La patologica avversione al piacere di Agostino non fu un un evento del destino. Che le cose sarebbero potute andare anche diversamente, lo dimostrano i suoi nemici, i seguaci di Pelagio. Secondo la loro dottrina, la voluttà è qualcosa di naturale, nulla di peccaminoso. I pelagiani respinsero l’idea del peccato originale, e misero il matrimonio sullo stesso piano della verginità. La loro immagine dell’uomo e del matrimonio fu pertanto sostanzialmente più gentile e più realistica della cupa dottrina di Agostino. Ciò nondimeno, i pelagiani furono condannati, e non ebbero più alcun peso nella storia ecclesiastica. Agostino, per contro, assurse ad autorità dominante e indiscussa. E così le future generazioni sarebbero state condannate ad una dura servitù a causa dei suoi sensi di colpa.

Da scaldaacqua rimestatore di questa tendenza avrebbe operato in futuro Tommaso d’Aquino il quale, a differenza del ex-edonista Agostino, era un ossuto monaco erudito e un celibatario convinto. Tommaso è considerato il massimo teologo del Medioevo. La sua autorità nella Chiesa cattolica si espande dal neotomismo fino ai giorni nostri. L’avversione agostiniana per il sesso e la voluttà viene accolta e rinfocolata da Tommaso e dal suo maestro Alberto Magno. Soprattutto Tommaso cerca di connettere la teologia con la filosofia di Aristotele. Nel quale egli scova l’opinione che la libidine sarebbe un ostacolo per il pensiero. Ciò che forse non è così errato, viene tuttavia esasperato in Tommaso, spinto da angosce celibatarie, in forzature monastiche. L’atto sensuale non offusca solo lo spirito, ma lo vanifica, portando addirittura alla deficienza mentale.

Per il resto, Tommaso ricalca in tutto e per tutto la dottrina agostiniana del peccato originale e, al pari di Agostino, riconosce nell’atto sessuale il suo intermediario. Se coito dev’essere, che avvenga almeno svogliatamente, senza piacere. Per lui, la frigidità è una virtù da perseguire. Anche con una donna frigida, il peccato originale viene pur sempre trasferito nel bambino. Come Agostino, anche Tommaso scioglie un inno in lode della verginità, disprezzando come lui il matrimonio, in linea di principio. Il coito, in quanto tale, viene descritto con concetti analoghi: sudiciume, contaminazione, schifezza, turpitudine, disonore, degenerazione e malattia (molti documenti in proposito si vedano in Ranke-Heinemann, op. cit. p. 201 ss.)

Diffamazione della donna

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La diffamazione della sessualità procede di regola, mano nella mano, con denigrazione e vilipendio della donna. Ciò risponde al vero particolarmente nel mondo cristiano, tant’è vero che il peccato viene messo in relazione, nell’Antico Testamento, con la progenitrice Eva, notissimo personaggio mitologico. Agostino fa incominciare la miseria dell’uomo con la caduta nel peccato di Eva. A dire il vero, anche Adamo ha peccato, ma Eva è resa responsabile anche della caduta di lui. Il Diavolo, come fu presto considerato il serpente in Paradiso (in contrasto con le tradizioni interpretative dell’ebraismo), si è rivolto alla parte più debole dell’umanità. Così è la donna, la creatura che attira il maschio nella perdizione.

Per Tommaso, sono i maschi le persone degne di questo nome; le femmine non corrispondono alla primaria intenzione della natura, al contrario sono espressione “dell’intenzione secondaria della natura, come putredine, malformazione e decrepitezza” (Ranke-Heinemann, p. 195 op. cit.). Per Tommaso, monaco celibe, le donne sono un fallimento della natura. Rispetto a loro, il maschio è non solo più forte fisicamente, ma possiede pure un raziocinio più perfetto e una virtù più spiccata. Le debolezze mentali della donna, per contro, sarebbero simili a quelle dei bambini e dei malati di mente. Il maschio sarebbe attivo e avrebbe perciò una dignità superiore, mentre la donna sarebbe solo passiva.

Mentre oggi sappiamo che, nella trasmissione dei geni, entrambi i sessi sono partecipi in ugual misura, Tommaso muove dal principio che l’uomo è protagonista, che lui genera il bambino, mentre la donna non fa che metterlo al mondo. Questa, per Tommaso, è anche l’unica legittimazione che la donna ha per esistere. Anche qui, Tommaso non fa che ricalcare i sentieri accidentati di Agostino. Persino per l’educazione dei bambini le donne sono addirittura incapaci: l’educazione spirituale può avvenire solo per opera del padre.

Se le femministe leggessero Tommaso, dovrebbero necessariamente stare giorno e notte a fare dimostrazioni davanti ai seminari dei preti, per protestare contro le vergognose assurdità di questo dottore della Chiesa. Non c’è ombra di dubbio sul fatto che Tommaso fosse un notorio misogino; e non è una scusante il fatto che, in queste cose, non si differenziasse poi molto dai suoi confratelli.

Avventurosa è anche la spiegazione che il santo e dottore della Chiesa Tommaso dà riguardo all’origine delle donne. Secondo Tommaso, come anche per Alberto Magno, le donne hanno semplicemente più acqua nel corpo, e soprattutto sono per questo (?) più facili da sedurre per il piacere del sesso. Non ci si sforzi, intanto, di seguire questo tipo di argomentazione. In tutta serietà, per quanto riguarda lo sviluppo delle donne, Tommaso rende responsabili gli umidi venti meridionali. Già Alberto Magno aveva scritto:

« Il vento del nord contribuisce alla procreazione del maschio, il vento del sud al concepimento della femmina, perché il vento del nord è puro, purifica e ripulisce l’aria e le esalazioni, eccitando l’energia naturale. Ma il vento del sud è umido e carico di pioggia. »
(A.Magno, Quaestiones super de animalibus XVIII q. 1)

Passi del genere, a dispetto della loro assurdità, sono tuttavia illuminanti, in quanto mostrano con estrema chiarezza su quale livello di conoscenza si muovesse la teologia medioevale, perfino nei massimi esponenti della rispettiva corporazione. Eppoi si ode subito l’obiezione: ma questo non è antistorico? Da dove avrebbero dovuto sapere, Tommaso e Alberto, in che modo avviene l’evoluzione dei sessi? Sennonché il problema non è il fatto che essi non hanno saputo. Non sapere è perdonabile. Il problema è che ciò malgrado hanno parlato, quantunque non ne avessero palesemente neanche un pallido barlume, richiamandosi nel migliore dei casi ad un rimescolamento di vetuste vociferazioni filosofiche. Se non si ha neanche un’idea, perché non tenere semplicemente la bocca chiusa? Fatto sta che sembra tangere l’autostima dei teologi il fatto di non saper dire qualcosa su tutto e su tutti. Di chiaro c’è solo questo: a costoro, lo Spirito Santo non ha sicuramente ispirato questi tipi di saggezza.

Da parte nostra, sia lecito porre qualche domanda: se Alberto Magno e Tommaso poterono errare a tal punto già su una tematica (uomo e donna), in cui l’esperienza e la percezione dei sensi hanno ancora un certo ruolo, quali acquisti di conoscenza si possono mai aspettare, quando quei due – nei loro sublimi voli teologici – rispondono a questioni (riguardanti Dio, diavolo, vita eterna) che sono totalmente al di fuori di qualsiasi esperienza? Queste risposte non dovranno poi essere ancora più assurde? Non c’è da aspettarsi che, quando i doctores theologiae tentano di discorrere su Dio, ne venga fuori, anzi debba necessariamente risultarne, una insulsaggine ancora peggiore? Non saranno assurdità semplicemente più ardue da riconoscere di queste? O non sarà che degli affabulatori diventino d’un tratto degli ingegneri? Disegnatori teologici, che già hanno problemi a costruire un triangolo, possono progettare così d’acchito un intero edificio del mondo?

Ma torniamo ancora una volta alle origini del cristianesimo. Abbiamo visto come le condizioni storiche non si potessero accordare con gli scritti della Bibbia. Gli scritti biblici, a loro volta, non bastavano a fondare la nascente teologia da costruirsi, a quanto pare, su di essi. Alla fine, i grandi sistemi teologici, che si ergevano sul malfermo terreno delle costruzioni dei precursori, meritano tanto meno una credibilità. Sono infatti prodotti artistici, sorti nell’ambito d’un preesistente sistema dogmatico, le cui coordinate – ad una osservazione più attenta – si fanno riconoscere altrettanto come produzioni artistiche. Al pari (presumibilmente) di altre religioni, anche il Cristianesimo è un’allucinazione conservata in smaglianti colori: la pervicace, ostinata Fata Morgana d’una intera epoca del mondo.

La nevrotica angoscia sessuale, in ogni caso, messa in evidenza dal santo Tommaso e dal suo maestro, oggi sarebbe senza dubbio un caso per lo psicoterapeuta. L’autorità dei nostri due monaci è stata per lungo tempo incontrastata, e indiscusse furono attraverso i secoli anche le loro folli teorie. Grazie alla mediazione d’una Chiesa, l’immagine che quegli uomini ebbero delle donne e del mondo ha determinato la fede di innumerevoli generazioni. A loro danno e per loro sventura.

Di Tommaso si tramanda inoltre (forse una leggenda, ma comunque bella) che, poco prima della sua morte, fosse piombato in una sorta di malinconia, e che avesse pronunciato queste parole: “Certe cose mi si sono rivelate, che fanno sembrare tutta la mia opera come futile sproloquio”. Ecco, si cerca ancora di decifrare che cosa il santo potesse mai avere inteso con quelle parole. Quel che è certo, in ogni modo, è che aveva ragione!

Celibato e svalutazione del matrimonio

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Ostilità per il sesso comporta anche deprezzamento del matrimonio. Di fronte a questa istituzione, chiunque può atteggiarsi come desidera. Sta di fatto che matrimonio e famiglia, nel passato e fino ad oggi, sono la forma più diffusa della convivenza umana. Tutte le Chiese sottolineano il valore della famiglia, perfino il cattolicesimo. Tanto più si rimane stupefatti quando, d’altro canto, si riscontra in esso una svalutazione di questa istituzione. Chi non rinuncia al pensiero di un celibato per i sacerdoti, si rende colpevole d’un tale discredito.

In linea di massima, propugnando il celibato, ossia la condizione del viver soli per i preti, il cattolicesimo si è procurato solo contrarietà e irritazione. Già con la separazione della Chiesa orientale, nell’anno 1054, la questione del celibato ecclesiastico assunse un grande importanza. Tanto che ancora oggi, per la Chiese ortodosse, non esiste alcun celibato per i sacerdoti. Anche per questo, nel Cinquecento, la Riforma fu così attrattiva per molti vecchi credenti: perché Lutero aveva abolito il celibato. Un diverso atteggiamento sul matrimonio del clero, e per di più un’accondiscendenza del papato nella comprensione dell’ufficio e della scrittura … e forse la spaccatura della Chiesa nell’Occidente europeo si sarebbe potuta impedire. Una politica più magnanima di dispensa nei confronti di Enrico VIII d’Inghilterra, e Roma si sarebbe risparmiata anche lo scisma anglicano.

A partire al più tardi dalla seconda Guerra mondiale, la Chiesa cattolica lamenta sempre più il calo di vocazioni al sacerdozio. In Germania, nel frattempo, diversi comuni e parrocchie vengono spesso amministrati da un unico prete, e i pochi rimanenti si lasciano se possibile in carica, in maniera quasi ufficiale, fino alla loro morte. Una causa importante di questa evoluzione consiste nel celibato. Con l’abolizione del quale la Chiesa cattolica potrebbe svolgere molto meglio il proprio compito di predicazione; e questo dovrebbe essere pure nell’interesse primigenio della Chiesa. Ma i vegliardi nella Congregazione romana per la fede, e anche i papi, non vogliono sentire ragione. Teologi critici, come Eugen Drewermann o Hans Küng, che richiamano l’attenzione sulla cattiva amministrazione ecclesiastica, vengono messi a tacere. A fronte di questa caparbietà senile, ostentata nella massima convinzione dalla romana ortodossia, si può solo scuotere il capo, persino come critici anticlericali.

Eppure anche qui, nella riflessione storica, si rivela chiaramente la relatività del celibato. Per i sacerdoti, in realtà, nella sua forma odierna esso è un fenomeno piuttosto recente; l’epoca più lunga della storia della Chiesa trascorse infatti senza questa novità. Solo nel 1139 l’obbligo del celibato venne fissato ufficialmente dalla grande Chiesa; ma ciò non ebbe come conseguenza che da allora tutti i preti vivessero effettivamente senza vincoli coniugali. In realtà, solo dopo il Concilio di Trento (1545–1563), grazie alla registrazione canonica del matrimonio, che fino allora non esisteva, fu impedito che un uomo sposato ricevesse la consacrazione sacerdotale. E ancora nel Seicento si lamenta in molti luoghi che i religiosi cattolici perseverassero nel concubinato.

Di fronte a questo fenomeno, il cattolicesimo romano ha sempre insinuato l’idea che il divieto coniugale risalisse già alla Chiesa primitiva, addirittura a Gesù stesso. Come in altre occasioni, anche qui la Chiesa tenta di appioppare le proprie fisime al suo Signore. Perché l’atteggiamento di Gesù verso le donne fu – come già detto sopra – molto più libero e disinvolto di quello che le encicliche papali vogliono ammettere. La sua spontanea frequentazione con loro non era per niente tipica del mondo ebraico, in cui la donna valeva poco o punto. Le sue conversazioni con le donne erano giudicate sconvenienti per un rabbino. Erano molte le donne fra i suoi seguaci, pronte ad appoggiarlo anche finanziariamente. Egli mangiava e beveva con loro. Gesù rafforzò i loro diritti, proibendo il divorzio, che in quel tempo era quasi esclusivamente a carico della donna, e che poteva essere deciso dal marito per qualsiasi piccolezza. Gesù ribadì l’indissolubilità del vincolo coniugale, legittimandolo col principio della Thora, espresso nel Diventare un solo corpo dei coniugi. E si pronuncia anche contro la poligamia, ancora possibile nell’ebraismo.

Una paura nei confronti delle donne, ovvero una nevrotica avversione per il sesso, come quella dei monaci celibatari, Gesù non la conobbe. Quale rabbino giudaico, il solo pensiero d’un celibato gli sarebbe stato alieno. In effetti i rabbini, nonostante ogni avversione che nutrivano per le donne, erano sposati tutti quanti. “Gesù era amico delle donne: è stato il primo e al tempo stesso quasi l’ultimo amico delle donne nella Chiesa” (Ranke-Heinemann, op. cit., p. 116).

L’ambiguo versetto sugli eunuchi, in Matteo, serve alla dogmatica cattolica per la giustificazione del celibato:

« Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca. »
(Mt 19:12)

Questo detto si trova nel contesto della domanda posta a Gesù riguardo al divorzio. Dove non è al suo posto, a dire il vero, in quanto esso fu piazzato lì da Matteo. La sua autenticità, nondimeno, viene largamente accettata. Gesù intende giustificarsi qui, polemicamente, per il rimprovero rivoltogli di non essere sposato? Viene forse calunniato addirittura come eunuco, come ipotizza Lüdemann? (Gerd Lüdemann, Jesus nach 2000 Jahren, S. 269). In nessun caso, tuttavia, si può derivare da questo detto gesuano una generale proibizione di matrimonio per i chierici. Sarebbe un chiedere troppo da questo passo. D’altra parte, una comprensione precritica dei testi biblici e un prescindere dal contesto della tradizione furono caratteristici del dogmatismo basato sulla tradizione. Ai Padri della Chiesa, spesse volte, bastava già uno spunto, era sufficiente un mezzo versetto, estratto dal contesto, per intravvederci già certi appigli per molti dogmi futuri. Le presunte prove scritturali, formatesi in questa maniera, suscitano nel lettore di oggi l’effetto dell’arbitrario, dell’ossessivo, o del ridicolo. Nei credenti, non di rado, lasciano per di più un’impressione penosa.

Un secondo versetto, stavolta di Paolo, dovrebbe servire anch’esso a giustificazione d’un presunto celibato. Si tratta del consiglio paolino “E’ cosa buona per l’uomo non toccare donna” (1Cor 7:1). Sebbene Paolo abbia qui sicuramente l’occhio alla propria personale scelta esistenziale, e sebbene egli inculchi Non rifiutatevi l’un l’altro, e malgrado la precisazione di non voler pronunciare nessun comando, ma solamente una raccomandazione (Verso 7: Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro), ecco: la Chiesa cattolica ne ha dedotto un divieto di matrimonio. Univocamente, essa contraddice la volontà di Paolo e del deposito biblico. Nei casi dubbi, per il cattolicesimo ufficiale, l’osservanza della propria tradizione, fatta e costruita in proprio, è stata in ogni epoca più importante di qualsiasi riguardo alla testimonianza biblica, o addirittura al volere esplicito di Gesù. Da ultimo, per questa arroganza tanto sicura di sé, Roma provocò addirittura la Riforma di Lutero.

D’altra parte, altri passi che escludono per davvero il celibato vengono opportunamente ignorati. Pietro stesso, che si ama presentare come primo pontefice, (in un atto di ottenebramento cattolico-romano) era sposato. Anche per gli altri apostoli si può presumere altrettanto. Per di più, Pietro portò con sé sua moglie, persino nei suoi viaggi missionari. In ogni caso, Paolo scrive ai Corinti: “Non abbiamo forse il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? (1Cor 9:5). E qui, già nella tradizione della Chiesa antica, si introdussero gagliardi spostamenti. La donna (greco ginaika) venne tradotta in latino da Girolamo, nel IV secolo, in un primo tempo giustamente con consorte (uxor), più tardi invece con moglie (mulier, cfr. Ranke-Heinemann, op. cit. S. 42). Nel prosieguo, si capovolse la successione: da sorella come moglie si tirò fuori una moglie come sorella, anticipando così la funzione della governante domestica, detta anche perpetua, con buona ragione tanto apprezzata dai preti cattolici (ahem... in diverse capacità).

Nelle più tarde lettere neotestamentarie affiora una precoce carica episcopale, che la prima età non conosceva ancora. Anche qui non c’è traccia di celibato, al contrario. Nella lettera (spuria) di Paolo a Timoteo (1Tim 3:2) e nella (altrettanto spuria) Lettera a Tito (Tit 1:6) si sottolinea addirittura che il vescovo (greco episkopos) dovrebbe essere “marito d’una sola donna”, e per di più preposto alla propria famiglia. La cattolica Bibbia di Gerusalemme, edita dal Herder-Verlag (l’editore proprio di Dio!), si premura di sottolineare che qui non è inteso un vescovo classico, bensì una specie di “sorvegliante”. Questo è il colmo: da un lato si vuole retrodatare il più possibile la carica vescovile per conferire anzianità e quindi dignità a questo ufficio, estremamente importante per la gerarchia cattolica. Dall’altro, i testi vengono blindati quasi dispettosamente contro le verità di fede rivelate più tardi dallo Spirito Santo. Ma a chi dà tanto fastidio la verità storica? Encicliche papali e deliberati conciliari hanno dato una mano, qui come altrove, al mondo reale che arrancava zoppicante, in ritardo. Ciò che sulle prime non andava bene, veniva poi sempre aggiustato.

In ogni modo, la grande considerazione del matrimonio, che Gesù ancora difendeva, in Paolo è notevolmente diminuita. Tende a sconsigliarlo, ma senza elevarlo a legge. Per lui, la sessualità non è un affare di cuore, ma piuttosto un ripiego per impedire fornicazione e adulterio. Per il romanticismo dell’amore, Paolo non trova una voce: proprio lui, che sa decantare così bene l’amore per Dio. Ciò nondimeno, egli è ancora lontano dalle future sevizie che matrimonio e sessualità dovranno subire ad opera dei Padri della Chiesa.

Sotto la croce di Cristo si sarebbe potuto vivere, ma la vita sotto la croce della Chiesa (la croce di Agostino, di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino) divenne un supplizio per i credenti. Non di rado, i successori degli apostoli divennero apostoli del moralismo. E, con la sessualità, usurparono diritti umani e privati, ficcando senza ritegno occhi e mani proprio sulla parte essenziale dell’intimità umana. Che cosa ne hanno fatto, dell’amore? Quali cumuli di macerie hanno lasciato dietro di sé?

« E qui, in quell’amore, che essi chiamano “sensuale” con un insopportabile intrico di disprezzo, di cupidigia e curiosità, qui sono da ricercare certamente le peggiori ripercussioni di quella denigrazione che il cristianesimo credette di dover procurare al mondo terreno. Qui tutto è deturpazione e rimozione, quantunque noi abbiamo senza dubbio origine da questo profondissimo evento e possediamo, di nuovo in esso, il centro delle nostre emozioni e dei nostri incanti. Per me, se così posso esprimermi, è sempre più incomprensibile come un insegnamento – una dottrina che ci ricaccia nel torto proprio là dove la creatura umana gode il suo diritto più felice –, possa tuttavia continuare ad affermarsi. »
(R. Maria Rilke, Opere in 6 volumi, 1955–66, VI, S. 1123)

E’ forse il più grande crimine del Cristianesimo il fatto che qui, nella più personale e privata tra le relazioni umane, esso dovesse erigere il suo algido idolo del peccato. In più, il delitto di avere sporcato la beatifica vita di coppia, che rende felici gli umani, con il sudiciume delle sue fantastischerie sul peccato, offuscando una candida naturalità con la denigrazione e la demonizzazione, è avvenuto e avviene ancora oggi. La Chiesa, con le sue oscene fantasie, ha aggravato oppure alleviato la convivenza dei sessi attraverso i secoli? La sua dottrina del peccato ha dato un contributo alla comprensione tra gli uomini, o non l’ha invece resa più ardua e scabrosa? Come si presenta il bilancio? Di sicuro c’è soltanto che, a causa di quella dottrina, furono creati – e continuano a crearsi ancora oggi – milioni e milioni di vite umane sessualmente inibite e ossessivamente maniacali.

Precisamente quella religione che scrive l’amore del prossimo sulle sue bandiere, ha avvelenato e reso spregevole, per oltre millecinquecento anni, l’amore tra le persone che si amano. Non ci si rende conto di questo crimine, mentre si insiste di continuo sulle Crociate e sui roghi delle streghe, a causa delle loro ripercussioni storiche. E’ un ripugnante feticcio, questo del peccato: non produce titoli a lettere cubitali, operando piuttosto nel silenzio. Si preferisce non parlarne, eppure l’idolo insinua senza pietà le sue fredde dita in ogni vita di coppia, in ogni talamo coniugale. Come si deve giudicare un’istituzione che dichiara la naturalità come una perversione? Non diventa essa stessa perversa? Come potrà mai la Chiesa liberarsi da questa colpa dell’adulterio mentale?

Orbene, le epoche grandiose della Chiesa sono trascorse, si potrebbe dire grazie a Dio. E con esse anche l’influenza clericale su aspetti della vita che non la riguardano affatto. Eppure le cose non sono così facili. E’ pur vero che il Protestantesimo ha potuto liberarsi per gran parte da una morale sessuale di stampo medioevale. E persino i giovani cattolici, in Occidente, non si lasciano ormai più prescrivere nulla (per quanto riguarda amore e sesso) dalla loro gerarchia e persino da papi come Giovanni Paolo II o da Ratzinger, amico di Agostino. Eppure, già nella nostra vicina Polonia, la situazione è ben diversa, tanto più nei paesi cattolici di Africa e dell’America latina. Dove, d’una morale siffatta, soffrono specialmente coloro i quali cercano di vivere la loro fede con animo sereno e sincero.

L’immagine cristiana dell’uomo è comunque, per molti aspetti, falsa e superata. Il richiamo a codesta concezione avviene perlopiù in riguardo alla tradizione, non perché ci si sia posta seriamente la domanda se codesta immagine coincida effettivamente col mondo reale. Ed ecco riproporsi la tesi: la dignità di opinioni tramandate ab antiquo non garantisce della loro giustezza, ma crea spesso questa illusione. E ciò vale con particolare riguardo a religioni in cui l’ideologia dominante viene trasmessa – per così dire come un accessorio – insieme coi principali dogmi di fede. E’ naturale che, anche dalla Bibbia, si possano imparare diverse cose che in qualche modo interpellano l’umanità. Tuttavia, dal momento che gli elementi degni di considerazione sono spesso intrecciati con princìpi superati e falsi, sussiste sempre – soprattutto per fanciulli, adolescenti e anime candide – il rischio che vengano interiorizzate assurde concezioni del mondo.

Spiegazioni mitologiche del mondo

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L’Inferno

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Le persone religiose hanno una propensione per immagini semplici del mondo. E propendono parimenti ad accettare in maniera acritica schemi di fede preconfezionati. Solo così è spiegabile come mai l’immagine biblica del mondo e dell’uomo sia esistita così a lungo senza essere messa in discussione e, per molta gente, tale persista ancora oggi. Un progresso nella storia delle idee venne in tal modo impedito – volutamente o involontariamente – a causa del cristianesimo, per oltre un millennio. Il mondo e gli uomini, tuttavia, sono molto più complicati delle lignee figure dell’armamentario biblico; e sono pure più complessi dei rigidi schemi interpretativi predisposti dal ventaglio delle offerte politico-ideologiche.

Oggi, i cristiani accettano spiegazioni del mondo ancora arcaiche, in quanto la loro religione stessa nacque in un’epoca in cui codeste spiegazioni avevano ancora forza dimostrativa. Mentre nel Protestantesimo rappresentazioni come cielo e inferno, paradiso, diavolo, purgatorio, angeli e demoni, sono supportate solamente da marginali gruppi religiosi e da fondamentalisti, questo armamentario religioso continua a far parte del patrimonio di fede della Chiesa cattolico-romana. A dispetto del Concilio Vaticano Secondo, contenuti di fede e comprensione del mondo sono legati più all’immaginario del Medioevo che al pensiero emancipato nella modernità. Di questi anacronismi, in Vaticano, si è spesso addirittura orgogliosi: l’arretratezza viene interpretata come fedeltà alla verità. Nelle pagine seguenti, ci si riferisce soprattutto al Catechismo Cattolico per Adulti (KEK 1985/95) – il catechismo ufficiale della Chiesa cattolica –, edito dalla Conferenza Episcopale Tedesca, disponibile anche online. Ratzinger approverebbe...

In esso, in prima battuta, ci si presenta pieni di comprensione e all’altezza dei tempi. Ed in effetti ci sono stati cambiamenti, nel tono e nei contenuti, rispetto al passato. Certe obiezioni vengono recepite, e i credenti di altre fedi non sono condannati a priori. Eppure, nonostante formulazioni moderne, ci si muove, oggi come ieri, su orbite largamente mitologiche.

L’esistenza d’un inferno è, oggi come in passato, dogma di fede della Chiesa cattolica. Neanche le citazioni da Sartre e Solgenitzin riescono a dissimulare il fatto che qui – in forma più mite, ma pur sempre cupa e fosca – si minaccia l’annientamento per tutti i diversamente credenti. A buon diritto, per questo, ci si richiama all’annuncio di Gesù che, come s’è detto sopra, condivise pienamente la fede nell’Inferno tipica del suo tempo. Parla infatti di gettare all’inferno “nella Geenna” (Mt 5,29–30), di fuoco eterno e di eterni tormenti (Mt 25,46) e spesse volte di “urlare e digrignare di denti”, che regnano laggiù. Quanto basta, quindi, perché la Chiesa ribadisca: “La dottrina della Chiesa, che ha difeso esplicitamente l’eternità delle pene eterne, poggia quindi su un saldo fondamento, ancorato al fondamento biblico.” (KEK I, 422).

