Utente:Monozigote/sandbox9

G & G

Gesù di Nazareth: un figlio di Dio demistificato

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Il silenzio delle fonti

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Immagina: un Dio viene al mondo e nessuno se ne accorge. In questi termini, grosso modo, si può sintetizzare l’esito conclusivo, quando si prendano in esame le fonti non cristiane che riferiscono di Gesù e dei primi cristiani. Di Gesù, praticamente, gli storiografi antichi non hanno nessuna notizia. Il fatto che qui, come la Chiesa avrebbe poi fissato per tutti come dogma di fede, un Dio sia diventato uomo e sia morto per i peccati dell’umanità … ebbene, nel primo secolo, sembra che nessuno di loro lo avesse notato. O gli storici romani non ebbero alcuna notizia riguardante Gesù, oppure ritennero quegli eventi troppo insignificanti per darne notizia. Per loro, Gesù era, nella migliore delle ipotesi, uno dei tanti maestri “portatori di salvezza” tipici del Medio Oriente, sulla cui prolifera molteplicità i Romani colti scuotevano la testa spazientiti.

Nei suoi Annali, solo intorno all’anno 117, Tacito viene a parlare dei cristiani. Li caratterizza come seguaci d’una “perniciosa superstizione” che sarebbe arrivata fino a Roma “dove tutte le nefandezze e le cose vergognose confluiscono da tutto il mondo e vengono praticate (Annali 15,44,3). Per lui, Gesù altro non è che un malvivente. E rammenta soltanto la sua esecuzione sotto Pilato. Anche Svetonio, il secondo grande storico di Roma, menziona i cristiani solo di passaggio e, anche lui, in modo poco lusinghiero. E sembra inoltre non distinguere affatto tra loro e i Giudei, quando scrive: “I Giudei, che erano sobillati da un certo Cresto e provocavano continuamente sommosse, egli [l’imperatore Claudio] li fece scacciare da Roma.” (Vita di Claudio 25,4). In seguito, Svetonio definisce i cristiani (Vita di Nerone 16, 326) come una nuova perniciosa superstizione, come una setta criminale, il cui fondatore è già stato giustiziato.

Ebbene, può essere che per gli storici romani, gli avvenimenti al confine estremo dell’Impero fossero semplicemente irrilevanti, non meritevoli di informazione. Sennonché anche nello storico ebreo più importante, presso Giuseppe Flavio, nella sua Storia della guerra giudaica, composta nell’anno 77, non si trova alcun accenno a Gesù. Il che è tanto più sconcertante in quanto Giuseppe si diffonde dettagliatamente sui fatti antecedenti alla guerra e sulla storia del popolo ebraico nel suo insieme, ricordando e descrivendo minuziosamente anche raggruppamenti religiosi, come ad esempio la setta degli Esseni. Vi vengono descritti anche Giovanni il Battista e il suo destino.

E neanche una parola su Gesù? Secondo la tradizione cristiana, Giovanni il Battista viene senz’altro inteso quale precursore di Gesù, o almeno sono i Vangeli a rappresentare questa opinione. In Giuseppe Flavio, quindi, non sarebbe necessario che fosse Gesù, invece del Battista, ad essere menzionato? Macché, neanche per sogno! Il teologo Bornkamm osserva “che la storiografia contemporanea, nella misura in cui conobbe qualcosa di Gesù, giudicò la sua attività pubblica tutt’altro che come un evento epocale, qualcosa degno di nota.” (Günther Bornkamm, Jesus von Nazareth, 1971, S. 25)

Eppure si trova in Giuseppe Flavio almeno un piccolo accenno a Gesù, che tuttavia non basta per correggere efficacemente la penosità del documento delle fonti. Nelle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, scritte negli anni 93–94, quindi 17 anni dopo la Storia della guerra giudaica, e oltre 60 anni dopo la morte di Gesù, questi viene citato per nome, sempre solo indirettamente, cioè nella lapidazione di Giacomo, fratello carnale di Gesù. Nella comunità primitiva, questo fratello del Signore, Giacomo, ricopriva una posizione direttiva, e fu ucciso nel 62 per istigazione del sommo sacerdote Anano.

« Egli radunò pertanto il Grande Consiglio per il giudizio. e presentò ad esso il fratello di Gesù, che viene chiamato Cristo, di nome Giacomo, come pure altri ancora che egli accusò di violazione della Legge, facendoli condannare alla lapidazione. »
(Flavio Giuseppe, Antiquitates XX 9,1)

Giuseppe menziona Gesù solo perché vuole far sapere di Giacomo e dell’esecuzione di lui, dal momento che questi era altamente stimato anche dagli ebrei ortodossi. E che ne è di Gesù? E’ stato anche lui vittima d’una esecuzione? Giuseppe Flavio sembra non avere interesse per lui... eh già, non è possibile, neanche in qualità di storico, preoccuparsi di tutto!

Ancora più strano che in Giuseppe Flavio, il silenzio su Gesù risulta nello storiografo ebraico Giusto di Tiberiade. Anche questi non fa menzione di Gesù, sebbene Giusto provenisse dalla Galilea, al pari di Gesù, non solo, ma operasse addirittura in Tiberiade, non lontano da Cafarnao, luogo prediletto da Gesù. Forse non conobbe Gesù? Non ne fece menzione di proposito? Non lo sappiamo. Della sua opera, conosciuta ancora da alcuni Padri della Chiesa, non si è conservato nulla. Nemmeno dall’erudito e filosofo ebreo Filone di Alessandria è tramandato alcunché su Gesù, quantunque fossero praticamente contemporanei, e sebbene Filone fosse non solo grande conoscitore della filosofia, ma altresì delle sétte ebraiche. Filone dà notizie dettagliate sugli Esseni, ma in nessun momento menziona Gesù e Paolo.

Pertanto Giacomo, il fratello di Gesù, come già Giovanni il Battista, è documentato da fonti non cristiane meglio di Gesù stesso. Avendo consapevolezza di questa realtà delle fonti, ecco: c’è da meravigliarsi che si sia posta la domanda, nei due secoli ultimi, se questo Gesù fosse poi realmente vissuto? Se non sia, nel suo complesso, un prodotto della fantasia, un personaggio semi-mitologico, o tutt’al più la materializzazione di idee e aspirazioni religiose in circolazione? Nessuna parola di Gesù, neanche un’azione, che sia ricordata da fonti “indipendenti”? Senza dubbio è molto penoso, per le Chiese cristiane, che di questa svolta rivoluzionaria (secondo una sensibilità teologica), di questa sedicente “irruzione di Dio” nella storia del mondo, non si fosse presa nemmeno conoscenza. Non fa meraviglia, quindi, che cristiani di epoche successive inserissero nel testo di Giuseppe Flavio il cosiddetto Testimonium Flavianum: una glossa cristiana falsificata, arrangiata peraltro piuttosto goffamente.

A questo punto, comunque, converrà qui premettere che oggi non si dubita più della (pura e semplice) storicità di Gesù. Nessuno storico singolo mette in discussione che Gesù sia realmente vissuto. Per la verità, ci si deve confrontare con testimonianze esclusivamente cristiane, in base alle quali ci si deve confrontare in misura elevata con impronte soggettive. Ma che cos’altro ci rimane? Se vogliamo conoscere qualcosa su Gesù, possiamo attenerci unicamente agli scritti del Nuovo Testamento.

La lunga marcia verso i Vangeli

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Ad un primo sguardo, ciò può sembrare persino molto promettente, ma per la ricerca si è rivelato sempre più problematico. Tutti gli scritti del Nuovo Testamento ci sono stati tramandati in lingua greca. Gesù, però, parlava aramaico. Le sue parole tramandate sono dunque tradotte. Non esiste, di conseguenza, una sola parola di Gesù veramente autentica. Per di più, non c’è nessun testo originale, ma solamente copie di copie, i più antichi frammenti delle quali risalgono nel migliore dei casi al II secolo. I testi tramandati presentano innumerevoli varianti testuali, che la critica testuale cerca faticosamente di tenere distinte le une dalle altre.

Oltre a ciò, tutti gli scritti neotestamentari (compresi i primi tre Vangeli), sono testimonianze di fede, e non cronache storiche, anche se, leggendo per esempio l’avvolgente prologo introduttivo al vangelo di Luca, si potrebbero ipotizzare cose diverse. Anche i Vangeli servono alla trasmissione della fede e all’indottrinamento dei neo-convertiti; spiegano la comunione, cioè il pasto serale cristiano delle origini, trasmettono “conoscenze” precocemente teologiche, e sono scritti da uomini convinti della verità dell’insegnamento di Cristo. Non ci si dovrebbe attendere da essi nessun tipo di obbiettività, mentre si dovrà mettere nel conto una certa quantità di convinzioni maturate in maniera soggettiva.

Si aggiunga inoltre che solo in uno stadio successivo si giunse alla fissazione di azioni e parole di Gesù. In precedenza, v’era stata già una tradizione orale protratta per decenni. Lo svolgimento, presentato nei Vangeli, che inizia con la comparsa o con la nascita di Gesù, finendo con la sua crocifissione e la sua risurrezione, induce il lettore a credere soltanto in una progressione di eventi. I Vangeli non sono biografie nel senso moderno, bensì una collezione disordinata, o quantomeno non più coincidente con uno svolgimento: un assemblaggio di singole azioni, discorsi, episodi ed incontri. Prima della redazione scritta, c’era stata soltanto una tradizione orale su Gesù, protrattasi per parecchi decenni. Probabilmente fu solo Marco, in effetti, a creare una narrazione coerente, fondando così il genere letterario dell’evangelium.

La tradizione orale era tuttavia composta di narrazioni ancora isolate, e consisteva nel tramandare parole spesso prive di contesto. Si narravano singoli prodigi ed esorcismi, vocazioni di discepoli, avvenimenti della sua passione. Evidentemente, l’evangelista Marco (restiamo su questo nome, benché sia fittizio), o un altro prima di lui, raccolse queste tradizioni, cucendo insieme storie e parole già in circolazione, e dandone una prima sequenza cronologica. Solo l’evangelista crea in questo modo (come ha accertato il teologo C. Ludwig Schmidt) la cornice della storia di Gesù, collegando le singole storie in una sequela progressiva di eventi, cercando di unire le notizie biografiche e di dare una collocazione coerente a racconti e parole. Marco crea dunque il canovaccio spaziale e geografico. Se ci si chiarisce il fatto della tradizione orale, diventa evidente come sia assolutamente incerto in quale occasione Gesù avesse pronunciato quali parole, quando e dove avesse compiuto quale azione, e quale fosse la concatenazione degli avvenimenti. Per questo motivo la ricerca neotestamentaria non prende le mosse da un Vangelo nella sua interezza, ma dai singoli episodi della tradizione.

Già nella tradizione orale potrebbe essere incominciata la formazione delle leggende, forse mentre Gesù era ancora in vita. Sicché tradizione orale e scritta procedettero sicuramente in modo parallelo ancora per decenni. In questo periodo, gli accadimenti vennero massicciamente ingranditi. Nelle agiografie del cristianesimo primitivo e del Medioevo, si può bene studiare questo progressivo ingigantirsi nel fantastico; e già nei Vangeli stessi lo si può ravvisare con chiarezza. E dove si dice che Dio stesso interviene negli accadimenti, la fantasia non ha più bisogno di trattenersi: l’incredibile, allora, viene recepito a maggior ragione come espressione del divino.

Sono molti i passi in cui la ricerca neotestamentaria ha stabilito che non solo si era reinterpretato ed esagerato, ma che per giunta si erano inventate cose in dimensioni enormi. In tutto il mondo nelle chiese, ogni domenica, si raccontano miracoli che Gesù non fece mai, e si specula su detti mai pronunciati da lui. A teologi e parroci locali questo fatto è sovente chiarissimo, diversamente che a molti membri della comunità. Ciò nondimeno lo fanno, offrendo alla comunità che li ascolta norme di vita che sono state in larga misura distillate da storie inventate.

La formazione di leggende intorno a Gesù, quale presunto figlio di Dio, si accrebbe rapidamente fino all’assurdo. In breve tempo furono in circolazione racconti, in cui egli fin da bambino trasforma pietre in pane, oppure plasma con l’argilla dei passeri, che poi rende vivi e saltellanti. A poco a poco, la tendenza divenne eccessiva anche per molti cristiani, nonostante tutta la fiducia nell’attività taumaturgica del loro Maestro. Scrittori pagani del II e III secolo incominciarono a prendersi beffe dei grossolani racconti miracolosi, dei portenti che si andavano diffondendo. La Chiesa nascente si vide perciò costretta a separare la pula dei vangeli fantasiosi dal presunto grano dei vangeli attendibili.

La teoria delle due fonti

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Quando Marco, primo evangelista, sottese il canovaccio della storia di Gesù, questo fu in lui un lavoro di costruzione. Solo in parte, Matteo e Luca fecero propria questa costruzione ambientale, trasformandola però anche in molti passaggi. Ciò riguarda persino passi centrali dell’annuncio cristiano, come il cosiddetto Sermone della Montagna in Matteo (5-7) che, nella sua forma odierna, è una creazione dell’evangelista stesso, e che non ebbe mai luogo. Matteo ricompose in una predica una serie di parole gesuane, che probabilmente stavano in tutt’altro contesto, mettendo così in bocca al suo Signore anche una serie di idee e parole sue personali.

Marco, Luca, e anche il vangelo di Giovanni, non conoscono il famoso Discorso della montagna. Il Vangelo di Matteo consta, per il 60 percento, di racconti mutuati da Marco. Vedremo ancora chiaramente che, proprio per quest’unica gradazione, le tendenze del patrimonio tramandato sono state già cambiate fortemente; e questo sebbene il vangelo di Marco – come la ricerca neotestamentaria oggi ha stabilito – debba essere stato presente in forma scritta all’evangelista Matteo. Si può solo supporre quanto i cambiamenti debbano essere stati sfrenati, quando la notizia di Gesù veniva propagata solo passando di bocca in bocca.

Oltre al vangelo di Marco, davanti a Matteo e Luca c’era palesemente una seconda fonte, oggi perduta, che si può tuttavia ricostruire in qualche misura desumendola dai vangeli di Matteo e Luca. Si tratta della Logienquelle Q – la “logia”, o discorso riportato –, giacché questa fonte conteneva in prevalenza discorsi di Gesù e non presentava, manifestamente, nessuna storia della passione. Inoltre, Matteo e Luca impiegano qualche peculiarità, la cui provenienza è perlopiù oscura, ma che in alcuni casi, sulla base di somiglianze nella scelta delle parole e delle visioni teologiche, è da riconoscere come invenzione degli stessi evangelisti. Nel vangelo di Luca, questo contenuto speciale costituisce quasi il 50 percento, nel vangelo di Matteo circa il 30 percento.

Il lettore medio della Bibbia ama vedere il Nuovo Testamento come una unità, ed è incline ad armonizzare quanto vi è descritto. Lo storico, invece, vede in ogni libro del NT una fonte autonoma. Lo studioso s’interessa in particolare per le differenze nell’ambito delle tradizioni. Un testamento nuovo, nel senso vero e proprio del termine, per lui non esiste: c’è soltanto una raccolta di fonti più o meno valide per la storia del cristianesimo primitivo. Di esso possono far parte anche scritti che non ce l’hanno fatta ad essere assunti nel Canone. Il Vangelo di Tommaso, scoperto solo nel 1945, contiene alcune parole autentiche di Gesù, finora sconosciute, ma per la verità anche poco spettacolari.

E’ un principio basilare della ricerca storica che fonti più antiche siano, di regola, più affidabili, migliori di fonti più recenti; e che pertanto il vangelo di Marco, rispetto a quelli di Luca e Matteo, e tanto più rispetto al vangelo di Giovanni, debba avere la precedenza. Anche testi posteriori, tuttavia, possono essere interessanti, potendo rendere evidenti almeno certe tendenze nella tradizioni; così, ad esempio, quando la persona di Gesù viene sempre più idealizzata, la sua attività miracolistica, ossia la tendenza taumaturgica, è descritta in maniera sempre più grandiosa. I suoi discepoli assurgono lentamente al rango di santi, quando nascono idee teologiche, che non erano ancora esistite nei testi più antichi, oppure quando vecchie idee si trasformano.

Il disinteresse di Paolo

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Noi ne sapremmo di più sul Gesù vissuto sulla terra, se Paolo non avesse taciuto così ostinatamente sulla sua persona. In realtà, gli scritti più antichi del NT non sono affatto i Vangeli, bensì le Epistole di Paolo; in ogni caso, quelle che la ricerca ha riconosciuto come lettere autentiche di Paolo. In queste lettere, tuttavia, si trovano a malapena i fatti riguardanti la vita del Gesù storico. Perché Paolo – così scrive egli stesso – non era per nulla interessato al Cristo “secondo la carne”, ossia al Gesù terreno: a lui stava a cuore unicamente il Signore sublimato. In effetti, Paolo non fu personalmente testimone oculare degli avvenimenti, essendo giunto a Gerusalemme per la prima volta non prima dell’anno 35. E certamente si comprende il malumore dell’autore neotestamentario.

Se non si fosse dimostrato tanto disinteressato, Paolo avrebbe certamente usato i suoi contatti con la comunità primitiva e coi discepoli di Gesù, magari soltanto per avere più notizie riguardanti la vita di Gesù; oppure avrebbe fissato il ricordo di quanto sapeva in una delle sue Lettere. Sicuramente, noi avremmo oggi informazioni maggiori e più attendibili sull’uomo Gesù, sulle sue intenzioni e sui suoi detti. Paolo sarebbe potuto diventare il testimone chiave per il Gesù della storia, dato che pur sempre intercorrono 20–25 anni tra la morte di Gesù e le sue Epistole. Non si sarebbe potuto aspettarsi che le sue lettere avrebbero parlato costantemente del passaggio terreno del suo Signore?

Ma no, Paolo tace e, anziché parlare di quella realtà, rimanda alla memoria del Signore ormai sublimato. Bisognerà supporre che la sua immagine del Gesù terreno fosse ancora più sobria e spassionata di quella che ci viene presentata nei Vangeli neotestamentari. Infatti, se si riavvolge all’indietro la linea, dai prodotti evangelici di fervida fantasia cristiana del II e III secolo fino a questi Vangeli ancora più sobri, allora ciò che Paolo avrebbe avuto da dire sul Gesù terreno sarebbe stato molto più povero di gesta portentose e di splendori. Perciò, non è forse soltanto un argomento teologico di Paolo, il fatto di ribadire che gli sta a cuore unicamente il Gesù trasfigurato? Paolo ha fatto dunque di necessità virtù, dal momento che la vita del Gesù storico non era stata poi così degna di essere raccontata?