Si constata qui la fondamentale problematica delle Scritture sacre. Qualunque discorso a vanvera, pur che si trovi in uno scritto antico, diventa di colpo “saggezza divina”, in forza della sua promozione, contenuta in uno scritto sacro. D’un tratto, ogni glossa a margine assurge ad autorità assoluta, ogni frase si trasforma in una visione del mondo. Ed uno scritto, una volta decretato sacro, diventa oggetto di autorità in estrema istanza; allora è maturo come prova scritta, la più insulsa di tutte le prove possibili. Dagli appunti buttati giù da un fanatico religioso dell’antichità, si cementa così un’immagine del mondo e dell’inferno con cui la Chiesa non fa che molestare ancora oggi l’umanità. E non vi si dà quartiere. In maniera esplicita, si respinge l’idea che possa trattarsi solo di punizioni temporanee. Devono essere per di più eterne, dal momento che un antico predicatore itinerante si espresse in questi termini.

Eppure, fin dall’antichità, vi furono anche diverse opinioni concorrenti secondo cui, alla fine dei tempi, tutti gli uomini sarebbero diventati beati, e persino il diavolo si sarebbe salvato. L’intera creazione, allora, si sarebbe ristabilita. Origene, il più ragguardevole padre della Chiesa d’Oriente (poi condannato come eretico), rappresentò questa dottrina d’una restituzione di tutte le cose (greco apokatastasis panton). Goethe fu affascinato da questo pensiero, e progettò di concludere il Faust II con il riscatto di Mefistofele (optando però alla fine per un epilogo convenzionale). Cotanta grazia, tuttavia, la Chiesa non la può concedere assolutamente agli uomini; esplicitamente, questa è una “dottrina condannata” (KEK I, 422), con il perfido argomento che in questo modo “la libertà, e con essa la dignità dell’uomo […] è garantita”, poiché l’uomo si sarebbe deciso contro Dio, e questa decisione si deve rispettare.

Così concepito, l’Inferno dovrebbe mettere in evidenza la serietà e la dignità della libertà umana, che deve scegliere tra vita e morte. Dio rispetta la libertà dell’uomo, non imponendo a nessuno la sua eccitante comunione contro la volontà stessa dell’uomo (KEK I, 423).

Certo, è straordinariamente sfacciato che la Chiesa si avvalga qui di concetti come libertà e dignità al fine di offuscare elementari circostanze sicure: chi non crede nel Dio cattolico, dovrà arrostire all’inferno per l’eternità. Chi non si lascia imporre la beatifica comunione con Dio, cadrà vittima dell’eterna dannazione. Il fuoco (ci si affretta a dichiarare) non sarebbe “da intendere in senso rozzamente realistico”, e tanto meno è lecito “pensare a continui tormenti sadistici”. Tuttavia, anche una “intelligenza meramente spirituale non rende giustizia all’enunciato della Scrittura […]. Si tratta del fuoco che consuma, che Dio, nella sua santità, ha preparato per il male, la menzogna, l’odio e la violenza.” (KEK I, 423). A questo punto, si sente quasi quasi la mancanza dei toni netti del passato allorquando, senza rimestare parole melliflue, si constatava:

« La santa Romana Chiesa, fondata sulla parola del Nostro Signore e Redentore, crede fermamente, professa e annuncia che nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica, né pagano né ebreo né miscredente, o uno separato dall’unità ecclesiale [dei Protestanti qui non si deve neanche fare il nome], sarà partecipe della vita eterna, bensì cadrà vittima del fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli […] »
(Neuner/Roos, Der Glaube der Kirche in den Urkunden der Lehrverkündigung, Nr. 381, 1992)

I supplizi infernali erano intesi alla lettera, senza riserve, e descritti in maniera del tutto fisica. E così, attraverso i secoli, li hanno sempre intesi anche i credenti, cioè in maniera tutt’altro che metaforica, come persino i teologi cattolici vorrebbero suggerire ai giorni nostri. Già la seconda Lettera di Clemente (intorno all’anno 100) esprime piacere per la vista dei dannati; la cosiddetta Apocalisse di Pietro, uno scritto anonimo dell’anno 200, dipinge i supplizi dell’inferno coi toni più perversi. Fa parte addirittura degli svaghi preferiti del cielo: stare a guardare i dannati torturati nell’inferno. Anche Tommaso d’Aquino prospetta per i santi questo ambiguo godimento dei sensi.

Tutto questo, tuttavia, non si doveva interpretare male, non era affatto nelle intenzioni … questa obiezione oggi, qualora sia pensata seriamente, giunge comunque troppo tardi. Come la Chiesa ha avvelenato la convivenza di uomo e donna con la disumana e nevrotica visione della sessualità, così ha fasciato di un’atmosfera di angoscia anche la vita dei popoli, a dispetto di ogni Vangelo. Lo ha fatto annunciando e dogmatizzando un’allucinazione dell’Inferno: non solo tollerando, ma sollecitando fantasmagorie diaboliche nell’arte “sacra”, nonché riservando a se stessa, perfidamente, il preteso potere di affrancare i credenti dalle illusioni da lei stessa create. E tutto soltanto a causa delle fantasie demoniache di un uomo venuto dalla Galilea: spettri e fantasmi che non erano neanche suoi personali, ma da lui assorbiti dal proprio ambiente sociale.

Altro non era che terrorismo psichico, quasi un dovere d’ufficio, quello esercitato in questo campo dalla Chiesa, in massimo grado su coloro che in essa riponevano fiducia. Come un rigido insegnamento sessuale impartito dalla Chiesa ha prodotto tante persone inibite, paralizzate da sensi di colpa, così la dottrina dell’Inferno ha posto le basi per masse incalcolabili di persone impaurite e angosciate. Non è lecito stupirsi se, sotto minacce di pene infernali e demonizzazioni del sesso, non si siano mai potuti educare esseri umani veramente sinceri.

Purgatorio

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Il Purgatorio è un qualcosa che assomiglia al fratello minore dell’Inferno: una specie di anticamera, una sorta di limbo, dove le anime dovrebbero essere purificate. Al pari dell’Inferno, nemmeno qui si tratta d’una concezione genuinamente giudaica e cristiana. Anche per esso, venne impiegato semplicemente un patrimonio di idee pagane (quasi un materiale di spoliazione e di riporto) a tutto vantaggio dell’edificio cristiano. Al pari dell’Inferno, anche l’idea del purgatorio si riscontra in molte altre religioni: nel parsismo iraniano o nelle religioni induiste. Il testimone più popolare è tuttavia Platone che, nel Fedone, parla di un luogo in cui i defunti devono espiare le loro malefatte; un pensiero che il filosofo greco mutuò probabilmente dai seguaci della scuola orfica.

Anche nell’Eneide di Virgilio affiora il pensiero d’un fuoco purificatore. Per contro, le motivazioni bibliche sono ancora una volta disseminate assai scarsamente; anzi, nel Nuovo Testamento, l’idea del purgatorio non è praticamente documentabile. Ciò nonostante, la fantasia teologica ha gonfiato alla grande questa teoria. Si ritrova l’idea del purgatorio in Origene e Cipriano, e poi di nuovo, manco a dirlo, nel nefasto Agostino, dal quale si diffuse per tutto l’Occidente cristiano.

Tra le motivazioni neotestamentarie si possono riscontrare solo due passi, anch’essi peraltro alquanto tirati per i capelli.

« A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro. »
(Mt 12:32)
« Mettiti presto d’accordo col tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! »
(Mt 5,25–26)

Sono due detti di Gesù che, mediante un’interpretazione forzata (tipica della dogmatica), dovrebbero fungere da giustificazione per uno stato intermedio in cui le persone si trovano dopo la loro morte e prima del giudizio. Anche qui, in luogo della buona novella, c’è in primo piano la sofferenza e il fuoco: l’elemento prediletto, per così dire, della Chiesa. Il peccatore “può essere ripulito e purificato”, come la Chiesa cattolica seguita a rimarcare (KEK I, 424). Allo stesso modo in cui la Chiesa sa congiungere la libertà con l’inferno, così essa accompagna qui il fuoco purificante con la misericordia (!) di Dio. Giacché la tortura (!) si effettua per il maggior bene dell’umanità.

« Il fuoco va compreso come la forza depurativa, purificante e santificante della santità e della misericordia di Dio […] Il Purgatorio è dunque Dio stesso nel suo potere depuratorio e santificante per l’uomo. »
(KEK I, 425)

Dittatori e potentati sono stati sempre dell’opinione che torturare le persone non dev’essere poi tanto brutto. Ora apprendiamo che, secondo la fede cattolica, almeno nel Purgatorio, è addirittura un buon costume. “Si tratta in breve del dolore purificante dell’amore.” (I, 425). Una frase, diciamolo con franchezza, da assaporare piano piano sulla lingua, mentre la si pronuncia.

Anziché prendere definitivamente commiato da queste medioevali scempiaggini, la Chiesa ne traghetta l’orrore e la perversione nel Terzo Millennio. Il fatto è che la Chiesa versa in una situazione incresciosa. Troppo forte è stato il pensiero dell’Inferno e del Purgatorio, troppo presente nella tradizione storica (non però nel Nuovo Testamento), per poter ormai dire semplicemente: è stato tutto uno scherzo! Un pesce d’aprile! Ecco il risultato, quando ci si affida a certe autorità, anziché riflettere autonomamente. Tuttavia, che le cose possano andare anche diversamente, lo ha dimostrato il Protestantesimo. I teologi della Riforma abolirono il Purgatorio; almeno questo rogo cessò di ardere nel mondo protestante. Eppure ciò non avvenne per effetto dell’amore per il prossimo, non perché si volesse abbandonare una concezione disumana e perversa. No, anche questo avvenne per ragioni “dogmatiche”.

Il commercio delle indulgenze della Chiesa cattolica, a causa del quale divampò la Riforma protestante, ha un senso soltanto se esiste anche un fuoco di purificazione. Con l’inutilità delle indulgenze divenne superfluo anche il Purgatorio, tanto più che quel fuoco era attestato nella Bibbia solo fiocamente. Eppure all’inizio (1517) Lutero si era ancora pronunciato a favore dell’esistenza del purgatorio; era per lui una “sicurissima certezza, che esista un fuoco purificante” (Lutero, Weimarer Ausgabe I, 555). Solo con lo scritto Ein Widerruf vom Fegefeuer (1530) //Una ritrattazione del purgatorio// egli affermerà poi l’opposto. Il Protestantesimo sottolinea che il sacrificio di Gesù sulla croce poteva bastare, per cui un Purgatorio non è più necessario. Per contro il cattolicesimo, col Concilio Tridentino del XVI secolo, avrebbe addirittura dogmatizzato il Purgatorio. In conformità con esso, è una verità di fede: il cattolico deve credervi, se non vuole correre il rischio di essere automaticamente trasferito all’Inferno (in cui si deve credere allo stesso modo).

Abolizione del Limbo

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Cose bizzarre, invece, sono accadute nel cattolicesimo in un campo analogo: nel cosiddetto limbus infantium, detto anche limbus puerorum. Con ciò la teologia cattolica, specialmente quella legata a Tommaso d’Aquino, intendeva una sorta di pre-inferno, un’anticamera in cui si ritrovano i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. Perché mai i bambini siano lì, è chiaro, ove si ripercorrano le vie contorte della tradizione cattolica. Questi bambini, è vero, non possono ancora aver fatto qualcosa a qualcuno; nondimeno sono colpevoli, dal momento che su di loro grava quantomeno il peccato originale. Non vanno all’inferno, è vero, però, in quanto non battezzati, non hanno alcuna probabilità di vedere Dio, ciò che per i credenti, nel cielo, significa la vera beatitudine. Quei bambini, tuttavia, devono restarne fuori.

Per una dottrina del genere mancano certamente fondamenti nella Bibbia, come i cattolici stessi ammettono. In più, non è forse tramandato di Gesù stesso la massima Lasciate che i bimbi vengano a me? Per cui nella realtà: nell’aprile 2007 il Vaticano ha, per così dire, abrogato (o, rispettivamente, dichiarato superato) il Limbo destinato ai bimbi non battezzati. Joseph Ratzinger, papa col nome di Benedetto XVI, ha approvato le corrispondenti pubblicazioni della Commissione Teologica Internazionale (ITK), anzi, come dichiarato, ne ha ispirato personalmente l’abrogazione. La rappresentazione del limbo sarebbe stata troppo rigorosa, in ogni caso niente più che un’ipotesi teologica. A conti fatti, ai bambini che non sono battezzati e muoiono, sarebbe consentito di accedere direttamente al Paradiso.

Non fu solo il mondo cattolico a strofinarsi gli occhi, allibito. Ma si può abrogare una tale dottrina così, senza tante storie? Per secoli, milioni di donne cattoliche credenti hanno patito supplizi psichici col pensiero che i loro bambini non battezzati (la mortalità infantile era altissima, e la morte del neonato senza battesimo alla nascita spesso inevitabile) costretti a restare nel Limbo per l’eternità. Una disumana dottrina della Chiesa aveva causato questi umani tormenti. E così, d’un tratto, tutto ciò diventa roba vecchia? Come è possibile? Una scusa, se non un’ammissione di colpa per le tante sofferenze provocate dalla gerarchia cattolica, non si è percepita in nessun caso dal Vaticano. Le loro proprie colpe, questo è certo, i pastori le hanno sempre trattate con più indulgenza che i peccati del loro gregge.

Si pone così la domanda su cosa sia più grottesco: che la Chiesa abbia enunciato generalmente una tale dottrina, oppure che voglia rinunziare ormai alla sua ulteriore propagazione? Chiaro, in tutti i casi, sembra essere questo: se la dottrina del limbus infantium fosse stata dogmatizzata (il che non è mai accaduto), papa Ratzinger non avrebbe potuto decidersi a questo passo. Perché allora sarebbe stato anche questo un dogma di fede, e questa fattispecie è vera “per definitionem”, in ogni caso, secondo la logica cattolica. Ma così, in quanto pura speculazione, può essere considerato come una specie di teologico pensionamento. La dichiarazione del papa, per cui non ci sarebbe stato nessun fondamento biblico a questo proposito, è solo una questione di comodo.

In effetti, anche per altri voli spirituali della teologia cattolica, manca fino ad oggi il permesso di decollo. Basti pensare alla Immacolata concezione di Maria (dogmatizzata nel 1854) o alla infallibilità del papa (dogma nel 1870), oppure alla assunzione carnale di Maria in cielo (anno 1950), di cui dovremo ancora parlare. Anche per codesti dogmi mancano fondamenti biblici. Ma dal momento che con essi si sono annunciate verità di fede, la Chiesa cattolica deve necessariamente convivere con gli spiriti a cui essa stessa ha dato vita.

Diavoli, demoni ed esorcismi

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La Chiesa è costretta a vivere anche con il Diavolo, l’uomo nero per le persone adulte. Sennonché, a differenza dei moderni prodotti dell’inventiva cattolica poc’anzi nominati, questa fede si rifà pur sempre a Gesù. Quantomeno, Gesù li mutuò dal suo milieu sociale; ne abbiamo parlato già a suo tempo. Che questa dottrina – così puerile per l’uomo moderno – provochi evidentemente un certo corrugamento della fronte anche nella gerarchia cattolica, si riconosce nel Catechismo cattolico già dal fatto che per essa non vi sia, in quasi 1000 pagine, neanche un capitolo dedicato. Lo si deve cercare un bel po’, e alla fine lo si trova, stranamente, in un capitolo intitolato “Il cielo: speranza dell’uomo”. (KEK I, 209) Però vi sta scritto chiaro e tondo: “Esiste il Diavolo, padre della menzogna.” Dunque, il diavolo non è una mitologica simulazione della realtà, un prodotto artistico, un principio personificato del Male, bensì in lui si manifesta e avvalora la dimensione profonda della realtà nella convinzione biblica ed ecclesiale. […]” (KEK I, 111)

Il catechismo sembra esprimersi modernamente quando, trattando della fede nel Diavolo, parla di rappresentazioni condizionate dall’epoca e dall’ambiente, precisando che l’esistenza di quanto è “cattivo, malvagio, distruttivo, perverso, mostruoso, assurdo” eccetera, rispecchia un’esperienza umana del reale. Fino a qui, anche Camus e Sartre avrebbero potuto acconsentire; sennonché la dottrina cattolica sa sfoggiare ancora qualcosa che non va. Infatti: “Secondo la dottrina ecclesiastica esiste […] non solo il male, ma anche il maligno, ovvero i maligni”. Con questi s’intendono i Demoni, che sono visti come non meno reali del Diavolo. Non vi sono possibilità, dunque, a favore d’una moderna comprensione psicologica, sociologica o esistenziale dell’esistenza umana e dei suoi abissi. Anche un cattolicesimo che si presenti modernamente non può rinunziare alla sagoma di questo sinistro ”uomo nero”, anche se, utilizzando concettualità moderne, gli è mancato un più decente abito da sera.

E non è soltanto la mera esistenza del Maligno come persona; è anche il diabolico personale ausiliario: sono i Demoni, che trovano pur sempre pane e risorse nella dottrina della Chiesa cattolica. Anche dell’esistenza dei Demoni, infatti, il Catechismo è ancora convinto, alla fine del XX secolo. Viene tirata fuori di nuovo, addirittura, la vetusta fiaba della caduta degli angeli:

« Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. »
(2 Pietro 2:4)
« E tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora. »
(Giuda, 6)
« Secondo costoro, i demoni erano stati angeli buoni, persino creati da Dio stesso, ma poi allontanatisi da lui per propria scelta, e diventati esseri demoniaci. Il Catechismo resta fedele a questa versione e si richiama espressamente al IV Concilio Lateranense (anno 1215), che impose l’obbligo di portare i copricapi ebraici ai fratelli di Gesù nella fede. »
« Gli immaginosi messaggi del cielo che crolla, della caduta degli angeli […], degli spiriti maligni nell’aria, erranti nello spazio tra cielo e terra […] colgono con grande precisione la situazione dell’uomo moderno. »
(KEK I, S. 111)

Qui, per la verità, il Catechismo parla di “mitico linguaggio figurato”, senza tuttavia prendere le distanze dalla reale esistenza dei demoni. Per cui si pone la domanda, come si possa comprendere altrimenti, se non in senso mitologico, la caduta degli angeli. Che cosa ne resta, qualora se ne rimuova la veste mitologica?

Coi demoni combatte già Gesù, relegandoli tra le sbarre, come si conviene ad un eroe religioso. La sua opera viene descritta, soprattutto da Marco, come quella di un esorcista. E anche il catechismo continua ad insegnare che i demoni “prendono possesso delle sue [dell’uomo] forze fisiche e psichiche, e sono in grado di alienare profondamente l’uomo da se stesso (invasamento demoniaco). Questa parola compare nel Catechismo in quest’unico passo, come se fosse imbarazzante persino per gli uomini autorevoli della Chiesa (dato che donne autorevoli, nel loro mondo, non ne esistono).

Anche l’esorcismo viene menzionato soltanto in un passo, ben occultato all’interno d’un grande capitolo dal titolo “L’opera dello Spirito Santo!”. Ci si richiama altrettanto a Gesù, che esercitò l’esorcismo in prima persona. Il fatto che questo corrispondesse effettivamente alla verità storica, per la Chiesa deve aver avuto un’importanza secondaria. Essa cambia subito discorso ogni qualvolta, nel battesimo infantile, mette in scena anche un esorcismo (cosa che non tocca la coscienza della maggioranza dei genitori cattolici). Accanto a questo piccolo esorcismo, l’esorcismo grande può essere praticato da un sacerdote solo con l’autorizzazione di un vescovo.

« In questo si deve procedere rigorosamente, con accortezza e sobrietà, secondo i criteri stabiliti dalla Chiesa. In nessun caso l’esorcismo dev’essere un surrogato per le cure mediche. »
(KEK I, 329)

Per buoni motivi, oggi, perfino il cattolicesimo rimanda alla necessaria assistenza medica di una persona che sia “invasata dal demoni”. Troppo negativi sono i giudizi della stampa nei casi in cui un esorcismo “fa fiasco” e l’invasato muore, oppure ne riporti danni mentali o corporei. In passato, la Chiesa non era tenuta a prendere nessuna precauzione al riguardo. Il numero delle vittime, che la prassi esorcistica della Chiesa cattolica ha provocato nel corso dei secoli, non si potrà mai stimare.

L’immagine complessiva d’un mondo infestato dai diavoli è un controsenso pericoloso e ancestrale, che appartiene dell’immondezzaio della storia. Per invasamento diabolico, che nella moderna medicina e psicologia oggi non esiste più, s’intendono naturalmente infermità e nevrosi della psiche. Anche all’epoca di Gesù non dev’essere stato diversamente. In mancanza di conoscenze scientifiche, i malati mentali (ma anche fisici) erano descritti come posseduti da forze demoniache. Non se ne sapeva di più né di meglio, e di ciò non si può far carico alle persone di quell’epoca.

Anche Gesù, nella sua attività, rispecchia codesta immagine del mondo. Ma un’accusa è pur lecito muoverla, anche se oggi la grande Chiesa si comporta come se, in fondo, ancora sussistesse l’idea arcaica del mondo, come se i demoni esistessero in quanto Gesù guariva da essi. Era, per l’appunto, non solo un modo di vedere diverso di quei tempi; era anche, sotto molti aspetti, un modo di vedere falso. Sennonché ad un Dio non si può certo concedere un errore: Gesù non può, in quanto Dio, essersi sbagliato. Di conseguenza, si cerca di adattare il mondo alla dogmatica. Assistiamo pertanto ad un fenomeno analogo, somigliante a quando i marxisti ortodossi (nella misura in cui ne esistano ancora) tentano di mettere il mondo reale in sintonia con la teoria, presunta nella sua purezza. E se la realtà si presenta diversa dalla dogmatica … tanto peggio per la realtà!

Gli angeli

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E’ proprio nella fede negli angeli che la dogmatica cattolica si intreccia, forse nella dimensione maggiore, con l’esoterismo. Riguardo alla determinazione del rapporto tra le due visioni, torneremo a parlare più avanti. Intanto, gli angeli, anzi intere schiere di angeli, s’incontrano già nell’Antico Testamento. Nei primi tre secoli del cristianesimo, tuttavia, non esisteva ancora un culto degli angeli. Ma dopo, in compenso, questa venerazione toccò rapidamente dimensioni ragguardevoli. Negli scritti di Dionigi l’Areopagita (intorno all’anno 500) si trova una descrizione della gerarchia celeste, in cui gli angeli occupano largo spazio. Più tardi, nel Medioevo, Tommaso d’Aquino, grazie alla sua angelologia, fu l’autorità principale per le questioni attinenti gli angeli. L’accentuazione cristocentrica impressa da Lutero attenuò per lui l’importanza degli angeli, mentre Calvino offre nella sua dogmatica un’organica dottrina sugli angeli.

Anche gli angeli hanno una storia. A questi spiriti, all’inizio, mancavano ancora le ali. Solo all’inizio del VI secolo fanno la loro comparsa sotto forma di esseri alati. Tutti gli angeli, per di più, erano maschi. Solo nel XV secolo si svilupperà l’angelo femminile, probabilmente per un equivoco sull’abbigliamento antico (si veda l’articolo Engel nel RGG, vol. 2, 465–469). Angeli bambini compaiono per la prima volta nelle opere di Giotto e Donatello, e angeli custodi sono noti solo a partire dalla Controriforma. Nel mondo protestante, oggi, essi non hanno più alcuna funzione, anche se Karl Barth, facendo della dottrina trinitaria il punto di partenza della sua teologia, ne tratta in maniera dettagliata (Dogmatica ecclesiastica KD 3,3).

Anche per questa categoria, il catechismo cattolico ufficiale per adulti cerca di nuovo, in apparenza, di entrare nella problematica dell’immaginario angelico nel mondo di oggi. E anche qui si parla nuovamente di obiezioni e difficoltà di comprensione, di forme linguistiche mitologiche, nonché di rappresentazioni d’epoca, al fine di rendere partecipi del grande carnevale cattolico anche gli angeli, come in precedenza già i demoni e il diavolo, il purgatorio e l’inferno.

« Dall’altro lato, certo, dovremmo anche vedere che la realtà è più complessa e profonda di quanto presagisca un ragione mal compresa in senso razionalistico. La realtà ha un sopra e un sotto, senza i quali mancherebbero la pienezza, l’interezza e la perfezione della creazione. Essa sarebbe allora ristretta in senso materialistico […] »
(KEK I, 110)

Anche profeti, indovini, guaritori di aura, astrologhi, medium della reincarnazione, formulatori di oroscopi, lettori del futuro nei fondi di caffè, e simili, diffidano e mettono volentieri in guardia da un restringimento materialistico, come pure da una ragione razionalisticamente fraintesa. Con ciò, la Chiesa si trova dunque accomunata con una compagnia da essa non intesa certo come imparentata. Che vi siano “più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la nostra filosofia”, suona invero benissimo in Shakespeare; ma questa, negli occulti cervelli delle suddette “categorie professionali”, che si riempiono la bocca di questa citazione, è una presunzione bella e buona. Che la realtà sia indubbiamente più complessa di quanto noi possiamo riconoscere, è una verità lapalissiana. Il fatto di confessarlo non significa affatto che le fantasticherie dell’esoterismo, o d’un esoterismo cristianeggiante nei toni, rappresentino delle realtà. Ai loro esponenti ci sarebbe da augurare un po’ di nozioni scolastiche di base. Da tempi immemorabili, in realtà, tra cielo e terra si riscontrano anche molte scempiaggini.

« La testimonianza della Sacra Scrittura circa l’esistenza degli angeli è inequivocabile. Si trova nella Bibbia in moltissimi brani. »
(KEK I, 110)

Allora dev’essere vero, se sta nella Bibbia! Come possono disturbare le moderne difficoltà di comprensione, constatate ancora nel proprio campo? Stando alla testimonianza del Catechismo, gli angeli sono chiaramente creature, invisibili, ossia creazione spirituali. Gli angeli possono essere onorati, ma non è lecito adorarli. Il loro compito è la glorificazione di Dio; essi sono servitori e messaggeri di Dio, e sono per di più figure personali di protezione e aiuto di Dio per i credenti (KEK I, 110). Anche agli angeli “custodi”, sebbene siano ancora giovanissimi rispetto alla storia della tradizione, il Catechismo cattolico spalanca le porte.

Ora, qualcuno potrebbe chiedere che cosa ci sia, in tutto questo, di così brutto. Il fatto è che non si tratta solamente d’una immaginazione candida e fanciullesca di figure angeliche. Questa non è che un solo aspetto d’una immagine del mondo complessivamente superata e falsa. Di questa immagine fa parte anche una concezione di alto e basso, la spaccatura del mondo reale in strutture dualistiche (bene e male); vi appartengono in più le disumane rappresentazioni di demoni, di spiriti maligni, del diavolo, dell’inferno e d’una eterna camera di tortura installata nel regno oltremondano da una suprema istanza divina. Ne fanno parte non solo l’immagine positiva d’un Paradiso (riservato alla piccola minoranza dei cristiani), bensì, e molto di più, gli eterni supplizi infernali per la stragrande maggioranza dei non cristiani.

L’immagine biblica del mondo e la sua conservazione in forma di terapia intensiva – soprattutto ad opera della Chiesa cattolica – non è appropriata per una visione realistica del mondo; non fa che ripristinare idee e immagini di epoche trascorse. Essa genera angosce e recinti circoscritti, vede il mondo reale in prospettive distorte, e li descrive in maniera troppo sciocca, classificando uomo e mondo secondo categorie inadeguate. E’ incline tanto ad esagerazioni quanto ad avventate asserzioni sulla presunta “essenza umana”. Genera inevitabili conflitti con la comprensione della realtà moderna e umana, che reca invece l’imprinting delle conoscenze dell’Illuminismo ed è sostanziata dalle conquiste della scienza.

Quale modello per una convivenza di persone di differenti correnti di fede all’interno d’una società, oltre che come base per una pacifica convivenza dei popoli tra di loro, quella visione – a causa della sua fondazione religiosa – è in ogni modo di ostacolo. Che sia nelle intenzioni o meno, la trasmissione dell’immagine biblica attraverso l’insegnamento della religione, o tramite la socializzazione ecclesiastica, è controproducente per la formazione d’una personalità critica e autonoma.

Devozione mariana

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La fraintesa madre di Dio

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Nella devozione popolare, Maria è parte della Trinità, e occupa il posto dello Spirito Santo. La madre di Gesù è venerata religiosamente in maniera tale che, in certi momenti, la cosa si fa sgradevole persino ai cardinali. Perché a Maria, in nessuna epoca, e in nessun momento della dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, è mai stato riconosciuto dogmaticamente un peso simile a quello che essa occupa nella devozione del popolo. Nel confronto con Maria, lo Spirito Santo conduce un’esistenza piuttosto oscura, relegata decisamente in un cono d’ombra.

In effetti, che cosa può farsene il credente d’una costruzione come quella dello Spirito Santo, di questo membro della Divinità più elaborato allo scrittoio che sentito nella realtà: un’architettura progettata da teologi, sterile, esangue, troppo arida per la venerazione religiosa. Il fatto che proprio gli eretici amino appellarsi a codesto Spirito, non contribuisce granché al prestigio di questo terzo membro della Trinità.

Quanto diversa, per contro, l’alta considerazione per una donna che, nella visione generalmente cristiana, ha messo al mondo il figlio di Dio! In luogo d’una ipostasi divina, ecco una persona in carne e ossa; in luogo di speculazioni trinitarie e incomprensibili ai profani, ecco un tangibile rapporto madre-figlio, facile da condividere con chi ascolta. Invece d’una astratta trinità, ecco una reale famiglia sacra, con Maria come madre di Dio. In questo senso, nella sura 5,116, il Corano (fra)intende Maria come parte della Trinità, mentre respinge la Trinità nel suo complesso.

La Chiesa cattolica stessa non è incolpevole del fatto che i suoi credenti fraintendano la posizione di Maria. Nella dottrina cattolica, nell’incensamento insuperabile di cui è fatta oggetto, Maria gode d’una considerazione altissima. Il Catechismo la celebra come Madre di Dio, vergine, figlia di Sion, rappresentante di Israele nell’ora del compimento della sua speranza. Maria è colei che pronuncia il sì della fede, Maria è profetessa, ideale e modello supremo della fede cristiana, il prototipo della Chiesa, il modello fulgido, la nuova casa di Dio, l’età nuova dell’alleanza, la porta della salvezza per tutti quelli che appartengono a Cristo, l’avvocata, le mediatrice, l’interceditrice, il conforto. In lei si onora il genere umano: ella è l’archetipo di ogni eletto, la piena di grazia, è la tutta santa; Maria è il paradigma perfetto, primordiale, puro e assoluto della Redenzione. (definizioni tratte da KEK 166–182).

“Con Maria si manifesta chi è Gesù Cristo e ciò che per noi egli significa in quanto salvezza e speranza.” (KEK I, p. 170). Essa è “mediatrice di tutte le grazie”. Ebbene, chi crea queste formule, non deve stupirsi se poi i credenti adorano anche Maria, quando dovrebbero limitarsi a venerarla, né che la si voglia sentire come dea, laddove la Chiesa ufficiale insegna che anche lei è una creatura. Il Catechismo vuole servire, per l’appunto, entrambe le versioni: sia la dottrina mariana, che esso ritiene dogmaticamente corretta, sia la devozione popolare per Maria.

Eppure questa intensa venerazione mariana non è affatto prerogativa delle masse devote. Anche ai vertici della gerarchia si trova la venerazione per la madre di Dio. Non da ultimo essa è stata promossa e valorizzata dal lungo pontificato di Giovanni Paolo II, il quale non fu soltanto un fervente adoratore di Maria, ma amò molto farne sfoggio attraverso i massmedia. Dal suo stemma fece spostare dal centro la croce “a favore d’una gigantesca M (=Maria!)!” (Hans Küng, Umstrittene Wahrheit, S. 464)

Il fatto che Maria, diversamente da Gesù, non riuscisse a fare il salto al grado di divinità, si spiega principalmente con questo fatto: la teologia della Chiesa antica si era ormai conclusa, allorquando il culto mariano affiorò e si fece sentire nei Concili. Solo al Concilio di Efeso, nell’anno 431, si pervenne alla dogmatizzazione di Maria quale madre di Dio” (propriamente gestante di Dio, in greco theotokos) … troppo tardi, comunque, per assicurare a Maria ancora un posto in prima fila.

Nel prosieguo, il culto mariano andò crescendo solo lentamente. Ebbe i suoi albori in Oriente, mentre in Occidente urtò inizialmente persino in una certa resistenza. Così in Tertulliano, e ancora in Agostino, nel quale non si trovano né inni né preghiere indirizzate a Maria. Col tempo, tuttavia, anche in Occidente si diffusero le feste mariane e, a livello popolare, furono appioppate a Maria leggende sempre più strabilianti. La rappresentazione secondo cui le suppliche rivolte a Maria avessero effetti miracolosi, si manifestò apertamente intorno all’anno 1000. Malgrado ogni venerazione, anche Tommaso d’Aquino vedeva Maria ancora affetta dal peccato originale: una tesi che i Francescani respinsero già allora. La Riforma protestante, naturalmente, non volle riconoscere a Maria nessun tipo di mediazione o di intercessione ai fini della salvezza, mentre i Gesuiti – coinvolti in prima linea nelle lotte della Controriforma – praticarono e propagandarono una forte devozione per Maria. Ma fu solo nel XIX secolo, nel 1854, che il culto mariano (iperdulia) toccò il suo culmine col dogma della Immacolata Concezione di Maria.

Questo dogma non dichiara, come si suppone spesso, che Maria abbia partorito Gesù in quanto vergine (questa fu opinione corrente già nella tarda antichità), ma che Maria stessa fu concepita senza peccato originale. “Perciò essa, anche nella sua vita successiva, fu del tutto esente dal peccato d’origine.” (KEK I, 179). La stessa gerarchia cattolica ammette che questo dogma (in cui i cattolici sono obbligati quindi a credere) non può essere ricavato dalla Bibbia.

Altrettanto dicasi per quanto riguarda il secondo dogma mariano, proclamato solennemente nel 1950, cioè a metà del XX secolo, 200 anni dopo l’Illuminismo: il dogma dell’assunzione fisica di Maria in cielo, più noto a livello popolare come Assunzione della Vergine. Quale punto d’appoggio per questo dogma (a cui i cattolici debbono credere altrettanto) il Cattolicesimo adduce in tutta serietà il versetto dal vangelo di Luca: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1:45); e dimostra una volta di più, con quali stratagemmi, da parte cattolica, si è pronti a lavorare ancora oggi, per estrarre dagli scritti biblici, come per magia, un risultato gradito alla dogmatica. Per il resto, si ammette anche qui (in maniera che si dice moderna) che pure questo dogma è contenuto nella Bibbia solo per via indiretta.

E allora, come fondare meglio questo dogma? In realtà, un’ascensione al cielo di Maria non solo non è presente affatto nella Bibbia; l’idea stessa era totalmente ignota prima del V secolo. E ancora nel XVI secolo era oggetto di controversie. Questo dato di fatto, tuttavia, è lungi dall’imbarazzare i cattolici: “Per noi questa interpretazione è garantita dalla testimonianza di fede e dalla prassi della Chiesa.” Questo dogma, in buona sostanza, è vero in quanto è creduto e annunciato nella Chiesa. E la Chiesa lo annuncia in quanto è vero. Ecco, chi vede in questo un circolo vizioso, dimostra soltanto che gli fanno difetto la retta visione e la fede.

Per giustificare anche le teorie della fede più astruse e non derivabili dalla Bibbia, si ricorre all’idea che un dogma (naturalmente sotto l’ispirazione del Santo Spirito), si possa svelare lentamente nel corso dei secoli, come scaturendo da un germe, mostrandosi a poco a poco come verità, che alla fine viene sancita ufficialmente dalla Chiesa. Lo spirito cattolico del tempo la Chiesa può spacciarlo – come eterna verità di fede – ai credenti, magari a se stessa. Non è più necessario trattenersi con motivazioni bibliche insufficienti o del tutto inesistenti: basta la Tradizione, diventata misura di tutte le cose. In questo senso, teologi devoti a Maria e attivisti cattolici continuano a tendere l’orecchio alle voci dello Spirito Santo, quando si schiarisce la gola, pretendendo a gran voce ulteriori dogmi mariani: la dogmatizzazione, poniamo, della sua universale intermediazione di grazie, o la dogmatizzazione di un regno mondiale di Maria, oppure la definizione di Maria nel ruolo di corredentrice.

Una volta stabilito che il Cattolicesimo non s’interessa di legittimazioni bibliche, vogliamo noi almeno porre il problema in questo senso. Non già perché si debba essere dell’opinione che parole di conferma negli antichi testi biblici abbiano il benché minimo carattere probatorio, ma unicamente al fine di documentare, per l’ennesima volta, quanto la dottrina ecclesiastica – in questo caso quella cattolica – si sia allontanata già dal suo presunto fondatore e dagli scritti decretati sacri dalla Chiesa stessa.

Nel Nuovo Testamento, la figura di Maria ne esce piuttosto male, quantomeno negli scritti più antichi. Né Paolo né Marco si mostrano interessati nei suoi riguardi. Marco non reca ancora le mirabolanti leggende sulla nascita, di cui i teologi si sarebbero serviti così copiosamente. Ogni qualvolta Maria si fa vedere, succede in un contesto alquanto dubbio. Sua madre e i suoi fratelli, infatti, ritenevano Gesù alquanto fuori di testa, come si legge ancora nel Nuovo Testamento.

« Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: “E’ fuori si sé”. »
(Mc 3:20-21)

Parole inequivocabili. Nulla si percepisce di Maria come modello di fede, come porta di salvezza, quale volle vederla la teologia avvenire. In questa congiuntura, in luogo del Sì alla fede, Maria pronuncia un implicito No all’annuncio di Gesù. In luogo di mediatrice della salvezza, qui si manifesta solamente una madre, che nutre preoccupazioni (giustificate, come risulterà in seguito) per il suo bambino. Improbabile che questa penosa circostanza sia stata inventata in seguito. Al contrario: Matteo e Luca, che hanno il testo di Marco scritto davanti a sé, cancellano questo passo sconveniente.

I parenti di Gesù, se si segue il racconto di Marco, non hanno successo: non riescono a tenere Gesù sotto controllo. Addirittura, Gesù afferma la propria autonomia dai suoi familiari riluttanti.

« Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre.” »
(Mc 3:32-35)

Dato che Maria e i fratelli stessi di Gesù avrebbero fatto parte più tardi della prima comunità cristiana, anche questo passo è difficile che sia stato inventato. E Maria non viene annoverata, qui, come appartenente alla familia dei.

Allorché Gesù, nella sua città natale di Nazareth, non riesce ad operare prodigi, e i suoi conoscenti non gli accordano fiducia, questi si pongono le domande seguenti:

« “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua.” »
(Mc 6:3-4)

E’ certamente una circostanza memorabile che tutti coloro che conobbero Gesù prima della sua pubblica discesa in campo, lo ritenessero o dissennato o non tanto degno di fede. Del suo manipolo di discepoli, inoltre, nessuno sembra essere oriundo di Nazareth. In questo contesto, però, ci interessa solo l’ultima parte della citazione, che fa ripetutamente riconoscere come Gesù suscitasse incomprensione anche tra i propri parenti. Un certo raffreddamento di rapporti tra Gesù e la sua famiglia si manifesta anche in un passo nel vangelo di Luca:

« Mentre diceva questo, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” Ma egli disse: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” »
(Lc 11:27-28)

Anche questa non è davvero un’alta considerazione di Gesù nei riguardi della futura (candidata) madre di Dio. Proprio su questo punto la teologia cattolica cerca di prendere ancora giusta la curva, sottolineando che Maria ha udito la parola di Dio e l’ha seguita. E torna ad argomentare seguendo nuovamente le leggende della nascita. Sennonché, da tutte queste menzioni di Maria, appare evidente che essa non avesse alcun presagio delle storie inventate più tardi. L’avesse realmente istruita fin da principio un angelo, o chiunque altro fosse, avessero avuto luogo davvero le leggende della nascita, con i tre re Magi, la stella su Betlemme, con tanto d’oro incenso e mirra, eccetera, Maria avrebbe dovuto sapere o intuire qualcosa sulla divinità futura di suo figlio. Ma è palese che l’attività predicatoria di suo figlio la colse del tutto impreparata.

La Maria della storia, negli anni in cui visse suo figlio, non fece parte palesemente dei suoi seguaci, e nulla seppe della sua presunta missione divina. I reperti storici rivelano addirittura un certo estraniamento tra lei e suo figlio: un fenomeno del resto non così raro tra genitori e figli. In ogni caso, Maria cercò piuttosto di ostacolare l’opera di Gesù: un “modello di fede” essa non fu propriamente. Essa condivide infatti l’incomprensione nei confronti del figlio (Lc 2:50). Solo dopo la morte di Gesù, Maria divenne sua seguace, forse grazie all’opera di Giacomo, fratello di Gesù, il quale ebbe un ruolo direttivo nella comunità primitiva. Maria non ebbe tuttavia alcun presentimento delle leggende diffuse successivamente sulla sua persona; il culto della sua persona sarebbe iniziato molto più tardi. Ancora nel tardo vangelo di Giovanni, Gesù è capace di apostrofarla così ruvidamente: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora.” (Gv 2:4)

Questo dato di fatto storico potrà essere, per molti cattolici, inaudito e sconcertante; per la ricerca scientifica è da gran tempo accettato e condiviso. Da tempo è dimostrato che la venerazione per Maria non trova alcun sostegno nella predicazione di Gesù e che, nelle storie impiegate per motivare il culto mariano attraverso i secoli, si tratta di leggende, di religiose chimere, di elucubrazioni mentali frutto di epoche successive. Ma il cattolicesimo non può accettare questo risultato e non può rinunciarvi, poiché vi ha costruito sopra il proprio edificio di dogmi fin troppo alacremente, anche con fatiscenti mattoni mariologici. Lo svuotamento di quei semi equivarrebbe ad una demolizione. Quindi si è condannati a difendere ad oltranza, e pervicacemente, i bastioni dogmatici ormai diroccati dalla critica storica; e si è obbligati, per giunta, ad interpretare questa difesa addirittura come una perseveranza nell’ortodossia.

Nascita da una vergine

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Fondamenti più che traballanti si esprimono anche con la nascita verginale propagandata dalla Chiesa. Anche di questa storia non sanno nulla Marco e Paolo. In compenso, sarà poi addirittura penoso come, in maniera insistente e meticolosa, certi teologi (spesso monaci celibatari) si occuperanno dell’imene di Maria, definito precisamente Hymen Mariae. Un tema su cui furono scritti libri interi.

L’immaginazione d’una nascita verginale trova il suo biblico spunto principale in un passo di Matteo:

« Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi»
(Mt 1:22-23)

Ancora una volta bisogna scuotere il capo, formulando un giudizio negativo sulla sciatteria, ma positivo per il rigoglio inventivo di questo evangelista, il quale tira qui di nuovo per i capelli un passo veterotestamentario che giustamente non regge all’esito di un’indagine accurata. Perché il passo dell’Antico Testamento, Isaia 7:14, non parla affatto d’una vergine, bensì d’una giovane donna (ebraico alma).

Ebbene, questa parola ebraica venne tradotta nei Settanta (la traduzione greca della Bibbia) in forma imprecisa con la parola vergine (greco parthenos). Così la lesse evidentemente Matteo, e pertanto una giovane donna si trasformò in una vergine. Isaia esprime questo vaticinio riguardo al re Acaz, durante la guerra tra Assiria e gli Efraimiti (734 AEV), accennando ad un prossimo avvenimento (mentre è ancora in vita il re). E Isaia non pensava certo ad un evento di oltre 700 anni dopo. Per giunta, il bambino ha il nome di Emmanuele, non di Gesù. In breve, la presunta prova scritturale dell’evangelista non ha nessuna valenza, da qualunque prospettiva la si osservi.

Il movente di questa costruzione potrebbero essere state antiche rappresentazioni, secondo le quali uomini illustri erano generati da una donna vergine. Secondo Svetonio, Augusto venne considerato figlio di Apollo, e Plutarco racconta di Alessandro Magno, che sarebbe stato concepito in conseguenza d’una folgore. Anche la dea Iside partorì da donna illibata, anche lei (come sarà poi Maria) venne chiamata madre di Dio. Più in generale, molti attributi della Iside pagana verranno trasferiti sulla cristiana Maria, per esempio la falce di luna e la stella, come pure il manto trapunto di stelle. Al pari di Maria con Gesù bambino, prima di lei già Iside veniva raffigurata con Horus fanciullo sul grembo. Come nelle leggende dei vangeli sulla nascita, anche Iside dovette nascondere suo figlio in Egitto. Non pochi ricercatori ritengono, con valide ragioni, che il culto di Maria debba le sue origini al culto di Iside.

Del resto, tradizioni differenti vi sono pure nei vangeli di Matteo e di Luca. Per cui le genealogie di Gesù hanno un significato solo partendo dal presupposto che Giuseppe fosse veramente suo padre. In parecchi passaggi, Gesù viene definito come figlio di Giuseppe:

« Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo,Giuseppe, Simone e Giuda? »
(Mt 13:55)
« Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è costui il figlio di Giuseppe?” »
(Lc 4:22)
« Filippo trovò Natanaele e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret.” »
(Gv 1:45)

Dunque, la nascita da una vergine, verosimilmente un relitto di credenze pagane (sconosciuta in Marco e Paolo, e persino negli altri vangeli), non viene tramandata senza tradizioni contraddittorie? Persino il Catechismo deve ammettere che, per quanto riguarda la nascita verginale, si tratta di una “tradizione relativamente tarda”. Naturalmente, tale ammissione viene poi subito contenuta.

« L’argomento secondo cui questi testi, nella loro forma odierna, appartengono ad uno strato più recente della tradizione, non significa oggettivamente nulla. Infatti, che un testo sia più recente o più vecchio, non è decisivo per il suo contenuto di verità. »
(KEK I, 175)

Op là! I vescovi tedeschi, nella loro funzione di editori, pensano davvero ciò che qui pubblicano? Quando si hanno due tradizioni, una più antica che se la cava senza nascite verginali, ed una più recente, che sostiene questa nascita da una vergine, quella vera dovrebbe essere la più recente? Anche nel caso che, per una nascita verginale, si dovette ipotizzare un intervento divino, in luogo d’un fenomeno meramente naturale, senza nascita da una vergine? Pur ammettendo l’indimostrabilità dei giudizi storici: ad ogni storico (e naturalmente anche ad uno storico cattolico, però critico), qui si rizzano i capelli sulla testa. Perché è evidente che qui non si tratta di riflessioni epistemologiche, bensì solo ed esclusivamente del tentativo spasmodico di ribadire una dogmatica superata, anche a costo di sacrificare l’onestà intellettuale. La scientificità viene soltanto simulata, il diritto della critica storica non è che una professione formale, meramente verbale: sotto la nuova tinteggiatura si nasconde il baraccone decrepito e fatiscente del Medioevo.

Alla dogmatizzazione della Madre di Dio, proclamata al Concilio di Efeso del 431, la Chiesa ne aveva fatto seguire un’altra col Concilio di Costantinopoli, tenuto nell’anno 553. Nel quale si insegnò che Maria era vergine non solo alla nascita di Gesù, ma che tale essa rimase anche per tutta la sua esistenza. Niente sesso, dunque, con Giuseppe, neanche dopo la nascita di Gesù! In quel tempo, il pensiero era ormai infettato con un discredito della sessualità da un lato, e con la rivalutazione della verginità dall’altro. Ancora oggi il Cattolicesimo soffre di questo male. In ogni modo, in seguito alla deliberazione dei teologi della Chiesa antica, il suddetto Hymen Mariae rimase intatto. Maria e Giuseppe avrebbero vissuto un matrimonio senza contatti sessuali: il cosiddetto matrimonio bianco (o giuseppino).

Un altro problema posto dalla Bibbia è che in essa si parla di una serie di fratelli di Gesù. Secondo Marco, 6:3, Gesù aveva almeno quattro fratelli e due sorelle, dei quali sono noti perfino i nomi, almeno dei fratelli. E dunque, come disfarsi di tanti figli con una certa eleganza?

Si offrivano, a questo punto, diverse possibilità. Il cosiddetto Protovangelo di Giacomo trasformò (intorno all’anno 150) i fratelli di Gesù in figli che Giuseppe avrebbe avuto dal primo matrimonio. Ad avere la meglio fu comunque un’altra interpretazione, che viene fatta risalire al padre della chiesa Girolamo (intorno al 400). Dei fratelli e sorelle di Gesù, Girolamo fece semplicemente dei cugini e delle cugine. Che Giuseppe potesse avere avuto figli di primo letto, fu ipotesi senz’altro condannata e respinta da Girolamo. Alla maniera medesima di sua moglie, anche il povero Giuseppe fu obbligato a restare “illibato” fino alla morte.

In questo modo, la Chiesa cattolica, coi suoi accomodanti teologi, interpreta a piacere e “aggiusta” la tradizione biblica in senso dogmatico. Attraverso i commenti degli esegeti cattolici, si aggirano ancora come spettri cugini e zie di Gesù; giacché non può essere ciò che non è lecito che sia, cioè che Maria era una donna normalissima con un uomo normalissimo, e che entrambi – come era consuetudine per quell’epoca – misero al mondo una bella nidiata di rampolli.

Quale reazione polemica alla nascita verginale, si diffuse nel II secolo la leggenda di Pantera, secondo la quale Gesù sarebbe stato il figlio naturale d’un legionario romano, Pantera, e Maria vittima addirittura d’uno stupro. A questa notizia sensazionale, che viene ammannita e rispunta ogni tanto nella pubblicistica, non c’è da dare il benché minimo credito, dal punto di vista storico. Troppo recenti sono le testimonianze scritte al riguardo, troppo evidenti le intenzioni perseguite con la diffusione di tale leggenda. Certo, accettando il principio della tradizione poc’anzi sostenuto dai vescovi tedeschi, cioè che l’antichità di un testo non prova nulla sul suo contenuto di verità, allora i vescovi dovrebbero ammettere anche questa assurda possibilità storica. Dal che si può arguire come possano costar caro certe incongruenze.

Eppure una profanazione di Maria, uno stupro di questa donna, ebbe luogo; in modo diverso, però, da come racconta la leggenda. Non fu un qualunque legionario, spuntato fuori da chissà dove, a metterle le mani addosso. A farlo, fu la Chiesa stessa. Allo stesso modo per cui Gesù non poté essere colui che fu, non ebreo credente tra ebrei, bensì trasformato dai cristiani in fondatore d’una nuova religione, e presto dovette fare la parte del principale garante per la persecuzione e la repressione del suo stesso popolo; e così come lui, monoteista rigoroso, dovette assidersi presto, imbarazzato, sul trono al fianco di Dio e, dalla sua visione giudaica, dovette sopportare blasfeme adorazioni; così come si calpestarono il suo più intimo pensiero e le sue aspirazioni, ebbene, nello stesso modo la Chiesa non ebbe pietà neanche con la madre carnale di Gesù. Non ha lasciato scampo a Maria; non le ha consentito di essere una donna normale.

Sublimandola e abbellendola fino all’irriconoscibilità, non fu presa sul serio neppure lei, nell’intimo della sua natura, abusando di lei e trattandola solo come recipiente da riempire con le proprie fantastischerie dogmatiche. Non le fu permesso di restare donna, fu costretta a diventare una santa. Non doveva essere una consorte, ma dovette consumarsi nella continenza; non le fu permesso di partorire un bambino, ma dovette donare la vita a un semidio. Gli altri bambini suoi, che avrà certamente amato, non le furono riconosciuti. E il suo consorte fu condannato a condividere il destino di lei.

Al pari di Gesù, anche lei venne presto abusata per procedere contro il suo popolo; anche nel nome di Maria furono effettuati pogrom e perseguitati i non credenti. Appellandosi alla vergine Maria, i crociati assaltarono Gerusalemme, sterminarono gli Albigesi. Tanti altri eretici vennero perseguitati sanguinosamente, e Cortez massacrò interi popoli. Oh fosse stato solo un singolo legionario ad usarle violenza! Il tempo avrebbe forse potuto fargliela superare. Ma come sopportare questo peso immenso, che la Chiesa le ha addossato? Ed è quella Chiesa che, in questa maniera, ha pensato addirittura di renderle onore.

Glorificazione di Maria – Svalutazione della donna

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Ma la glorificazione di Maria significa per le donne un mostruoso svilimento. Attraverso i secoli, infatti, le donne hanno dovuto già sopportare, da parte d’una teologia determinata da maschi (dato che a determinarla non fu nessuno Spirito Santo, nessun Dio, ma soltanto maschi, per giunta maschi viventi nel celibato), il fatto che in loro si vedesse il sesso inferiore, in quanto una mitologica Eva era caduta in tentazione in un mitologico Paradiso.

Le donne dovettero lasciarsi dire da Agostino che il Diavolo, proprio a causa della loro debolezza, si era conformato a loro e non al loro compagno Adamo; e a loro la Chiesa ha sempre rimproverato di spingere gli uomini alla rovina. Nella figura di Maria, quindi, fu contrapposta ad esse, come ideale irraggiungibile, l’immagine caricaturale della donna. Di Maria, in effetti, la Chiesa aveva fatto un essere asessuato, una vergine senza tempo, l’ancella ideale, la creatura senza macchia, simile all’angelo: la purezza in persona, un modello di saldezza nella fede, e di totale affidamento al volere di Dio. Un ideale assoluto di fantasie celibatarie ed espressione del disprezzo per la sessualità. La verginità perpetua è ancora oggi, secondo l’opinione dei vescovi, “un segno della sua santità”. In quanto immacolata, concepita senza macchia, essa “fu sempre, anche nel resto della sua vita, del tutto esente da peccato personale.” (KEK, 179).

Quale donna normale è in grado di reggere il passo? Maria “viene sopraelevata in maniera esorbitante, a spese delle donne umiliate all’interno della Chiesa” (H. Küng, Umstrittene Wahrheit, S. 63). Additando la figura caricaturale di questa madre di Dio, da lei stessa montata, la Chiesa ha potuto reprimere le donne nell’angolo delle povere peccatrici che non rispondevano a questo ideale. Nella realtà, era impossibile che le donne corrispondessero a quell’immagine. In breve, “si tratta di riconoscere che la mariologia infligge alle donne la più grande delle umiliazioni.” (Joachim Kahl, op.cit., S. 52). Ed è proprio con le donne realmente credenti che ha funzionato, attraverso i secoli, questa perfida antitesi tra donne in carne ed ossa ed un fantasma escogitato dalla teologia.