Fonti dubbie su Gesù: i Vangeli

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Paolo va dunque tolto di mezzo, quando vogliamo apprendere qualcosa di più sul Gesù storico. Come fonti storiche, in buona sostanza, ci restano soltanto i Vangeli, di cui i primi tre (Marco, Matteo e Luca) sono definiti sinottici, giacché formano una certa veduta d’insieme sulla vita di Gesù, differenziandosi dal vangelo di Giovanni. Tra i ricercatori del Nuovo Testamento c’è concordia sul fatto che Marco è il vangelo più antico. Venne composto intorno all’anno 70, quindi circa 40 anni dopo la morte di Gesù. Gli estensori del vangelo di Luca e Matteo ebbero presente ai loro occhi lo scritto di Marco, adoperandolo come fonte, ed inoltre almeno la succitata Logienquelle Q: la fonte dei detti sinottici, anch’essa disponibile in forma scritta, ma che non conteneva alcuna storia della passione. Di regola, la nascita dei vangeli di Luca e Matteo si colloca negli anni Novanta del primo secolo.

I Vangeli vennero tramandati sotto forma anonima. I nomi degli evangelisti (Marco, Matteo, Luca e Giovanni) sono leggendari: i testi stessi non presentano, in nessun luogo, un nome dell’autore. Le attribuzioni corrispondenti vennero fatte solo alla fine del II secolo, ottemperando al comprensibile desiderio delle generazioni successive di dare un nome ed una paternità ai testi tramandati sotto forma anonima. La ricerca neotestamentaria è unanime nel ritenere che neanche uno dei vangeli risalga ad un testimonio oculare, o che sia d’un discepolo diretto di Gesù, anzi, che persino tutti avessero presumibilmente origine fuori dalla Palestina. Ciò che si sa riguardo al Gesù storico, si deve pertanto ricostruire faticosamente sulla base di scritti che furono composti tra i 40 e gli 80 anni successivi alla sua morte, e che pertanto, prima di essere messi per iscritto, avevano dietro di sé una lunga tradizione orale.

Fonti precedenti, come ad esempio le Epistole autentiche di Paolo, non dicono nulla sul Gesù della storia. I successivi vangeli apocrifi, epistole e storie degli Apostoli, sono completamente intessuti di elementi leggendari e favolosi, praticamente inutilizzabile ai fini d’una ricostruzione storica. Fonti non cristiane, d’altronde, non esistono. E’ una miseria fondamentale della teologia il fatto che essa non sia basata su fondamenta sicure, bensì che si richiami (e non possa non richiamarsi) ad una tradizione che è tutt’altro che sicura, tutt’altro che fondata, come sarebbe opportuno. I successivi imponenti castelli dogmatici della Chiesa sono – per la storia della tradizione – costruiti sulla sabbia: una “licenza di costruzione” che non si sarebbe mai dovuta concedere. Una cognizione, questa, che non proviene da studiosi anticlericali o atei. La teologia stessa, più di tutti la ricerca neotestamentaria, lo ha accertato e documentato in molte maniere.

Pie frodi perpetrate “per la maggior gloria di Dio”

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Già in Paolo

Al pari di molte altre religioni, anche il cristianesimo si presentò, subito dopo la sua nascita, con la pretesa di essere l’unica vera religione. Il Cristo giovanneo definisce se stesso (per dire il vero in una citazione non storica) addirittura come la verità in persona (Giovanni 14:6). Tanto più stupefacente è constatare quali mezzi e quali vie furono consentite per propagare questa pretesa di verità. Se si trattava di condurre più gente alla fede in Cristo, era permesso senz’altro mettere in pratica anche frodi devote, vale a dire truffe e menzogne vere e proprie. Già nell’apostolo Paolo il rapporto con la verità è assai problematico per orecchi moderni, quando nell’epistola ai Romani egli scrive: “Ma se la verità di Dio abbondò nella mia menzogna, risplende di più per la sua gloria, perché anch’io sono giudicato ancora come peccatore?” (Romani 3:7)

Che importanza può avere (e così si può comprendere Paolo), se si menta oppure si dica la verità, purché alla fine si raggiunga lo scopo dell’esaltazione di Dio? Può dunque la menzogna essere peccato? Per Paolo essa non lo è: non lo è, in ogni caso, quando si tratti di annunciare Cristo. Allora, è chiaro, tutti i mezzi sono buoni. L’autorevolissimo predicatore Giovanni Crisostomo, già nel mondo antico celebrato come dottore della Chiesa e dichiarato nemico degli Ebrei, considerato patrono dei predicatori, si schiera addirittura in favore della necessità della menzogna, qualora ne vada della salvezza delle anime. (Sull’intera tematica si veda Karlheinz Deschner, Abermals krähte der Hahn/Il gallo cantò ancora, ed. it. p. 24). Anche secondo il padre della Chiesa Origene, per lungo tempo prestigioso padre della Chiesa, era lecito applicare frode e menzogna come strumenti per la salvezza. Persino Dio può mentire per amore. E non fu solo nei padri della Chiesa, ma già negli scritti essenziali del cristianesimo, nel Nuovo Testamento, che la verità fu manipolata senza troppi scrupoli.

Nomi inventati di autori

Così oggi, nella scienza neotestamentaria, si giudica dimostrato il fatto che molti scritti recano un nome d’autore falso, e sono quindi pseudoepigrafici ovvero, per dirla più sciattamente, sono semplicemente falsificati. Così, nel Nuovo Testamento, sono considerate false alcune epistole di Paolo, per esempio la Lettera II ai Tessalonicesi, la lettera agli Efesini e ai Colossesi, nonché le Lettere a Timoteo e a Tito. Tutt’e due le lettere di Pietro, nel NT, sono dei falsi, e non sono di Pietro più di quanto le lettere di Giacomo e di Giovanni siano state scritte realmente dai primi apostoli Giacomo e Giovanni.

Nel mondo antico era per molti aspetti consuetudine che gli scrittori facessero circolare i loro scritti sotto falso nome, qualora essi stessi non si ritenessero abbastanza autorevoli. Tale procedimento aveva successo, quando si pensi che, in questo modo, le falsificazioni riuscirono ad entrare persino nel NT. Già nell’antichità si sapeva di tali falsificazioni. Tant’è che gli scritti pseudepigrafici oltrepassano di molte grandezze le dimensioni del NT. Non esistevano quasi personaggi eccellenti dei quali non circolassero scritti falsificati. Di Pietro, a mo’ d’esempio, esistono un presunto vangelo ed una apocalisse. Di altri si conoscevano ulteriori storie degli apostoli, epistole e altri vangeli. Molti di quegli scritti furono tenuti in alta considerazione dalla patristica dei primi secoli, e solo più tardi furono espunti e cancellati dalla letteratura ecclesiastica.

Falsificazioni nei Sinottici

Ora, sarebbe assai ingenuo ipotizzare che negli scritti del NT si trovi la verità, oppure che, come la Chiesa ha affermato per lungo tempo, lo Spirito Santo abbia provveduto a che nel Canone neotestamentario sia presente solo pura teoria. Purtroppo, anche negli scritti neotestamentari si trova, spesso all’ordine del giorno, tanta pia frode per la maggiore gloria di Dio (pia fraus ad maiorem Dei gloriam), sebbene non così impudente e sfacciata come negli scritti posteriori. E’ un caso fortuito che noi possiamo studiare, nei vangeli sinottici, come gli evangelisti manipolassero il materiale a loro disposizione. Avessimo un unico vangelo, non potremmo dire granché in proposito.

Soprattutto confrontando ciò che Luca e Matteo hanno fatto della presentazione di Marco, per lo storico che indaga (ma anche per i cristiani critici), ne vengono risultati spaventosi. In centinaia di passi, Luca e Matteo hanno migliorato il progetto di Marco non solo linguisticamente, completandolo, spostando e ricomponendo gli elementi, ma guarnendolo altresì di inediti accenti, e fregiandolo di differenti orientamenti teologici. In più, dalla penna degli evangelisti vengono aggiunti senza scrupoli nuovi detti e nuove gesta di Gesù, mentre altri vengono espunti. Quanti mutamenti in un unico livello della tradizione, e per giunta su una presentazione scritta! Lo storico inorridisce nell’immaginare soltanto quale cambiamento deve aver subìto la tradizione di Gesù già nel tramandarsi di bocca in bocca.

Variazioni e cambiamenti vennero introdotti con la massima naturalezza. In nessun momento si ha l’impressione che gli evangelisti, nel loro fare e disfare, avessero provato scrupoli di sorta. Rispetto alle fonti, avvedutezza e cautela nel tramandare – virtù basilari d’uno storiografo moderno – si cercano invano nei devoti autori della Chiesa primitiva. Si ha piuttosto l’impressione sconcertante che agli evangelisti stesse a cuore non tanto la precisa documentazione su Gesù, quanto invece l’illustrazione della loro personale teologia, presentata avvalendosi delle parole gesuane. In realtà, non ci si faceva scrupoli di aggiungere inventando, oppure di espungere motti e detti di Gesù, qualora ciò sembrasse opportuno. Timore, o addirittura riverenza per le parole di Gesù, sono ancora oggi, in molti devoti ambienti biblici, un sentimento profondo. Si operavano cancellazioni, si aggiungeva, si correggeva abbellendo o sdrammatizzando, si davano interpretazioni, teologizzando e ricostruendo. Gli evangelisti furono, insomma, più creatori che custodi conservatori, e le loro opere più predicazioni che biografie.

Giovanni: un vangelo intero come poesia devota

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Il vangelo di Giovanni si differenzia nettamente dai tre vangeli più antichi per quanto concerne struttura, linguaggio e contenuti logici. Qui si trovano, oltre ai lunghi discorsi di Gesù, anche molte idee teologiche che divergono dai vangeli sinottici. E qui, per di più, si trovano alcuni dei passi più belli per chi legge la Bibbia (Io sono la via, la verità, la vita (Giovanni 14:6), Io sono il buon pastore, il buon pastore dà la vita per le sue pecore (Giovanni 10:11), i quali resero il vangelo giovanneo il più bello non solo per Lutero e Kierkegaard, ma anche per i teologi Rudolf Bultmann e Karl Barth.

Eppure i discorsi del vangelo di Giovanni (è questo il giudizio unanime della ricerca neotestamentaria) sono considerati, nella sostanza, libere creazioni del quarto evangelista. Non hanno nulla (o appena qualcosa) a che fare con l’effettivo annuncio di Gesù. Lo si riconosce facilmente dal fatto che discorsi e passaggi di questo vangelo – grandiosi dal punto di vista cristiano – erano semplicemente sconosciuti agli evangelisti precedenti. Se costoro li avessero conosciuti, i tre sinottici li avrebbero presentati, senza accontentarsi del magro e scontroso materiale tramandato e delle invenzioni ancora goffe, se paragonate col vangelo di Giovanni. Una proposizione come Io sono la risurrezione e la vita (Giovanni 11:25), non sarebbe stata in nessun caso dimenticata né dai suoi discepoli né dai loro successori, e sarebbe stata inclusa senz’altro nei vangeli sinottici.

Questo in ogni caso, qualora Gesù l’avesse pronunciata per davvero. Il fatto che una frase siffatta compaia solo nell’anno 100, proprio nel Vangelo di Giovanni, la rivela (e con essa oltre il 95 percento della tradizione di questo evangelista), smascherandola come una tardiva creazione: e quindi, dalla prospettiva di oggi, come un falso vero e proprio. Per Rudolf Bultmann, il massimo studioso neotestamentario del XX secolo, il Vangelo di Giovanni, per quanto egli lo apprezzi personalmente, “non viene affatto in questione” quale fonte dell’annuncio di Gesù. (Rudolf Bultmann, Theologie des Neuen Testaments p. 418). E la teologa Luise Schottroff prende atto che in esso “quasi nessuna parola è di Gesù.” (cfr. FAZ del 19/9/1971, l’articolo Ist die Mainzer Theologie noch christlich?//La teologia di Magonza è ancora cristiana?, di Kurt Reumann).

Da questo punto di vista, il vangelo di Giovanni è di gran lunga il falso più impudente di tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Qui, di fatto, un vangelo intero è apparso in gran parte frutto di libera immaginazione. Eppure anche negli Atti degli Apostoli, i discorsi riferiti da Luca, per esempio quelli di Pietro (ed in ciò sono largamente concordi i ricercatori neotestamentari), sono libere creazioni degli evangelisti. Karlheinz Deschner richiama l’attenzione sul fatto che questi discorsi fittizi costituiscono quasi un terzo degli Atti degli Apostoli, e che del loro autore (Luca, secondo la leggenda) più di un quarto deriva dal testo del NT. (Deschner, op.cit, tr.it. Il gallo cantò ancora, Massari 1998, p. 47)

Queste conoscenze, risultati della ricerca neotestamentaria, non impediscono in nessun modo a chiese e parroci di usare disinvolta- Giovanni: un vangelo intero come poesia devotamente per le loro prediche anche il vangelo di Giovanni, dimostrando così, come già i loro antichi predecessori, la presunta verità del Vangelo a forza di citazioni falsificate. Si obbietta, a buon diritto, che non si dovrebbero tenere questi testi antichi sulla corda della moderna coscienza critica. Questi testi – così si sente dire da ogni parte da teologi di tutte le confessioni – mirano soprattutto ad annunciare Cristo, il Signore crocifisso e risorto.

Non sono dunque documenti storici, bensì testimonianze di fede. Certo è che le Chiese non hanno parlato in questi termini sempre, ma solo quando anch’esse dovettero ammettere che non si può prendere ogni parola del Signore per oro colato. Sul fatto che si impieghino e utilizzino parole manifestamente false di Gesù come testimonianze di fede, le Chiese stesse potrebbero fare finalmente chiarezza. Increscioso è solo che, con ciò, anche molte parti dei Vangeli siano escluse come fonti in ordine alla questione: chi fu in realtà Gesù, e cosa voleva? Sicché anche per i cristiani rimane assai inquietante il fatto che, nel Nuovo Testamento, si debba fare i conti con scritti che con la verità – a dir poco – non vanno tanto per il sottile, e per i quali è del tutto indifferente se questa o quella parola di Gesù sia davvero autentica, o se sia scaturita solamente dallo stato d’animo soggettivo di un’anima bella.

Chi pone la domanda su quali passi neotestamentari – di fronte a tanto disinvolto rapporto con la verità storica – si possa finalmente ancora scommettere, di quali ci si possa fidare, ebbene, costui ha riconosciuto la portata del problema. Giacché anche nei Sinottici si trovano molte parole che Gesù non ha pronunciato, molte azioni che non ha commesso. Per cui ampie parti dei commenti esegetici consistono oggi in questo: la storicità dì una tradizione è da approfondire, da verificare o da respingere?

E poiché la scienza storica non è una scienza esatta, siccome i giudizi storici non possono mai essere dimostrati al cento per cento, ma tutt’al più essere attestati quanto basta, ebbene, tra gli esegeti neotestamentari non c’è spesso unanimità riguardo alla storicità d’una tradizione. Concordi si è, tuttavia, nel riconoscere che si ha da lavorare con molto materiale di seconda mano, dovunque i confini si snodino concretamente, anche nel caso singolo. Una fede in larga parte ingenua nelle Scritture, come Lutero e i riformatori difesero in parte (e come oggi soprattutto gruppi evangelici in senso popolare amano rappresentare), non è ammissibile per motivi di onestà intellettuale: tanto quanto un fare ricorso alla tradizione, assecondando la prassi del cattolicesimo.

Gli scritti che avrebbero formato in seguito il Nuovo Testamento aumentarono a poco a poco il loro prestigio e la loro diffusione. E quantunque non mancassero, specialmente nel corso del II secolo, parecchi scrittori, anche cristiani, ad esprimere francamente dei dubbi, per esempio sulla serietà del vangelo di Giovanni, non se ne trova più traccia in epoche successive. Scritti ritenuti in passato controversi si andarono trasformando in Scritture Sacre: il Canone neotestamentario fu visto ora, nel suo complesso, esente da errori e ispirato dallo Spirito Santo. E così rimase fino a molto tempo dopo la Riforma protestante. Con l’ascesa dell’Illuminismo e con la nascente passione e comprensione della storia, si cominciò ad occuparsi anche degli scritti neotestamentari, cercando di leggerli non più con animo dogmatico, ma secondo un’ottica storicistica. Nacque allora, in Germania, la ricerca sulla vita di Gesù, la cui storia Albert Schweitzer ha descritto nel suo capolavoro teologico.

Ricerche vecchie e nuove sulla “vita di Gesù”

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Con slancio e ottimismo si affrontò l’impresa di portare alla luce chi questo Gesù fosse stato nella realtà del suo tempo. Si voleva vederlo come fu veramente, liberato dalle pastoie della dogmatica. E il compito sembrò risolvibile. Smantellando strato dopo strato tutto quanto era trasmesso dalla tradizione, si sarebbe dovuto – così si credeva – penetrare fino al nucleo della storia. Il personaggio Gesù sarebbe apparso tale quale era vissuto realmente. E le fonti, ciò era chiaro, non potevano essere che i tre Vangeli sinottici. In essi doveva palesarsi il Gesù storico. Così il futuro medico a Lambarene e teologo Albert Schweitzer, nella sua Geschichte der Leben-Jesu Forschung (1913)//Storia della ricerca sulla vita di Gesù, descrive i molti tentativi da parte di teologi di impossessarsi del Gesù della storia, dovendo però, alla fine, constatare il fallimento di quei tentativi. Il Gesù storico non si lascia più riportare alla luce, e i tentativi dei teologi non fanno che rispecchiare fin troppo le loro stesse attese.

I Vangeli gettano, tutt’al più, una luce assai torbida su quanto, laggiù, accadde veramente 2000 anni or sono. Già i Vangeli sinottici si sono rivelati talmente imbevuti di prove di fede della comunità, che il Gesù reale si faceva ancora intravvedere, nel migliore dei casi, in modo marginale. La consapevolezza storica, assolutamente presente negli storici romani contemporanei, sfugge totalmente agli evangelisti: in questo, anche Luca non fa eccezione. E nessuno in quel tempo poteva pensare ad un’epoca come la nostra, quando si sarebbe stati talmente ossessionati dai fatti. I protocristiani avevano occhi per le proprie comunità, essendo totalmente orientati all’annuncio. E alla finalità dell’annuncio era subordinata la verità storica, come si può ancora dimostrare in centinaia di passi. I Vangeli non erano ancora considerati testi sacri, ragion per cui li si maneggiava e manipolava con una certa disinvoltura.

Se la ricerca neotestamentaria, dunque, ha posto nuovamente, negli anni Sessanta del XX secolo, la questione del Gesù storico, lo ha fatto sicuramente anche perché non le restava nessun’altra scelta. In ultima analisi, non esistono altre fonti su Gesù che non siano gli scritti del Nuovo Testamento. E’ necessario azzardare il passo sopra il ponte marcito, sebbene esso traballi a tal punto, nella speranza di potervi fare alcuni passi in avanti, e senza avere la certezza di raggiungere mai l’altra sponda. E sebbene il compito si configuri più difficile di quanto si supponeva inizialmente, anche se la storia della tradizione resterà più variegata, il complesso delle leggende più copioso, e sebbene la visione complessiva della biografia gesuana resti impossibile, tuttavia oggi nessun ricercatore neotestamentario contesta più che, nel groviglio della tradizione, si ravvisino talvolta parole autentiche di Gesù, e che vi si rispecchino accadimenti storici. E anche i risultati negativi contribuiscono in un certo senso alla conoscenza: così quando può essere espunto il deposito della Tradizione che, in modo inequivocabile, non risale al Gesù storico. Sono inoltre nuovi metodi di analisi, una critica testuale più raffinata, la maggior considerazione dei risultati della scuola di storia religiosa e di storia formale, quelli che hanno dato supporto alla rinnovata problematica del Gesù storico.

Nei prossimi Capitoli, quindi, si dovrà cercare, sulla base dei risultati scientifici della ricerca, di descrivere chi probabilmente sia stato questo Gesù di Nazaret, al quale si richiamano le Chiese, colui che esse annunciano come Signore e figlio di Dio: chi sia stato e non sia stato, ciò che ha creduto e ciò che probabilmente non ha creduto. Va da sé che, nel farlo, non si possa e non si debba avere riguardo per le dogmatiche e i contenuti di fede delle Chiese o di gruppi cristiani. Per la verità si può, per converso, porre a posteriori la domanda: in quale misura la fede delle Chiese e dei gruppi cristiani si possa conciliare con i risultati scientifici e con le fonti. E’ lecito alle Chiese richiamarsi con ragione a Gesù di Nazaret? Le loro dottrine si lasciano mettere davvero in relazione con lui? Che cosa se ne può dire sinceramente, e cosa non se ne può dire onestamente?

Origine e discendenza di Gesù

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Gesù venne al mondo in Galilea, e la sua precisa data di nascita è sconosciuta. Comunemente, si accetta l’anno 4 dell’era precristiana come data più verosimile delle altre; sennonché ciò avviene spesso in conseguenza del tentativo di farlo venire al mondo mentre era ancora in vita il re Erode il Grande, al quale la Bibbia ascrive le uccisioni dei bambini, conosciute come strage degli innocenti. Il nome Gesù deriva da Jeoshua, e significa Geova aiuta. Il nome ricorre sovente nella letteratura coeva. Manifestamente, non si cercò di imporre a Gesù un nome diverso, quantunque il Messia – secondo Isaia 7:14 – si fosse dovuto chiamare propriamente Immanuel.

La sua madrelingua era l’aramaico di Galilea, e come luogo di nascita viene accettato Nazaret di Galilea. Questo centro urbano era insignificante, nel mondo antico, e non se ne fece menzione né nella letteratura ebrea contemporanea né nell’Antico Testamento, e nemmeno nello storico ebreo Giuseppe Flavio. Il fatto comprova che Gesù nacque effettivamente in quel luogo perché, qualora si fosse inventato il luogo di nascita di Gesù, si sarebbe scelta sicuramente una città d’una certa importanza. L’irrilevanza di Nazaret viene sottolineata ancora in Giovanni (1:46), dove si pone la domanda: “Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?”

Matteo e Luca, tuttavia, fanno nascere Gesù non a Nazaret, bensì a Betlemme, perché questo centro era considerato come città di Davide, e il Messia, secondo una concezione ebraica largamente diffusa, doveva provenire appunto dalla generazione di Davide. Evidentemente, il fatto che Gesù fosse oriundo da Nazaret non si poteva negare (il che depone pure a favore), e di conseguenza, per ragioni teologiche, i futuri evangelisti ricorreranno allo stratagemma di averlo fatto nascere almeno a Gerusalemme. Di una tale esultanza il vangelo di Marco non sa ancora nulla. In Matteo e Luca, un rispettivo albero genealogico dovrebbe confermare la discendenza davidica di Gesù, sottendendo la linea da Davide fino a Giuseppe, in qualità di padre di Gesù.

A questo punto, però, abbiamo un problema. Se si guarda a Gesù in quanto figlio di Giuseppe, riconducendolo all’ascendenza davidica, allora il fatto stride con le leggende sulla natività, secondo cui il padre di Gesù non fu propriamente Giuseppe, bensì lo Spirito Santo. E allora anche le genealogie che risalgono a Davide non hanno più significato. In più, la nascita direttamente dallo Spirito Santo è ovviamente molto più brillante, più maestosa di una semplice provenienza dalla generazione di Davide.

Sul piano storico, la situazione è chiara, giacché la soprannaturale origine di Gesù, con lo Spirito santo come padre, coincide con la visione della successiva comunità credente: una conscia superiorità del Cristo creduto e sublimato. Inferiore e priva di spettacolarità, e pertanto più probabile storicamente, è invece la derivazione dal casato di Davide (cioè senza intervento dello Spirito santo), e con Giuseppe come padre di Gesù. Eppure anche la discendenza di Gesù dalla generazione davidica viene ritenuta inverosimile da molti teologi. Probabile che ci si avvicini massimamente alla verità storica presupponendo che Gesù fosse nato da una famiglia piuttosto insignificante in Galilea, e che solo dopo la sua morte si fosse ipotizzata un’ascendenza davidica e poi, col tempo, addirittura una paternità dello Spirito santo. Per questa via è possibile far derivare le une dalle altre tutte quante le tradizioni.

Con questi problemi, del resto, la Chiesa cattolica si salva volentieri con lo stratagemma di dichiarare Maria una donna davidica, facendo risalire proprio a lei gli alberi genealogici. Il fatto che questo contrasti col testo, e che la derivazione d’una genealogia a partire dalla madre sia in contraddizione con il diritto ebraico e le consuetudini ebraiche, non disturba più di tanto la Chiesa cattolica. Quel che conta, per essa, è che tornino i conti fatti dalla dogmatica. Si vedrà ancora che la Chiesa cattolica ha sempre avuto, anche per altri versi, un rapporto piuttosto ambiguo con i risultati storici. E continua ad averli ancora oggi, per quanto riguarda le grandi questioni dottrinali.

D’altra parte, le due genealogie in Luca e Matteo non si lasciano porre in sintonia. Esse hanno origine, in maniera palese, da tradizioni differenti. Matteo fa risalire il suo albero genealogico fino all’epoca semi-mitica, su su fino al progenitore Abramo. Luca (il presunto evangelista storico!) traccia la linea, persino completa, fino alle mitiche origini con Adamo. Il numero delle generazioni e dei nomi è diverso. Matteo conta 42 generazioni da Abramo a Gesù, Luca ne conta 56. Già il padre Giuseppe, quindi il nonno di Gesù, si chiama Giacomo, in Matteo, mentre in Luca il suo nome è Eli. “E da Giuseppe fino a Davide, pur sempre lo spazio d’un millennio, i due alberi genealogici hanno in comune [solo] due nomi!” Deschner, op.cit. p. 38) Anche gli alberi genealogici si spiegano, nel modo migliore, come pure e semplici costruzioni fantastiche. Rispetto ad esse, il Vangelo di Giovanni non è affatto interessato ad una discendenza dalla generazione di Davide giacché, per l’estensore di questo vangelo, Gesù è un Dio già prima della sua nascita, essendo cioè un’entità divina preesistente. A questo punto, una derivazione unica ed esclusiva dal re Davide non farebbe altro che disturbare.

Giuseppe, il padre di Gesù, era un artigiano edile (technes), e noi possiamo supporre che anche Gesù avesse appreso e praticato questo mestiere. Gesù aveva almeno quattro fratelli e alcune sorelle, dei quali si fa menzione nei Vangeli (Marco 6:3). Di questi, sembra che fosse lui il più vecchio. Tra i suoi fratelli carnali c’era anche Giacomo che, come altri membri della famiglia, non fece parte dei suoi seguaci fintanto che visse Gesù, ma che in futuro avrebbe giocato un ruolo importante nella comunità primitiva di Gerusalemme.

Si ritiene generalmente che Gesù, all’epoca del suo esordio pubblico, avesse circa trent’anni, e fosse quindi un uomo ormai maturo. La sua azione si estende, secondo i sinottici, per non più di un anno; secondo il vangelo di Giovanni, al contrario, il periodo si estese da due a tre anni. Il che si è desunto dalle feste che sono ricordate nel vangelo giovanneo. In Giovanni, Gesù compare cinque volte in occasione di feste svoltesi a Gerusalemme; nei vangeli sinottici, per contro, si racconta di un unico viaggio a Gerusalemme, che si conclude appunto con la sua morte.

Ed ecco altre discordanze: nei Vangeli sinottici Gesù opera principalmente in Galilea, recandosi a Gerusalemme solo poco prima della morte, mentre il vangelo di Giovanni ci presenta l’immagine d’un Gesù che agisce soprattutto a Gerusalemme. E’ comprensibile che in Giovanni prevalga apertamente la tendenza a far agire il figlio di Dio quanto prima possibile nella capitale spirituale dell’ebraismo, e non nell’insignificante Galilea, che oltretutto non godeva proprio di buona reputazione. Per questo motivo c’è da dare la preferenza alla narrazione dei sinottici, visto che sicuramente, in epoche successive, si sarebbe inventata un’attività sullo sfondo prevalente della Galilea. A causa della diversa disposizione in Giovanni, questi è evidentemente costretto a porre la cosiddetta “purificazione del tempio” subito al debutto dell’attività di Gesù, mentre nei sinottici essa è integrata nell’evento della Passione, collocandosi quindi all’epilogo dell’attività di Gesù.

Il vangelo di Giovanni e i sinottici divergono insomma fortemente, in alcuni momenti decisivi, gli uni dagli altri. Ma anche nei sinottici stessi si trovano sicuramente (ove si legga e si paragoni con precisione) ben più di mille contraddizioni, insensatezze e versioni divergenti, prodotte dal sopra descritto fare e disfare arbitrario degli evangelisti. Ciò diventa un problema solo quando si parte dal presupposto che le parole di Gesù si trovino nel Nuovo Testamento scevre da errori ed esenti da contraddizioni. Questa posizione, che si riscontra in gruppi evangelici e nelle Chiese libere in Europa, ma soprattutto negli USA, è una pia stupidaggine, e per di più nata dall’ignoranza, oppure assunta da altri credenti come assestamento dogmatico. Ai fondamentalisti biblici si può senz’altro obiettare che essi non prendono affatto sul serio gli scritti che essi stessi pretendono di esaltare oltremodo: già qualche semplice raffronto di una pericope tratta dai Sinottici mostra le differenze con chiarezza.

L’aspetto fisico di Gesù

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Riguardo alle fattezze di Gesù non sappiamo nulla: nessuna immagine e nessuna descrizione ci è stata tramandata. Alcuni tra i primi padri della Chiesa ci fanno intravedere un Gesù carico di difetti fisici, o anche consciamente brutto. Sembra che Origene, nel III secolo, lo ritenesse addirittura deforme. Questi passi, però, potrebbero essere intesi in senso puramente dogmatico. V’erano infatti, nei primi secoli, gruppi di diversamente credenti, sostenitori della tesi secondo cui Gesù avrebbe avuto solo un corpo fittizio, negando pertanto la vera natura umana di Gesù. Rimarcando quindi – contro codesti docetisti – determinati difetti somatici, si sottolineava la natura di Gesù in quanto vero uomo. Si constata come i primi uomini di chiesa non indietreggiassero neppure di fronte ad una deformità del loro Signore, pur di motivare la loro dogmatica. In seguito, però, si è raffigurato Gesù come uomo di sembianze particolarmente gradevoli, dal momento che la sua divinità sembrò dover implicare anche questo aspetto. Assecondando appunto, e per sempre, l’immagine manierista di cui c’era bisogno.

Alcuni storici ebraici sono dell’opinione che Gesù fosse sposato, sostenendo che questa fosse la normalità per un uomo della sua età. Di ciò, i Vangeli non sanno nulla, o sembrano non avere alcun interesse per la questione. In ogni modo, un argumentum ex silentio (argomento dedotto dal silenzio) si regge sempre su piedi d’argilla.

Questa argomentazione, d’altronde, mette il dito su una dolorosa ferita della ricerca sulla vita di Gesù: sul fatto, cioè, che noi non sappiamo proprio nulla circa l’infanzia, la giovinezza e l’incipiente maturità di Gesù. Solo poco tempo prima della sua morte, infatti, Gesù si mostra pubblicamente. Che cosa aveva fatto fino a quel momento, come si era svolto il suo processo di maturazione, quale religiosità e quali modelli aveva avuto? Aveva visto, del mondo, qualcos’altro che non fosse la sua terra natia di Galilea? Quali rapporti ebbe con la sua famiglia, coi suoi fratelli? Quali amici aveva avuto, a quali influenze era esposto, di che genere fu la sua formazione, che cosa aveva imparato? Sapeva leggere e scrivere? Parlava forse, oltre all’aramaico, anche il greco? Tutte queste domande, irrinunciabili per una biografia in senso moderno, per poter tracciare lo sviluppo d’una personalità, non rivestono alcun interesse per i Vangeli.

Le leggende sulla nascita

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Marco, l’evangelista più vecchio, incomincia subito con la comparsa in pubblico di Gesù, e sembra non avere interesse per i fatti antecedenti alla sua attività pubblica. O non ne sapeva proprio nulla? Forse che i primi 30 anni della vita di Gesù erano stati privi di eventi spettacolari? Lo si potrà ben supporre, eppure ciò non poteva, a lungo andare, restare sconosciuto. Con i santi, o coi condottieri religiosi, anche la fanciullezza dev’essere stata già ricca di prodigi: è una legge basilare della storia delle religioni, che si può documentare in molti modi. Anche il Messia, pertanto, deve avere avuto un’infanzia fuori dal comune. Ragion per cui, in Matteo e Luca – prima dell’attività vera e propria di Gesù – si trovano le leggende relative alla nascita, di cui Marco non sa ancora nulla. Nella ricerca, queste leggende, per quanto riguarda la vita di Gesù, sono considerate – per dirla alla grossa – del tutto prive di valore, e tuttavia la dicono lunga sulle credenze future della comunità. Sono infatti invenzioni degli evangelisti o dei loro predecessori, essendo scaturite da un interesse meramente teologico.

Il censimento della popolazione, o forse il calcolo del fisco, che dovrebbe essere stata l’occasione per il viaggio verso Betlemme, non avvenivano ancora in quel modo. L’evangelista Luca, che viene definito volentieri lo storiografo tra gli evangelisti, (sebbene racconti un unico evento concretamente verificabile, cioè l’esecuzione di Giovanni il Battista), confonde qui alcuni dati di fatto. In effetti, il primo censimento romano ebbe luogo negli anni 6–7 dell’era cristiana, “e non fu esteso a tutta la Palestina, come suppone Luca, ma soltanto a parte della regione di Giudea e Samaria (e Idumea, situata a sud), e nemmeno alla Galilea. Nell’anno 6, Augusto depose il padrone di questo territorio, Archelao, inglobando la zona sotto la diretta amministrazione di Roma. Di qui il censimento. Il signore della Galilea, Erode Antipa, rimase al potere. Colà, quindi, non vi fu nemmeno un preventivo calcolo tributario da parte dei Romani.” (Hans Conzelmann, “Geschichte des Urchristentums”, S. 19).

Anche l’uccisione dei bambini, più nota come strage degli innocenti, attribuita ad Erode il Grande (da non confondere con Erode Antipa, il sovrano del territorio di Gesù), non ebbe mai luogo. Erode era morto già nell’anno 4 prima di Cristo. E fu senza dubbio un efferato macellaio e un despota. Fece uccidere tre dei suoi figli (ad onor del vero non in giovane età), e su di lui siamo abbastanza bene informati grazie allo storico ebraico Giuseppe Flavio. A quanto pare, lo storiografo Giuseppe ha addirittura un interesse ad elencare tutte le scelleratezze di Erode. Tra le quali non risulta, però, un eccidio di neonati a Betlemme. Anche in altri luoghi non esistono riferimenti coevi che lo confermino. In ogni modo, anche la minaccia rappresentata da un futuro dominatore è un ricorrente luogo comune, tipico in letteratura, tanto da essere spesso ripetuto nelle storie antiche.

Ma perché mai la famiglia di Gesù è costretta a recarsi a Betlemme? Matteo costruisce questo racconto per una ragione che, in seguito, dovrà essere sfruttata ancora più volte. Egli desidera rappresentare la realizzazione d’una profezia contenuta nell’Antico Testamento, in questo caso quella di Michea 5:1

« E tu, Betlemme di Efrata,
così piccola per essere fra i villaggi di Giuda,
da te uscirà per me
colui che deve essere il dominatore in Israele:
le sue origini sono dall’antichità,
dai giorni più remoti. »
(p. 1521, Sacra Bibbia, ed. CEI/UELCI)

Per questo, e solo per questo, viene intessuta la storia della natività. Il futuro re di Israele deve venire alla luce in Betlemme: una provenienza dalla minuscola, insignificante Nazaret, non era sufficiente. Anche qui si constata nuovamente: dove la tradizione non va bene, dove il materiale disponibile non conferma palesemente la visione desiderata, l’evangelista, o uno dei suoi precursori, non si fa scrupoli di combinare un’incredibile storia avventurosa di briganti, come quella che qui ci viene presentata con l’ingresso a Betlemme e con la strage dei neonati. E tutto ciò pur di vedere realizzata una profezia riportata nell’Antico Testamento. Specialmente Matteo ribadisce e “attesta” di continuo diversi passi dell’AT. Dire che questo evangelista non tratti con precisione la verità, sarebbe minimizzare in maniera spudorata.