Quante donne credenti hanno interiorizzato questa denigrazione del loro sesso, trasmettendo per giunta siffatta mentalità alle loro figlie e nipoti? Così il rovescio della medaglia d’una glorificazione sempre più incalzante ed opprimente coincide con una sempre maggiore umiliazione delle donne realmente esistenti. E mentre, a questo riguardo, nelle Chiese protestanti si è attuato già da tempo un ripensamento, i signori più autorevoli nel Cattolicesimo (dato che di “signore” là non ce ne sono) si ostinano nel metodo della cocciutaggine.

Non è per caso che la critica alle fantasie religiose, negli ultimi capitoli, si sia accesa in prevalenza sul Cattolicesimo. In esso, infatti, le rappresentazioni di inferno e diavoli, di purgatorio, di angeli e demoni, sono sempre presenti nei documenti ufficiali e nel catechismo. Si direbbe quasi che Illuminismo e pensiero critico siano trascorsi senza lasciare traccia nel cattolicesimo. Questa impressione sarebbe ancora più forte se si risalisse al Concilio Vaticano II. Fino agli anni Sessanta del XX secolo, in effetti, il Cattolicesimo si trovò a vivere più nel Medioevo che nell’Età moderna.

Oltre a restare abbarbicato ai dogmi definiti dal suo interno, nel mondo cattolico non esisteva ancora nessuna (o solo una rudimentale) indagine storico-critica della Bibbia; si trovavano elencati – nell’Indice dei libri proibiti – 3000 autori di tutto il mondo; la Chiesa stendeva la sua mano protettrice anche sui dittatori più brutali, almeno se e in quanto costoro proteggessero dal canto loro il cattolicesimo; democrazia e parlamentarismo erano, infatti, espressione di empietà senzadio. Filosofie e concezioni del mondo contemporanee, ma anche concetti moderni, come tolleranza e uguaglianza, erano opere diaboliche; e come tali venivano pure classificati.

Invece del rischiaramento illuministico, ci sono stati momenti di stasi, o addirittura di reazione, di regresso nella storia della cultura. Al contrario; Pio XII, papa dal 1939 al 1958, non avendo in nessun momento preso una chiara posizione riguardo ai campi di concentramento e all’olocausto degli Ebrei, proclamò e annunciò solennemente il dogma dell’assunzione fisica in cielo di Maria (1950). E seppure non vide, o non volle vedere, le sofferenze degli Ebrei, disse di avere pur sempre visto Cristo in un’apparizione: precisamente il 2 dicembre 1954, confermata dall’Ufficio stampa vaticano e da Radio Vaticana. Il teologo protestante Karl Barth osservò ironicamente che sarebbe stata pur sempre la prima apparizione di Cristo dai tempi di Paolo; e Cristo gli avrebbe detto senz’altro ciò che aveva detto a Saulo: Pio, Pio, perché mi perseguiti? (Hans Küng, Erkämpfte Freiheit, S. 181).

A partire dal Concilio Vaticano Secondo vi è, ad onor del vero, una incontestabile apertura verso una comprensione più moderna e più critica. Ciò nondimeno si trovano ancora, nelle dichiarazioni ufficiali del clero, residui arcaici: diavoli e demoni, esorcismi e fede nell’inferno, fanno sempre parte del repertorio d’una religione rimasta arretrata nella storia del pensiero. Certi “falchi” tradizionalisti, in combutta con negatori dell’olocausto legati alla “confraternita di Pio X”, mettono in imbarazzo un papa già di per sé arciconservatore. In questo, il Protestantesimo è senz’altro più vicino allo spirito dei tempi; il che, da parte del magistero cattolico, gli viene imputato come capitolazione rispetto allo spirito del tempo. Eppure anche la mitologia cattolica è spirito del tempo coagulato: lo spirito vetusto, o meglio il demone, d’un pensiero anteriore all’Illuminismo. Per protestanti “illuminati”, inferno e diavoli, angeli e demoni, sono relitti piuttosto penosi o, nel migliore dei casi, simboli o metafore per idee di qualunque genere. Piuttosto, grazie alla ricerca storica, Maria è diventata ancora più problematica di quanto fosse già nel prosieguo della Riforma.

Pur con tutte le divergenze nella dottrina e nell’immagine, le differenze tra le due maggiori confessioni cristiane sono insignificanti. Almeno sul piano della teoria (non su quello della pratica). Perché, in ultima analisi, tutte quante le confessioni cristiane si fondano su un errore della storia del mondo, ove si tenga presente che Gesù – quello nel quale credono le Chiese – non è mai esistito.

Il Gesù della Chiesa non ha quasi nulla in comune col predicatore itinerante della Galilea. La Chiesa non è una fondazione di Gesù; essa si è istituita da se medesima, ha organizzato se stessa, nella stessa identica maniera con cui si organizzano tutte le religioni. La divinità di Gesù non si è rivelata, essendo un prodotto di quelli che dapprincipio credettero in essa. Che gli uomini si creassero costantemente nuove divinità, è una legge fondamentale della storia delle religioni, che vale anche per il cristianesimo. E, come tutto quanto è terreno ed immanente, anche il cristianesimo è soggetto alla legge del divenire e del perire.

Oggi, il Cristianesimo non è più una questione della fede, come fu ed è stato ancora nei secoli trascorsi. Non è una possibilità che si possa accettare o meno. Perché oggi può valere come dimostrato che i princìpi basilari del Cristianesimo – oltre che il castello di carte dogmatico edificato su di essi –, non è soltanto fragile e franoso, ma semplicemente inesistente. Il problema, imperniato sul credere o non credere diventa pertanto obsoleto. Perché, se la fidanzata era solo un sogno, è inutile la domanda se si debba continuare a chiedere la sua mano.

Per un semplice credente, a dire il vero, la situazione storica non è facile da riconoscere. Per giunta, i giudizi storici non hanno lo stesso rigore dimostrativo tipico delle prove scientifiche. In più, prevale l’opinione corrente: siccome viviamo in una società improntata per molti versi all’immagine cristiana del mondo, prendere commiato da questo inveterato paradigma è particolarmente arduo. E’ a questo attaccamento alla tradizione, più di tutto, che le Chiese devono il loro sempre grande influsso anche in una società, la cui parabola cristiana è da lungo tempo trascorsa.

In teoria, quindi, non ha nessuna importanza, a quale confessione si appartenga, giacché tutte sono infondate. Nessuna è più lontana o più vicina alla verità: sono tutte vie sbagliate, solamente diverse, nient’altro che varianti d’un sogno sognato senza tregua. Le grandi lotte confessionali e guerre di religione furono combattute invano; le loro vittime morirono senza uno scopo. Ma anche chi professava la propria fede la rivendicò invano: i martiri cristiani immolarono la loro vita per una idea fissa, per una menzogna creduta per tutta la vita, per un’idea ereditata perlopiù dai loro padri ed amici.

Nella pratica, per la persona immersa nella vita reale, ha tuttavia importanza a quale religione o confessione si appartenga. Sul piano puramente pragmatico, non si tratta più di verità, ma soltanto ancora della rispettiva dimensione in cui una determinata religione, o confessione, rende possibile oppure ostacola un’esistenza personale, autonoma. Perciò, nel ventaglio delle confessioni cristiane, è chiaramente preferibile il Protestantesimo: non perché sia dalla parte della ragione in senso confessionale, ma perché esso ostacola meno di tutti l’individuo nello spiegamento della sua personalità. Depurato per mezzo dell’Illuminismo europeo, il mondo protestante ha assunto nel frattempo un rapporto comparativamente meno impacciato con la società moderna, grazie alla ricerca storica, ma anche per merito delle scienze sociali, con l’ausilio della psicologia e della filosofia.

Il Protestantesimo è ecumenicamente compatibile, avendo addirittura per principio recepito e interiorizzato (ragguardevole per una religione) il concetto di tolleranza, e perché sostiene (perlopiù) una parificazione di principio tra uomo e donna, compreso l’accesso delle donne a mansioni ecclesiastiche. Il mondo protestante accetta non soltanto l’ordinamento liberal-democratico della società, ma le sue Chiese affiliate sono esse stesse organizzate nella costituzione democratica sinodale. Con molti di questi punti (e la lista non è completa), che sono in sostanza ovvietà d’una società moderna, il Cattolicesimo ha invece non pochi problemi. Oggi come in passato.

Il Protestantesimo non è da preferire perché sarebbe più cristiano, ma perché è più umanistico. E ciò vale nel suo complesso, ove si considerino sviluppi sbagliati, di stampo fondamentalistico e biblicistico. Anche qui, tuttavia, la derivazione dei contenuti di fede di tutte le confessioni protestanti regge altrettanto malamente ad un riesame critico. Anche le Chiese protestanti accettano le deliberazioni dogmatiche della Chiesa antica. Anche il Gesù annunciato dalle Chiese protestanti non è mai esistito, e la concettualità filosofica del mondo antico, con cui si è pensato di definirlo, ha ormai un carattere da museo.

Credenza nella Bibbia e fondamentalismo biblico

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Se col culto di Maria e coi dogmi mariani abbiamo a che fare con fantasmi cattolici, il fondamentalismo biblico è invece una fissazione prevalentemente protestante. I fondamentalisti, o biblicisti cristiani, muovono dal principio che la cosiddetta Sacra Scrittura sia stata dettata o ispirata dallo spirito di Dio. Essa sarebbe pertanto priva di errori ed esente da contraddizioni. Questa posizione, per la verità, non viene sostenuta in questo modo da nessuna Chiesa regionale protestante in Germania; eppure molti gruppi evangelici, all’interno o al di fuori delle Chiese locali, sostengono posizioni biblico-fondamentalistiche. Anche se sono in minoranza, gli Evangelicali, sono tuttavia capaci – come tutti i gruppi radicali nella società – di procurarsi un ascolto superiore alle loro dimensioni, recando non poco fastidio alla Chiesa regionale e alle comunità locali. In parte, si giunge alla formazione di strutture parallele, a fianco delle chiese regionali esistenti. L’idea paradossale delle Chiese, di essere in possesso della verità, queste conventicole, associazioni devote e Chiese libere, la rivendicano in particolare misura.

Come è noto, il Protestantesimo non possiede un magistero unico e decisionale come hanno i cattolici. Rispetto alla tradizione, Lutero aveva decretato addirittura l’assolutezza della sola scriptura (soltanto la scrittura). Di conseguenza, la Riforma si liberò da un coacervo di articoli di fede che in effetti non sono nella Bibbia, ma sono affermati dalla tradizione cattolica (papato, culto mariano, numero di sacramenti, venerazione dei santi, eccetera). Da quel momento in avanti, ci si sentì vincolati solo alla Bibbia (e certamente ai Concilii della Chiesa antica, che pure contenevano molto materiale dogmatico estraneo alla Bibbia). Ciò che, come un salasso, procurò allora un po’ di sollievo, divenne tuttavia, sulla scia dell’Illuminismo, un grosso problema. Perché la Bibbia, a questo punto, andò perdendo autorità in misura crescente. L’ortodossia luterana, con la dottrina dell’ispirazione verbale, aveva innalzato la Scrittura sul trono più alto. Secondo quella dottrina, la Bibbia era dettata da cima a fondo, fino alla singola parola, dallo Spirito Santo; gli autori della Bibbia, in quanto individui, non avevano in pratica nessun ruolo. Cosicché la teoria biblica dell’ortodossia posteriore a Lutero, divenne molto più radicale di quanto avesse sostenuto il riformatore stesso.

Ma la Bibbia non poté rallegrarsi a lungo di tanto prestigio. Come un gatto, che invero assai elegantemente si arrampica su un albero, ma solo con diverse esitazioni e titubanze si arrischia a scendere, così le Chiese protestanti non poterono fronteggiare a lungo le incipienti domande critiche dell’Illuminismo e le prime avvisaglie della problematica storica. E iniziarono faticosamente la ritirata.

La mancanza di errori nella Bibbia si rivelò un pio desiderio; l’assenza di contraddizioni nella Sacra Scrittura apparve, ad un esame più meticoloso, una “fata Morgana”. Le fondamenta protestanti si sgretolarono rapidamente. Allorquando poi, nel corso dell’Ottocento, una teologia liberale cercò di propagandare un cristianesimo moderno e in sintonia coi tempi, e per giunta, con le dottrine d’un certo Charles Darwin, venne scossa nel suo complesso anche l’immagine biblica del mondo, avvenne ciò che sempre avviene in situazioni siffatte: una reazione conservatrice.

Si formarono gruppi reazionari e bigotti che, nella conclamata conservazione dell’eredità antica, praticavano una sincera professione di fede, come essi dicevano; nella realtà, nulla più che un dispettoso anacronismo. Quanto più la ricerca storica relativizzava la Bibbia, tanto più essi insistevano nella sua infallibilità. Quanto più la teologia tentava di comprendere, per esempio, la nascita verginale come metafora, o in senso traslato, oppure cercando di reinterpretarla come insignificante ai fine della fede, tanto più accanitamente essi si arroccavano nella loro fedeltà alla lettera.

Parallelamente al cristianesimo clericale nacque una sottocultura religiosa, animata da sfrenato orgoglio e da forte ardore missionario. Le sono peculiari un rifiuto dei moderni risultati scientifici ed un’esaltazione della Bibbia, che confina spesso in una bibliolatria, un vero culto idolatrico della Bibbia. Ci si dichiara apertamente fedeli oppure credenti biblici, laddove le Chiese regionali parlano più prudentemente di fede in Cristo. Bibbia e Cristo vengono candidamente visti dai devoti come identici, trattandosi appunto di “un violento, ma mal informato movimento di protesta contro il […] liberalismo.” (S.E.Ahlstrom, articolo “Fondamentalismo” nel RGG, vol. 2, p. 1178 s.).

Per il Protestantesimo, questa è la conseguenza di avere rinunciato ad un magistero suo proprio, in modo tale da doversi muovere zoppicando, essendo monco d’una gamba (cioè senza la seconda gamba della Tradizione). Non per questo, tuttavia, il Cattolicesimo ha di che rallegrarsi. Perché è relativamente insignificante che si abbia una gamba, oppure due, una volta che si cammini sulla strada sbagliata.

Mentre le Chiese protestanti si danno almeno la briga di propagare un cristianesimo responsabile anche intellettualmente, e mentre il Cattolicesimo, menzionando pensatori moderni e termini contemporanei, simula almeno una certa modernità nel suo catechismo, il fondamentalismo cristiano vede la via per la salvezza in una divinizzazione della Bibbia e in una politica dello struzzo. Fortunatamente, anche il fondamentalismo cristiano si manifesta in una temperie intellettuale caratterizzata dall’Illuminismo. Si è fondamentalisti, è vero, ma non militanti; si considera la maggioranza dei non credenti come peccatori perduti, ma non si procede contro di loro con la violenza. I devoti sono qui, in effetti, anche le persone “silenziose nella campagna” {“Die Stillen im Lande”: movimento tipico del Pietismo settecentesco, ossia di bigotti protestanti ostili al razionalismo illuministico}. Certo è che, dal militante fondamentalismo islamico, si è abituati a vedere cose ben diverse.

Da un punto di vista psicologico, il desiderio di Scritture sacre è il desiderio di sicurezza e di stabilità, l’anelito ad una base sicura, il bisogno d’un fondamento stabile. Il fondamentalismo biblico cerca di dimostrare la propria fede biblica muovendo naturalmente dalla Bibbia stessa. Ad un esame più ravvicinato, questa è un’impresa sterile e vana. Solo pochi biblisti sanno che, all’epoca del Nuovo Testamento, non esistevano ancora scritture sacre. Ai tempi di Gesù non c’era neppure un Antico Testamento, giacché la canonizzazione degli scritti antichi venne conclusa, per l’ebraismo, solo intorno all’anno 100 EV, quindi quasi tre generazioni dopo la morte di Gesù. La canonizzazione del Nuovo Testamento fu conclusa addirittura solo nel IV secolo. Solo allora si può parlare di un Nuovo Testamento, così come lo conosciamo.

Al contrario, il fondamentalismo biblico si comporta come se, in quel tempo, fosse stato già chiaro ciò che si sarebbe sviluppato solo durante un’evoluzione protrattasi per secoli. Come ogni dogmatica, esso pensa in maniera del tutto antistorica. Le due fonti che devono servire per attestare un’ispirazione divina della Bibbia, si trovano nella letteratura epistolare del Nuovo Testamento:

« “poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio.” »
(2 Pietro 1:21)
« “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia.” »
(2 Timoteo 3:16)

La ricerca teologica, oggi, è quasi unanime nel ritenere che né le Lettere di Pietro né quelle di Timoteo siano opera di Paolo. I dati relativi agli autori sono falsificazioni (più esattamente pseudepigrafi), create per conferire autorità alle Epistole: un procedimento che s’incontra frequentemente nell’antichità. Ma è particolarmente audace il fatto che proprio due Lettere spurie debbano servire da testimoni a favore della verità e infallibilità delle Scritture sacre.

Inoltre, quali scritti sarebbero da intendere tali? Quelli neotestamentari non possono essere di certo, dato che per la loro canonizzazione ci vollero ancora più di 200 anni. Alcune parti, quindi, dell’Antico Testamento, forse il cinque Libri di Mosè (il Pentateuco) e i profeti? Oppure gli autori non guardavano a nessun testo in particolare, proponendosi di esaltare soltanto in generale l’importanza dei testi sacri? O forse si trattò addirittura di un rinforzo di lettere proprie, di testi spuri? Come avviene con molti documenti scritti, vige anche qui la norma: quanto più acutamente si esaminano, tanto più imbarazzanti diventano. Per il resto, “prove” di questo genere sono ottimi esempi di circoli viziosi. Ciò che dovrebbe essere dimostrato, viene attestato dai testi medesimi. E’ solo sui credenti che fanno impressione questi trucchi da giocolieri: bisogna crederci già, nei fantasmi, per poterli vedere.

Certo, non è solo il Cristianesimo a credere di essere in possesso di scritti ispirati. Libri dettati da ispirazioni si trovano nell’Induismo e nell’Islam, nell’antico Egitto e presso i Mormoni. L’Islam insegna che il Corano fu dettato parola per parola a Maometto, per molti anni, dall’arcangelo Gabriele. Un’altra ispirazione verbale, dunque, nel mondo islamico. Agli occhi di cristiani devoti si tratta di dottrine eretiche, di blasfemie; eppure la derivazione della divinità del Corano è ancora più significativa dei due grami versetti della tarda letteratura epistolare del Nuovo Testamento, che dovrebbero attestare il carattere ispirato dei testi cristiani. Bisogna crederci già, in buona sostanza, per esser impressionati da “prove” di tal fatta.

Del resto, Gesù sembra avere avuto una frequentazione molto più libera coi testi religiosi del proprio ambiente. Nessuna traccia, comunque, si avverte in lui di quell’impacciato feticismo biblico delle conventicole devote che pullulano nella “cintura della Bibbia” negli USA, oppure in Europa. Nelle sue Lettere, in gran parte epistole d’occasione, Paolo non si sognava nemmeno che quei suoi scritti sarebbero mai diventati testi sacri. Ai suoi lettori, Paolo inculca in tutti i modi che la Legge non è una via per la salvezza, che la lettera in sé e per sé uccide, mentre è lo spirito che vivifica.

Nondimeno, già subito dopo la sua morte, le Lettere di Paolo divennero Legge, e furono usate per combattere i credenti in altre fedi. E a Paolo, ancora oggi, viene accreditata nelle Chiese un’autorità che egli stesso non ha mai rivendicato. Torna anche qui, insomma, la vecchia cognizione: la fede si procura non solo i propri Dèi, ma anche i suoi iniziatori, i suoi dogmi, la sua etica, la sua liturgia, le sue feste, i suoi uomini santi e donne sante. Solo di un Dio reale non c’è bisogno, a tale scopo.

Cristianesimo come ideologia ed esoterismo

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Religione è ideologia

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Le religioni sono le forme di ideologie generalizzate al massimo grado. E’ indubbiamente una riduzione quella di circoscrivere il concetto di ideologia nei soli spazi della politica, o volerla delimitare tempoCristianesimo come ideologia ed esoterismo ralmente solo nel XX secolo. Vero è che quello è stato il secolo delle ideologie politiche per antonomasia; il dato di fatto, tuttavia, non fu inventato in quest’epoca. Piuttosto, il diritto di primogenitura lo può reclamare per sé l’ideologia religiosa nelle sue molteplici declinazioni. L’ideologia cristiana tenne saldamente in pugno l’Occidente fino all’inizio dell’Illuminismo; ed era la sua onnipresenza quella che non faceva quasi più percepire la sua incombente, totalitaria esistenza. A somiglianza di come non si è consapevoli dell’aria che si respira.

La differenza tra ideologie politiche e ideologie religiose non è così grande da doverle annoverare in due distinti ordini della realtà. Certo è che le religioni hanno un interesse straordinario a non essere classificate congiuntamente con le ideologie. Esse si sentono come qualcosa di meglio, come provenienti dai quartieri alti della città. Non da ultimo, esse reclamano per sé autorità superiori, anche se ogni religione ha da esibire le sue peculiari autorità superiori. E ciò non giova davvero alla credibilità di tutte le religioni.

Eppure vi sono, tra religioni e ideologie, caratteri comuni impressionanti, che fanno riconoscere come entrambe traggano origine da un unico villaggio. In particolare misura, ciò vale per tutto quanto riguarda la defunta Ideologia sovietica e la Chiesa cattolica. Affinità e caratteri comuni di entrambe sono già stati descritti più volte (per es. dal teologo cattolico Hans Küng, Umstrittene Wahrheit, S. 110 ss.)

Entrambe le ideologie sono cadute vittime di un delirio di verità. Vedevano se stesse, e si vedono tuttora, in possesso d’una verità unica ed esclusiva. Proprio esse, attorniate dalla molteplicità della visioni del mondo, rappresentano e difendono l’unica giusta. Questa presunzione, che dal concetto di verità genera un’idea di lotta a favore della propria ideologia, è un fattore costitutivo, soprattutto all’interno delle religioni. Una credenza profondamente vissuta procede sempre a fianco d’una buona dose di prepotenza. Se la verità viene qui dedotta da un Dio illusorio, nel Marxismo essa scaturisce dalla delirante cognizione di presunte leggi storiche. Ed in ciò anche la religione presume di conoscere lo svolgimento della storia, e quindi è in parte ideologia della storia. Vale pertanto il principio basilare: in persone e istituzioni, che reclamano per sé nientedimeno che la “Verità”, è sempre necessaria la precauzione critica nei confronti dell’ideologia.

Entrambe le ideologie si richiamano a scritti sacri, e quindi ad autorità trascendenti. Una messa in discussione di codeste autorità non è prevista in linea di principio. Il culto dei classici, che ne deriva, conduce al fatto che la realtà viene percepita solo ancora distorta, in quanto la sua descrizione viene enucleata da testi classici. Opinioni superate ed errori vengono pertanto conservati. La cecità della Chiesa cattolica circa i problemi etici del presente (riguardanti per es. l’etica sessuale) trova spiegazione in questo, tanto quanto le difficoltà, dall’altra parte, a sottoporre ad una modifica la struttura classista della società. Le Scritture sacre sono, per principio, deleterie per il pensiero.

Chi ritiene vera la propria dottrina, è altrettanto incline ad un delirio d’infallibilità. Tanto il Marxismo ortodosso quanto il Cattolicesimo romano hanno ceduto a questa tentazione. Di ciò, nel Primo Concilio Vaticano, il Cattolicesimo fece addirittura una dogma di fede (ovvero, nel linguaggio ecclesiale, una verità di fede). “La Chiesa, sì, la Chiesa ha sempre ragione!”, come Hans Küng rielabora criticamente l’inno del partito rispetto alla mentalità della gerarchia romana. (Küng, op. cit. S. 350)

Verità e infallibilità rendono possibile, anzi provocano un infallibile edificio dogmatico e didattico. Sulla purezza della dottrina vegliano un Comitato centrale da un lato, e una Congregazione per la fede dall’altro: l’ex Santa Inquisizione, appunto. Accanto alla sua sovranità interpretativa, non è lecito dare opinioni divergenti. Il dissidente, il deviazionista, veniva perseguitato e combattuto – tanto nel Comunismo ortodosso quanto all’interno della Chiesa – fino a quando la Chiesa ne ebbe ancora il potere. La verità usurpata non si può conciliare con la tolleranza.

Ancora fino al 1966 fu in vigore nella Chiesa cattolica l’Indice dei libri proibiti, comprendente più di 3000 autori ed oltre 6000 opere: un rogo cattolico senza fumo. Vi si trovavano opere di Cartesio, Spinoza, Kant, Locke, Rousseau, Voltaire, Sartre; libri di Copernico, Balzac, Montaigne, Pascal, Flaubert, Heine, e molti altri. Qualunque teologo cattolico, per difetto di ortodossia, fosse incluso in questo Indice, veniva liquidato, almeno sul piano professionale. Persino ai sacerdoti non era lecito possedere o leggere libri elencati in quell’Indice. La letteratura teologica necessitava d’una licenza di stampa, d’un imprimatur; la conformità all’ortodossia doveva essere certificata dalla gerarchia.

Lo spettro d’una rivoluzione mondiale di stampo comunista, che specialmente i cattolici amano agitare, rimosse il fatto che la Chiesa, da quasi 2000 anni, mirava altrettanto ad esercitare un’egemonia sul mondo. Per essa, questo imperialismo si chiama evangelizzazione globale. Per gli uomini – sostengono questi due mondi della “Guerra fredda” – sarebbe questa la soluzione ideale. E, ancora ai nostri giorni, la Chiesa legalizza l’evangelizzazione missionaria nel mondo con un detto apocrifo di Gesù, che compare in una finta leggenda di risurrezione.

Le due ideologie hanno, o hanno avuto, un rapporto disturbato verso la società aperta e la democrazia. Tutt’e due sono organizzate gerarchicamente, entrambe combattono, o hanno combattuto, un pluralismo di diverse concezioni del mondo. Disciplina di partito da una parte, fede autoritaria nella gerarchia dall’altra: cooptazione del ceto dirigente, assoluta impotenza della massa, caratterizzano in ugual misura entrambe le ideologie. Da una parte, come dall’altra, si riscontra un culto del capo, con la presenza carismatica d’un presidente. Su entrambi i versanti, inoltre, si venerano dei santi.

Entrambe le ideologie si richiamano a miti storici: quella marxista si ispira allo svolgimento d’una storia del mondo avente come traguardo finale una Società senza classi, quella cristiana si rifà ad una storia divina di Salvezza con un immaginario Regno dei cieli come meta ultima. Non fosse che tutt’e due non sono rivelazioni – né della Storia né di un Dio –, ma soltanto opera umana abilmente mimetizzata. E di ciò sono ben consapevoli entrambe le ideologie, almeno per quanto riguarda l’altra concorrente. Le loro visioni del futuro sono consolazioni, e non fa differenza se il Regno della pace sia collocato in terra oppure in cielo. Perché così le due ideologie riescono a distrarre dai bisogni concreti dei popoli che vivono nel presente.

Eppure il mito storico cristiano possiede una forza maggiore (ma non una maggior verità), in quanto esso si presenta nel travestimento del Divino. Grazie a questo, infatti, è possibile offrire qualcosa come una giustizia divina in forma di compensazione per le ingiustizie sofferte in questo mondo, oppure di indurre a fantasticare, come il pensiero d’una vita eterna, perfino una divinizzazione dell’uomo (cioè come creatura che vive eternamente come un Dio). Il Marxismo non aveva così tanto da offrire; esso doveva rimanere fedele all’immanenza terrena: la sua salvezza non porta nessun vantaggio per l’individuo, ma promette salvezza solo in vista d’una società libera in un lontano avvenire.

La fede cristiana, è pur vero, esalta l’individuo e sottolinea meno la collettività. Ciò, tuttavia, non ha contribuito a far diventare l’ideologia religiosa più umana o più altruistica. Diritti umani, diritti di libertà, uguaglianza e tolleranza non trovavano posto nell’agenda della religione. Questi valori sono antireligiosi, non hanno nemmeno un’origine cristiana, sebbene i teologi non si stanchino di asserirla, cercando di abbellire la loro religione con le penne del pavone.

Quei valori dovettero affermarsi ed imporsi contro l’influsso delle Chiese. Riferendosi ad epoche anteriori al Concilio Vaticano secondo, persino Hans Küng parla d’una “sensibilità autoritaria, in certo qual senso fascistica, congeniale alle Chiese”. (Hans Küng, Erkämpfte Freiheit, S. 145). Mentre i papi precedenti avevano stigmatizzato nel Sillabo i diritti umani (ancora Pio XII aveva ignorato la Dichiarazione dei Diritti umani delle Nazioni Unite del 1948), solo nel 1963 Giovanni XXIII li avrebbe accolti positivamente nella sua enciclica Pacem in terris. Da allora, segnatamente col pontificato di Giovanni Paolo II, il cattolicesimo è entrato in una fase alquanto reazionaria.

Constatiamo paurose affinità di due ideologie che si sono combattute aspramente, anche se (o proprio perché?) hanno tanti aspetti comuni. Grazie alla reale perdita di potere della Chiesa (giacché di influenza continua ad averne), la sua natura ideologica è più difficile da riconoscere per l’uomo moderno. Non detenendo più potere, della sua impotenza essa ha fatto una virtù, mostrandosi come amante della pace, in maniera tale da far credere di esserlo sempre stata. Si richiama così al modello del suo Signore, come se questi non fosse dovuto essere la sua immagine ideale anche nei secoli passati.

Che il carattere ideologico della religione si possa dimostrare particolarmente bene dall’esempio del Cattolicesimo, non è dovuto tanto ad una polemica, quanto piuttosto alla natura stessa della questione. Ed è evidente ancora una volta, qualora si faccia un paragone col Protestantesimo. Il quale, effettivamente, si presenta assai meno ideologico del Cattolicesimo romano, dando la precedenza agli Evangelicali (in verità assai influenti). Il Protestantesimo ha un rapporto molto più disinvolto con l’Illuminismo, nonché con altre religioni e ideologie. Da un regime ecclesiastico-territoriale, esso ha continuato a svilupparsi, nelle strutture e nei contenuti, in fondamentali strutture democratiche, laddove il Cattolicesimo romano non solo non ha abbandonato il vicolo cieco della gerarchia, ma anzi l’ha addirittura ampliato con fantasie di infallibilità, creandovi la quarta corsia. Nel Protestantesimo, per principio, anche le donne hanno uguali diritti. Il Cattolicesimo, per contro, continua ad essere un’egemonia di vecchi maschi, marchiando la metà dei suoi stessi seguaci come credenti di seconda categoria. Nel che non cambiano nulla le costanti assicurazioni cattoliche secondo cui le cose non starebbero in questi termini, e nemmeno la venerazione per la vergine Maria.

Il Protestantesimo è da preferire, in ogni caso, quando si tratta di dover prendere una decisione personale. Ad esso spetta la preferenza – ripetiamolo ancora una volta – non perché esso, rispetto al Cattolicesimo, sia vero, o anche soltanto più vicino alla verità. Tutte le confessioni cristiane sono, in effetti, opere d’arte. A partire dall’uomo crocifisso, nella riflessione critica, nemmeno una via traversa conduce alla fede della nascente Chiesa cattolica, tanto meno alle verità di fede proclamate dai Concili della Chiesa antica.

Tutto il resto sono battibecchi fra teologi, oppure vacua lirica di concetti, spreco di risorse intellettuali. Ora con più, ora con meno levatura mentale, ma pur sempre nel segno dell’autoillusione, non visibile ai protagonisti. La priorità del Protestantesimo non deriva da una pretesa di verità, bensì, sul piano sociologico, dalla maggiore compatibilità di quasi tutte le confessioni protestanti con i valori d’una società aperta, illuminata e democratica. Si tratta, insomma, d’una superiorità meramente pragmatica.

Se, oltre a ciò, la fede cristiana possa avere ancora un carattere utilitaristico, se cioè possa essere di utilità in una società moderna, si potrà rispondere in modi diversi, in considerazione delle sue radici, della sua storia, e anche del personale punto di vista dell’osservatore. Un ateismo rigoroso lo negherebbe, giacché per esso non può esserci nulla di vero nella falsità; ma un agnosticismo, connesso con un umanesimo indirizzato più in senso pratico, oppure un razionalismo critico e pragmatico, potrà riconoscere qui anche certe positività.

Ed in effetti l’operare dei cristiani nella società è da valutare per molti aspetti positivamente, in ogni caso là dove la fede cristiana è stata depurata mediante il purgatorio dell’Illuminismo, e dove ritiene di non doversi avvinghiare alla dogmatica. Là dove le Chiese si definiscono meno in senso dogmatico-ortodosso, si fanno più umane. Allora i cristiani diventano migliori della loro dottrina; la loro etica pratica, allora, è migliore della loro arruffata dogmatica. Perché c’è del vero, appunto, anche nel falso.

Fede è superstizione

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La fede è la forma più popolare della superstizione. In tutto il mondo, gli esseri umani credono in centinaia di religioni o confessioni. La maggioranza di queste religioni si escludono le une dalle altre, ritenendo vera solo la loro propria credenza. Con questo, a motivo delle loro inconciliabili pretese, le religioni offrono da sé il migliore argomento per il proprio smascheramento. Senza volerlo, ovviamente. La molteplicità delle religioni certifica il loro autoinganno in maniera, per così dire, logico-matematica. Questo argomento formale è forse il più forte che esista contro le religioni. Nei contenuti delle singole religioni, perciò, non c’è bisogno di addentrarsi. Con religioni che si escludono a vicenda, solo una può essere quella vera. Si impone pertanto il sospetto, se non la certezza, che tutte siano ugualmente false.

Sarebbe pertanto oltremodo legittimo di dire in faccia ai rappresentanti religiosi – con una probabilità che sfiora quasi il cento per cento – che essi si trovano in errore, che si fanno delle illusioni mentendo a se stessi, che sono vittime d’un autoinganno, d’una menzogna che dura tutta la vita. Con questa esternazione, su 100 esponenti religiosi presenti, si sarebbe nel giusto almeno con 99; un livello di probabilità, insomma, per niente affatto trascurabile. La discussione sulla verità d’una religione è pertanto superflua già per motivi statistici.

Tuttavia, per il giudizio sul Cristianesimo, non è necessario fermarsi sulla statistica. Infatti, se consideriamo le circostanze storiche della sua nascita e la formazione dei suoi centrali contenuti di fede (ed è proprio questo che abbiamo fatto fin qui in questo libro), si è reso evidente, anche senza statistica, che non abbiamo a che fare con una Rivelazione divina, bensì con un’opera umana. Il fatto che, per altre religioni, questo si possa invero ipotizzare, eppure non possa essere affermato con altrettanta chiarezza, è connesso al semplice fatto che il Cristianesimo è la religione studiata e analizzata molto più di tutte le altre. Si è fatta così tanta luce su di essa, che si può vederci chiaro per molti aspetti, mentre depositi e magazzini di altre religioni vivacchiano e sonnecchiano ancora inesplorati.

Va pertanto ribadito: fede religiosa è superstizione! E si badi: col concetto di superstizione non si deve pensare (in prima istanza) ad ingenui vaneggiamenti, all’incontro con uomini o donne della corporazione degli spazzacamini, o al modo corretto di passare sotto le scale, al reperimento di rare foglie di trifoglio, o al problema con quale piede sia meglio alzarsi la mattina. Nemmeno l’incrociare gatti neri (che, i gattofili potranno confermarlo, non significa affatto sventura, ma sempre un attimo di felicità); neppure questo è qui inteso come tale. Per sciocchezze di tal fatta, la parola superstizione sarebbe troppo importante.

Nel nostro contesto, la parola superstizione si deve intendere in accezione ben più radicale. Designa infatti un errato orientamento nella totalità della vita, una struttura deficitaria nell’io, disturbi durevoli nella percezione del reale, in breve: un’esistenza che si vive sotto falsi presupposti. A causa delle vaste conseguenze di orientamenti sbagliati in campo religioso (tutta la vita può invero essere segnata da idee inadeguate o errate), qui è in gioco qualcosa di più che una bizzarra fissazione. Una fisima può magari essere amabile; un falso orientamento, ad esempio come seguace d’una falsa religione, è senz’altro tragico.

Fede e superstizione, d’altra parte, sono concetti conflittuali del Cristianesimo. La fede vera (cristiana) viene di conseguenza circoscritta da altre religioni (false). Spesse volte, nemmeno gli atei riescono a sottrarsi a questo uso dei concetti acquisiti mediante la socializzazione. Noi conserviamo il concetto di superstizione, nonostante la sua caratterizzazione primitiva, e tuttavia ora annoveriamo nel suo ambito anche coloro i quali pensano di poter delimitare così la propria religione rispetto alle altre.

Non vi sono religioni vere e religioni false. Occorre piuttosto, da quanto s’è detto, muovere pragmaticamente dal presupposto che tutte le religioni sono esclusivamente formazioni differenti della superstizione. Il Cristianesimo non può pretendere per sé una posizione di privilegio; a bordo, durante la traversata religiosa, non esiste una prima classe appartata, ma solo classe turistica.

Non esiste nessuna differenza tra cristiani e pagani, nella misura in cui questa distinzione implichi una valutazione, come è sempre accaduto nel contesto cristiano. Cade con questo anche la distinzione tra ortodossi ed eretici. Non esiste una dottrina vera, che possa essere distinta da una dottrina falsa, quando – come nel cristianesimo – già le origini si sono configurate come costruzione, nella loro qualità di sogno e di ideale. Su un fondamento immaginario si edificano malamente delle cattedrali. E questo, fino a prova contraria, e per ragioni pragmatiche, si può pensare anche nei confronti delle altre religioni. In linea di massima, si deve muovere dal principio che l’alternativa “vero-falso”, sul piano religioso, è un’alternativa illusoria.

La distinzione tra religioni superiori (col che s’intendono perlopiù le religioni mondiali) e quelle restanti (pagane, politeistiche, o nel frattempo defunte), è anch’essa scarsamente utile, dal momento che il cristianesimo – ovverosia una religione considerata alta, o superiore –, è stato smascherato come frutto d’una costruzione. Non è consentito, di conseguenza, guardare dall’alto in basso le altre religioni. Come si suol dire: chi ha la testa di vetro, non vada a far battaglia di sassi.

Per molti cristiani, inoltre, è fonte di preoccupazione il fatto che nella loro religione sussistano anche forme e pensieri decisamente “superstiziosi”. Credenza nel diavolo, l’asserita esistenza di angeli e demoni, esorcismi, sono motivo di scandalo anche per cristiani illuminati. Dilagante venerazione di santi, incontenibile culto delle reliquie, l’irrefrenabile fede popolare (che manifestamente non teme alcun infimo livello) nei santuari e luoghi di pellegrinaggio, la fede nelle guarigioni miracolose, le profezie di Fatima, tuniche sante, o una Maria che si materializza proprio nella regione della Saar, mettono in imbarazzo persino certi ambienti della gerarchia cattolica. Rosari del tipo mulino da preghiera, gesti apotropaici, formule malcelate di magia, di scongiuro, di malocchio e maledizione, anatemi, tentativi di guarigione con le preghiere, esasperata immersione nella simbologia cristiana, americani che pagando somme enormi si recano in Israele per trascinare nel venerdì santo, impiastricciati di sangue finto, la croce attraverso la città vecchia, l’ingoiare immagini di santi per guarire da malattie e per scacciare i diavoli … al punto che i cardinali stessi, in crisi di nervi, implorano: O Signore, fa piovere a questa gente un po’ di sale nella zucca!

Benché su questo il cattolicesimo abbia di nuovo un notevole vantaggio, certo è che anche tra i protestanti, soprattutto nel fondamentalismo cristiano, si praticano a volte cose assai bizzarre. La fissazione della Bibbia porta talvolta alla spigolatura del cosiddetto Bibelstechen, cioè a voler risolvere un problema o una domanda con l’ausilio d’un passo biblico pescato a caso. Si inizia la giornata con versetti biblici, passi estratti a sorte, sia pure dopo previa espunzione di parti troppo primitive delle Scritture sacre. Per contro, sia presso i protestanti sia presso i cattolici, è uscito alquanto di moda l’ordalia, ossia il giudizio di Dio, assai popolare in passato, che si amava applicare anche in connessione con la fede nelle streghe. Perché il cristianesimo, appunto, non è soltanto fede maestosa e teologia erudita, ma pur sempre, e in buona dose, devozione popolare e superstizione nel senso volgare del termine.

E non è lecito dimenticare che anche i contenuti riconosciuti della fede offrirebbero già occasione per qualche scrollata di testa, qualora credenti e miscredenti, col pretesto della socializzazione, non vi si fossero abituati da lungo tempo. Che cosa direbbe un extraterrestre, smarritosi nel volo, o che per un guasto dovesse pernottare – poniamo – presso un gesuita, il quale volesse sfruttare l’occasione per rendere comprensibili all’ospite le verità cristiane della fede?

Fede nella creazione, nascita da una vergine, procreazione in virtù d’uno spirito santo, storie miracolose, esorcismi, risveglio fisico dalla morte, transustanziazione di vino e pane in sangue e corpo di Cristo, ascensione al cielo, vero uomo e vero dio, procreato, non creato.

Ed in più discesa dello Spirito santo, Trinità divina, morte in croce per i peccati degli uomini (ma anche per extraterrestri? a questo punto, il padrone di casa promette di informarsi a Roma), eppoi ancora diavoli, angeli, demoni, infallibilità pontificia, assunzione e ricevimento fisico di Maria in cielo (ma in quale punto celeste sarà mai?). Anche senza superstizioni popolari, le dogmatiche cristiane comprendono infinite cose incredibili, nel senso letterale del termine. Poiché gli occidentali improntati cristianamente hanno succhiato tutto ciò, per così dire, col latte materno, ecco che molti non fanno più caso alle astrusità della religione in cui sono nati.

Il nostro extraterrestre, in ogni modo, non sarebbe sicuramente facile da persuadere. O forse sì? Ma sì, magari un gesuita potrebbe riuscirvi.

Religione ed esoterismo

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Esoterismo come svendita dello spirito

Non è possibile scegliersi i propri vicini. E così, nelle grandi librerie, voi trovate spesso libri di teologia fianco a fianco con quelli di esoterica. Questa compagnia non piace affatto alla teologia, giacché essa si crede di essere qualcosa di superiore. Semmai, preferirebbe avere la filosofia come vicina. Ma questa, a sua volta, si mostra poco entusiasta di questo vicinato. Come i cristiani si indignano quando si paragona la loro religione con una ideologia, così la fede cristiana non vuole spartire alcunché con l’esoterismo. Un’avversione, questa, che si basa sulla reciprocità.

In Occidente, però, l’esoterismo è un variopinto supermercato, in cui si servono allegramente i sensitivi inclini alla spiritualità (ma ancor di più donne con vocazioni spirituali). Qui non esiste una congregazione di controllo che vigili sulla purezza d’una teoria. Qui, a guardar bene, ognuno può dipingersi il mondo come gli aggrada, mettendo insieme per passatempo – con scenografie immaginarie o reali di antiche dottrine – una sua personale eccentrica “visione del mondo”, per definire la quale l’uso del termine Weltanschauung farebbe davvero troppo onore. Nessuno, in effetti, sembra aver timore della troppo profonda insignificanza; anzi, questa viene intesa come più gradevolmente naturale, in quanto accesso non razionale alla realtà, conforme al sentimento e tonificante.

Specialmente a partire dagli anni Settanta del XX secolo, l’offerta esoterica – inglobata nel cosiddetto New Age – ha assunto dimensioni straripanti. Da lungo tempo ormai, non ci si appassiona più – come ancora la generazione precedente nell’Ottocento –, per l’elettricità e l’alchimia. Anche il magnetismo ha perso molto della sua forza di attrazione. Con queste cose non si alletta più nessun esoterico dietro i candelotti per suffumigi, nelle sedute spiritiche. Le pratiche esoteriche non hanno più luogo nelle logge della Massoneria o presso i cavalieri di Rosacroce. L’esoterismo è diventato un fenomeno pubblico. In contanti, o sotto la rubrica delle varie del giornale locale, si possono leggere comodamente per il fine settimana (arrivo venerdì pomeriggio, partenza domenica dopo il pranzo) di pubbliche iniziazioni alle dottrine segrete, ricevendo a domicilio tutto ciò che serve a “tenere unito il mondo nel profondo”. Ecco: per il povero Faust era ancora un insolubile problema di vitale importanza … oggi, il dubbio faustiano viene risolto comodamente in un paio di sedute. Per soprammercato, si accettano pure carte di credito.

Un grande esercito di direttori di corsi propone iniziazioni a tutte le possibili tecniche e conoscenze. Guru di scena, con altri aspiranti a diventarlo, introducono ad una meditazione globale, iniziando all’antico sapere di culture spente, evocando India, Cina, Egitto,Tibet, Atlantide, o Alpha Centauri, trasmettono saperi antichi di Maori, Indiani, Aztechi, Celti, Babilonesi, Germani, o di Hildergard von Bingen. Cabalisti e credenti nella numerologia decifrano i misteri del mondo, personaggi illuminati fanno conoscere, in cambio di un’offerta (naturalmente volontaria), una vita più appagante, rendono possibile un’esistenza armonica, per realizzare una maggiore autocoscienza. Talvolta danno addirittura consigli su come si può diventare più critici, senza cadere più nella trappola di ogni insensatezza.

Armonia e benessere sono annunciati, l’ego si colloca pienamente al centro, accenti critici possono nuocere all’umore; e ciò che non si comprende, ecco, siamo qui per spiegarvelo. Nel suo Poesia e verità, Goethe aveva ancora confessato che a lui non bastava il proprio Io, e che doveva essere in contatto col mondo al fine di raggiungere conoscenze ulteriori. Oggi, i nostri allievi di “spiritualità” – araldi dell’Età dell’Acquario – si sono spinti ben oltre. Sul piano della meditazione, si va alla ricerca del Tutto, facendo i propri giri nell’orbita dell’auto- rispecchiamento. Spiriti e fantasmi di occultisti tradizionali si son fatti più rari, è vero, essendo sostituiti da concetti che suonano più moderni, come energia o vibrazioni. In ogni istante, per gli esoterici, c’è un qualcosa che vibra; perennemente fluisce qualche energia, ininterrottamente si rivela qualcosa di oscuro e inafferrabile, mentre si articola una qualche globalità. In compagnia con persone di affine o identico sentire, ci si inebria di concetti senza contenuto, di gusci verbali che simulano connessioni e significati, sentendosi confermati di continuo gli uni con gli altri, in una sorta di spirituale condizione di sballo.

Non si dovrebbe negare che la meditazione, o certe tecniche di rilassamento, possano essere significative, o che il riflettere sul proprio io possa offrire realmente un contributo all’individuazione d’un significato. Chi vorrebbe negarlo? Eppure, spesse volte, troppo a buon mercato (non in senso monetario!) è la sovrastruttura mentale ad essere qui trasmessa. Troppo astruse sono le teorie che le accompagnano. Anziché conoscenza di realtà, c’è solo fuga dalla realtà, invece che sentimento c’è spesso solo svenevolezza, un certo rimbambimento sentimentale. Senza contare, poi, che non esiste soltanto la meditazione.

Oltremodo numerose sono le vie sbagliate e le visioni oniriche d’uno scenario esoterico alla ricerca d’un senso, al livello delle riviste di massa, tipo Brigitte. In quel mondo si evocano i defunti (nel linguaggio odierno: Channeling), mettendo a nudo vite trascorse. Aure, chakra e cerchi meridiani, che si sottraggono ad ogni controllo intelligibile, vengono presupposti in tale scenario come ovvietà; le “aure” non solo vengono postulate, ma pure subito risanate, e perfino fotografate. Rabdomanti e cacciatori di radiazioni terrestri vagano nel sottobosco, terapeuti di pietre dure e grafologi offrono i loro servizi a mezza giornata. Dirigenti finanziari e segretarie, maghi e chiromanti in secondo impiego, si mettono alla prova nel leggere il futuro. Astrologi (diplomati!) prendono invero le distanze dai loro penosi colleghi esibiti nelle televisioni, e tuttavia, malgrado le loro cognizioni, non riescono ad essere ricchi e felici nemmeno per sé.

Credenti nei tarocchi e maniaci di enneagrammi cercano e trovano vittime e adepti volonterosi. Pendolari e sonnambuli, lettori di rune e danzatori in stato di trance, dischiudono vie nuove di conoscenza, sedicenti streghe e satanisti confessanti spaventano in ugual misura pacifici borghesi e il comune buon senso. I credenti negli UFO raccontano dei loro rapimenti da parte di extraterrestri, aspettando ogni salvezza da Sirio. Nutritori di luce vogliono alimentarsi soltanto col sole, trovando seguaci tra gli anoressici. Aviatori yoga promettono la liberazione dalla forza di gravità saltellando qua e là; bevitori di urina fanno un brindisi e bevono alla salute.

Ci si fanno incontro, a questo punto, figure talmente scurrili, da dare l’impressione che questa società esclusiva vada ogni giorno in gita scolastica. Può accadere di tutto. Sembra che non vi sia niente che non si possa asserire e per cui non sia possibile trovare seguaci. Per di più, ogni ingrediente viene combinato alla meglio e stracotto a fuoco lento in una purea sincretistica. Anche certe concezioni, che a rigore sono inconciliabili (per esempio idee buddistiche di reincarnazione e di sufismo islamico), vengono amalgamate con estrema disinvoltura. A conti fatti, tutte queste cose altro non sarebbero se non impronte dell’unica verità. Così si insegna a chi fa troppe domande.

Possono turbare le contraddizioni, quando la questione stessa è ultrasensibile a tal punto? Theodor W. Adorno, che non fece in tempo a conoscere gli eccessi aberranti dell’esoterismo tipici del tardo Novecento, è estremamente perspicuo nelle sue Minima Moralia.

« L’inclinazione all’occultismo è un sintomo di regressione della coscienza […] Quando la realtà oggettiva appare muta ai viventi come mai prima, allora essi cercano di carpirne un senso mediante l’abracadabra. Per cui viene a caso attribuito al malanno più vicino: la ragionevolezza del reale, che non convince più come prima, sostituita da tavolini che traballano e dai raggi di mucchi di terra […] L’occultismo è la metafisica degli sciocchi […]. Il sortilegio fasullo altro non è che l’esistenza fasulla che esso emana. »
(Th. W. Adorno, Thesen gegen den Okkultismus, in: Minima Moralia, S. 321)

E’ sacra collera, quella che qui si manifesta. E’ il netto rifiuto a riconoscere ad un fenomeno decadentistico e ai suoi esponenti il rango d’un interlocutore credibile e paritario, e quindi di rivalutarlo; è il rifiuto a saltare oltre l’asticella esoterica che ci viene tesa davanti. Certi fenomeni si possono affrontare solo con sovrano disprezzo; e l’accusa di scarsa disponibilità al dialogo bisogna sopportarla come il male minore.

Il cristianesimo è esoterismo?

Ma davvero si dovrebbe gettare il cristianesimo nello stesso calderone, tutt’insieme con questo esoterico teatro delle marionette? Oppure una tradizione di 2000 anni è forse più importante del pot-pourri del qualunquismo spirituale? Il dogma è forse migliore d’una mentalità da supermercato malamente camuffata? Certamente, il cristianesimo, o altre religioni, muniti d’una lunga storia di scritti sacri, e d’una elaborata struttura organizzativa, forti della loro tradizione teologica, con la multanime varietà dei loro professanti anche assolutamente positivi, si presentano – anche sul piano sociologico – del tutto diversi dalle celebrità effimere di esoterici ampliatori di coscienza.

Verrebbe quasi voglia di fare un confronto sul piano letterario, dove un romanzo di Stanislaw Lem è sostanzialmente diverso da un fascicolo di Perry-Rhodan. Eppure entrambi gli autori vanno rubricati sotto la letteratura di fantascienza. La religione superiore, dunque, come letteratura classica, l’esoterismo null’altro che banalità stampata? La risposta non è così semplice. In questo caso, anche gli avversari della religione giudicheranno con criteri differenti.

Il cristianesimo non venne al mondo come “religione superiore”. Nel primo secolo, allorquando vide la luce, non si presentò certamente come una religione autonoma. Venne alla luce, infatti, sotto forma di setta giudaica. Parti rilevanti del cristianesimo primitivo, probabilmente Gesù stesso, si sforzavano seriamente di osservare le rituali leggi ebraiche. Nella comunità primitiva, questa pretesa sussistette ancora verso la metà del secondo secolo. Per la verità, la comunità primitiva vedeva in Gesù una figura messianica, vivendo in attesa del suo sollecito ritorno. In ciò si distinse dagli Ebrei ortodossi, ma in modo più obbligato che voluto realmente.

Tutt’altra fu la situazione per i cristiani-ebrei, che avevano rapporti assai scarsi con le comunità giudaiche (in quanto timorati di Dio o proseliti). Tra loro vi fu spesso scarso interesse per la Legge ebraica; ci si richiamava a Gesù in tutto e per tutto, e si sarebbe forse potuto rinunciare totalmente alle vecchie scritture ebraiche. Ma qui, in compenso, Gesù non venne più riguardato come Messia, bensì ricoperto di connotazioni ellenistiche.

Fu a questo punto che Gesù divenne Figlio di Dio. Con la grande, positiva sincerità ideologica dei pagani-cristiani, con la loro predisposizione per il sincretismo (sia detto negativamente), vennero introdotti nella cristianità nascente molti pensieri, leggende, frasi e rappresentazioni teologiche che, in origine, erano elementi del tutto estranei al sentire cristiano. Ciò nondimeno, le comunità cristiano-giudaiche rimossero presto gli inizi cristiano-giudaici, imponendo la propria linea nella formazione d’una teologia e dogmatica protocristiane. Non si era poi tanto schizzinosi nell’assumere ogni sorta di tradizioni dalle altre religioni, da antichi culti e religioni misteriche, dal patrimonio popolare, ed in parte anche dalla filosofie, più di tutto da quella stoica e dal neoplatonismo. In tutti i modi, e a piene mani, ci si servì anche dell’epistemologia gnostica.

La gnosi fu qualche cosa che si potrebbe definire senz’altro come l’esoterismo del mondo antico. In essa si copiò a tutto spiano da tutte le altre scuole di pensiero; gli elementi scenografici vennero riciclati e montati nuovamente nei miti gnostici, essendo ciascun mito gnostico una pura e semplice fantasticheria, che si presentava come rivelazione e trovava i suoi discepoli.

Nei miti gnostici si trovavano spesso anche figure di redentori, tanto che si è già speculato in varie guise sulla questione: fu il cristianesimo a produrre la gnosi, o almeno a fecondarla, o viceversa, fu la gnosi a generare il cristianesimo? La gnosi, con altre scuole di pensiero coeve, esercitò sicuramente un’influenza sul nascente cristianesimo. Su ciò vi è chiarezza, solo le dimensioni e la portata dell’influsso sono oggetto di controversie. Karlheinz Deschner la giudica influenzata completamente da culti e tradizioni straniere, non riconoscendo all’episteme cristiana neanche un pensiero originale. E adduce buoni argomenti a supporto; sennonché la sua tesi, con altrettanta radicalità, non viene oggi sostenuta quasi da nessuno.