Viste dalla ricerca storico-critica, tutte queste sono falsificazioni belle e buone, e gettano una luce inquietante sulla credibilità di questo evangelista. In quali tradizioni si vorrà ancora avere fiducia, quando in passi come questo si constata con quanta faccia tosta si falsifica e si tramano devoti inganni? Eppure le storie sulla nascita sono ancora relativamente facili da smascherare; e non c’è nessun esegeta o storico affidabile che abbia opinioni diverse in proposito. Ma come si vuole, di fronte a queste non così manifeste narrazioni o azioni di Gesù, indagare ancora sulla loro storicità, quando si vede con quanta leggerezza l’evangelista qui si trastulli con la tradizione, inserendo nel gioco “palle” personali, da far rizzare i capelli, senza perdere il buon umore?

Ma qui si torna a pensare con una mentalità troppo moderna, potrebbe obiettare qualcuno. Non si può certo rimproverare agli evangelisti di non aver posseduto una consapevolezza storica “moderna”. Naturale che non si possa; tuttavia, con questo esempio, basterà che sia messo in chiaro con quali problemi si ha a che fare quando effettivamente – come tenta di fare la ricerca neotestamentaria – si vuole penetrare all’interno del nucleo storico. Con le storie inventate, gli evangelisti non ebbero problemi di nessun tipo. Agli storici odierni, di conseguenza, non rimane altro che il faticoso cammino della ricostruzione analitica, dell’indagine critica della tradizione e del formalismo storico.

Fortunatamente, tuttavia, anche le storie prive di fondamento storico non sono del tutto prive di valore e di senso, agli occhi dello storico. Il quale ottiene pur sempre una visione, un’idea del pensiero, penetrando nella teologia di coloro che compongono e tramandano vangeli, riuscendo a riconoscere intenzioni e tendenze da cui trarre illazioni.

Trattandosi di leggende sulla natività, questo fatto è evidente. Sulla nascita di Gesù, in prima battuta, non c’erano state palesemente tradizioni di sorta, eppure in breve tempo esse vennero create, muovendo dal comprensibile bisogno di colmare questa lacuna nel senso d’una agiografia. Nel farlo, gli evangelisti si servono volentieri di modelli veterotestamentari; soprattutto per Matteo fu importante fornire la prova che Gesù era il messia profetizzato nei testi antichi. Vi si rispecchia la basilare tendenza ad accrescere lo splendore e la grandiosità della narrazione, di riempire delle lacune, di colorare l’esistente. Ed è possibile che, in quel tempo, certe contraddizioni insite nella narrazione non fossero affatto percepite come tali.

Riflettendo sulle intenzioni dell’annunciazione di Marco, si constata che egli, con le leggende della nascita, ha fatto davvero un gran lavoro. Persino chi è lontano dalla Chiesa conosce la storia commovente che ogni anno, soprattutto secondo il vangelo di Luca, racconta dai pulpiti la nascita di Gesù nella stalla e nella mangiatoia (presso Matteo in una casa). I pastori sui prati, o i re magi dall’Oriente, vengono messi in scena ogni anno in migliaia di chiese. Bue e asinello sono manifestamente elementi accessori provenienti dall’AT: “un bue conosce il suo signore” (Isaia 1:3). Anche sul piano emotivo, in effetti, la narrazione natalizia appartiene alle cose più belle che il Cristianesimo possa offrire.

Da credenti e non credenti, il Natale viene sentito come la massima festa cristiana (sebbene, quanto al contenuto, il Venerdì santo e la Pasqua dovrebbero valere molto di più); e persino coloro che sono lontani dalle Chiese trovano una volta all’anno, per la messa di mezzanotte, l’occasione di recarsi in chiesa, a cui appartengono ancora, nel migliore dei casi, in quanto membri che pagano la tassa ecclesiastica.

I tedeschi, in particolare, sanno festeggiare questo Natale, a quanto pare, nelle forme più leggiadre. Malvolentieri, a questo proposito, si vorrebbe disturbare, percependo quasi sguardi carichi di disappunto nel dover constatare: tutte quante le scene natalizie sono prive di qualsiasi fondamento storico. Quei racconti così familiari sono un conglomerato composto di errori storici, di sogni, di ideali e di dogmatica. La festa più importante dei cristiani si basa per intero su mere leggende. Qui non sono singoli punti ad essere cambiati o inventati; qui s’intreccia tutta una ghirlanda di leggende storicamente senza valore, eppure di grande continuità tradizionale e di efficacia largamente diffusa, poste in essere da devote fantasie.

Rimane ancora da osservare che anche la fuga in Egitto, raccontata da Matteo, non ha più senso, dal momento che non vi fu né una persecuzione né un viaggio a Betlemme. A quanto pare, Matteo narra questa storia al solo scopo di segnalare di nuovo un vaticinio, fornendo una prova di divinazione, questa volta dal profeta Osea 11:1: “Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato, e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.” Coincidenza e volontà di allinearsi con l’Antico Testamento giungono palesemente al punto tale, che Matteo vede Gesù in rapporto parallelo con Mosè giacché, come in Mosè la nascita suscita l’inquietudine del faraone, in entrambe le circostanze si verificano una strage di bambini e una salvezza miracolosa. Non apprendiamo nulla di storico, eppure otteniamo pur sempre interessanti conoscenze relative alla teologia e al mondo ideale dell’evangelista.

Gesù, alunno di Giovanni il Battista?

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Non soltanto Gesù viene rivalutato biograficamente attraverso leggende natalizie, che nella sostanza risalgono agli evangelisti; anche Giovanni il Battista viene introdotto in guisa leggendaria, in Luca, e la sua nascita circonfusa in maniera estatica da una nebulosa, con l’ausilio di devote narrazioni. La notizia che sia figlio d’un sacerdote, che suo padre Zaccaria svolga il suo servizio nel tempio e sua madre abbia il nome di Elisabetta, è probabilmente una reminiscenza retorica. La storia della sua nascita prodigiosa, però, ha tutte le caratteristiche d’una leggenda, con forte ricorso all’Antico Testamento. Al pari di Sara, moglie di Abramo, infatti, Zaccaria e Elisabetta sono ambedue vecchi e senza figli. Elisabetta era considerata sterile (e la sterilità era quasi sempre una macchia delle donne, mai del marito). Mentre Zaccaria svolge il suo servizio nel tempio, gli appare l’arcangelo Gabriele e gli annuncia la prodigiosa gravidanza della sua anziana consorte. Zaccaria non vuole crederci, muovendosi così bravamente nella cornice leggendaria dell’attesa giacché, in questo modo, il miracolo annunciato ne viene ancor più rafforzato. A causa della sua incredulità, tuttavia, Zaccaria viene colpito da mutismo, da cui viene risanato dopo che suo figlio Giovanni viene al mondo.

Ora, l’evangelista Luca unisce le due leggende natalizie di Gesù e Giovanni, facendo sì che Maria, la madre di Gesù, alla quale fu pure annunciato in modo prodigioso la nascita d’un figlio, faccia visita ad Elisabetta. E quando esse si incontrano, ecco che il nascituro saltella nel ventre di Elisabetta (l’evangelista lo ricorda due volte), riconoscendo evidentemente il suo signore. Luca riporta poi l’inno di lode di Maria (il celebre Magnificat), come pure l’inno di Zaccaria (il Benedictus): tutto composto in larga misura con elementi scenici mutuati dall’Antico Testamento: belli da leggere, e anche da musicare. Anche qui, in ogni modo, il valore storico è assai vicino allo zero.

Per il lettore della Bibbia e per la tradizione ecclesiastica, Giovanni il Battista è il precursore che annuncia il Messia che verrà dopo di lui, più forte di lui, al quale egli non è degno di sciogliere i lacci dei sandali. Questa immagine dei vangeli, però, corrisponde al vero? Nella realtà, Giovanni il Battista si è sentito soltanto un precursore (di Gesù)? Gli storici nutrono legittimi dubbi. Se prima non si sapeva come classificare storicamente Giovanni Battista, oggi tuttavia – dopo i reperti manoscritti di Qumran – si riparte dal principio che egli stesse in rapporto con questo monastero e con la setta degli Esseni. Giovanni battezzava nei pressi del monastero di Qumran, e viene descritto come asceta che religiosamente apprezza il deserto, proprio come si è fatto a Qumran. Ha avuto contatti con gli Esseni? Di questo manca la definitiva conferma, eppure molte circostanze parlano in favore di ciò. Accertata è la sua attività predicatoria, e così pure la sua morte violenta, raccontata da Giuseppe Flavio: Erode Antipa, governatore della regione di Gesù, l’avrebbe fatto giustiziare per paura di sommosse politiche. La leggenda di Salomè, come la tramanda Marco 6:17-29, secondo cui la testa di Giovanni deve cadere perché la figlia di Erode, Salomè, la pretende come prezzo per la sua danza, si addice benissimo come libretto d’opera; ma resta comunque un racconto leggendario.

Si può qui chiarire, a mo’ di esempio, un ulteriore principio della ricerca storico-critica: quando si è in presenza (come in questo caso) di due tradizioni, la regola è di dare la preferenza alla variante non spettacolare. Facilmente, infatti, si può comprendere come, intorno alla morte d’un personaggio famoso, si formino delle leggende; difficilmente, per contro, sarebbe pensabile che la morte, ove fosse accaduta realmente in modo così immaginario, avrebbe potuto essere raccontata dallo storico Giuseppe Flavio, peraltro così sobrio. Non solo la nascita, insomma, ma pure la morte di Giovanni il Battista abbelliscono i vangeli in forme altrettanto favolose.

Se è vero che Giovanni Battista fu giustiziato nel 15° anno di Tiberio (si veda Luca 3:1-20, l’unico passo che unisce il vangelo di Luca con la cronologia assoluta), l’esecuzione del Battista ebbe luogo nell’anno 28 o 29. La sua predicazione è un’arringa giudiziaria. Egli punta sulla fine prossima del mondo e fa appello alla conversione per gli uomini, affinché possano scampare al giudizio incombente, al battesimo del fuoco (il che significa la perdizione degli empi senzadio). A tal fine gli aspiranti alla penitenza vengono da lui battezzati nelle acque del Giordano. Il battesimo di Giovanni è un “sacramento escatologico penitenziale” (Philipp Vielhauer). A differenza delle note abluzioni giudaiche, questo battesimo è un evento unico, e viene eseguito dal battezzatore stesso, non dai battezzandi.

Tra i molti che si fecero battezzare da Giovanni nel Giordano, vi fu anche Gesù. Per di più, i tre evangelisti sinottici fanno iniziare col battesimo la sua attività vera e propria. Secondo la versione più antica, nel vangelo di Marco, è questo lo scopo per cui Gesù si reca dalla Galilea al Giordano. Il battesimo di Gesù per opera di Giovanni è un fatto storico giacché, come vedremo, alla comunità cristiana ne derivarono in seguito delle difficoltà. Della vita di Gesù, antecedente al suo battesimo, non sappiamo nulla, come s’è detto. Nel suo articolo su Giovanni Battista, il teologo Vielhauer ipotizza tuttavia che Gesù avesse seguito Giovanni per un certo tempo. “E’ possibile che per qualche tempo egli fosse stato nella cerchia dei discepoli di Giovanni.” (Philipp Vielhauer, articolo Johannes der Täufer, RGG 3; anche Theißen lo suppone, cfr. Theißen/Merz, Der historische Jesus, S. 194). Una testimonianza diretta a questo proposito non esiste, ma per la verità è sempre balzato allo sguardo il fatto che la predicazione del Battista e la predicazione di Gesù presentino parecchie coincidenze. Da Giovanni, Gesù avrebbe "ricevuto le suggestioni più incisive, riconoscendo nell’opera di lui, come nella sua personale, i segni dell’imminente Regno di Dio […], tanto da definirlo il più grande tra gli uomini […]" (Vielhauer, op.cit.).

Dell’insegnamento di Gesù, o meglio delle sue concezioni, ci occuperemo diffusamente in seguito. Intanto, si può immaginare che Gesù sia andato, per così dire, a scuola presso Giovanni il Battista? I due perseguono manifestamente lo stesso intento, si sono conosciuti di persona e stimati reciprocamente (quantomeno, l’alta considerazione di Gesù per Giovanni è attestata senza equivoci); Giovanni Battista era il più vecchio, già attivo allorquando Gesù esordì nella sua vita pubblica. Qualora, liberati dal dogmatismo, si intendesse Gesù come uomo comune, questo potrebbe essere un aspetto intelligibile della sua evoluzione biografica.

Nessuno, in realtà, esordisce senza certe premesse: persino un Mozart non è pensabile senza esperienze antecedenti. Nulla è più naturale del fatto che si attraversi un’evoluzione, prima di impegnarsi personalmente; ovvio che si debba imparare, prima di creare in prima persona. Sennonché questa ovvietà, ove si guardi a lui quale figlio di Dio, attraverso il dogmatismo delle Chiese, a Gesù non può essere naturalmente ascritta. Se Gesù dovesse aver frequentato effettivamente una sorta di noviziato presso Giovanni Battista, o addirittura a Qumran, gli evangelisti sarebbero obbligati a non farne parola.

E’ sorprendente il fatto che non solo Gesù, ma anche il Battista ebbe dei discepoli. Ciò sarebbe piuttosto insolito per qualcuno che vede se stesso solo come precursore, e non annette quindi nessun grande significato alla propria persona. Nondimeno, i discepoli di Giovanni sono chiaramente documentati, e hanno venerato manifestamente come messia Giovanni, e non Gesù. “Di costoro [dei discepoli di Giovanni] noi non sappiamo quasi nulla, e tuttavia, da alcuni passi polemici, più di tutto nel Vangelo di Giovanni, possiamo dedurre che essi esistevano. Alcune volte, infatti, Giovanni sottolinea, con toni piuttosto incisivi, che il Battista non era la luce, ma il Messia (Giovanni 1:8;19). V’erano apertamente persone che lo ritenevano tale.” (Conzelmann, Geschichte des Urchristentums, S. 107).

Secondo Rudolf Bultmann, Giovanni non attendeva affatto il Messia, bensì un intervento di Geova, giacché Giovanni predicava che nel deserto non si doveva preparare la via ad un venturo Messia, bensì a Geova stesso.” (Bultmann, Geschichte der synoptischen Tradition, S. 320). E suppone, per di più, che anche al Battista sarebbero state attribuite azioni miracolose, che però furono sottaciute nei Vangeli. Che Giovanni il Battista fosse un precursore di Gesù, una figura comunque subordinata e secondaria rispetto a lui, è una versione cristiana. Dal momento che noi, riguardo all’insegnamento di Giovanni Battista, disponiamo in sostanza soltanto di fonti cristiane, le cose non devono stare soltanto in quel modo.

Gesù e il Battista predicarono l’imminente dominazione di Dio, ebbero discepoli, e morirono entrambi di morte violenta. La posizione prevalente di Gesù di Nazaret, rispetto al Battista, è probabilmente un risultato dell’evoluzione storica del mondo ecclesiastico nel corso del primo secolo. Sarebbe più comprensibile se il rapporto maestro- allievo fosse andato in senso contrario a quello rappresentato nel Nuovo Testamento. Giovanni il Battista “sembra essere stato, per la verità, una figura autonoma, un personaggio assoluto”. (R. Augstein, Jesus Menschensohn//Gesù Figlio dell’uomo, S. 147)

Balza all’occhio il fatto che il Battista, in maniera palese, non si subordini mai direttamente a Gesù, e che non lo confermi nemmeno come Messia. Fosse stato così, i Vangeli l’avrebbero sicuramente annunciato. Solo il vangelo di Giovanni introdurrà poi questa prospettiva. In luogo di ciò, i sinottici più antichi recano la domanda di Giovanni dal carcere, che chiede chi sia Gesù. Fino alla sua fine, non si trova una conferma di Gesù da parte del Battista. Per questo motivo, anche lo studioso neotestamentario Gert Theißen dichiara: “Giovanni non fu un testimone di Gesù.” (Theißen/Merz, Der historische Jesus, S. 192). E Gesù stesso, alla domanda del Battista, risponde in maniera stranamente evasiva. E’ difficile che la questione del Battista sia stata inventata in tempi successivi. E se Giovanni si fosse riconosciuto in Gesù, ciò sarebbe sicuramente stato sfruttato a fine propagandistico dai primi cristiani. La rappresentazione di Giovanni Battista, così come ci si presenta nei vangeli, è di conseguenza il risultato d’un processo di metamorfosi. Non solo mediante la leggenda della sua nascita, ma anche tramite la sua opera, la figura di Giovanni Battista viene fagocitata dall’incipiente teologia cristiana.

I discepoli di Giovanni compaiono altre volte in forme diverse (Atti 18:24;19:1). La setta battesimale gnostica dei Mandei, attiva già intorno all’anno 30, venerava forse Giovanni il Battista (!) in quanto figura di redentore, polemizzando contro Gesù morto “il quale sarebbe stato un profeta di menzogne” (Augstein, op.cit., p. 16, nota 8). I discepoli di Giovanni attendevano probabilmente il ritorno del Battista, allo stesso modo in cui i primi cristiani aspettavano il ritorno di Gesù. La setta dei Mandei sembra avesse raggiunto il suo culmine intorno all’anno 100; nel 200 è ormai palesemente irrilevante, al punto da non essere più menzionata tra le sette eretiche. Eppure esiste ancora oggi nell’Iraq meridionale.

Quale importanza e quale consapevolezza di sé avesse in realtà il Battista, non si potrà forse più acclarare, sulla base delle fonti esistenti. Chiaro è solamente che le origini dei Vangeli sinottici (ad eccezione di Marco) presentano una quantità di materiale leggendario che, o proveniva dalla tradizione, oppure venne appositamente creato dagli evangelisti stessi. Il valore storico è pressoché nullo, la posizione del Battista nella biografia di Gesù è quantomeno ambigua. Ai primi capitoli in Luca e Matteo spetta per le Chiese un’alta valenza dogmatica, che tuttavia, dal punto di vista della ricerca storica, rivela il valore che può avere un assegno a vuoto.