Per i non ebrei, tuttavia, qualunque tipo di sviluppo nell’Ebraismo non era degno di menzione, tanto più se la notizia veniva da Palestina e Siria: una regione che tra i Romani colti aveva una pessima reputazione. Siria e Palestina, in realtà, erano nel mondo antico qualcosa come l’India; vi spuntavano come i funghi nuovi guru, nuovi profeti e capi religiosi: la follia religiosa di quella regione era proverbiale. Tacito, come abbiamo detto in precedenza, deplorava a gran voce quella moda.

Nel suo nascere, quindi, la fede cristiana fu per gli uni una setta giudaica, per gli altri una delle molte impronte del sincretismo religioso. Era un esoterismo modernamente inteso. Per lungo tempo, il cristianesimo non fu percepito quale religione autonoma. Fu in ogni caso una forma di esoterismo, che alla fine risultò vincente. Essa si impose contro i suoi avversari religiosi e ideologici, ebbe la meglio sul politeismo greco-romano, come avrebbe poi trionfato sulle religioni di Germani, Celti e Slavi.

Il Cristianesimo riportò la vittoria sulla gnosi, sulle religioni misteriche, sul Manicheismo e anche sull’Ebraismo. In questi successi storici, i cristiani hanno sempre amato ravvisare una prova per la verità della loro religione. Non fosse che, nella storia, determinati paradigmi si sono imposti costantemente. E’ questa, precisamente, una legge fondamentale dell’evoluzione storica. E ciò depone a favore della forza, non già della verità. Se Gesù non fosse mai vissuto, si sarebbe affermata un’altra religione. E’ un fenomeno che non ha nulla a che vedere con la verità. In tutti i modi, la marcia trionfale del Cristianesimo significò la metamorfosi da una esoterica religiosità settaria in religione dominante, che sarebbe assurta addirittura a religione di Stato.

Ciò che nell’esoterismo odierno suscita impressioni di scarsa serietà, è la grande varietà delle correnti. L’enorme quantità di posizioni esoteriche, molte delle quali si escludono a vicenda, produce il medesimo fenomeno presente nel campo delle religioni. Nelle quali tutti esaltano la propria verità, diventando incredibili appunto per questo. Basterebbe già il loro numero a smascherarne la qualità di erranti. Non è possibile occuparsi di tutti e metterli a confronto col cristianesimo. Però vi sono certe affinità che accomunano quasi tutti i gruppi dello scenario esoterico.

In principio, ci sono sempre determinati assestamenti che vengono accettati senza analisi critica. Si asserisce l’esistenza di cose e fatti, di cui manca una qualsiasi prova. Successivamente, queste cose inesistenti (giacché come tali devono valere, se non si vuole coinvolgere nella discussione anche scoiattoli che navigano in internet) vengono concatenate e, grazie ad una classica razionalità fittizia, se ne traggono conclusioni o si elaborano teorie. Le conclusioni devono essere anche più discutibili delle già insostenibili premesse su cui poggiano. Con un po’ di perspicacia critica, costruzioni siffatte si lasciano indagare facilmente.

Sennonché un gruppo di adepti non ha proprio interesse a farlo; essi vogliono credere in una determinata teoria, precisamente in quella visione del mondo. Essi sono credenti. E sono smaniosi di autorità. Dovunque e comunque sia possibile, essi ricorrono ad autorità, siano esse guru indiani o lama tibetani, illuminati o maestri spirituali. Essi sono alla ricerca di guide, e le trovano anche in scritture e tradizioni antiche, di cui suppongono che siano indirizzate anche a loro, e che custodiscano verità. Cercano all’occasione conferme in azioni rituali e all’interno di comunità che si rafforza e autoconvalida con membri di idee affini. Sono persuasi di possedere una verità che è ancora nascosta agli altri, di avere fatto una scoperta che sarebbe benefica anche per altri, anzi per il mondo intero. Almeno nella cerchia degli amici, ancora riluttanti a credere, essi agiscono sovente con spirito missionario.

Non v’è dubbio che questa rappresentazione di circoli esoterici si possa trasferire bene sui cristiani e sul cristianesimo. Almeno in parte, le strutture psicologiche di base si assomigliano in maniera stupefacente. In ragione della sua più lunga storia, il Cristianesimo può gettare sul piatto della bilancia più autorità, può esibire un numero maggiore di testimoni; gli intellettuali migliori ci riflettono tuttora. Nella società, per di più, il cristianesimo è più presente di qualsiasi altro gruppo esoterico, preso singolarmente. Il cristianesimo è più organizzato, finanziariamente più potente e socialmente più influente. Ciò nondimeno, è realmente così grande il divario tra una dottrina secondo cui un figlio di Dio sceso sulla terra cancella con la sua morte i peccati degli uomini, e un’altra dottrina, secondo cui il carattere e l’avvenire della persona vengono determinati dalla posizione e dal corso degli astri?

Sussiste realmente un differenza qualitativa tra il mistero dell’eucarestia, con la stupefacente metamorfosi di pane e vino, e qualsivoglia altri misteri esoterici, ad esempio l’asserita efficacia di pietre preziose? Con l’esoterismo e la religione abbiamo a che fare soltanto, in buona sostanza, con differenti coniature del medesimo identico fenomeno. Come con due fratelli, uno dei quali ha già fatto tantissima strada, mentre l’altro si trastulla ancora in una fase dilettantesca.

In ultima analisi, ad alimentare le due correnti, è un certo indebolimento del pensiero critico. Non è certo questione di intelligenza, dal momento che persone intelligenti si trovano tanto tra i fautori della religione quanto tra i suoi detrattori. Ma la capacità di discernere e di giudicare, una certa razionalità critica, è meno spiccata tanto nei fautori della religione quanto negli amici dell’esoterismo. Meno operante è la capacità di procedere ad un vaglio critico nel supermercato delle concezioni del mondo. Persone criticamente debilitate sono piuttosto inclini ad aprire la porta a venditori ambulanti religiosi o esoterici; si lasciano piuttosto entusiasmare, si fanno alienare da ideologie di qualità piuttosto scadente e, in definitiva, sono meno disposti a sporgere reclami.

Alla disposizione personale si aggiungono precise condizioni sociologiche. In linea di massima, le persone adottano quella religione in cui esse stesse sono cresciute, o nella cui orbita sociale sono state educate. Religioni diverse, di regola, non ne conoscono affatto. Figli di genitori cristiani, se diventano poi devoti, si impegnano a favore del cristianesimo, così come i figli di musulmani diventano seguaci fervidi dell’Islam. Ecco la conseguenza per la verità: si considera vera quella religione in cui si è cresciuti. L’appartenenza religiosa si eredita per via culturale, e solo più tardi viene semmai assunta sul piano individuale. Queste due condizioni fondamentali – la disposizione personale, e una certa assonanza con la media religiosa prevalente – costituiscono la maggioranza dei credenti in tutte le religioni. Se le religioni ammettessero effettivamente questo principio, dovrebbero necessariamente relativizzare la pretesa veritativa delle loro stesse credenze. Ma questo basta sempre e solo per mettere in discussione la pretesa delle altre religioni.

Preghiere

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Per esaltare il carattere peculiare della fede cristiana, i teologi non si stancano di rimarcare continuamente la storicità della loro rivelazione e del loro Dio. Per loro, Dio non è un personaggio della mitologia; mediante la figura storica di Gesù di Nazaret, egli sarebbe intervenuto personalmente nella storia del mondo. Ma che prova sarebbe mai questa? Come andassero le cose con l’azione storica di Gesù, l’abbiamo esaminato già nei dettagli. Non basta che si creda di prendere le distanze da mitologiche rappresentazioni divine? Che cosa rende il Cristianesimo così straordinario, da farlo eccellere su tutti? I seguaci di Buddha e di Bhagwan, di Mosè e di Maometto, non possono richiamarsi anch’essi alla storicità del loro Maestro? Se ne trae quasi l’impressione che si voglia fare la pubblicità del pesce al mercato ittico.

Il Dio cristiano (non cessano di rimarcarlo le Chiese cristiane) è un Dio personale, cioè uno che si prende cura del singolo individuo (credente?), che conosce i bisogni e le difficoltà di ciascuno, al quale il credente si può rivolgere in maniera diretta e personale. Anche questa è, di nuovo, una caratteristica esclusiva, che però tale non è, anche se, in una società più individualizzata, si adatta benissimo un’idea individualizzata di Dio. Il Dio di Israele era ancora un Dio (in ogni caso nella sua fase arcaica), al quale stava a cuore più il popolo nel suo complesso che il singolo credente. Oggigiorno però, tramite la preghiera, ciascun cristiano ha un filo diretto e personale con Dio.

I cristiani s’immaginano, in ogni caso, di poter entrare in un colloquio personale con il loro Dio. Nella preghiera, Dio parlerebbe non solo a loro, ma anche con loro, ascoltando i loro affanni e le loro suppliche, anzi, occupandosi addirittura dei loro privati desideri. Pregate e vi sarà dato, l’ha detto in definitiva Gesù stesso. In fondo, Gesù stesso pregava, esortando i suoi alunni a fare altrettanto. E forse egli coltivava persino uno speciale rapporto, intimo e personale, col suo Dio. Le orazioni di Gesù assursero a modello per quanti hanno creduto di richiamarsi a lui nella fede.

Le preghiere si riscontrano in molte religioni, e non rappresentano nulla di specificatamente cristiano. La storia delle religioni conosce innumerevoli esempi, anche riguardo alla preghiera personale. E non esiste nessuna religione i cui fedeli non siano convinti di poter effettivamente intervenire ed incidere, in qualche misura, su Dio e sul proprio destino. Così fu ed è sempre stato, a cominciare dagli ancestrali riti di fertilità fino alla preghiera cristiana, finalizzata ad impetrare un buon raccolto o la guarigione da una malattia. Certo, non sono poche le obiezioni che si possono fare al riguardo, ed in parte furono già formulate, persino da parte teologica.

Supponiamo che esista un Dio, che in cielo ci sia davvero “un orecchio per udire il mio lamento, un cuore come il mio, che avesse pietà dell’oppresso” (com’è detto nel Prometeo di Goethe): è pensabile che questo Dio si lasci, per così dire, persuadere a fare qualcosa che davvero non voleva? Che voglia esaudire i desideri d’un persona, che si faccia descrivere la sua condizione (lui che dovrebbe conoscerla da tempo), decidendo di accordare il proprio aiuto? Un Dio che allevia i dolori e che si presta ad abbassarsi, a sporgersi dalla finestra a favore dell’uomo? Un Dio personale di tal fatta è proprio quello che le Chiese annunciano. Un Dio che si lascia influenzare, un Dio che si fa infinocchiare dalle chiacchiere, che si pente della decisione già presa, incerto e facile a cambiare idea e che, come un papà al supermercato, si lascia convincere dal suo capriccioso figlioletto all’acquisto dell’ultimo giocattolo balordo.

Per la filosofia antica (e non soltanto per essa), un Dio del genere era espressione del carattere arcaico d’una immagine divina e, nel contempo, di un pio desiderio, d’una voglia fin troppo umana. E, in effetti, le promesse gesuane non si sono esaudite per niente. La celebre frase Pregate e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto …, per quanto suggestiva possa essere l’eco di queste parole, sono rimaste nulla più che espressioni devozionali e speranze abbaglianti. Quanti non sono stati già accecati da tali false promesse? Quanti hanno sperato invano, fino all’ultimo istante?

Ciò nonostante, i cristiani sono persuasi che il loro Dio non solo possa aiutarli, ma che li abbia anche già aiutati sovente in passato. Nei luoghi di pellegrinaggio, nei santuari, innumeri templi e cappelle traboccano di ex voto (Maria ha aiutato, oppure Grazie al santo Taldeitali). Come detto in precedenza, nell’antico santuario di Epidauro si sono trovate tavolette del tutto somiglianti; solo che là, per una guarigione o un aiuto, si supponeva responsabile Asclepio, e non Maria. Anche da altre religioni, per soprammercato, si conoscono presunte preghiere esaudite. I cristiani direbbero che codesti appagamenti i credenti in Asclepio se li erano soltanto immaginati. E avrebbero ragione, naturalmente. Non fosse che, nel passo logico successivo, anche i cristiani si immaginano suppliche e preghiere andate a buon fine, rifiutando poi sdegnati la stringente deduzione logica.

Dappertutto, nel mondo, moltissime persone credono che solo il loro Dio sia capace di tali cose, mentre tutti gli altri non fanno che immaginarsele. L’argomento matematico, contrario al Dio cristiano (perché proprio questo dovrebbe, tra migliaia di dèi, essere quello giusto?), funziona anche per quanto riguarda le preghiere. E come a qualunque credente – non importa di quale religione – si può dire in faccia che è rimasto vittima d’un autoinganno, avendo in ciò ragione con pressoché il cento per cento delle probabilità, altrettanto si può anche porre chiunque preghi a confronto con questa asserzione, tanto scomoda e sgradevole per lui. La capacità di relativizzare la propria posizione è la morte delle religioni, tanto quanto l’incapacità di farlo è un presupposto del fondamentalismo, o addirittura dell’estremismo religioso.

L’imprenditore Klaus Mustermann {nome tedesco fittizio, usato come l'it. Pico Pallino}, della città renana di Castrop-Rauxel, ritiene se stesso talmente importante, da credere che un Dio sia in comunicazione con lui nella preghiera. Sua moglie Hedwig condivide tale credenza: come avrebbe potuto farcela, altrimenti, il loro figlio a concludere l’istituto tecnico, senza che la loro preghiera venisse esaudita? Ed entrambi sono naturalmente inclini a prestar fede ad una religione che li rassicura sul fatto che essi sono non solo la grande famiglia Mustermann, bensì i dirimpettai di Dio, anzi l’immagine stessa di Dio, come la Bibbia è lì a testimoniare.

L’essere umano non riesce ad accettare l’idea che la propria reale esistenza sia propriamente irrilevante, che egli (probabilmente) non possa creare né qualcosa di significativo né che diventerà oggetto d’un libro di storia, e che la propria esistenza abbia solo un ruolo secondario su un pianeta al margine d’una spirale d’una galassia per se stessa irrilevante. Eppure pretende di essere qualcosa di speciale! Sicché è fin troppo comprensibile che si dovettero sviluppare concezioni del mondo e religioni in grado di certificare, per così dire, l’uomo del suo essere peculiare, che potesse servire alla propria autostima. Ed è qui che il cristianesimo dà il meglio delle sue prestazioni. In questa fase, il credente può sentirsi non solo accettato e preso sul serio; gli sorride, per soprammercato, anche una vita eterna in paradiso: il post-mortale paese della cuccagna cristiano. Troppo bello, in verità, per essere vero!

Un Dio non avrebbe vita facile, qualora i credenti avessero ragione con i loro sogni, con le loro fantasie oniriche. Con quali assurdità sarebbe alle prese, questo Dio! Dovrebbe vedersela con la preghiere di cristiani impegnati per la pace nel mondo, eppoi confrontarsi con la brama di vincere al lotto di contemporanei non altrettanto impegnati; dovrebbe giocarsela con le suppliche di liberazione da una dittatura, come col desiderio d’un buon voto all’esame scritto, con la speranza nella conservazione del creato, accanto al desiderio che sia presto agibile il bagno nuovo. Le cose si fanno difficili, per esempio, con le voglie di vincere nel torneo di calcio, ove si tenga presente che, nella squadra avversaria, ci sono pure cristiani che pregano con altrettanto zelo.

Ed in centinaia di guerre, nei secoli passati, i cristiani hanno pregato su fronti contrapposti per impetrare la vittoria della causa “giusta e buona”, che era sempre – manco a dirlo – quella propria. Allora, in che modo dovrebbe decidersi un Dio così diviso e tormentato? Dovrebbe semplicemente lasciar andare le cose, stando a vedere come finirà? Farebbe tappare la bocca alle lagne incessanti dei credenti? Oppure meglio farsi negare dalla sua segretaria? O limitarsi a far funzionare la segreteria telefonica?

Eppure vi sono molti cristiani disposti a giurare e spergiurare che proprio le loro preghiere sono state esaudite, che Dio si è occupato precisamente dei loro problemi, e che bisogna soltanto aver fiducia. A far domande più precise, si apprende poi che l’aiuto di Dio si sarebbe manifestato nelle più banali quisquilie. Per contro, il loro Dio si astiene e trattiene quando si tratta di cause veramente importanti. Quale miseria, quanta sofferenza ha colpito nel XX secolo l’umanità, quanti sono morti nei lager e nei gulag! Si dovrà pure ammettere che proprio in quei luoghi, come reazione a situazioni senza vie di scampo, si è pregato molto e assai sentitamente. Ma quanto è stato inutile e vano tutto ciò! Fu del tutto palese che Dio non recò nessun aiuto, come dimostrano milioni di morti, di umiliati e offesi. A questo punto, gioverà sapere che Dio non è stato avaro almeno con lo sperato sconto nell’acquisto dell’auto nuova, o con i voti soddisfacenti sulla pagella del figliolo.

Di spiccata svagatezza è prova anche la diffusissima preghiera recitata prima del pasto, in cui si usa ringraziare Dio per il fatto che ci sia qualcosa da mangiare. Ma allora non si dovrebbe anche rendere Dio responsabile del fatto che tante altre persone non hanno niente da mangiare? E quindi, a fronte di questa riflessione, non sarebbe quindi opportuna piuttosto un’accusa? Ma no, il cristiano si sente chiamato a ringraziare, anche in occasione di torti e ingiustizie, addirittura di disgrazie, da cui egli tenta ancora di dedurre qualcosa di analogo ad un esame. Non da ultimo, ogni anno, ha luogo una festa di ringraziamento per il raccolto, perfino quando ci sia stata un’annata cattiva. In una città del meridione d’Italia si trova una colonna di ringraziamento per la fine d’una peste che si portò via l’80 percento degli abitanti. Cosa c’era da ringraziare? Ma certo, che i morti non fossero stati ancora di più!

Eppure, le preghiere hanno almeno una efficacia concepibile anche sul piano scientifico. Agiscono in funzione di placebo, aiutando così a superare le avversità della vita. Dopo la preghiera, l’orante si sente semplicemente meglio, indipendentemente da chi e da come egli si sia rivolto nelle sue orazioni. Chi prega si procaccia in tal guisa conforto e sostegno emozionale. Quei colpi del destino, inevitabili in ogni esistenza umana, si possono meglio assimilare ed elaborare. L’alterazione della realtà, vissuta nella preghiera, conduce ad una migliore accettazione del dato ineluttabile. E che dietro a ciò vi sia un Dio oppure no, non ha alcuna rilevanza, in senso vero e proprio. Basta bene che il credente lo supponga. Come avviene col placebo, appunto. Basta, in breve, che l’uomo pensi che ci sia Dio a guidare ogni cosa.

Nel suo libro L’illusione di Dio, (p. 69 ss.) Richard Dawkins illustra un insolito esperimento, cioè il tentativo di spiegare a fondo l’effetto delle preghiere in una ricerca eseguita in doppio cieco. L’idea era questa: cristiani devoti, negli USA, dovevano pregare per determinati infermi in un ospedale assai lontano. Qualora le preghiere giovassero a qualcosa, ciò dovrebbe manifestarsi in un più rapido processo di guarigione. L’esperimento fu predisposto in maniera rigorosamente scientifica; per un primo gruppo, le preghiere avvennero senza che i malati ne sapessero nulla. V’era inoltre un gruppo di controllo, per il quale non si pregò, ed in più un terzo gruppo, a favore del quale si pregò, e i cui i pazienti erano anche informati della cosa. I medici ignoravano per quali pazienti si pregava e per quali no. La ricerca si svolse su 1802 pazienti che si erano sottoposti tutti ad una operazione di bypass.

Questo originale esperimento suscitò naturalmente bordate di scherno da molte parti e costò 2,4 milioni di dollari, messi a disposizione da una fondazione. Prima della prova, il direttore era palesemente incline ad accettare un effetto delle preghiere sui malati. I risultati dello studio furono pubblicati nel 2006 nel American Heart Journal. Potete immaginare quali furono i risultati? Non fu constatata nessuna differenza tra i pazienti a favore dei quali erano andate le preghiere e quelli che non ne furono oggetto. Manco a dirlo, le preghiere non ebbero la benché minima ripercussione sulla guarigione dei pazienti.

Va da sé che cristiani e teologi, a posteriori, non vollero accettare i risultati dell’esperimento. Già l’indagare sugli effetti di Dio in maniera così dichiaratamente scientifica sembrò a loro inopportuno, e a molti addirittura blasfemo … in ogni caso dopo l’esperimento. E’ fuori discussione che la questione si sarebbe risolta assai diversamente qualora l’esperimento avesse comprovato realmente una qualche efficacia delle preghiere. In tal caso, i devoti cristiani, negli USA e altrove, si sarebbero avventati come lupi, diffondendo la notizia dell’esperimento fino al villaggio devoto e più remoto della Svevia. Non c’è ombra di dubbio che così sarebbe stato. Persino cristiani fondamentalisti, nonché i più esoterici spregiatori della razionalità, sono assolutamente inclini ad accettare metodi ed esiti scientifici, fintanto che essi servono a puntellare il loro sistema fideistico. Quando così non è, quando la scienza dimostra come fragile castello di carta un presunto bastione di devozione o una roccaforte spirituale, allora si obbietta che il metodo non è adeguato all’oggetto. Insomma, secondo il principio della brava Pippi CalzelungheEcco, allora io mi faccio il mondo proprio come mi aggrada. Nessuno padroneggia questa metodica così perfettamente quanto i credenti.

Alla ricerca dei valori cristiani

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Molte persone non credono più, da lungo tempo, nel Dio cristiano, ma ritengono nondimeno l’etica cristiana una buona causa. Spesse volte, persino madri e padri lontani dalle Chiese non hanno nulla in contrario a che i loro figli frequentino l’insegnamento della religione, o partecipino alle manifestazioni per l’infanzia e la giovinezza organizzate da comunità ecclesiali. E ciò, comunque, fintanto che i bambini non vengano indottrinati cristianamente. Perché un po’ di trasmissione di valori cristiani, “male non può fare”, come si suol dire. Uomini politici, non solo affiliati a partiti cristiani, discettano di fondamentali valori cristiani e di immagine cristiana dell’uomo, che avrebbero improntato la nostra società, e sarebbero quindi degni di protezione.

Altrove, abbiamo analizzato criticamente la Bibbia come scrittura sacra, mettendo a nudo alcuni dei passi profani ricorrenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Il valore della Bibbia come fonte di comportamenti etici e fondamento d’una educazione responsabile è stato già problematizzato. [[Altrove|Successivamente]], l’illustrazione dei risultati della ricerca storica su Gesù ha evidenziato l’infondatezza con cui le Chiese hanno trasformato il Gesù ebreo in Dio, oltre che in fondatore della loro religione. Non c’è nessun percorso credibile che conduca dal Gesù della storia al Cristo della Chiesa. [[Nella terza parte sono state poi analizzati i contenuti centrali della successiva dogmatica cristiana, e si è inoltre documentata la loro insostenibilità sia per il Gesù storico sia per la fede della comunità primitiva. Già in questi capitoli si sono affrontate certe discutibili implicazioni insite nell’immagine cristiana dell’uomo e del mondo.

Ora, per concludere, si deve porre ancora la questione se il Cristianesimo (una volta dimostrata la sua dogmatica come proiezione fantastica) sia in grado di esibire ancora qualcosa di utile, almeno sul piano dell’etica. In breve: l’alta considerazione di cui gode l’etica cristiana sussiste a buon diritto?

Del valore e disvalore dei dieci Comandamenti

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A moltissime persone, appena si parla di etica cristiana, vengono in mente perlopiù i Dieci Comandamenti. Sono questi che, nei comizi domenicali dei politici, vengono celebrati volentieri come il fondamento d’una società umana e giusta. Sono infatti fra i testi più popolari dell’Antico Testamento. Ciò nonostante ci si chiede: sono quei princìpi in grado di soddisfare l’esigenza di un’etica responsabile?

Nella Bibbia, i dieci Comandamenti si presentano in due varianti (Esodo 20,2–17, eppoi Deuteronomio 5,6–21), con lievi differenze. Nella leggenda della Tradizione, essi sono consegnati al popolo di Dio nelle mani di Mosè sul monte Sinai. Nella realtà, questi comandamenti hanno dietro di sé epoche secolari di tramandamento che, in certe parti, sono databili ancora prima che il popolo ebraico diventasse stanziale in Israele nel corso del II millennio: un processo che trovò la sua conclusione solo nel VI secolo precristiano. In tutti i casi, hanno più di 2000 anni. Con la persona di Mosè, comunque, non avrebbero nulla a che fare. In linea di principio, essi non hanno a che fare né col cristianesimo né con l’ebraismo classico.

L’Ebraismo classico, fatto di Torà e di sinagoghe, di rabbini e di interpretazione della Legge, è sicuramente di data più recente e, come lo conosciamo, da collocarsi addirittura intorno alla svolta dei tempi. E il Cristianesimo – essendo nella sua essenza un cristianesimo pagano – fu dal canto suo solo lontanamente imparentato col Giudaismo. Solo la dogmatica cristiana traccia qui certe linee di collegamento, mettendo insieme ciò che insieme non sta. I Dieci Comandamenti sono rivolti al fittizio popolo di Israele che, nell’epoca posteriore all’esilio in Babilonia, non esisteva ormai più come formazione politica autonoma. E’ un testo legislativo, che con noi, oggi, ha poco o punto da spartire; allo stesso modo del babilonese Codex Hammurabi, che oggi possiamo ammirare ancora nel museo del Louvre. Può un testo siffatto avere per noi, oggi, qualche rilevanza etica? Ma osserviamoli da vicino, questi comandamenti:

Io sono il Signore, tuo Dio, non avrai altro Dio all’infuori di me.

Fin da principio, questo comando è una delle parole obbrobriose della tradizione biblica in generale. Infatti esso fa risaltare, anzi esige addirittura, l’intolleranza religiosa. E’ richiamandosi a questo orrendo principio che la Chiesa cristiana ha perseguitato le altre religioni nei modi più sanguinosi. Mentre la Carta costituzionale inizia con la dignità della persona, qui c’è un Dio che impone le sue esclusive pretese egemoniche. Mentre uno Stato costituzionale moderno tutela la libertà di religione, questo pensiero risulta ancora totalmente ignoto al testo antico. L’intolleranza religiosa è una costante veterotestamentaria; questo comandamento non può essere in alcun modo un modello per un’etica contemporanea. Tutt’al più, può servire alla riflessione su quale comandamento non si debba costituire una società moderna. Nel suo spirito, è un principio avverso ad ogni Costituzione.

Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù né di quanto è nelle acque [...] Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione [...]

Anche nel prosieguo, aspetteremo invano qualcosa che assomigli alla dignità della persona. Non ve n’è traccia, nell’Antico Testamento. Anche qui, in luogo di essa, la propagazione dell’intolleranza religiosa. Nella forma più antica (nel testo dell’Esodo), insieme con il divieto delle immagini, si intendeva anche la distruzione dei luoghi di culto stranieri (soprattutto dei culti di fertilità di Canaa), di cui in Israele ci fu grande copia fino alla rinomata riforma del culto di Giosia (circa 622 AEV), e forse anche più tardi. La divina minaccia di punizione contro i deviazionisti scaturisce da sensi di colpa collettiva, che si differenzia nettamente dalla moderna sensibilità giuridica. Vendetta e gelosia sono qui la massima operativa di un Dio, che si trascina zoppicando senza speranza rispetto alla concezione dello Stato di diritto. Nemmeno queste frasi possono essere accettate giustamente, quando si tratti di positivi fondamenti etici del Cristianesimo. E si consideri soltanto a margine che le Chiese non si attengono realmente al pur semplicissimo divieto di immagini. Un’eccezione, in questo senso, è soltanto la Chiesa riformata (e anche l’Islam); altrimenti, presso i luterani, i cattolici e gli ortodossi, s’incontra una varietà infinita di icone e immagini pullulanti nelle chiese e nell’arte religiosa.