Il battesimo di Gesù ad opera di Giovanni

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Solo pochi dati nei Vangeli sono tanto sicuri e attendibili quanto il battesimo di Gesù per mano di Giovanni il Battista. Ciò nondimeno, il battesimo di Gesù da parte di Giovanni divenne presto un grosso problema. Il battesimo è senza dubbio un atto di peccatori; ma per i cristiani Gesù fu subito considerato come uomo esente da peccato. Proprio sul modello del battesimo di Gesù e delle relative tradizioni, è possibile rappresentare di nuovo assai chiaramente con quanta libertà gli evangelisti abbiano maneggiato gli elementi della tradizione.

In principio ci fu (almeno in questo caso) un accadimento storico, cioè il battesimo di Gesù. Nel vangelo più antico (Marco 9:1-11) Gesù (e lui soltanto) vede aprirsi il cielo e lo spirito di Dio scendere su di lui in forma di colomba. Una voce parla (a lui): “Tu sei il figlio mio amato, del quale mi sono compiaciuto.” Il cielo aperto e la voce di Dio vengono qui descritti quasi come una visione di Gesù. Solo lui vide il cielo aprirsi, solo lui udì la voce di Dio. In Marco, il racconto del battesimo richiama così alla memoria le narrazioni vocazionali dei profeti veterotestamentari.

Matteo, assumendo la storia del battesimo come Luca l’ha assunta da Marco, aggiunge ora l’obiezione del battezzatore: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me? Al che Gesù risponde: “Lascia fare per ora, perché conviene che si adempia ogni giustizia.” Solo dopo, Gesù viene battezzato. Questo breve dialogo tra il battezzatore e Gesù è – come dimostrano la scelta dei vocaboli, le statistiche lessicali ed un raffronto delle idee teologiche – un’invenzione di Matteo, che però esprime palesemente un problema che era davvero presente nelle prime comunità cristiane. Gesù era considerato il maggiore: com’è possibile che venga battezzato da quel Giovanni di rango inferiore? Grazie a quel fantasioso piccolo dialogo, questo interrogativo viene sciolto per il bene della comunità. E’ chiaro che per Matteo non rappresenta un problema la necessità di escogitare qui una parola di Gesù.

Eppure anche nella parola di Dio Tu sei il mio figlio prediletto, Matteo fa il suo intervento, cambiandolo in Questi è il Figlio mio, l’amato; in lui ho posto il mio compiacimento (Matteo 3:17). Ora, mediante questo cambiamento, la voce di Dio non parla a Gesù direttamente, ma evidentemente alle persone circostanti. Il racconto non viene più descritto come visione, ma come un proclama. Gesù viene quasi presentato come figlio di Dio. L’evangelista Luca (Luca 3:21-22) mantiene invero l’originaria versione di Marco Tu sei il mio figlio prediletto, e naturalmente non sa neppure nulla del dialogo immaginato da Matteo, ma in compenso ha cancellato del tutto il battezzatore dalla sua storia del battesimo. In lui, difatti, Giovanni Battista non compare nel racconto del battesimo.

Si può dunque riconoscere con chiarezza la tendenza a respingere la partecipazione del Battista, mitigando teologicamente, se non l’indecenza, la sconvenienza del battesimo peccaminoso per Gesù. Un passo avanti fa poi il vangelo di Giovanni (Giovanni 1:29-34). In esso, Gesù si presenta a Giovanni, ma non reca i peccati suoi personali, bensì i peccati del mondo (che peraltro, a ben guardare, dovrebbero essere eliminati solo con la sua morte sulla croce). In Giovanni, il battesimo non viene neanche raccontato, e il battezzante, in questo racconto, ha solo il compito di identificare Gesù come colui che battezza con lo spirito, laddove egli stesso può battezzare solo con l’acqua. Nell’apocrifo Vangelo dei Nazarei (non assunto nel Nuovo Testamento), Gesù reagisce persino sgarbatamente all’invito di sua madre e dei suoi fratelli di andare a farsi battezzare: “In che cosa ho mai peccato, perché debba andare a farmi battezzare da lui?”

Per i primi cristiani, insomma, il battesimo di Gesù fu un fatto sempre più imbarazzante; e ciò viene rispecchiato con maggiore evidenza dalle diverse tradizioni e da diversi filoni di fatti tramandati. “Storicamente, sarà proprio quello che questa tendenza apologetica tenta di negare: Gesù riconobbe il Battista, per un certo periodo, quale maestro superiore, e si fece battezzare da lui per la remissione dei suoi peccati. Ebbe coscienza di sé come uno dei molti che volevano cambiare vita in Israele allo scopo di sfuggire all’imminente giudizio di Dio.” (Theissen/Merz, Der historische Jesus, S. 193)

La Chiesa considerò ben presto Gesù come esente da peccato. Sennonché, in modo non equivoco, egli stesso si sentì radicalmente peccatore. La Chiesa si è dunque imposta, facendo prevalere la propria visione dogmatica. Non è l’ultima volta che la verità, o la verosimiglianza della storia, è costretta a piegare la schiena di fronte all’arroganza e ai sogni. Altri esempi seguiranno.

Anche nelle storie battesimali si osserva come fosse ancora plasmabile la tradizione. La parole di Gesù non erano ancora considerate sacre, gli evangelisti le impiegavano liberamente, inventandole, ogni qualvolta ciò concordasse e coincidesse con la propria visione teologica; persino la voce di Dio veniva tramutata, senza che questo suscitasse nell’evangelista scrupoli di sorta. La volontà creativa degli evangelisti fu essenzialmente più forte dell’accuratezza nella trattazione del materiale preesistente della tradizione. Insomma, ciò che non conveniva, venne poi aggiustato e opportunamente adattato.

L’errore cardinale di Gesù: il Regno di Dio non arrivò

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L’annuncio del Regno di Dio fatto da Gesù

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La ricerca neotestamentaria è concorde nel ritenere che il nucleo principale della predicazione di Gesù consistette nell’annuncio dell’imminente Regno di Dio, come è espresso per esempio in Marco 1:15: “Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Il concetto del Regno di Dio ricorre abbastanza di frequente sulle labbra di Gesù; lo si trova come sintesi della sua attività in singole “logie”, tanto quanto nei maggiori sermoni e parabole che hanno per argomento appunto l’arrivo del Regno. Per la ricerca, il fatto che il Gesù storico parlasse effettivamente del Regno, risulta, tra l’altro, dal fatto che questo interesse centrale di Gesù ha giocato un ruolo sempre più evanescente per la Chiesa futura. Per le prime comunità cristiane, era Gesù stesso il contenuto dell’annuncio, e il concetto del regno di Dio arretra vistosamente.

Già per Paolo, l’idea del Regno di Dio non ha quasi più nessun ruolo, e il vangelo di Giovanni si atteggia in ugual modo. Per di più, la rappresentazione di un regno di Dio, in un ambiente cristiano-pagano, è difficilmente comprensibile. Il concetto presuppone infatti un contesto ebraico, o giudaico-cristiano. Appunto questa scarsa intelligibilità, ed in più l’evidente ritiro dell’applicazione di questa concezione, fanno intendere che qui abbiamo a che fare con una parte della ipsissima vox, ossia della originaria annunciazione di Gesù. Gesù ha annunciato l’avvento imminente del regno di Dio. Ma la Chiesa, con l’andar del tempo, ha finito per annunciare non il Regno, bensì Gesù.

Di fronte all’evento della Passione, rispetto ai miracoli e ai precetti etici di Gesù, anche oggi, nell’annuncio delle Chiese, il regno di Dio – come Gesù lo espresse – ha un ruolo soltanto marginale. Ciò dipende anche dal fatto che qui, per le Chiese, si manifesta il problema della vicina attesa. Gesù ha proclamato l’imminente regno di Dio. Ed è qui, nel tema centrale del suo annuncio, che egli si sbagliò: il Regno di Dio, di cui ha predicato l’arrivo prossimo e incombente, non giunse mai.

Così annuncia Gesù secondo Marco 9:1: “In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza”. Egli ha inviato i suoi discepoli ad annunciarlo con queste parole: “Non avrete finito di percorrere, prima che venga il Figlio dell’uomo.” (Matteo 10:23). E in Marco 13:30 asserisce con forza: “In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.” A favore della storicità di queste parole depone il fatto che esse, già con la redazione del vangelo più antico, si erano rivelate quasi una falsificazione, apparendo dunque superate. Difficilmente sarebbero potute essere inventate più tardi; la loro presenza nei vangeli può comprendersi solo se e in quanto possono rivendicare l’autorità di Gesù.

Rudolf Bultmann, in modo quasi rappresentativo della ricerca neotestamentaria, sintetizza in questi termini: “Non c’è bisogno di altre parole: nell’attesa dell’imminente fine del mondo, Gesù si è ingannato.” (R. Bultmann, Das Urchristentum, S. 22). Dopo 2000 anni, i cristiani sono sempre in attesa della svolta epocale, che il loro Signore gli annunciò erroneamente come vicinissima. Ed è ben lecito porre alle Chiese la domanda: come mai il Figlio di Dio, proprio quello che esse annunciano, abbia potuto sbagliarsi in questo modo.

Nella sua fede nel prossimo Regno di Dio, Gesù si rivela appunto non tanto essere divino, ma molto di più quale figlio del suo tempo. L’idea d’una fine dei tempi sotto la regale dominazione di Geova, era presente nel mondo ebraico, ed era parte del generale patrimonio di fede in molti scritti ebraici riguardanti la svolta dei tempi, ma anche già nel libri di Daniele, che ebbe accesso nel Canone veterotestamentario.

La supplica per il Regno di Dio si trova non soltanto nella preghiera ebraica delle 18 benedizioni, ma anche (“Venga il tuo regno”) nella preghiera gesuana del Padrenostro. Oltre a ciò, sappiamo che Giovanni il Battista aspettava già una svolta finale dei tempi e la venuta di Dio (non l’arrivo di Gesù!). Forse Gesù ebbe proprio dal battezzatore, suo presunto maestro, i contenuti determinanti del proprio annuncio. Sarebbe quindi da accertare se egli avesse mitigato la rude predicazione del Battista, con tanto di giudizio rabbioso e battesimo del fuoco, accentuando più fortemente la benedizione della futura dominazione di Dio, particolarmente nelle sue parabole.

Ma anche il Battista si sbagliò, in maniera palese, con la sua proclamazione della prossima venuta di Dio. Per lui, come per Gesù, la fine del mondo era lì lì per verificarsi. Come Gesù, d’altronde, il Battista venne giustiziato, senza che gli annunci si fossero avverati. E lo storico neotestamentario Theißen pondera attentamente la questione se, proprio per questo, Gesù fosse già tentato di elaborare una prima delusione per l’attesa mancata: “L’attesa del Battista non aveva avuto compimento: il profeta era stato incarcerato e ucciso.” (Theißen/Merz, Der historische Jesus, S. 195)

Il ruolo di Gesù nel Regno di Dio

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Che ruolo aveva previsto per sé Gesù stesso in questo Regno di Dio? Più in generale, ne previde uno per sé? Ciò è stato affermato più tardi dalla Chiesa e dai Vangeli. Nel mondo della ricerca, questo quesito è assai controverso, anche se la maggioranza tende a supporre che Gesù, in questo dramma della fine dei tempi, non attribuisse a se stesso nessuna funzione. In continuità con la funzione del Battista, era persuaso del fatto che il tempo incalzava: egli riteneva immediatamente incombente, e altresì ineluttabile, l’avvento della dominazione divina. Sarebbe arrivata comunque, anche senza la sua predicazione e senza gli avvertimenti relativi: il Regno di Dio, per lui, non si poteva arrestare in alcun modo.

Vi sono tuttavia alcuni passi in cui Gesù pone il proprio destino in relazione con l’avvento dell’egemonia divina. Così risponde alla domanda del Battista, se sia lui che dovrà venire, in modo invero evasivo: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.” (Matteo 11:4-5). La guarigione di infermi e le cure per i poveri, qui ricordati da Gesù, sono per un ascoltatore ebraico premonizioni della dominazione divina. In seguito a ciò, il governo di Dio sarebbe già iniziato e si rivelerebbe tramite le azioni compiute da Gesù. In Matteo si trova la proposizione: “Quando io scaccio i demoni col dito di Dio, allora il regno di Dio è sceso da voi.” (Mt 11:20). I due detti sono considerati autentici nella ricerca, e così Gesù avrebbe non solo parlato d’un futuro regno di Dio, ma ne avrebbe già constatato la venuta.

Nella questione d’una partecipazione di Gesù all’irrompere del regno di Dio, è pure palese uno sguardo al titolo Figlio dell’Uomo, che Gesù ha usato sicuramente; incerto è unicamente in quale senso lo usasse. L’idea del Figlio dell’Uomo s’incontra la prima volta nel libro di Daniele e in alcuni scritti apocrifi (Enoch Etiope, libro 4 di Esra). Il Figlio dell’Uomo è in esso una figura della fine dei tempi, alla quale verrà trasferita la dominazione di Dio, dopo che i nemici di Dio, forse attraverso il Figlio dell’uomo, saranno stati annientati. Si allude qui di nuovo a popoli interi (Medi, Babilonesi, Persiani). In questo senso, la tradizione del Figlio dell’Uomo è anch’essa espressione d’un nazionalismo abbagliato in senso religioso, nonché del desiderio di annientare fisicamente altri popoli. Il Figlio dell’Uomo viene presentato talvolta anche come guerriero nella guerra finale dei tempi, in alcuni passi definito anche come figlio di Dio, o identificato col Messia.

Sennonché, oltre a questa accezione fortemente religiosa, c’è ancora un uso profano dell’espressione Figlio dell’uomo, nel senso che con essa s’intende semplicemente uomo, oppure un uomo qualunque, in certi momenti forse anche nell’accezione di Io (per tale discussione si veda Theißen/Merz, Der historische Jesus, S. 470–480).

Gesù parla sovente del Figlio dell’uomo, e poiché il termine è intelligibile solamente nel contesto giudaico o cristiano-giudaico (ed è L’errore cardinale di Gesù: il Regno di Dio non arrivò quindi antico), e poiché si presenta solo nei Vangeli sinottici, ed in epoche successive non ha avuto più alcuna funzione (infatti Gesù sarà visto non “soltanto” come Figlio dell’uomo, ma ben presto come figlio di Dio), ecco, si può dare per scontato che Gesù avesse usato realmente questa parola, o questo titolo, nonostante vi siano studiosi (Philipp Vielhauer) che ritengono non autentiche tutte le definizioni gesuane di Figlio dell’uomo.

Accettandone l’autenticità, colpisce soprattutto il fatto che Gesù non identifichi mai se stesso direttamente col Figlio dell’Uomo, bensì ne parli sempre in terza persona come se si trattasse, per così dire, d’un personaggio diverso. Ciò ha spinto una grande parte dei ricercatori a supporre che Gesù intendesse qui non sé medesimo, bensì un altro, forse a somiglianza di come Giovanni Battista parlava d’una persona che sarebbe venuta.

Nei Vangeli s’incontrano parole del Figlio dell’uomo che verrà, del Figlio dell’uomo presente, nonché del Figlio dell’uomo che soffre. Le parole del Figlio dell’uomo sofferente, nelle quali Gesù annuncia il suo soffrire e morire, sono valutate nella ricerca quasi esclusivamente come vaticinia ex eventu, ossia in qualità di “divinazioni”, che furono formulate dalla comunità solo dopo la Passione; a somiglianza dei numeri del lotto, “predetti” solo dopo l’estrazione. Solamente pochi studiosi ritengono autentiche le profezie sulla Passione, e argomentano che Gesù potrebbe aver dato per scontata la propria morte. Se le parole relative al Figlio dell’uomo venturo o presente risalgano comunque a Gesù, è questione complessivamente discussa tra i ricercatori: “Malgrado uno sconfinato lavoro degli studiosi, la scienza non è ancora in grado di distinguere in maniera veramente fondata tra le possibilità delineate.” (Theißen/Merz, op.cit. S. 477). In ogni modo, Theißen ipotizza che Gesù vedesse se stesso come il futuro Figlio dell’Uomo: “Con l’irruzione del dominio divino, egli si aspetta di assumere quel ruolo che attribuiva al Figlio dell’Uomo.” Benché parli di sé in terza persona, Gesù intenderebbe se medesimo. Però anche Theißen osserva: “Allorché annunciò l’inizio coevo del regno di Dio, Gesù fece affidamento sulla sua venuta durante l’arco della propria esistenza.” (S. 478)

Ciò che per il lettore della Bibbia e per il semplice cristiano sembra essere tanto chiaro, e ciò che anche per la teologia fu chiaro per quasi 1800 anni, cioè che Gesù fosse il Messia e che pertanto avesse reputato se stesso come tale, ebbene, per la ricerca neotestamentaria è diventato un problema. La maggioranza dei ricercatori, oggi, non condividono più l’opinione che Gesù ritenesse di essere lui stesso il Messia, bensì che sarebbe stato riconosciuto come Messia solo dopo la propria morte. Di ulteriori (cosiddetti) titoli messianici di Gesù torneremo a parlare più avanti.

Ebbene, se si ritenesse o meno il Messia o altra figura di salvezza escatologica, se volesse con la sua opera promuovere o confermare il Regno di Dio oppure no, a questo punto c’è chiarezza solo su questo: la spina nel cuore del Cristianesimo, lo scandalo perenne, resta il fatto che Gesù si sia univocamente sbagliato nel cuore del suo messaggio. Se, oltre a questo, si fosse sentito davvero come figura intermediaria nell’avvento di questo Regno di Dio, il suo errore sarebbe stato ancora più globale, e la sua predicazione ancora più inconsistente e vana.

Fatti penosi: la vana attesa dei primi cristiani

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“L’annunciatore si è trasformato nell’annunciato”. Questo giudizio del teologo Rudolf Bultmann è una delle citazioni più ricorrenti nel mondo della ricerca teologica nel suo complesso. L’enunciato descrive la differenza fondamentale tra ciò che Gesù volle veramente, e ciò che la Chiesa ha fatto di lui. Per i primi cristiani, l’annunciazione del Regno di Dio non ebbe più, in breve tempo, alcun significato. Per cristiani in uscita dal paganesimo, quel concetto fu in ogni caso difficilmente intelligibile. Ai cristiani nel loro insieme, tuttavia, non interessava più il Regno di Dio, ma unicamente Cristo. Se Gesù aveva creduto ancora in Dio, ecco che i primi cristiani credettero a Gesù; se Gesù aveva annunciato ancora la venuta di Dio, ora i primi cristiani annunciarono il Cristo crocifisso; e se Gesù era ancora in attesa della comparsa di Dio, oramai i primi cristiani attesero la ricomparsa di Gesù.

Ma Gesù aveva voluto questo? Volle realmente sapersi venerato, quando a lui stava invece a cuore espressamente la fede in Dio? Non si ribellerebbe contro questa venerazione, se ancora potesse farlo? Non gli sembrerebbe troppo simile ad un’idolatria, inconciliabile col pensiero e la fede di un ebreo devoto, quale egli era? La risposta a queste domande è appropriata, decisiva per pronunciare il verdetto sull’istituzione Chiesa.

Sul piano storico, intanto, osserviamo una mutazione intervenuta nell’attesa del vicino ritorno. Mentre Gesù, e già il Battista, hanno atteso inutilmente la venuta e l’intervento di Dio, i primi cristiani attendevano a loro volta il Cristo sublimato e ritornante, il giorno del giudizio e la sentenza finale, la definitiva instaurazione dell’egemonia divina.

Di nuovo, però, le attese furono sottoposte ad una prova difficile, e soprattutto lunga. Nel frattempo, è arrivato Godot: quel Cristo che dovrebbe fare ritorno, la cristianità lo attende invano da quasi 2000 anni. Eppure si continua ad assicurare che non dovrebbe durare più a lungo, che basterebbe non perdere la pazienza. Così l’errore di Gesù si prolunga nel tempo, così come l’errore di coloro che credono in lui, mettendo a nudo la speranza cristiana non solo come fattore di logoramento, ma anche come crescente motivo di imbarazzo.

La supplica protocristiana maranatha (Vieni, Signor nostro!) esprime questo desiderio del ritorno di Cristo sotto forma di stereotipo convenzionale. Per due volte, nelle sue (autentiche) epistole, Paolo si addentra nel problema del persistente ritardo della parusia, in modo tale che il motivo sembra far parte addirittura del suo repertorio standard. A Tessalonica, si era formulata ed imposta la domanda cruciale: che ne era dei confratelli morti nel frattempo, visto che Gesù non era ancora ritornato? Ragion per cui, nella Prima lettera ai Tessalonicesi, la lettera più antica in assoluto del Nuovo Testamento, Paolo scrive:

« Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. »
(1 Tessalonicesi 4:13-17)

Il presupposto è inequivocabile: ecco, non tutti moriranno, fintantoché il Signore non faccia ritorno. L’apostolo, e con lui la comunità cristiana, conta ancora saldamente, 20 anni dopo la morte di Gesù, sulla sua ricomparsa, mentre essi sono ancora in vita. E Paolo, per quanto riguarda i suoi avvertimenti, si richiama ad una “parola del Signore”. Ma che parola sarà stata mai? Nei Vangeli, in ogni caso, essa non appare. Ed è inoltre assai improbabile che Gesù, sul cammino verso la croce, abbia mai pensato che, un giorno, non solo risorgerà, salendo al cielo e discendendo da lassù, ma per giunta – quasi prevedendo la domanda dei Tessalonicesi – avrebbe fatto un accenno al proprio ritardo nella parusia, e avendo dovuto assicurare che nessuno avrebbe avuto svantaggi qualora fosse morto prima. A questo punto, è certo molto più verosimile che Paolo, come gli evangelisti posteriori – allo scopo di conferire alla sua parola adeguato risalto –, avesse escogitato semplicemente una “parola del Signore”, spacciando la sua personale opinione come parola autentica del Signore. Eh già, sarebbe oltretutto per una buona causa! Solo gli storici tornano a dubitarne, a causa della sbrigliata fantasia dei pochi testimoni di cui dispongono.

Anche alcuni anni dopo, nella prima Lettera ai Corinzi, si ritrova la medesima corrente di pensiero:

« Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà, e i morti risorgeranno incorruttibili, e noi saremo trasformati. »
(1 Corinzi 15:51-52)

Paolo è di nuovo persuaso che il ritorno di Cristo sia così imminente, che non tutti saranno morti prima. Sorprende tuttavia che qui si parta dal presupposto che la maggioranza delle persone sarà morta (aspettando) fino al ritorno del Signore; mentre nella Lettera ai Tessalonicesi il sopravvivere era considerato ancora come regola. L’attesa dell’imminenza si allenta, la realtà scaccia l’illusione d’un sollecito ritorno di Cristo, senza che questa credenza, è pur vero, venga abbandonata del tutto.

Negli scritti posteriori del NT, la prima Lettera di Pietro (che però non è di Pietro) annuncia: “La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera.” (1 Pietro 4:7). E la Prima lettera di Giovanni esprime altrettanto erroneamente: “Figlioli, è giunta l’ultima ora […]” (1 Giovanni 2:18). La lettera di Giacomo ammonisce: “Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore […] Ecco, il giudice è alla porte.” (Giac 5:7+9). Sennonché la Prima lettera di Clemente, che non fu più accolta nel Nuovo Testamento, riporta già le lagnanze di coloro che si sono stancati di aspettare: “Queste cose le abbiamo udite già ai tempi dei nostri padri, ed ecco, intanto noi siamo invecchiati, e nessuna di quelle cose si è verificata.” (1Clem 23:3)

Fino a buona parte del II secolo si credette ancora fermamente, in maniera testarda e ingenua, nel ritorno imminente di Cristo. E, naturalmente, si cercò nella Bibbia una spiegazione per il ritardo della parusia. Più precisamente: per la mancanza della parusia. E la si trovò, per esempio, nel Salmi 90:4: “Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato […]”, che la Seconda lettera di Pietro accoglie, aggiungendovi caparbiamente: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza […] (2 Pietro 3:9). Pretesti analoghi si possono udire ancora oggi in ambienti devoti e bigotti. Tutto sembra ammesso e più accettabile, piuttosto che dover riconoscere semplicemente un errore.

In realtà, non sono mancati altri tentativi di reinterpretazione ad opera di antichi teologi chiesastici. Così, nel IV secolo, alcuni affermarono che non si dovesse affatto aspettare la venuta del Signore: “Possa tutto ciò non accadere ai nostri giorni! Perché terribile è spaventoso è il ritorno del Signore! (cfr. Deschner, op.cit.//tr.it. Il gallo cantò ancora, p. 27). Altri Padri della Chiesa hanno represso nei loro scritti i passi recanti l’evidente attesa del ritorno imminente (ad esempio la citazione gesuana “In verità vi dico: non giungerete alla fine delle città d’Israele, che il Figlio dell’uomo sarà tornato” (Matteo 10:23), citandoli solo in parte, oppure falsificandoli. Deschner, nel suo libro appena citato, ne produce valide documentazioni.

Nel cristianesimo delle origini era forse ancora presente la rappresentazione d’un regno terreno di Gesù, proprio come l’ebraismo ebbe l’immagine di un regno di Dio che, per così dire, si cala dal cielo sulla terra. Però gli Ebrei avevano allocato il regno di Dio non nel cielo bensì, in quanto nuova creazione di rapporti con Dio, quaggiù sulla terra. Questa rappresentazione fu poi sempre più abbandonata dai cristiani, oppure sostituita con un Regno che ha la sua sede in cielo, per vivere il quale era necessaria la morte personale. Al posto del regno di Dio subentrò il Regno dei cieli: una reinterpretazione gravida di conseguenze, rispetto a quanto Gesù aveva un tempo annunciato e creduto.

In più, fu intrapresa un’altra rilettura carica di conseguenze, che qui sarà descritta con una seconda citazione ben nota, espressa questa volta dal teologo Alfred Loisy: “Gesù ha annunciato il regno di Dio, ma è venuta la Chiesa.” In misura crescente, la Chiesa venne messa in relazione con il Regno di Dio, senza identificarla completamente con lui. L’attesa imminente venne, per cosi dire, trasformata in istituzione. Deschner scrive in proposito: “Soltanto con questa metamorfosi, mediante la sostituzione dell’idea del Regno di Dio con il concetto di Chiesa, e col crescente sacramentalismo, il Cristianesimo fu salvato e la Chiesa fu consolidata; cioè, mediante un’opera di falsificazione, che rimane tale anche se spesso venne perpetrata in ottima fede, concludendosi poi in maniera del tutto congrua.” (Deschner, op.cit., p. 27)

Gesù non voleva missioni nel mondo

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La più grande assurdità dell’antisemitismo cristiano, di cui torneremo a parlare più avanti, è che Gesù stesso fosse non solo ebreo (e tale fosse per nascita), bensì che lo fosse con piena convinzione. E che tale volesse rimanere. Ebbe una madre ebrea, visse da ebreo, e da ebreo morì. Anche i suoi discepoli furono tutti quanti ebrei. Solo i cristiani ne fecero, per così dire, il primo cristiano, trasformandolo nel fondatore presunto d’una religione che egli, qualora l’avesse conosciuta, avrebbe sicuramente respinto di tutto cuore. Ma un morto, si sa, non è più in grado di difendersi.

I giorni della comunità primitiva, a Gerusalemme, erano contati. Dopo la guerra giudaica, essa scomparve nel territorio della Giordania orientale, e il cristianesimo giudaico in Palestina sprofondò sempre di più nell’irrilevanza. In compenso, il cristianesimo pagano, svincolatosi dalla legge, acquistò uno slancio impressionante, causato soprattutto dall’attivismo di Paolo, e determinato, a più lunga distanza, dalle lettere che di lui si conservarono. A questo punto, Gesù non voleva missioni nel mondo la predicazione evangelica si rivolse anche ai non ebrei; e non ebrei furono quelli che lo spinsero avanti e, mediante la loro missione, ne fecero progressivamente una religione mondiale.

La legittimazione ideologica per la missione tra i pagani venne fornita, a partire dal II secolo, da un detto di Gesù, ossia dal cosiddetto comando battesimale, impartito alla fine del vangelo di Matteo. Il Cristo risorto annuncia ai suoi discepoli: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.” (Matteo 28:18-20). Anche coloro che sono lontani dalle Chiese conosceranno questo “comando”, qualora abbiano partecipato una volta ad un battesimo cristiano, dove si ama impiegarlo.

Ai cristiani occidentali, perlopiù, non appare nemmeno evidente il fatto che, con queste parole, si formalizzi la pretesa cristiana all’egemonia sul mondo. Per cui queste parole di Matteo costituiscono uno dei passi di più vasta portata, essendo tra i più negativi di tutto il Nuovo Testamento. In effetti, questo “comandamento” è stato applicato non solo nell’atto di battezzare (in modo relativamente innocente) neonati e bambini, ma è stato per di più padrino battesimale in ogni battaglia contro gli “infedeli”, nei riti battesimali coatti, eseguiti nel nome della fede cristiana, nella repressione e nell’annientamento collettivo di culture e religioni forestiere, nelle guerre e nei saccheggi di paesi lontani, svolti sempre sotto il segno della Croce.

Ciò che per il marxismo ortodosso è stata l’ideologia della rivoluzione mondiale, fu allora per i cristiani l’ideologia della missione mondiale, che quasi sempre andò di pari passo con l’egemonia e la repressione. Ed è ben lecito aggiungere: i cristiani non solo ci arrivarono molto tempo prima, ma riscossero altresì maggiori successi di quanti ebbe il “bolscevismo”, da cui d’altronde le Chiese misero in guardia sempre più insistentemente, senza riconoscere mai l’analogia della propria ideologia con quella del loro concorrente profano. E i cristiani ebbero – con le parole di Matteo – gli argomenti ritenuti migliori, giacché si presumeva che un Dio in persona avesse emesso la parola d’ordine, e non un angelo: tanto più nessun Engels e nessun Marx poteva arrivare alle caviglie di un Dio [gioco di parole tra Engel=angelo, e il nome proprio di Engels, NdT]. L’imposizione coatta del battesimo è una di quelle parole “eterne” della Bibbia, che più avanti ritroveremo accanto ad altre non meno fatali.

Il più potente ammortizzatore contro questa forma di imperialismo cristiano proviene ancora una volta dalla ricerca neotestamentaria, che ha dimostrato la citazione di Gesù – nel cui nome tanto dolore e tanto sangue si sono riversati sul mondo – come invenzione dell’evangelista Matteo. A prescindere dal fatto che i racconti dell’evangelista riguardo al Risorto sono considerati nella ricerca tutti quanti leggende inventate di sana pianta, cui non spetta alcun appoggio nel mondo reale (anche di questo verremo a trattare in dettaglio), la terminologia tipica dell’evangelista Marco si lascia certificare per mezzo dell’analisi linguistica e della statistica verbale. Invenzioni del medesimo evangelista si manifestano ogni qualvolta, in un detto di Gesù, si concentrano la sua tipica terminologia e le proprie immagini teologiche.

In questo procedimento, ad onor del vero, non esiste una certezza assoluta, come non esiste del resto in nessun momento della ricerca scientifica. In ogni modo, un ulteriore segnale della redazione più tarda del comando missionario è insito nella locuzione: “in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”. Si tratta qui d’una formula triadica, non ancora in uso presso i primi cristiani. In realtà, soprattutto dalle Epistole di Paolo sappiamo che, nell’epoca protocristiana, si battezzava unicamente nel solo nome di Cristo (Galati 3:27) oppure nel nome di Gesù (1Cor 1:13); Apg 8:16; 19:5; si veda in proposito Gerd Lüdemann, Jesus nach 2000 Jahren, S. 325). La formula triplice, presentata qui da Matteo, è da collocare storicamente dopo, e rispecchia probabilmente l’uso di questa formula nella comunità di Matteo, come più in generale racconti e parole dei Vangeli riflettono sovente situazioni comunitarie e problematiche di gruppo. Con la leggenda del comando missionario, si doveva dimostrare alla comunità la sua prassi battesimale in quanto rito fondato da Gesù stesso.

Eppure lo stesso Gesù non ha mai battezzato (diversamente dal suo presunto maestro Giovanni), e nemmeno ha esortato i suoi discepoli a farlo. Anche questo fatto è giudizio pressoché unanime della ricerca. E nemmeno ha mai parlato apertamente dello Spirito Santo (i cosiddetti passi del Paracleto, nel vangelo di Giovanni, sono considerati non storici). Gesù non conobbe alcuna Trinità; tanto meno ne conobbe una che comprendesse sé medesimo quale seconda persona trinitaria. La formazione della dottrina trinitaria rappresenta mera lirica religiosa, creata poeticamente da fantasia speculativa, tanto quanto da una supposta necessità teologica. Anche di ciò tratteremo più avanti. La rappresentazione che Gesù ebbe di Dio fu, per contro, semplice e chiara, essendo (e lo è ancora oggi) l’immagine di ogni ebreo devoto che, al fianco di Dio, non conosce nessuno spazio per qualsivoglia vicario o luogotenente, per quanto trinitario possa essere.

In più, Matteo ha un’ulteriore intenzione nel classificare il mandato di operare missioni. In questo modo, il discepolo corregge il discorso di Gesù circa l’invio di evangelizzatori. Infatti, quando il Maestro invia i suoi discepoli, ingiunge a loro in maniera pressante: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino.” (Matteo 10:5-7).

Ancor più chiaramente Gesù si esprime nel dialogo con una donna non ebrea, che lo supplica di guarire sua figlia: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele.” (Matteo 15:24). Ecco un’esternazione ragguardevole: per quanto riguarda i “pagani”, Gesù si dichiara non competente. Il suo messaggio è indirizzato solo agli Ebrei, e questo è ciò che egli inculca con insistenza nei suoi discepoli.

Queste esternazioni contrastano vistosamente con il comando della missione, ma anche con la pratica dell’evangelizzazione presso i pagani, come quella svolta dalla comunità cristiana di Matteo. Nel primissimo cristianesimo, per la verità, non vi fu nessuna missione tra i pagani. La comunità più antica si attenne palesemente ancora all’istruzione di Gesù, di non andare tra i pagani. Solo gli ellenizzanti, raggruppati intorno a Stefano (cfr. Atti 6-8), riuscirono ad imporre questa linea: la missione doveva puntare anche sui non ebrei.

Paolo divenne in quel momento il grande protagonista dei pagani convertiti o da convertire al cristianesimo. I primi cristiani, dunque, si distanziarono rapidamente dal particolarismo del loro Signore: con conseguenze di enorme portata. In effetti, capovolgendo le istruzioni di Gesù, fu possibile che il Cristianesimo si diffondesse e diventasse una grandezza nella storia del mondo. Ove ci si fosse attenuti alle direttive di Gesù, il movimento cristiano non si sarebbe spinto di certo al di là della condizione tipica d’una setta giudaica.

Alle Chiese cristiane non sarà mai detto con sufficiente chiarezza: il Gesù reale non ebbe palesemente alcun interesse, durante tutta la sua vita, per i seguaci di altre religioni. Egli vide se stesso solo come inviato in mezzo agli Ebrei. Sono loro quelli che Gesù vuole raggiungere, a loro egli manda i suoi discepoli, affidandogli il compito di non entrare nelle regioni dei miscredenti, tra cui sono annoverati già i Samaritani. Gesù difese un particolarismo giudaico, laddove i cristiani ne hanno fatto un universalismo cristiano, falsificando anche qui l’insegnamento di Gesù, tramutandolo anzi nel suo contrario.

Che Gesù fosse ebreo, nient’altro che ebreo, si manifesta inoltre nel Padre nostro, la preghiera centrale della cristianità, che viene recitata fino ad oggi in ogni liturgia. Si voglia rileggere qui il celebre testo ancora una volta con precisione:

« Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male. »
(Matteo 6:9-13)

In questa preghiera non si trova un solo pensiero specificatamente cristiano. Gesù non è qui presente nella sua persona; al centro dell’orazione c’è Dio, e la supplica per la venuta del Regno (non l’arrivo o il ritorno di una qualche figura messianica). Dio è il Signore illimitato del cielo e della terra, oltre o accanto al quale non ci può essere nessun altro. Nemmeno Gesù si arroga una posizione siffatta, come testimonia la supplica E rimetti a noi i nostri debiti; con essa, infatti, Gesù si colloca nella fila degli oranti, ammettendo indirettamente di essere lui stesso onerato di colpe; in nessun modo, dunque, l’uomo senza peccato, immune da colpe, come la Chiesa l’avrebbe poi dogmatizzato. Nel Padrenostro, Dio viene sollecitato a liberare gli uomini dal male: di una redenzione per opera di Gesù, al contrario, non si fa parola. E anche la formula conclusiva Perché tuo è il Regno rimarca di nuovo la sovranità di Dio, accanto alla quale non c’è posto per una seconda persona.