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, […] Osserva il giorno del Sabato per santificarlo […]

Anche questi due comandamenti producono, oggi, effetti più innocui di quanto fosse allora nelle intenzioni. In realtà, non erano semplicemente consigli dati in buona fede. La loro inosservanza poteva avere conseguenze penali, e comportava punizioni corporali, fino alla morte del trasgressore. Abbiamo già visto come su piccolissime infrazioni del culto incombesse la minaccia della pena capitale.

Numerosi sono i casi di lapidazioni per profanatori del sabato nel mondo ebraico. E probabilmente lo stesso Gesù venne ucciso perché la sua attività provocatrice – con la purificazione del tempio e con la sua spregiudicata visione del sabato – venne interpretata come profanazione del nome di Geova. Per secoli, presso i cristiani, quale espressione della disciplina delle comunità religiose, si esercitò una stretta sorveglianza sui credenti, per quanto riguardava condotta di vita e frequentazione delle funzioni religiose. Come l’Antico Testamento non conosce nessuna dignità della persona e nessun concetto di tolleranza, così non conosce nemmeno la superiorità della libertà di opinione – per noi oggi fuori discussione – rispetto al diritto ad un libero esercizio del culto.

L’Antico Testamento non conosce alcuna libertà di opinione. Eppure una critica alla religione deve essere possibile; il diritto alla libera esternazione del pensiero deve valere più degli interessi religiosi dei singoli o delle Chiese. Parimenti, l’arte deve avere la possibilità di esprimersi in forme critiche rispetto alla religione. Con questi due comandamenti, ci troviamo un’altra volta di fronte ad un pensiero giuridico che confligge con elementari diritti umani. Nemmeno questi comandamenti possono essere ritenuti esemplari dai difensori di un’etica cristiana. Ed anche qui si osservi, inoltre, che le Chiese stesse non si attengono, come nel divieto delle immagini, all’obbligo del sabato. Infatti, esse festeggiano esplicitamente la domenica come giorno della risurrezione del Signore, in antitesi col comandamento veterotestamentario. Che viene lievemente mimetizzato con traduzioni più libere del tipo: “Dovrai santificare il giorno festivo”.

Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato, perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.

I primi quattro comandamenti erano imperniati esclusivamente sulla retta venerazione per Dio e per la protezione dai culti stranieri. Spazio sprecato, dato in regalo, se si considera che se ne vogliono formulare solo dieci (avvalendosi del numero delle dita). A questo punto, però, arrivano le istruzioni singole, al primo posto gli ossequi per i genitori. La posizione in classifica, in un posto così prominente, suscita stupore. Non c’era da attendersi piuttosto il divieto di uccidere? Nella società moderna, per giunta, il rispetto per i genitori non è una legge da rivendicare per vie legali; nel migliore dei casi, è una norma di decoro, un debito di riconoscenza verso coloro ai quali si deve la propria vita, e che ci hanno educato.

E lo si fa spontaneamente, di propria iniziativa, e non perché si speri di vivere a lungo, come il comandamento giustifica in senso moralmente discutibile. In nessun caso, comunque, si dovrebbe fare di questa norma il fondamento d’una specie di politica familiare. Nell’antica Israele, in realtà, la potestà genitoriale implicava non solo la pena del bastone, ma per di più il diritto dei genitori di uccidere in certi casi il figlio renitente. Dunque, anche questo versetto biblico, dal suono positivo e accattivante, nasconde le sue insidie, e solo a certe condizioni è appropriato all’educazione di bambini e fanciulli.

Non ucciderai

Ed eccoci, finalmente, al divieto di uccidere, a noi tanto familiare. Attenzione, però! Perché qui si usa il verbo ebraico razach. Esso non connota semplicemente l’azione di uccidere, bensì l’uccidere contrario alla comunità, l’ammazzare per ignobili moventi. Il che non includeva, per esempio, l’uccidere in accordo con un volere comunitario cioè, a mo’ d’esempio, l’azione di uccidere in guerra. Precedentemente in questi miei testi, abbiamo conosciuto una serie di precetti secondo cui uccidere era non solo permesso, ma addirittura imposto. Il divieto di uccidere riguarda solamente persone appartenenti al proprio popolo. Nemici del popolo e persone diversamente credenti ne erano esplicitamente esclusi. Anche con questo precetto, pertanto, non si diventa giustamente felici, qualora ci si sia prefissi di legittimare l’alto valore morale dei Dieci Comandamenti.

Non commetterai adulterio (non desiderare la donna d’altri)

Nemmeno su questo punto leggiamo una raccomandazione benevola. L’adulterio poteva avere gravissime conseguenze personali, e di regola, manco a dirlo, per la donna adulterina. Anche in questi casi si ricorreva sommariamente alla lapidazione, come illustra l’episodio di Gesù con l’adultera (Gv 8:1–11). Ancora oggi, in molte società improntate in senso religioso, in caso d’adulterio, le donne devono fare i conti con gravi punizioni corporali. E’ un progresso il fatto che nella nostra società non esista più la sanzione penale di adulterio, e che la convivenza di uomo e donna sia considerata affare privato. La fedeltà coniugale è sicuramente un valore positivo; ma volerlo far conoscere agli adolescenti proprio mediante i comandamenti biblici, non è molto opportuno, per la verità.

Non rubare

Finalmente, il settimo comandamento è uno che, ancora oggi, può rivendicare effettivamente una validità illimitata. Nel contempo, però, esso fa parte del patrimonio etico comune a tutte le religioni e peculiare a tutte le società; in quanto tale, esso non è nulla di specificatamente cristiano, costituendo piuttosto un luogo comune dell’universale convivere umano.

Non pronuncerai testimonianza menzognera contro il tuo prossimo.

Questo precetto, tradotto generalmente nel cristianesimo e nell’ebraismo con Non mentire, significa alla lettera soltanto la premeditata falsa testimonianza in giudizio. Tant’è vero che Lutero l’aveva tradotto con Non dare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Nella società israelita, evidentemente, questa fattispecie aveva grande importanza, altrimenti non sarebbe stata presa in considerazione nel Decalogo. Ma in effetti le si fa troppo onore. Quale topos etico, il divieto generale della bugia e un monito alla veridicità, sarebbe stato sicuramente più interessante, ma non è così che viene inteso. Per di più, qui come altrove, per prossimo si intende il proprio connazionale. E questo non si comprende nel senso di ognuno. Per questa ragione, anche tale comandamento è appropriato solo con riserva alla comunicazione di principi etici di alto livello, aventi valore universale.

Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

Il verbo desiderare vuol dire in ebraico non soltanto un semplice desiderio, ma per di più anche il tentativo di ridurre l’oggetto desiderato in proprio possesso. Di queste righe, cattolici e luterani fanno due comandamenti, mentre gli Ebrei (ma anche la Chiesa ortodossa) sommano in un solo comandamento il desiderio della casa del prossimo con quel che segue. Si potrebbe certamente utilizzare tale norma per un ammaestramento etico, se non ci fosse la circostanza che la donna viene qui annoverata quasi tra le suppellettili domestiche. Essa appartiene al marito alla stessa stregua del bue e dell’asino. Questo comandamento riflette l’immagine d’una società patriarcale arcaica, lontanissima dal moderno concetto di parità tra uomo e donna. Anzi, di più: come i Comandamenti non conoscono nessun tipo di dignità umana, nessuna libertà di religione, nessuna idea di tolleranza e libertà di opinione, così anche il principio di uguaglianza è totalmente assente da codesta mentalità. E ciò non va riferito soltanto ad una parità giuridica tra i sessi. Anche schiave e schiavi, al pari della moglie, fanno parte della proprietà del padrone.

Al Decalogo biblico difettano, di conseguenza, diritti umani elementari. Quei precetti sono lo specchio di una società che grazie a Dio! – vien voglia di esclamare – è tramontata definitivamente. Il livello etico di un moderno Stato di diritto è palesemente superiore e più impegnativo di ciò che Chiese e credenti vorrebbero indurre a far credere a forza di chiacchiere. In generale, ad una analisi critica di quei dieci Comandamenti, ne rimangono, nel migliore dei casi, soltanto tre, che si possano in qualche modo conciliare coi princìpi d’un ordinamento liberale. Molto superiore, per contro, è il numero di quelli che contraddicono, in maniera implicita o esplicita, a questo ordinamento. E’ quindi assurdo voler vedere proprio le norme bibliche come fondamento positivo di un’etica. I politici cristiani, che continuano a sbandierarli nei comizi della domenica, non sanno evidentemente di che cosa parlano.

Parole obbrobriose della Bibbia

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Non solo i comandamenti, anche la Bibbia nel suo complesso viene largamente sopravvalutata quale fonte di un’etica responsabile e praticabile per una società moderna. La Bibbia non è un documento sovratemporale, come le Chiese vogliono indurre a pensare per suggestione; al contrario – al pari di altri documenti storici – è un’opera zavorrata di idee valoriali condizionate dall’epoca, e per di più, considerate da una prospettiva odierna, arretrate. Per essere franchi, essa si addice alla residenza per pensionati, ma deve pur sempre prestare servizio di legittimazione a sostegno di credenti e Chiese, oltre che prestare soccorso nel conservare il tanto celebrato senso della vita. In effetti, le Chiese non hanno nulla di meglio: nuove scritture sacre non si possono far apparire come per magia. A questi testi vetusti, di conseguenza, si cerca di accreditare ulteriormente importanza e significato, strappandone nuovi ammaestramenti, nonostante che il fossato della storia – proprio negli ultimi duecento anni – abbia reso pressoché impossibile la costruzione di un ideologico ponte sospeso.

Molti versetti e capitoli della Bibbia, che in passato non presentavano nessuna difficoltà per i credenti, sono diventati oggi talmente problematici, che già la lettura di questi passi diventa tormentosa per i credenti. Le immagini antiche sono spesso così lontane dalle concezioni moderne e dal comune sentire valoriale, che anche per i credenti è preferibile non leggerli affatto. Rammentiamo qui alcune di queste brutte parole della Bibbia, abbastanza eloquenti, seppur senza pretese di completezza.

Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato (Marco 16:16)

La separazione del mondo in bene e male, la scissione in credenti e miscredenti, in salvati e dannati, è una tragedia fondamentale anche della religione cristiana. Sempre in combutta con essa è difatti l’intolleranza. Lo spirito maligno dell’intolleranza non si trova soltanto nel Testamento Antico, ma anche nel Nuovo. Muovendo da questa premessa, per la Chiesa fu sempre facile legittimare le proprie pretese di potere, le guerre contro dissidenti e diversamente credenti, legittimate appunto dalle immaginarie Scritture sacre. L’intolleranza è la placenta del monoteismo, conseguenza pressoché cogente d’una religione che si presenta con assoluta pretesa di verità. Certo, questo non vuol significare che l’intolleranza non si sia manifestata anche in altri contesti. Io sono il Signore, tuo Dio, non avrai altri dèi all’infuori di me: così parla un tiranno. E i suoi sacerdoti hanno saputo imporre col ferro e col fuoco, attraverso i secoli, questa pretesa totalitaria.

Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli (Matteo 28:19)

Per lunghi periodi della sua storia, il cristianesimo è stato un imperialismo totalitario di stampo religioso. Ciò che per i cristiani è quasi una promessa, era per altri popoli l’inizio di repressione e annientamento della propria religione avita e della rispettiva identità culturale. A quei popoli (oggi possiamo formularlo con relativa certezza) non fu apportato nessun frutto dell’albero della conoscenza, ma un prodotto soltanto diverso dal giardino della superstizione religiosa; anche se la nuova religione potrebbe aver significato, in molti casi, un relativo progresso rispetto alla religione originaria. Una società moderna ha bisogno della multiforme varietà delle idee. Dove regna l’omologazione, dove tutti pensano nel medesimo modo, non si pensa poi molto. Però il confronto delle idee deve avvenire liberamente. Troppo spesso, per contro, il comando dell’evangelizzazione missionaria ha prodotto guerre e genocidi culturali.

Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli (Matteo 27:25)

Antisemitismo e antigiudaismo non sono pensabili senza il Nuovo Testamento, ed in particolare senza la frase appena citata. Del resto, al pari delle due massime precedenti, queste sono mere invenzioni degli evangelisti, vaneggiamenti non storici bensì forieri di sanguinose conseguenze. Dal Nuovo Testamento, ogni atmosfera da pogrom ha potuto attingere infatti munizioni inesauribili: gli Ebrei erano i nemici “che hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini.” (Tessal 2:15). Semplicemente, gli Ebrei sono “figli del diavolo” (Gv 8:44). Tra costoro, vi sono infatti “molti insubordinati, chiacchieroni ed ingannatori. A costoro bisogna chiudere la bocca […]” (Tito 1:10-11b). A causa di codeste orrende oscenità, attraverso i secoli, la Bibbia è stata complice a sostegno di assassini e persecutori cristiani.

I testi biblici hanno mantenuto viva la fiamma: senza antiebraismo cristiano non ci sarebbe stato nessun antisemitismo popolare. Tant’è che nel suo Mein Kampf (1925) Hitler poté esprimerla in questi termini: “Oggi quindi credo di stare agendo conformemente alla volontà di Dio Onnipotente: difendendo me stesso dall’ebreo, combatto per l’opera del Signore.” (citato da Dawkins, op. cit., p. 272). Anche se qui, come i cristiani sempre affermano, gli uomini avessero frainteso qualcosa, e si trattasse solo di fenomeni marginali nella Bibbia, cioè di cose contingenti e relative all’epoca, in scritti di grande valore intrinseco, sarà pur consentito il problema (e i Tedeschi dovranno porselo in modo tanto più insistente) se la Bibbia possa servire come fondamento di ammaestramento etico per bambini e ragazzi. Perché nelle sue pagine, accanto a passi indubbiamente validi, se ne trovano di quelli che, se stessero non nella Bibbia ma in un volantino di propaganda nazista, non potrebbero non essere perseguiti, a buon diritto, allo scopo di salvaguardare princìpi costituzionali.

Voi mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; il marito è infatti capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa […] E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto (Efesini 5:22-24)

Come mai avviene che le donne sono oppresse in quasi tutte le religioni, eppur tuttavia mostrano spesso una devozione molto maggiore degli uomini? La posizione della donna nella comunità primitiva e nelle prime comunità pagano-cristiane era nettamente molto migliore che nella teologia che ne sarebbe seguita, dominata totalmente dai maschi. “La storia del Cristianesimo è anche una storia della progressiva riduzione al silenzio e dell’interdizione delle donne.” (U. Ranke-Heinemann, op. cit., 122 ss.). A metterle sotto curatela contribuì ulteriormente il Nuovo Testamento, con esortazioni come quella citata dalla lettera agli Efesini, che anche oggi gode d’una certa popolarità nei matrimoni celebrati in chiesa. Questo dipende dal fatto che i mariti sono poi incitati ad amare le loro mogli, per cui predomina in apparenza un reciproco dare e avere. Ma ciò non cambia il dato di fatto: il marito è posto in rapporto con Cristo, mentre la moglie soltanto con la comunità. Il marito è capo della donna, come Cristo è capo della comunità. Insomma, per non annoiare il lettore: anche questo passo è una falsificazione. La ricerca è pressoché unanime: la lettera agli Efesini non fu scritta dall’apostolo Paolo, come egli sembra attestare. Ma che cosa cambia con questo? Il principio, per la storia della Chiesa, divenne operante in tutti i casi. Solo nel XX secolo le donne cristiane hanno saputo liberarsi da questo discredito, abbellito in maniera religiosa, e da una natura umana di seconda classe.

Un processo, questo, ben lungi dallo svolgersi in ugual misura presso tutte le Chiese. Mentre nelle Chiese protestanti vi sono persino donne vescovo, nel mondo cattolico romano le donne cristiane vengono sempre deprivate di elementari diritti umani, in applicazione d’una presunta inconsapevolezza religiosa. E mentre, anche in quel mondo, molti cattolici professanti nelle comunità pensano in modo più progressivo e liberale della rispettiva gerarchia chiesastica, il papa Benedetto XVI si mostra “convinto che la crisi della Chiesa, che viviamo oggi, si basa grandemente sulla decadenza della liturgia.” (J. Ratzinger, Aus meinem Leben, p. 174). L’inesperienza delle cose umane, la lontananza della Chiesa dal mondo, non si può formulare in modo migliore.

Non lascerai vivere colei che pratica la magia (Esodo 22:17)

Non occorre molta fantasia per intuire dove questo versetto ha trovato la sua applicazione pratica. E’ pur vero che la Legge mosaica, da cui discende questa massima, è per il cristiano ormai superata, essendo la fede nella stregoneria di origine piuttosto pagana. Ciò nonostante, i roghi per le streghe e per i loro presunti amanti sono divampati alla grande – agli albori dell’età moderna – tanto tra i cattolici quanto tra i protestanti. Questa “vecchia usanza” (così si esprime un giornale di provincia che sarà meglio non nominare), secondo ricerche più recenti, costò la vita non a milioni, per la verità, ma pur sempre a molte migliaia di donne. Il marchio della giustificazione lo si poté attingere di nuovo dalla Bibbia. Che tali eccessi potessero richiamarsi ininterrottamente alla scritture bibliche, fa apparire problematica la dichiarazione corrente secondo cui si sarebbe trattato di malintesi e di interpretazioni erronee. Eppoi, se pure così fosse: che valore può mai avere un libro che è stato frainteso ininterrottamente, attraverso i secoli? Non si deve supporre, invece, che la causa di tante continue ambiguità sia da ricercare nella Bibbia stessa?

Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio
quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio (Romani 13:1-2).

Questa citazione da Paolo (questa volta autentica) è l’origine cristiana di ogni spirito di sudditanza e di ogni edulcorazione di regimi autoritari. In tutte le epoche, infatti, è stato il passo prediletto dei potentati e dei governanti cristiani. E certo, nessuna egemonia è più sicura di quella che si può spacciare ai sudditi con l’etichetta per grazia di Dio. Paolo ha creato qui un mito del potere egemonico, senza esserne stato nemmeno consapevole. Questa norma paolina ha favorito uno spirito servile, di sottomissione, dal momento che chi deve essere suddito, avrà sempre difficoltà a camminare diritto. E qui la condizione di sudditanza viene addirittura propagandata come voluta da Dio. In altri momenti, per la verità, Paolo rivendica la libertà cristiana, ma per lui questa ha luogo soltanto nell’ambito dei credenti, e non si spinge mai fino al punto (sarebbe pur stato pensabile) che ne consegua un appello a cambiare anche le condizioni illiberali, o quantomeno a criticarle.

Sennonché, quanto poco Paolo ebbe interesse per il Gesù storico e terreno (teso come fu a predicare unicamente il suo Cristo sublimato), altrettanto poco si mostra interessato ad un cambiamento delle condizioni esistenti. In Paolo, certamente, questa codardia cristiana fu rafforzata, o addirittura provocata, dalla sua idea dell’attesa vicina. Saldamente convinto che il Regno di Dio fosse lì lì per giungere, Paolo non vedeva necessità di aspirare a grandi cambiamenti. Per lui, questo mondo era senz’altro destinato alla perdizione. Perciò egli ammonisce anche gli schiavi a starsene tranquilli nella loro condizione.

Ma ora, dopo che la speranza cristiana si è rivelata un castello di carte, non essendo arrivato il Regno di Dio, alle future generazioni non rimane altro che la sua esortazione a sottomettersi alle autorità. Ottemperando alle sue argomentazioni, sarebbe necessario considerare “voluti da Dio” anche i regimi totalitari del XX secolo. Stalin diventerebbe allora uno strumento di Dio, e Hitler realmente un uomo della Provvidenza? Assolutamente no. Si dovrebbe piuttosto ipotizzare che Paolo non fosse semplicemente consapevole delle implicazioni insite nei suoi moniti. L’apostolo delle genti enuncia in questi termini balordaggini assolute. O come si dovrebbero definire altrimenti? Meno fede, più raziocinio sarebbero stati qui convenienti. Ma furono le sue farneticazioni ad essere canonizzate; e sono state queste, non da ultimo, ad impedire e indebolire massicciamente la resistenza contro la dittatura nazista.

E Dio disse loro
Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela,
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra! (Genesi 1:28)

In tempi remoti, queste parole furono pensate come benedizione. Il loro significato era: a voi è lecito essere fecondi e dominare sulla terra. Era una promessa al cospetto d’un mondo in cui l’uomo doveva ancora strappare con tenacia la propria malcerta esistenza ad un ambiente ostile. Ma fu presto equivocato come un imperativo. Anche qui si ripresenta – come nelle precedenti parole obbrobriose – la locuzione rendere soggetto, allo scopo di soggiogare. La donna accetti dunque il suo essere soggetta al maschio, l’individuo cristiano sia suddito ubbidiente alle autorità, l’umanità sottometta a se medesima la terra stessa. Una pacifica convivenza, nel reciproco rispetto tra gli esseri viventi, sembra essere una nozione del tutto ignota agli autori della Bibbia in molte sue parti.

E la benedizione oggi si è fatta maledizione, la promessa trasformata in minaccia. L’uomo dovrebbe esercitare un dominio sulla natura, ma oggi lo fa in misura esorbitante. Ebbene, aspettarsi una coscienza ecologica da un testo antico, sarebbe sicuramente anacronistico e irrealistico. Per molti dei problemi incombenti sull’età contemporanea, la Bibbia non ha nessuna cognizione: del resto, da dove potrebbe mai trarla? La cura ambientale non è una tematica che le si addica; per la mentalità biblica, la natura è soltanto un avversario. Anche un’etica animale, sia pure in germe, manca sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, come ancora, ammettiamolo, nella maggior parte delle concezioni etiche più moderne. Semplicemente, come per molti altri ambiti, la Bibbia non è all’altezza dei tempi. Continuare a ribadire la sua sedicente rilevanza per noi oggi è espressione della pia illusione dei cristiani.

Gli scritti biblici non servono affatto, in sostanza, alla fondazione etica d’una società moderna. Pur tuttavia è naturale che, in una collezione così vasta di scritti, non manchino passaggi e motivi che sarebbero ragguardevoli ai fini d’un insegnamento etico, o come base d’una umana convivenza. Con questa riserva: motivazioni di questo genere possiamo aspettarcele anche da massime estratte dal Corano, dal Buddismo, addirittura da scritti esoterici; si possono trovare in Platone, in Cicerone o Marco Aurelio. Ciò che fa apparire la Bibbia talmente problematica come fonte di eticità, è la sua inumanità, che esce allo scoperto in tanti suoi momenti. Ed in più la sua arretratezza etica. I passi positivi, che pure ci sono, si trovano in pessima compagnia. Le fantasie patriarcali di superiorità relativizzano il comandamento dell’amore propagandato in altri momenti; il paradigma dell’autorità indebolisce la conclamata libertà cristiana, l’autorità si rivela – al lettore di oggi – solo come comportamento autoritario. A causa di questa accozzaglia, la Bibbia non è idonea ad una moderna comunicazione dei valori. La Bibbia è valutata, appunto, oltremisura. Più precisamente, i valori fondanti, decisivi per la nostra società, non emanano da essa.

Fede, speranza e carità sono davvero virtù?

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I Dieci Comandamenti si rivelano, ad una osservazione più attenta, largamente inservibili, e la Bibbia, coi suoi superati criteri etici, si dimostra solo parzialmente applicabile alla fondazione etica d’una collettività moderna. Sono forse le virtù cristiane che intendono i politici, sempre pronti ad evocare le “radici” cristiane della nostra società? Esse vengono così formulate da Paolo nell’epistola I Cor 13 “Così rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande tutte è la carità!”. Questa proposizione forma l’epilogo di versetti in cui si tratta dell’amore, ragion per cui si parla anche di “Cantico dei cantici”.

« E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. »
(1 Corinzi 13:3-8)

Con ragione si ravvisa in questo passo un punto culminante della tradizione biblica; e non trascorre anno liturgico nelle terre cristiane senza che questo testo sia oggetto di intense predicazioni. E’ invero assai adatto al fine di riconciliare con molti altri versetti, anche in Paolo; e possiede qualcosa che rappresenta una validità generale, che va oltre le religioni e le concezioni del mondo. Ed è, ad onor del vero, un brano di letteratura universale. Ciò consiste anche nel fatto che qui Paolo parla anche dell’amore ricorrente tra gli umani, mentre parla meno dell’amore verso Dio. Infatti, per quanto positivamente sia impegnato il concetto dell’amore, nel contesto cristiano l’amore è perlopiù spaccato in due. Prima dell’amore umano, cristiani ed ebrei hanno spesso collocato l’amore per Dio. Questa dicotomia si riflette nella domanda circa l’amore più grande, a cui Gesù – come già ricordato – risponde in questi termini:

« Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questo. »
(Marco 12:30-31)

Questa visione cristiana dell’amore è problematica, dato che l’amore investe e abbraccia gli umani in maniera indivisa. Quanto amore viene sprecato verso deità che non esistono affatto? E i cristiani fanno spesso dipendere l’amore per gli uomini dal vincolo che li lega a Dio. Che questo non possa essere vero, tuttavia, lo contraddicono agnostici e atei eticamente esemplari; ed altrettanto il fatto che l’amore di Dio ha spesso ispirato anche gesta obbrobriose. La storia della Chiesa lo ha dimostrato con la massima evidenza. Anche in altre religioni l’amore per Dio può spingere al punto di procedere con particolare ferocia contro il prossimo, soprattutto contro credenti in altre fedi. “I diciannove attentatori suicidi di New York, di Washington e della Pennsylvania erano, al di là d’ogni dubbio, i più sinceri credenti di quegli aerei. Forse sentiremo un po’ meno chiacchiere sull’invidiabile superiorità morale della “gente di fede”. E cosa imparare dal giubilo e dalla propaganda entusiastica con cui venne salutata nei paesi islamici questa grande impresa di fede?” (Hitchens, Dio non è grande, op. cit. p. 31)

Amore del prossimo sì, certo … ma certamente migliore qualora esso non sia subordinato alla fede in un Dio, bensì vivente nel sentimento d’una solidarietà con i nostri simili, senza distinzioni. Oppure, come intendeva G.E. Lessing, al fine di fare il bene per amor del bene. La concezione di Lessing è superiore a quella di derivazione religiosa. Nel suo testo, Paolo rinuncia una volta alla connessione con Dio, e questo rende il testo così positivo. Non fosse che egli presuppone questo vincolo come ovvio, dichiarandolo anche direttamente in altre parti.

Anche la speranza è un concetto impiegato di solito positivamente. Ma non si tratta d’un generico sperare in tempi migliori, o d’uno sperare quale espressione d’un senso ottimistico della vita. La speranza cristiana è, per principio, speranza valida solo per i cristiani. Intendeva, in origine, la gioiosa attesa del rapido ritorno di Gesù e, più tardi – allorquando il fatto non accadde – la speranza in una vita eterna nel cielo o in un regno oltremondano. Eppure il risultato ambiguo della storia del mondo comportò – per tutti i non cristiani – inferno e dannazione sempiterna.