E’ degno di nota che la Chiesa cristiana faccia qui uso, dopo quasi 2000 anni, di una preghiera che nemmeno in timidi accenni menziona i contenuti centrali della dogmatica cristiana, quali ad esempio tutta quanta la soteriologia (l’opera salvifica di Dio attraverso Gesù Cristo): una preghiera in cui non è presente in alcun modo il pensiero trinitario (come abbiamo visto ancora nel comando battesimale), una preghiera in cui, insomma, manca qualunque cenno a Gesù come mediatore di salvezza.

Di lui non si fa alcuna menzione. Al posto di ciò, è determinante un’immagine di Dio chiaramente giudaica. La preghiera del padrenostro è una preghiera ebraica in tutto e per tutto; in essa non v’è parola che un ebreo ortodosso non possa pronunciare di tutto cuore, senza riserve. Grottesca e paradossale realtà della storia, questa: che ne potesse scaturire un antisemitismo cristiano, sebbene il presunto fondatore della religione fosse lui stesso ebreo. E che i cristiani recitino ogni domenica una preghiera che conferma, per di più con grande efficacia, questa circostanza.

Proprio per questo fatto, proprio perché il Padrenostro non contiene pensieri specificamente cristiani, si può dare per scontato che esso risalga nella sostanza al Gesù storico, giacché in epoca successiva non sarebbe stato escogitato in questi termini. Ed è considerevole il fatto che fosse stato tramandato in questa forma. Questa circostanza si spiega forse nel modo migliore, supponendo che Gesù avesse impresso questa preghiera nella mente dei suoi discepoli, che fosse conosciuta tra i gruppi comunitari, e che l’evangelista non avesse osato ometterla. In Matteo, per la verità, essa è inserita in un contesto che non lascia dubbi sul fatto che Gesù sia integrato nell’evento della salvezza. E così la vivono anche i credenti, che probabilmente non notano nemmeno le parti mancanti del puzzle dogmatico; oppure lo integrano attingendo da altri testi: per esempio, dalla professione di fede espressa nel Credo. E così, in ultima analisi, una persona ebrea si trasforma in un Dio cristiano.

Gesù taumaturgo ed esorcista

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Secondo un detto alquanto trito, il miracolo è il figlio prediletto della fede. Ancora oggi, grande parte del fascino esercitato da Gesù emana dai suoi miracoli. Eppure lui, nell’ambiente da cui scaturì il Nuovo Testamento, non fu certo l’unico ad operare miracoli. Per Giuliano l’Apostata, imperatore romano e avversario dei cristiani (ma non solo per lui), Gesù era stato “soltanto uno dei soliti taumaturghi e fondatori di religione che, di tanto in tanto, spuntavano con una certa regolarità” (citato in Deschner, Das Christentum im Urteil seiner Gegner//Il cristianesimo nel giudizio dei suoi avversari, I, S. 46). E, fino ai giorni nostri, non sono mai mancati taumaturghi, o persone che tali si ritengono.

Il solo fatto di operare prodigi, quindi, era ben lungi dall’attestare, nel mondo antico, qualità di carattere divino. Anche da falsi messia e da sedicenti profeti ci si aspettava dei miracoli (Mc 13:22). E anche da parte di Pietro e Paolo, la Bibbia riferisce certi miracoli; e nei più tardi Atti degli Apostoli apocrifi, i miracoli degli apostoli vengono ingranditi in una dimensione fantastica. Il mondo antico brulicava di personaggi ai quali si attribuivano poteri straordinari, e pullulava di culti che si vantavano di avere, o di poter istituire, qualche connessione col divino. La superstizione religiosa, nonché uno straripante esoterismo, prosperava già nell’antichità in forme variopinte e penetranti. E persino all’interno dell’Ebraismo, comparativamente scontroso e sobrio, nonché nell’ambiente giudaico intorno a Gesù, si conoscevano parecchi carismatici del prodigioso.

Così, nel primo secolo precristiano, il rabbino Honi si fece conoscere, tra l’altro, come “sciamano delle piogge”, per cui viene ricordato in termini positivi addirittura da Giuseppe Flavio. Contemporaneo di Gesù fu (ed operò pure prodigi) Hanina ben Dosa, che al pari di Gesù visse in Galilea. Di costui si racconta che scacciasse i demoni e che fosse immune dai morsi dei serpenti. Pare inoltre che avesse procurato due guarigioni a distanza, mediante le sole preghiere. In linea di massima, Hanina ebbe molte somiglianze con Gesù. “Al pari di Gesù, egli visse in uno stato di nullatenenza, scelto da lui medesimo […], e fu indifferente per tutto quanto riguardasse la ritualità. I contemporanei e la tradizione mettono Hanina, come Honi e anche Gesù, in relazione col profeta Elia.” (Theissen/Merz, Der historische Jesus, S. 278; cfr. anche S. 458). Questi rabbini taumaturgici venivano talvolta definiti, nella tradizione, come figli di Dio: Hanina ben Dosa viene interpellato con l’appellativo di “figlio mio”, al pari di Gesù nel suo battesimo, raccontato da Marco. In qualità di mago della pioggia operò altresì il nipote di Honi, Hannan Ha-Nehba. Tutti e due si rivolgono a Dio anche con l’appellativo di Abba, ovvero come “caro padre”, come fece pure Gesù. Di Hanina ben Dosa, a somiglianza di Gesù, c’è in più notizia d’una portentosa moltiplicazione di pani.

Nell’ambiente ellenistico del Nuovo Testamento era noto, e largamente diffuso, il tipo del Theios Aner, dell’uomo divinamente dotato, in grado di operare prodigi e guarigioni. Il modello più noto è Apollonio di Tiana, un filosofo ambulante neopitagorico, che morì verso la fine del primo secolo a. C., e la cui biografia fu scritta da Filostrato. Di Apollonio si tramanda, tra l’altro, il risveglio d’una ragazza defunta, che era morta il giorno delle sue nozze. E qui si impongono paralleli con il risveglio della figlia di una vedova (Luca 7:11-17). Anche Apollonio nacque in maniera portentosa, cacciò demoni al pari di Gesù, e apparve dopo la sua morte ai suoi discepoli. Altrettanto furono venerati come esseri soprannaturali Empedocle, Pitagora ed altri scienziati illustri. Molti ricercatori ci vedono, se non dirette dipendenze letterarie dei miracoli neotestamentari dai loro modelli pagani, quantomeno il comune attingimento da concezioni circolanti nelle credenze popolari.

Anche da numerosi santuari di divinità pagane si ha notizia di moltissime guarigioni miracolose; così dai templi dedicati alle divinità Asclepio, Serapide e Iside. Nella città di Epidauro si è rinvenuta una grande varietà di tavole di ringraziamento, offerte da persone guarite, che ringraziano Asclepio per la guarigione. “Asclepio ha aiutato” … tanto che ci si sente echeggiare nella memoria quel “Maria ha aiutato” ricorrente negli ex voto delle cristiane cappelle mariane. In tutti i tempi gli uomini si sono aspettati aiuti dai loro dèi e figure di culto, essendo in più saldamente convinti di averne beneficiato. Anche questi sono begli esempi della forza dell’autosuggestione e del bisogno mentale degli uomini: quelli di interpretare il mondo secondo le proprie convenienze.

Nelle sue Antiquitates, Giuseppe Flavio racconta dettagliatamente di un esorcismo fatto da un certo Eleazar, di cui fu testimonio oculare non solo lui stesso, ma anche l’imperatore Vespasiano. Al cospetto dell’imperatore, Eleazar aveva guarito un grande numero di soldati che erano invasati da spiriti maligni. I demoni venivano estratti dai nasi degli impossessati, e dovevano giurare di non rientrare mai più nel corpo delle persone invasate. Abbiamo qui un prodigio che è testimoniato assai meglio di tutti i miracoli del Nuovo Testamento: lo storico stesso ne è testimonio oculare, e fa i nomi di numerosi garanti, tra i quali lo stesso imperatore. Con ciò sono esauditi alcuni criteri che depongono a favore della storicità di questo evento. Eppure, nonostante questa buona testimonianza, si potrebbe perciò guardare a codesti esorcismi come ad accadimenti storici? Sicuramente nessuno storico lo farebbe. Ciò nondimeno, molti studiosi neotestamentari credono di poterlo fare, almeno con alcuni miracoli di Gesù, che sono testimoniati molto peggio di quelli narrati da Giuseppe Flavio.

Se non lo furono fin dall’inizio, i miracoli diventarono presto, e poi durevolmente, prova tangibile della divinità di Gesù. In questa maniera essi vennero sfruttati il più possibile, venendo utilizzati per l’evangelizzazione e per l’ammaestramento religioso. Quando si estinse la cultura antica, e andò quindi perduta la cognizione sulla relativa quotidianità dell’attività dei taumaturghi, allora le tramandate storie dei miracoli di Gesù dovettero brillare in maniera tanto più abbagliante. I suoi miracoli, ormai, erano lì a confermare sempre di più la sua divina missione, più di tutte le altre gesta e più di tutti i suoi detti. Per la teologia moderna, ciò nonostante, i miracoli di Gesù divennero un problema. Quanto più progrediva la spiegazione razionale e causale del mondo, tanto più essi dovettero apparire spettacolari e problematici al tempo stesso. E ciò vale specialmente per quanto riguarda gli esorcismi.

Tanto classici quanto superati sono, in questo contesto, i tentativi di teologi di voler spiegare razionalmente i miracoli di Gesù, come hanno fatto ad esempio C.F. Bardt (morto il 1792), oppure H.E.G. Paulus (morto il 1851); si confronti l’articolo Wunder//Miracoli nella TRE (Theologische RealEnzyklopädie) di Bernd Kollmann. Il camminare sulle acque, per esempio, si spiegherebbe col fatto che nel lago di Genezareth galleggiavano tronchi di legno, sui quali Gesù avrebbe camminato. E col miracolo della moltiplicazione dei pani, le cinquemila persone si saziarono tutte perché ciascuno dei presenti tirò fuori le proprie provviste, condividendole con gli altri. Naturalmente, queste spiegazioni non tengono conto dell’intenzione vera e propria delle storie, però rivelano il vero problema: che in età moderna, cioè, quei miracoli, che per l’uomo medioevale non rappresentavano un problema, non possono essere più creduti con altrettanto candore.

Per David Friedrich Strauß (morto il 1874) i miracoli sono dei miti, ovvero narrazioni attribuite a Gesù. Un messia, infatti, non poteva non aver compiuto anche dei miracoli, per cui una serie di prodigi veterotestamentari furono trasferiti, e concentrati, sulla figura di Gesù. Con ciò Strauß contestò radicalmente la storicità dei miracoli di Gesù. Per questa sua posizione, lo storico fu fortemente osteggiato; ma la sua convinzione si è affermata tuttavia in forma moderata.

I due studiosi neotestamentari Rudolf Bultmann e Martin Dibelius, nelle loro fondamentali opere storico-formali, fecero derivare i miracoli dall’ambiente culturale ellenistico. Fu dall’ellenismo, infatti, che intere storie miracolistiche vennero trasferite su Gesù. Nella prospettiva storica, esse sono insignificanti. Nei racconti miracolosi, Dibelius ha visto prevalentemente novelle, scaturite da una profana esaltazione narrativa.

E’ fin troppo comprensibile che Gesù, quale messia annunciato, dovesse attirare su di sé una marea di prodigi. E’ questa, per così dire, una legge naturale e costante dell’agiografia, che può essere riscontrata in moltissime leggende di santi. Nei Vangeli sinottici si può ancora verificare come l’attività miracolistica di Gesù andasse vieppiù ingigantendo. Così, dalla guarigione dell’indemoniato, in Marco 1:20, in Matteo 8:28-34, si passa alla guarigione di due indemoniati. Dove Marco racconta che Gesù ha guarito molti (Marco 3:10), Matteo parla invece del fatto che ha guarito tutti (Matteo 4:24). L’avere sfamato cinquemila (persone) mediante la moltiplicazione dei pani è narrata da Marco 6:30-44, ma due capitoli dopo segue il racconto della seconda moltiplicazione del cibo per quattromila (persone). I due racconti sono così somiglianti, che la ricerca storica sulla tradizione muove dal presupposto che, in origine, fosse in circolazione una sola storia, per quanto in due varianti. Forse Marco non se ne accorse, oppure volle narrare consciamente due storie.

Oltre alle varianti, tra i miracoli si trovano anche veri doppioni, quali ad esempio la guarigione del cieco in Matteo 9:27-31, che viene raccontata pure da Matteo 20:29-34. In più, è palese che alcune parole di Gesù furono riplasmate, nel corso del tempo, in miracoli. Sicché si constata che il prodigio della pesca miracolosa di Pietro, in Luca 5:1-10, è stato riciclato dall’elaborazione del verso 10b: Allora Gesù disse a Simone: Non aver paura! D’ora in poi tu sarai pescatore di uomini. Nella prospettiva storica della tradizione, d’altronde, non fa meraviglia che diversi miracoli elaborati nell’ambiente di Gesù fossero poi trasferiti sulla sua figura: così, ad esempio, lo strano ritrovamento della moneta nella bocca del pesce (Matteo 17:24-27) nonché il miracolo del vino alle nozze di Cana, in cui Gesù trasformò acqua in vino.

Il modello originale di questo è un antico miracolo del vino di Dioniso, trasferito ora su Gesù. Del miracolo del vino a Cana racconta solo il tardo vangelo di Giovanni, mentre i vangeli sinottici non lo conoscono. Il risveglio dei morti, in Luca 7:11-17, ha il suo originale veterotestamentario in un risveglio dalla morte praticato dal profeta Elia (1 Re 17:17-24). Alcuni miracoli spettacolari, secondo la quasi unanime opinione della ricerca, hanno una valenza postpasquale, e sono quindi invenzioni o allocazioni più tarde. Tra queste si contano il placarsi della tempesta (Marco 4:35-41), o Gesù che cammina sulle acque di Genezaret (Marco 6:45-52).

Tuttavia, prendendo pure in considerazione il costante incremento dell’attività miracolistica di Gesù, la formazione di varianti e duplicati, o anche il multiforme slittamento di motivi circolanti nell’ambiente di Gesù, prevale nella ricerca una vasta unanimità sul fatto che, già nelle più antiche storie della tradizione, Gesù viene descritto come taumaturgo ed esorcista. Gli esorcismi, in particolare, “stanno al centro del suo operare miracoli”, come afferma Bernd Kollmann nell’enciclopedia TRE sopra citata. Sono questi esorcismi che, naturalmente, procurano ai teologi moderni difficoltà particolarmente gravi.

Già nel mondo antico, d’altronde, l’opera esorcistica di Gesù venne progressivamente sottaciuta, dal momento che anche là andava rivelando, probabilmente, tracce di scarsa serietà. Tant’è vero che il Vangelo di Giovanni rinunzia completamente agli esorcismi. Dalla prospettiva della modernità, si rispecchia negli esorcismi, in particolar modo, una visione del mondo arcaica e, anche nel senso negativo del termine, antiquata e anacronistica. Eppure, anche malati “normali” erano considerati sovente persone possedute da spiriti maligni. L’uomo antico poteva spiegarsi il comportamento di malati psichici o di epilettici soltanto in questo modo: che ne fossero responsabili certe presenze demoniache. Certo è che, ricorrendo all’intervento di diavoli e spiriti malvagi, semplicemente, il mondo si comprendeva meglio. Dietro i demoni, però, gli Ebrei vedevano all’opera il diavolo in persona.

L’attività di Gesù come esorcista venne riconosciuta anche dai suoi avversari come dato di fatto (Marco 3:22), ed è evidente che Gesù percepì se stesso soprattutto come esorcista. Per lui, espellere i demoni e guarire gli infermi erano segni dell’imminente regime di Dio. E’ possibile che, in quest’opera, Gesù avesse mietuto successi di vario genere, sebbene non manchino informazioni che questo, in certi casi, non accadeva. Tra i suoi “pazienti”, non possiamo non immaginarci malati in prevalenza mentali. Nel frattempo, grazie alla medicina e alla psichiatria moderne, le linee ausiliarie d’una possessione demoniaca sono diventate senz’altro obsolete; nondimeno Gesù ha condiviso – in quanto figlio del suo tempo – questa visione del mondo arcaicamente mitologica, condivisa nel suo milieu sociale, in sintonia col cristianesimo delle origini, anzi col Cristianesimo in generale, perdurante fino all’età moderna.

Nel mondo cattolico, ancora ai nostri giorni, si fanno esorcismi; e a Roma esiste, a tale scopo, addirittura un apposito istituto di formazione. Se non fosse talmente grottesco, si potrebbe quasi felicitarsi con la Chiesa cattolica del fatto che, non essendosi conformata per niente al suo Signore in molte cose, lo ha seguito almeno nelle sue gesta irrazionali.

Sono possibili i miracoli?

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Come dovremmo giudicare oggi i miracoli di Gesù? Dovremmo forse accettare che egli avesse compiuto realmente dei miracoli? La ricerca storica può, in molti casi, dimostrare la dipendenza di narrazioni miracolose dall’ambiente di Gesù, può mostrare come l’elemento prodigioso fosse inventato in alcuni momenti, come in altri passi fosse ingigantito, come fosse moltiplicato dagli evangelisti e reso fruibile per la rispettiva teologia del narratore. In questo modo, si può smantellare tutto, strato su strato, fino ad eliminare del tutto molti miracoli. Ne avanzerà tuttavia un nucleo essenziale di guarigioni ed esorcismi che, con i mezzi della ricerca storica, non possono essere ulteriormente ridotti o spiegati.

Ebbene, sarebbe allora dato un motivo, diciamo quasi sicuro, una sorta di prova che Gesù ha fatto realmente dei miracoli? Certi studi di teologi neotestamentari sembrano suggerirlo, anche se l’ipotesi non viene mai pronunciata così esplicitamente. Si ha tuttavia l’impressione che essi vogliano almeno richiamare discretamente l’attenzione del credente irritato verso questa via di scampo.

Di fronte a questo, è necessario dichiararlo senza ambiguità: non esistono ponti che conducano all’irrazionalità. Dal punto di vista d’una coscienza critica, determinati miracoli, che si suppongono operati da qualcuno in qualche parte – sia nell’antichità sia ai nostri giorni –, non sono mai prova per un avvenimento che faccia saltare in maniera mirabolante le leggi naturali e l’ambito conoscitivo di causa ed effetto, e che possano installare un secondo mondo, un mondo fittizio, al di là di quello reale e sperimentabile. Non esistono miracoli: essi sono il giocattolo immaginario d’una coscienza allo stadio infantile; la credenza in essi è espressione d’una fuga dalla realtà che stordisce se medesima: un silente, esaltante inebriamento nella dimensione mitica. L’occulto anelito verso un’isola di significati immersa in un mare di fenomeni effettivi.

Siamo forse troppo radicali? Troppo innamorati della scienza? Nell’evitare le ideologie, siamo noi stessi irretiti ed illusi dentro un’ideologia di fede razionale? Quasi quasi, pare di riudire addirittura le obiezioni che si muovono allo scenario congiunto di religione e di esoterismo. Che ne è dell’assenza di pregiudizi e dell’apertura ai risultati, così spesso vantate della scienza? Persone che, per la loro immagine del mondo, sono quanto mai lontane da una razionale osservazione del mondo, si sentono improvvisamente costrette ad appellarsi alla ragione. In ogni modo, anche esponenti d’una posizione che si comprende scevra da pregiudizi, potrebbero avanzare delle obiezioni a questo proposito. Ecco perché la prospettiva critica dev’essere ulteriormente chiarita.

Il rifiuto dei miracoli e della fede nel miracolo, nonché dell’irrazionalismo che vi sta dietro, è di carattere soprattutto metodico. In realtà, qui non si tratta affatto di miracoli qualsiasi, di cui si narra nella Bibbia e per la cui autenticità s’impegnano strenuamente le Chiese. Fosse soltanto questo! Si tratta piuttosto del guazzabuglio posto in essere da una millenaria credenza miracolistica presente in tutte quante le religioni, ovviamente in tutte le epoche; si tratta della pluralità di presunti miracoli nella fede del popolo, della fede in quanto tale e della cosiddetta superstizione.

Non è solo nella Bibbia, in effetti, che si parla di miracoli; le fede nei miracoli è una fantasia ricorrente in tutte le religioni, nelle religioni considerate superiori, né più né meno che nei culti arcaico-primitivi. Ciò si riscontra nell’irriflessa credenza ingenua dei popoli, come pure nelle scuole teologiche e religiose in tutto il mondo. In più, quella fede affiora anche in scritti non religiosi, come ad esempio nel testo sopra citato di Giuseppe Flavio, che riferisce di un’espulsione demoniaca di cui era stato testimone: una storia, come si è detto, bene documentata. Ammettere che i miracoli del Nuovo Testamento siano veri, significa però dover riconoscere quei miracoli, e per giunta i miracoli dell’Islamismo, del Buddismo e di qualsiasi altra religione. E non vi possono essere, per una determinata religione, condizioni speciali del pensiero, nessuno spazio più lontano dalla ragione, nessun rifugiarsi del credere, anche se (o proprio perché) ogni religione rivendica per sé diritti esclusivi.

E i confini non abbracciano la ristretta cerchia delle religioni cosiddette superiori; la fede nei miracoli è, in ultima analisi, il figlio saccente della Grande Madre, ovvero dell’Irrazionalismo. Gli incensatori di codesta Madre si trovavano rappresentati – nelle forme più variegate ed integrali – non solo negli antichi culti misterici dell’antichità, nella gnosi e nel vetusto occultismo, ma altresì nell’esoterismo dell’èra moderna. Ora, sia che in quel mondo si prenda contatto con angeli o con defunti (e qui sono popolari Goethe, Budda e lo stesso Gesù!), sia che nell’ebbrezza mistica, immersa nella nebbia dei candelotti per suffumigi, si manifesti l’esistenza precedente d’una signora Mustermann [cognome fittizio e immaginario, usato in Germania, per designare un qualsiasi cittadino medio] quale principessa indiana, sia che con l’aiuto d’una verga divinatoria (e un po’ di contanti) si misuri l’abitazione a misura di irradiazioni terrestri, sia che fare sesso tantrico nel fine settimana non sia soltanto bello, ma si riveli una via per l’unione con l’energia cosmica, sia che l’urina del Dalai Lama sia un mezzo efficace contro le cimici, e sia che l’imposizione delle mani Reiki trasmetta non solo l’energia curativa di Buddha e di Gesù, ma anche – mano sul cofano! – faccia ripartire un’auto recalcitrante … ebbene, anche questi esempi, certamente non inventati, rientrano nell’universo dell’Irrazionale, dell’indimostrata rottura delle leggi naturali, ritrovandosi in definitiva nel mondo dei miracoli. Insomma, che l’Irrazionalismo abbia da esibire una bimillenaria teologia, o che rappresenti soltanto l’odierno ruttino d’un individuo che si è autoproclamato guru, in fondo non fa differenza. I due provengono dal medesimo villaggio. Se aprite la porta ad un compare, poi non potrete più impedire l’accesso all’altro.

E ciò che sta davanti alla vostra porta, si chiama legione. Una schiera infinita … fate entrare una volta gli spiriti, e non ve ne libererete mai più. Questo è il senso, quando si dice che, in tema di miracoli, non si tratta solamente d’un problema di comprensione di testi neotestamentari. E’ in gioco tutta una rappresentazione del mondo. E quando è stato detto trattarsi d’una questione di metodo, ciò vuol dire in concreto: se si vuole avvicinarsi un po’ alla realtà, si deve rinunziare all’accettazione di princìpi irrazionali, cercando di spiegare il mondo muovendo da presupposti interiori. Dove un problema non può essere risolto, perché ad esempio il nostro potere conoscitivo è limitato, non è lecito accettare spiegazioni che muovano da premesse irrazionali. Piuttosto, si dovrebbe rinunciare a rispondere al quesito.

Il rifiuto dei miracoli (e dell’irrazionalismo che li sottende) ha pertanto una funzione purificatrice, catartica. Non ogni spiegazione ha lo stesso valore posizionale, non ogni assurdità merita la definizione di ipotesi. Si applica qui un principio della metodica scientifica, conosciuto come rasoio di Ockham. Esso prende il nome dal filosofo inglese Guglielmo di Occam (1285–1347) ma, rispetto al contenuto, si fa risalire ad Aristotele. Il rasoio di Occam significa l’applicazione d’un principio di economicità nell’interpretazione del mondo. In linea di principio, sono da preferire quelle spiegazioni che chiariscono le relazioni col minor numero possibile di ipotesi. Ecco un esempio: voi siete svegli, di notte, e udite sopra di voi, nell’impalcatura del tetto, un rumore sospetto, come uno scricchiolio. Supponete magari che questo sia dovuto a qualche tensione del materiale nella costruzione del tetto, oppure che uno scoiattolo dall’albero vicino abbia trovato accesso al vostro tetto. Sarebbero spiegazioni generalmente accettabili, con poche eccezioni, sufficienti: misurate e parsimoniose. Non fosse che, giacendo sul vostro letto, potreste pure immaginare che degli extraterrestri stiano fluttuando sulla vostra casa dentro una silenziosa astronave e, con una ignota tecnica smaterializzante, coprono lentamente il vostro tetto, per poi rapirvi e trasportarvi sulla stella Alpha Centauri.

Questa interpretazione ha bisogno di molte implicazioni: non è né semplice né economica. Bisognerebbe infatti presupporre che esseri extraterrestri esistano, che dispongano di navicelle spaziali, che con esse possano raggiungere la Terra, che possono librarsi silenziosi, eccetera eccetera. Al mondo reale voi sareste costretti ad aggiungere una serie di ipotesi (ed entità), affinché la vostra costruzione esplicativa possa reggere. Secondo il rasoio di Occam, pertanto, questa spiegazione è la peggiore. Il principio metodico di Occam elimina avvisaglie esplicative fantasiose ed ipotesi malamente verificabili, simili a fastidiosi peli di barba sporgenti. E questo principio basilare si è dimostrato straordinariamente fecondo per la conoscenza e la descrizione del mondo.

Il principio di economia, applicato alla problematica dei miracoli, vorrebbe dire che occorre dare la preferenza a quelle spiegazioni che reggono e convincono senza bisogno di ipotesi incomprensibili. Molto più semplici, più che ipotizzare una violazione delle leggi naturali, sarebbero intime interpretazioni psichiche: ad esempio, che le storie di miracoli sono tutte quante leggendarie, che esse furono assimilate dal coevo mondo circostante, che i suoi seguaci, o anche Gesù stesso, si sbagliarono oppure si illusero, che illusione o autosuggestione vi ebbero un certo ruolo. Queste spiegazioni sono in tutti i casi metodologicamente più valide che la postulazione d’un mondo parallelo, con l’esistenza reale di figure mitologiche. Alle persone religiose, tuttavia, tale procedimento riesce assai difficile.

Perlopiù, i cristiani comprendono l’argomento meglio, quando a questo proposito si parte non dai miracoli di Gesù, ma dai prodigi d’un qualunque taumaturgo antico, o anche contemporaneo. Oppure, per esempio, dall’asserto di ambienti esoterici di possedere la capacità di stabilire contatti coi defunti. Qui sarebbe necessario accettare anche un mondo parallelo completo, ammettendo la combinazione d’una infinità di presupposti, ciascuno dei quali sarebbe da solo più che discutibile. Nel senso del rasoio di Occam, sarebbe allora preferibile un’interpretazione che riconduca tutto l’abracadabra magico ad una fantasia eccessiva, alla tendenza diffusissima tra gli umani all’auto-suggestione, o soltanto ad interessi finanziari. Ogni cristiano intuirebbe subito l’assurdità di sedute spiritiche, ciascuno respingerebbe bruscamente l’oroscopo del destino letto dagli astri: vedrebbe come superstizione non solo i miracoli di altre religioni ma, alla stessa stregua, quelle religioni stesse. E naturalmente elogerebbe l’acume e la forza corrosiva del rasoio di Occam, raccomandandolo ad altri. Solo tenendo lo sguardo fisso alla sua propria fede, costui continua ad andare in giro con la barba lunga.

Il principio di economicità è un metodo, nient’altro che un metodo. Non vi si propagano contenuti determinati; non cade alcuna decisione su ciò che è o non è. Di per sé, il metodo non intende fissare che una determinata direzione esoterica è (univocamente!) errata. Eppure essa, sul variopinto mercato delle affermazioni, mette a confronto accuratamente i prezzi, riconoscendo che diverse merci sono decisamente di scarsa qualità, essendo a troppo buon mercato.

Perciò cadono nel vuoto quelle accuse per cui la scienza stessa rappresenterebbe soltanto una posizione precisa, essendo essa stessa una forma di ideologia. Questa stupidaggine si deve purtroppo leggerla senza tregua; ed è la prova che, in ultima analisi, il problema non è stato compreso. E si vuole pretendere, per contro, una visione del mondo che dovrebbe tanto – per piacere! – avere riguardo per posizioni “emotive”, oppure “a misura di fede”. Fedeli religiosi ed esoterici considerano tutto ciò un’integrazione necessaria per un’idea del mondo “decapitata”, oltre che “unilateralmente meccanicistica”. Sennonché, quello che in tal senso si presenta tanto moderno, è una storia vecchia, davvero antiquata. Modi di pensare religiosi e irrazionali hanno indubbiamente improntato i 6000 anni trascorsi, anche molto più indietro nella preistoria. Ciò che oggi si dovrebbe smerciare come fittizia soluzione, è in fondo il problema stesso.

Proprio perché il pensiero è stato compresso per millenni, irretito da dogmatiche e vincolato da rappresentazioni religiose, che non era lecito né indagare né mettere in discussione, non vi sono stati progressi di alcun tipo per così lungo tempo. Proprio perché per tanto tempo si è creduto alle assurdità di presunte autorità; non vi sono stati sviluppi nuovi, per esempio nella medicina, nell’astronomia, nelle scienze della natura. Solo quando si cominciò ad esaminare il mondo con occhi empirici e sgombri da pregiudizi, solo quando si cercò di osservare la natura senza metafisica, guardando il mondo senza sovrastrutture, solo quando ci si affidò più alla ragione che alla fede, solo allora si sono ottenuti i grandi successi: quelli che in duecento anni hanno cambiato il mondo più che nei 6000 anni di storia.

Quegli spiriti, che da una sorta di neo-irrazionalismo vengono evocati da ambienti religiosi ed esoterici, non sono che i fantasmi esorcizzati di un’epoca trascorsa, i dittatori disarcionati da una coscienza tenuta sotto tutela. Abbastanza a lungo costoro hanno deciso le sorti del mondo, non producendo altro che stasi, inerzia e dogmatismo. Essi hanno avuto la loro opportunità. E’ stato piuttosto difficile toglierseli di dosso, e non si dovrebbe permettergli di rientrare. E non si dovrebbe lasciarsi rifilare come progresso la ricaduta nel Medioevo.

Due cose però, dopo le argomentazioni fatte, sono assolutamente da tener presenti. Primo, che con le teorie insensate non si condannino anche le persone che le esternarono. Proprio perché l’esperienza insegna che la personalità di ogni individuo è una struttura complicata e sottile, formandosi e trasformandosi per una molteplicità di motivi, di esperienze ed incontri, ed inoltre perché la persona rappresenta sempre qualcosa di più della propria visione del mondo, ebbene, si dovrebbe avere riguardo per questi due aspetti: liberare l’uomo dalle sue irrazionalità e, al tempo stesso, apprezzarlo e rispettarlo in quanto persona. Mentre la prima cosa ci sarebbe raccomandata come compito, la seconda ci è proposta come dovere.

E si ricordi pure che in tutte le religioni, tra gli esponenti di tutte le tendenze politiche e tra i discepoli di tutti i presunti “salvatori”, ci sono sempre uomini che cercano di condurre un’esistenza responsabile e umanitaria, e magari ci riescono. La conoscenza autentica è forse questione del futuro; condurre una vita responsabile è piuttosto questione di carattere. E’ una circostanza fortunata che le due cose vadano insieme.

La seconda cosa, che dev’essere ancora rilevata, qualcuno potrebbe averla già sulla punta della lingua. Come la mettiamo con cose che fin qui non possono essere dimostrate, ma che forse sono tuttavia vere? Il metodo sopra descritto non è una strategia di immunizzazione, non ostacola forse (con tutta la buona volontà) nuove conoscenze? Non è insomma esso pure un po’ ideologico? Non potrebbero esservi cose, che pure esistono, che tuttavia vengono qui liquidate avventatamente con un rimando alla magia?

In linea di principio, la critica ideologica non può mai essere sbagliata, e naturalmente è consigliabile anche di fronte a quelle persone che si sentono libere da ideologie. Naturalmente, la scienza deve sempre contare su nuove conoscenze; esse sono addirittura il suo lavoro quotidiano. Fa dunque sempre parte di ciò una certa sincerità, anche di fronte a teorie che appaiano discutibili. Ma dovrebbe essere una franchezza critica. E l’onere della prova ce l’ha colui che afferma qualcosa, che vale come non generalmente accettata nel senso di “opinio communis”.

Chi ritiene davvero possibili demoni o miracoli, ha per l’appunto anche il dovere della prova. Semplici testi, solo tradizioni, per quanto possano trarre origine da scritti sacri, non possono mai attestare una rottura delle leggi naturali. Sono qui d’aiuto, oltre alla critica storica, i princìpi fondamentali di analogia e di correlazione (Ernst Troeltsch), che, per dirla alla buona, accettano come accaduto un evento storico soltanto quando sia in sé plausibile e intelligibile, e quando coincida col nostro bagaglio di esperienza. Per dirla tutta schietta: dato che oggi non ci sono più miracoli, si può dare per scontato che così fosse anche in epoche passate.

L’ostacolo del dovere della prova non può essere risparmiato a chi afferma l’esistenza di cose che si pongono oltre l’orizzonte sperimentale. E questi non possono respingere la domanda delle prove come sconveniente o non adeguata al problema, come amano fare i circoli esoterici e religiosi, dove la richiesta di prove documentali viene giudicata quasi come un’offerta immorale. Non è lecito farsi ingannare da siffatte smancerie: nel grande traffico, sull’autostrada delle visioni del mondo, circolano semplicemente troppi viaggiatori visionari.

Anche teologi progressisti amano flirtare con l’impossibilità di emettere decisioni sicure al cento per cento, nel campo della storia. Per la verità, quasi tutti sottolineano che non si dovrebbe dipendere dai miracoli; al contrario, che la fede dovrebbe poggiare invece sull’annuncio, sulla fede della Chiesa, su Cristo stesso, o su una scelta esistenziale. Ciò nondimeno, col piede essi tengono aperta una porta secondaria, una via di scampo metafisica a favore della fede nei miracoli. Ed in effetti, oggi come in passato, questa fede gioca sempre un ruolo importante per i credenti.

Teologi e parroci che affermano l’inesistenza dei miracoli, ammettendo implicitamente che neanche Gesù ne fece, si scavano la propria fossa professionale. Per questo motivo si sta molto attenti alle circostanze effettive, alle situazioni reali dei credenti e delle rispettive Chiese. Nei commenti esegetici, e soprattutto nei libri di teologia sistematica, quando si tratta il tema dei miracoli, si configura spesso una vera e propria danza sulle uova, che ad un livello di astrazione più alto, o presunto tale, non fa che simulare un certo significato degli enunciati. In nessun altro spazio, in campo teologico, vengono lanciati tanti candelotti nebbiogeni come quando si parla di miracoli e di resurrezione. Persino gli studiosi neotestamentari, piuttosto sobri e spassionati, lavorando con metodi storici ormai riconosciuti, si lasciano andare qui, di tanto in tanto, ad un religioso lirismo, somigliante a quello che si conosce d’altronde nei loro colleghi dediti alla dogmatica.

Ci siamo un po’ allontanati, intanto, dalle nostre riflessioni sulla vita di Gesù. Ma è proprio trattandosi di miracoli, tuttavia, che ciò era assolutamente opportuno. Ulteriori considerazioni teoretiche seguiranno in altre occasioni.