Oggi, chi parla a cuor leggero di speranza cristiana, non è consapevole di questa connotazione assolutamente negativa. Il Paradiso si dà soltanto per chi possiede un regolare, valido certificato di battesimo; gli altri dovranno restarne fuori. Altre religioni hanno analoghe condizioni di ammissione. E quei teologi cristiani che vollero vedere la bontà di Dio così grande, che alla fine tutti raggiungono la salvezza, vennero perseguitati come eretici. Certo, dispiace parecchio che l’amore cristiano sia così difficile da realizzare. In ogni modo, che la speranza cristiana abbia tratto in inganno, è un benedizione per la grande maggioranza degli uomini.

Ma c’è ancora un aspetto che fa apparire ambiguo e problematico il concetto cristiano di speranza. La speranza nell’aldilà distoglie naturalmente dall’aldiqua. La speranza in un mondo, che forse verrà, indebolisce la volontà di cambiare i rapporti esistenti in un mondo che c’è già. La vita terrena viene svalutata come realtà provvisoria e penultima. Contro questa prospettiva Feuerbach, tra gli altri, lancia l’appello: “Aspettatevi il meglio non dalla morte, bensì da voi stessi! Non eliminate la morte; scacciate via piuttosto i malanni […]” (Ludwig Feuerbach, Sämtliche Werke, 1903/1911, I, 116 s.). E Joachim Kahl induce a riflettere:

« Qualsiasi redenzione sognata nell’aldilà giungerebbe sempre troppo tardi. Ciò che è accaduto, essa non potrebbe in nessun modo far sì che non sia accaduto. L’irreversibilità del tempo è il confine invalicabile di ogni fede nell’onnipotenza. Nessuna promessa religiosa di redenzione può impedire vittime di terremoti, di guerre, di torture, di uccisioni, di stupri, del cancro o del traffico. Nessuna promessa di salvazione può risarcire la sofferenza in essi patita. L’amabile aspirazione ad una completa giustizia, la brama d’una universale riconciliazione, rimane inesaudita perché, persino con una compensazione oltremondana, quanto è avvenuto non può mai essere reso non avvenuto. Chi è stato torturato, torturato rimane. »
(J. Kahl, Weltlicher Humanismus, S. 107)

Che la fede sia un valore positivo, ecco, questa diceria perdura ostinata, e non soltanto presso i credenti. Anche molti non credenti ritengono positivo che la gente creda in qualcosa. I contenuti della credenza sembrano essere indifferenti. Come si dovrebbe altrimenti comprendere che si lodi la devozione che spinge i buddisti del Tibet a prostrarsi centomila volte (se ne tiene il conto) davanti alle loro immagini di culto, o a girare sulle ginocchia intorno ad un monte sacro? O quando gli aborigeni brasiliani danzano per ore intorno al fuoco, per placare i loro antenati? Il turista considera tutto ciò positivo e degno di conservazione, anche se personalmente – osservando a mente fredda – lui non lo farebbe mai.

Perché è sufficiente la forma della fede, perché i contenuti non hanno alcuna importanza? I tibetani che girano intorno al monte sacro non sono piuttosto persone da compatire, invischiati nelle reti di quella religione in cui il caso li ha fatti nascere? Dalla condizione di credenti, che sono gravati dall’ipoteca d’una tale religione, come potrebbero mai uscire persone rette e sincere? E si può approvare un orientamento sbagliato nella vita, nella misura in cui si presenta bene quale folklore religioso? O perché i credenti vi si sentono a loro agio? Il fatto che i credenti – con un tasso di probabilità confinante con la certezza – siano vittime d’una superstizione, risulta ancora una volta dalla molteplicità delle religioni che si escludono vicendevolmente. Le persone che credono sono condannate a vivere nell’errore.

Di conseguenza, la fede non è un valore aggiunto, bensì una mancanza di valore, in quanto è responsabile di orientamenti erronei, sia individuali sia collettivi: il vivere nell’illusione scelta in proprio, oppure ricevuta in eredità, il persistere nella visione d’un mondo religiosamente distorto, quel caparbio andare fino in fondo, percorrendo un sentiero sbagliato. La fede sarebbe una virtù? La capacità critica nei confronti della fede non sarebbe un valore molto più sensato della credenza? Libertà di religione è un valore altrettanto rispettabile quanto la libertà dalla religione. Ma perché si continua ad accettare la fede individuale come qualcosa di simile ad un recinto sacro, come sfera tabuizzata, dove interrogativi critici non sono desiderati? Anche riguardo a differenti opinioni politiche la discussione è consentita e desiderata … perché non dovrebbero esserlo anche domande e messe in discussione critiche sulle concezioni religiose? Perché, quando si parla di religione, è consentito ciò che invece, nel dibattito politico, si giudica sconveniente, cioè il rifiuto a discutere, il rinchiudersi nel guscio dell’interiorità?

Solo entro certi limiti, dunque, anche le tre virtù cardinali dei cristiani hanno fatto riconoscere di essere veramente costitutive per la nostra società. Si trovano in esse troppi fatiscenti relitti riportati a riva, tanto marciume che non basta a farne una nave solida e stabile. Nemmeno la carta delle virtù cristiane risolve la partita. Ci rimane però ancora una carta: il modello di Gesù. Ed è su questa che dovremo puntare con la necessaria brevità, considerato che, nei capitoli precedenti, ci siamo già occupati minuziosamente di lui e del suo insegnamento.

Gesù, un modello discutibile

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Perché dilungarsi per vie traverse? Perché attenersi a comandamenti superati, a scritti biblici pieni di contraddizioni e a virtù cristiane inadeguate, allo scopo di dimostrare i fondamentali valori cristiani? Ciò che il cristianesimo è, e come un cristiano debba agire, i cristiani cercano di renderlo vivo ed icastico mediante un ricorso immediato a Gesù e al suo annuncio. Gesù, insomma, nel ruolo di archetipo?

Questa soluzione ha il vantaggio di non essere costretti a barcamenarsi con l’immagine veterotestamentaria di Dio, che non offriva ancora un Dio dell’amore, bensì un Dio della guerra e della violenza. Gesù ha invece creduto, sicuramente non da solo, bensì appoggiandosi a concezioni già diffuse in Palestina, in un Dio più gentile ed amico degli uomini. Questo Dio non è tanto il terribile vendicatore, quanto piuttosto il padre amorevole che si dedica con affetto alla proprie creature. Dopotutto, Gesù ha riplasmato in senso umanitario il legalismo religioso dell’ambiente farisaico. Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato! (Mc 2:28), che per la verità è controverso, sempre che l’avesse detto proprio lui. In ogni caso, le sue azioni concrete hanno caratteri umanizzanti e umanitari, tanto che, quando di tratta di dare un aiuto concreto in un caso singolo, egli non prende la Legge troppo alla lettera.

E’ questo che rende simpatico Gesù, come pure il suo interessamento per le persone emarginate e reiette della società di allora, la sua familiarità con peccatori e pubblicani. Allo stesso modo, egli intrattenne un rapporto disinvolto con le donne, che nell’Ebraismo contemporaneo erano considerate creature incorreggibili. E le donne gli restarono fedeli fino alla sua morte, quando i suoi discepoli erano ormai fuggiti da Gerusalemme. Gesù criticò la ricchezza, promettendo il Regno dei cieli ai poveri (e non solo ai poveri in spirito). I suoi appelli all’amore e al perdono sono senza tempo, le sue parabole del figliol prodigo e del samaritano compassionevole, oltre a certe parti del Sermone della montagna, sono tra le cose migliori tramandate nel Nuovo Testamento.

La Chiesa non seguì Gesù in molte cose, per diventare ricca e potente, rappresentando essa stessa, invece d’un annuncio orientato a vantaggio dell’umanità, una dogmatica che non guardava in faccia nessuno, disposta a passare sui cadaveri, perseguitando peccatori e pubblicani sul filo della spada, laddove Gesù predicava ancora pace e serenità. Una Chiesa, che presto fu sconcertata non solo dalla frequentazione di Gesù con le donne, ma che ridusse le donne – considerate come tramiti della tentazione – a persone di classe inferiore, quando non ad esseri più abbietti. Una Chiesa che tramuterà l’amore, che Gesù aveva indubbiamente provato per il suo popolo ebraico, in odio verso gli Ebrei.

Si può bene aver comprensione del fatto che questo Gesù affascini, oggi come in passato, credenti e miscredenti. Eppure, che questi aspetti positivi implichino una certa atmosfera romantica, è una realtà procacciata già dagli evangelisti stessi. I quali lo idealizzano, levigando contraddizioni e mitigando sconvenienze, facendo di lui il puro agnello innocente, che si offre in olocausto, caricandosi i peccati del mondo. Specialmente i suoi discorsi e le sue comparse nel Vangelo di Giovanni (particolarmente pregevole per i credenti), sono quasi tutti prodotti d’una lirica di pensiero, e rappresentano un Gesù dai tratti somiglianti a quelli voluti dai suoi primi seguaci. E anche negli altri Vangeli dev’essere faticosamente riportato alla luce ciò che Gesù veramente volle e disse.

Ma chi vuole osservarlo più da vicino, deve leggersi il vangelo di Marco, il vangelo poco amato dalla Chiesa, che presenta ancora un Gesù scontroso, che solo a fatica si lascia imbrigliare a supporto degli annunci ecclesiastici. Le testimonianze più antiche mostrano Gesù come predicatore itinerante ed esorcista. In quanto apocalittico, egli annuncia l’egemonia di Dio, la fine del mondo, come si conosceva allora. Era un predicatore della fine dei tempi, e si prefiggeva di scuotere i suoi connazionali. Per i pagani, Gesù non aveva palesemente nessun messaggio; e tanto meno ne avrebbe per noi moderni. In quanto ebreo credente, egli si vide inviato solo per gli Ebrei. La sua predicazione sull’egemonia di Dio sarebbe stata comunque incomprensibile per i pagani. Del suo mondo immaginario facevano parte anche la fede nell’Inferno, nel Diavolo e nella Legge. Sono tutti elementi che costituiscono la parte oscura della sua predicazione, che oggi dai cristiani viene perlopiù lasciata nella penombra.

Dunque, chi vuol vedere Gesù come modello di eticità, non ha un compito agevole, e comunque non quando si sforzi seriamente di liberare il Gesù reale dai dipinti sovrapposti dai posteri. Allora, infatti, si ottiene un’immagine assai ambivalente in cui, accanto alla luce, si riscontra anche molta oscurità. I cristiani non possono non chiedersi: vale la pena di seguire un uomo, il cui messaggio non guardava affatto ai cristiani di oggi? Uno che, in quanto estatico religioso, fallì nel cuore stesso del suo annuncio, e che non riuscì – malgrado molti segnali positivi – a liberarsi da determinate forme di fede (o superstizione) popolare? Le sue esternazioni in favore della pace e dell’amore del prossimo bastano a compensare il particolarismo religioso, che egli ha pure rappresentato?

Lo sguardo sul Gesù della storia è disincantato, e solo parzialmente edificante. La ricerca storica è per di più difficoltosa e, a ben guardare, impraticabile da parte di credenti “normali”. Ma è semplice, per contro, rappresentare la persona di Gesù nella maniera in cui gli evangelisti ce la presentano. E’ quello che fanno alla grande oggi, come in passato, le Chiese e quasi tutte le organizzazioni ecclesiali. Si crede in un Gesù che, in questa forma, non è mai esistito, ma che si è ricevuto nelle fattezze tramandate, e che in fondo non si vorrebbe avere con sembianze diverse. E se in passato fu in effetti una scelta di fede, in quanto non si poteva ancora porre in questi termini il problema storico, ecco che oggi molti cristiani credono in malafede, oppure persistono nel non voler ammettere i risultati della scienza. Sennonché un Dio costruito in conformità con la propria immagine è – anche secondo la sensibilità cristiana – un idolo; e un Cristo costruito da sé e per sé equivarrebbe quindi all’adorazione del vitello d’oro.

Naturalmente, si può orientare la propria vita privata in conformità con la vita di Gesù, e sono molte le persone che lo fanno. A noi, tuttavia, qui stava a cuore non tanto la questione della vita privata, quanto invece il problema se i princìpi che ispirano la nostra società si possano dedurre in qualche modo dalla vita di Gesù. Dopo quanto si è detto, non si potrà che negarlo recisamente. In quanto figura religiosa, Gesù non può essere mai il fondamento d’uno Stato secolare e pluralistico. La religione, in realtà, ha quasi sempre anche una tendenza ad escludere. E questa propensione, con un Protestantesimo ammorbidito e risciacquato, non sarà sicuramente il caso; al contrario, col Cattolicesimo romano come massima denominazione cristiana, questo congenito vizio religioso rientra nelle buone maniere, almeno nella gerarchia cattolica, certo non tanto quanto coi credenti stessi. Nel suo pontificato, papa Ratzinger ha già offeso duramente protestanti, islamici ed ebrei; ed è lecito attendere con ansia a chi toccherà la prossima volta col prossimo papa. Ah già, papa Francesco (povera illusione....)

Ma si può chiedere, naturalmente, se almeno i contenuti della predicazione di Gesù si ritrovino – come prede di guerra, per così dire – nella collettività politiche. Riesce difficile, tuttavia, descrivere come categorie dell’operare politico concetti del tipo misericordia, amore del prossimo, o addirittura amore per i nemici. Concetti che trovano una loro ideale collocazione più che altro nei rapporti interpersonali. Nei divieti concreti di Gesù, come il divieto di giurare, il divieto del divorzio e quello della rappresaglia, le società moderne percorrono tutt’altre vie. Il legame di Gesù col Dio ebraico e la sua venerazione, e la derivazione di massime d’azione dalla tradizione giudaica, non hanno praticamente alcuna importanza. Quanto ai problemi dell’ordinamento statale, non esistono esternazioni univoche di Gesù. Se il Date a Cesare quel che è di Cesare risalga realmente a Gesù, o fosse solo affibbiato a Gesù da parte della comunità, al fine di rimarcare il lealismo politico della stessa nei confronti dei Romani, è oggetto di controversia.

Sarà quindi lecito concludere che anche il modello Gesù non può essere tirato in ballo ogniqualvolta Chiese e politici discorrono di valori cristiani e dei presunti fondamenti – esaltati come “radici cristiane” – della nostra società. Eppure li udiamo parlarne senza tregua. Come si spiega questa contraddizione?

Da dove nascono realmente i nostri valori?

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Quando i politici, nei discorsi della domenica, parlano di valori cristiani, intendono in realtà i valori dell’Illuminismo, senza tuttavia esserne consapevoli. In effetti, la nostra società ha attinto molto più dall’Illuminismo che dal Cristianesimo. Quando, più degli altri i Protestanti, affermano di continuo che l’Illuminismo avrebbe pur sempre avuto le sue radici nel cristianesimo, è pura e semplice vanteria da mercante di cavalli o, quantomeno, una maniera di pavoneggiarsi con penne altrui. Ad una ricognizione, si evidenzia addirittura quanto poco il pensiero specificatamente cristiano abbia improntato realmente il nostro ordinamento sociale e giuridico, anzi, ancor più, come il Cristianesimo sia, in senso vero e proprio, in netto contrasto col nostro ordinamento sociale.

Il pensiero della tolleranza, ad esempio, è nella sua essenza alieno dal Cristianesimo, essendo invece costitutivo della collettività moderna. La tolleranza non è un valore cristiano; agli illuministi non fu possibile riallacciarsi in qualche modo a modelli o concetti cristiani. Eppure si è propensi, soprattutto nel mondo protestante, ad intendere il Cristianesimo odierno come religione piuttosto tollerante. Ciò dipende dal fatto che il cristianesimo occidentale ha attraversato anch’esso la cultura illuministica, adottando e adattando a sé il valore della tolleranza. Anch’esso, oramai, ritiene erroneamente che la tolleranza abbia fatto sempre parte della propria essenza.

Ma basta uno sguardo attento sul panorama della storia ad evidenziare univocamente che non la tolleranza, bensì l’intolleranza ha determinato le epoche di gran lunga più lunghe nella storia della Chiesa. Già il Dio dell’Antico Testamento era un Dio geloso, che imponeva la persecuzione di popoli e culti stranieri. E dopo che il Cristianesimo stesso cessò di essere perseguitato nell’Impero Romano, cominciò subito a perseguitare a sua volta dissidenti, deviazionisti e vecchi credenti nel politeismo. Il distacco dall’ortodossia divenne un delitto di Stato, contro cui procedettero solidalmente il potere ecclesiastico e quello politico. Il che diviene ovvio quando si parte dall’autoconsapevolezza d’una religione che si sentiva l’unica vera, rivelata da Dio in persona, là dove un rifiuto rappresentava un oltraggio contro Dio stesso.

Perciò l’intolleranza non fu un fallimento di individui o della Chiesa nel suo insieme; essa derivava in maniera consequenziale dal sistema d’una religione che si sentiva esclusiva. L’Illuminismo ebbe pertanto i suoi avversari proprio negli ambienti clericali (come d’altronde anche molti sostenitori). La tolleranza fu semplicemente percepita e marchiata come tradimento verso l’unico Dio. Soprattutto il Cattolicesimo, quindi, ha combattuto l’Illuminismo e i suoi aspetti concomitanti fino a tutto il secolo ventesimo.

Nel Syllabus Errorum, pubblicato nel 1864, Pio IX condannò gli errori della modernità, facendo approvare per se medesimo, durante il Primo Concilio vaticano, il dogma dell’infallibilità papale. Pio X, al quale si appellano ancora oggi i tradizionalisti cattolici, introdusse nel 1910 il giuramento antimodernista (vincolante per i chierici fino agli anni Sessanta), allo scopo di tenere ideologicamente in linea dignitari e funzionari. Fu senza grande convinzione che il Cattolicesimo azzardò un primo passo avanti nella modernità con il Concilio Vaticano Secondo (1962–65); da allora, soprattutto sotto i papi Wojtyla e Ratzinger, si ravvisano più passi indietro che in avanti. E’ uno scandalo, in effetti, che abbia ancora un’influenza così grande nella società una religione che, nella sua dottrina, resta in netta contraddizione con elementari princìpi della nostra società.

Nemmeno il principio di uguaglianza è un’eredità del cristianesimo. Al contrario. Si presume, invero, che tutti gli uomini sarebbero uguali dinanzi a Dio; sennonché questo assioma dottrinale ha solo offuscato il fatto che, nella storia della Chiesa, proprio il Cristianesimo ha predicato la disuguaglianza degli uomini come decreto divino. Non si trattava di realizzare uguali diritti, bensì di giustificare de facto la realtà esistente. Ogni individuo doveva restare nella condizione in cui il decreto divino lo aveva assegnato, schiavo o padrone che fosse. Protestare, ribellarsi a codesto ordinamento voleva dire insorgere contro Dio.

Per opera della Chiesa, forte dei princìpi stabiliti da Paolo, venne così soffocato attraverso i secoli ogni anelito all’emancipazione. Quando in seguito, per effetto dell’Illuminismo e poi dell’industrializzazione, si manifestarono forze sociali che puntavano ad una effettiva uguaglianza giuridica dei cittadini, queste furono combattute e accusate di eresia dalla Chiesa. Le Chiese si rivelarono veri e propri ceppi frenanti d’una evoluzione i cui risultati sono parte, oggi, del patrimonio fondante d’ogni ordinamento liberale. Del quale è parte rilevante l’equiparazione dei diritti della donna; questi creano ancora non poche difficoltà a molte Chiese, le quali si richiamano ad arcaiche tradizioni pseudodivine.

Alla stessa stregua, la libertà d’opinione è un pilastro della società moderna e, al pari di altri, non è certamente tra i frutti prodotti dalla Chiesa. Tuttavia, il fatto che la maggior parte dei credenti abbia oggi interiorizzato questo valore, deriva nuovamente da un cristianesimo purificato dall’Illuminismo. A ben guardare, la loro fede dovette combattere altre opinioni, come per lungo tempo accadde anche nella storia della Chiesa. Libertà di opinione e di coscienza furono ottenute lottando non solo contro le egemonie politiche, ma anche contro la tenace resistenza delle Chiese. Libertà d’opinione significava nel contempo libertà di religione.

Tutto quanto s’è detto fin qui determina anche un rapporto conflittuale del Cristianesimo col concetto di libertà. Nemmeno la libertà può essere un valore cristiano, dal momento che essa implica la possibilità teorica di potersi decidere anche contro Dio e la Chiesa. Sennonché questa libertà borghese è un peccato teologico. Il concetto di libertà del cristianesimo è logoro e sottile, giacché in realtà non consente e non accetta una libera scelta dell’individuo. Guai a chi fa uso della libertà e non si decide per il Dio cristiano! Costui deve pagare con la vita, e cade vittima dell’eterna dannazione. La libertà autentica ha forme e sembianze ben diverse.

I protestanti fanno volentieri riferimento a Lutero e alle sue battaglie contro il degenerato cattolicesimo romano. Contro quei mali il riformatore accentuò e difese la libertà della fede. Ma si trattò soltanto della sua visione della fede, quella per cui egli rivendicò libertà di coscienza. Contro altri aspetti del Protestantesimo incipiente, Lutero e i suoi successori combatterono accanitamente, limitandosi a sostituire la vecchia dogmatica con un assolutismo di nuovo conio. Con la libertà, intesa in senso moderno, la sua opposizione alla Chiesa di Roma non ha proprio nulla in comune. Lutero non fu un pioniere dell’èra moderna; al contrario, rappresentò piuttosto un regresso nella storia del pensiero; la Riforma protestante, dopo le promettenti avvisaglie liberali dell’Umanesimo e del Rinascimento, annunciò solamente una nuova ripresa dell’ortodossia e della Scolastica.

La Carta Costituzionale tedesca (per esempio) rimarca in luogo prominente all’articolo 1:

« La dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e proteggerla è impegno di qualsiasi potere dello Stato. »
« Il popolo tedesco si riconosce pertanto per i diritti umani invulnerabili e inalienabili come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo. »

La dignità di Dio è esaltata e garantita da tutte le religioni. La dignità umana, per contro, esse non la conoscono. La sua definizione, in sostanza, è una conquista dell’età dei Lumi in Europa. Anche al cristianesimo il concetto di dignità è estraneo, non solo di nome, ma anche nel contenuto. Occasionalmente, l’immagine dell’uomo a somiglianza con Dio (Gen 1:27) viene tirata per i capelli, al fine di codificare nella Bibbia, in qualche maniera, la dignità dell’uomo. Però gli scritti biblici non erano ancora così avanzati da intuire questo tema, assai lontano ancora dal loro campo ottico. Non si può fargliene carico; il problema sta piuttosto nella pretesa di addossare a quegli scritti un compito assurdo: di dover essere significativi ed eticamente preziosi anche per il nostro tempo. L’esatto contrario della realtà.

Dovrebbe ormai risultare evidente quanto poco la nostra società sia costruita effettivamente su fondamenti cristiani. Libertà, uguaglianza, tolleranza, dignità umana, diritti umani, Stato di diritto: questi pilastri basilari d’una società moderna non si trovano affatto negli scritti biblici e nella tradizione cristiana. E non si sono trovati, di conseguenza, neppure durante un millennio e mezzo di storia ecclesiastica. Al contrario, negli scritti biblici s’incontrano di continuo passi che sono in netta antitesi coi valori liberali e moderni. Ci si può anzi rallegrare che la nostra società non sia basata su princìpi cristiani. Fu appunto il superamento d’una visione dell’uomo e della vita improntata in senso religioso a far trionfare quei valori sui quali la nostra società è basata nella realtà.

A che serve ancora il Cristianesimo?

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Il Cristianesimo ha oltrepassato da molto tempo ormai la fase culminante della sua parabola. Come tutte le cose, esso è sottoposto al flusso naturale del divenire e dell’estinguersi. Se al posto suo subentreranno altre religioni, oppure se le società diventeranno globalmente areligiose, noi non lo sapremo mai. Ma è degno di nota, comunque, il fatto che nelle società maggiormente evolute la religione abbia un’incidenza sempre più esigua. E che il bisogno religioso vada calando mano a mano che aumenta nel mondo il livello di istruzione. La religione, per l’appunto, non è qualcosa che faccia parte necessariamente dell’essere uomo; non è una costante antropologica, anche se le Chiese amano coltivare questa suggestiva concezione.

Nella Germania orientale, dopo la caduta del muro di Berlino, non c’è stato nessun ritorno di massa alla religione cristiana. Nelle regioni dell’Est europeo, solo il 26 percento della popolazione appartiene ancora ad una confessione cristiana (EKD-statistica del 2006). Negli anni dell’ex DDR, di molte cose si sentiva la mancanza; tra queste, tuttavia, non c’era palesemente la religione. A riempire il vuoto lasciato dalle Chiese, dopo il crollo dell’URSS, sono subentrate, sia pure in scarse proporzioni, altre organizzazioni ideologiche o movimenti esoterici. E’ evidente che la maggioranza della popolazione ce la fa senz’altro, senza bisogno di stampelle per muoversi. E, nonostante la crescente irreligiosità, non è sorto nessun caos etico, e neppure si è registrato un vuoto di eticità. Nella realtà, che le strutture clericali siano necessarie per la trasmissione dei valori, è soprattutto un pio desiderio delle Chiese stesse.

In Germania, attualmente, appartengono ad una confessione ecclesiastica solo il 63 percento degli abitanti. La quota di quanti partecipano attivamente alla vita chiesastica è estremamente esigua. Ogni domenica, quasi tutti i parroci predicano dinanzi a banchi vuoti. Entro 10–20 anni, la massa dei non religiosi costituirà più della metà della popolazione. Quali durevoli sostegni delle Chiese si palesano, in Occidente, non tanto convinzioni personali di fede ed autentica religiosità, quanto piuttosto un sistema di tasse ecclesiastiche, sostenuto dallo Stato, ed una certa mentalità tradizionale. Ossia il sentimento diffuso che l’educazione cristiana sarebbe in qualche modo significativa per la formazione della personalità, o come fondamento della società, ed in più la sensazione che l’istruzione religiosa “non possa far male” se bambini e ragazzi vengono in contatto con essa, ancorché i rispettivi genitori non siano più religiosi.

Eppure gli ultimi capitoli di questo mio testo hanno mostrato che anche l’apporto etico del cristianesimo è oggi piuttosto marginale, e sopravvalutato sia da cristiani sia da non cristiani. Non c’è bisogno del cristianesimo per vivere in maniera responsabile. Che i fondamenti del cristianesimo siano inconsistenti, e che non esista alcun vero rapporto tra l’apocalittico Gesù e la Chiesa venuta dopo di lui, è stato messo in chiara evidenza, al pari delle astrusità e fantasticherie d’una dogmatica primitiva, medioevale e addirittura contemporanea, che si richiama falsamente a quel Gesù. Sono trame eteree, arabeschi d’aria: tutte cose che non funzionano. Troppo palesi sono le insufficienze storiche, troppo governato dal desiderio l’edificio dogmatico della Chiesa, troppo impotenti i tentativi moderni di salvare il salvabile. Un edificio di questo genere deve crollare, alla stessa stregua di tutte le concezioni globali, sia ideologiche sia religiose, esistite fino ad oggi.

E per il singolo credente non si tratta più di fede o miscredenza (ovvero di due possibili varianti d’una scelta personale), bensì soltanto di avere la forza di trarre anche conseguenze personali da una concezione del mondo diventata palesemente insostenibile; oppure, in alternativa, di volere continuare a credere, con religiosa ostinazione, come ha fatto fino ad oggi. Avrà mai il coraggio di optare per una sobria realtà, rinunciando ad un finzione fin troppo bella?