Utente:Monozigote/sandbox10

G & G

L’insegnamento di Gesù

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Nella coscienza dei credenti, Gesù ha dato prova del suo essere figlio di Dio non solo mediante molteplici miracoli, con la forza del suo annuncio, ma creando altresì qualcosa di completamente nuovo, non solo nei confronti con l’ebraismo. Egli predicò con autorevolezza (non come solevano fare gli Scribi), in maniera tale che il popolo ascoltava attonito i suoi discorsi. Si vedeva lo spirito di Dio operante in lui. La sua pretesa divina si sarebbe manifestata anche in un’etica nuova. Una concezione legalistica, solidificatasi nel giudaismo, egli l’avrebbe rimpiazzata a vantaggio degli uomini con l’assicurazione dell’universale amore di Dio. Con la forza della sua autorità, prendendo le distanze dal Giudaismo, avrebbe annunciato l’amore del prossimo, anzi addirittura l’amore per i nemici, creando così qualcosa di inedito. Questa tradizionale visione dei credenti trova il suo sostegno nelle dottrine della Chiesa, e si riscontra nella sintonia con le professioni di fede.

Contro questa rappresentazione, tuttavia, la ricerca neotestamentaria ha sollevato gravi obiezioni. Gesù, oggi, viene visto molto più nettamente dentro i parametri dell’Ebraismo e della teologia ebraica, e molto meno quale annunciatore di un’etica nuova. Ciò che oggi, nella coscienza dei credenti, è sentito ancora come rivoluzionario nella sua predicazione, era predeterminato per molti versi nell’Ebraismo o nel mondo culturale ellenistico. Più di tutto, è nella letteratura rabbinica che si riscontrano molti paralleli coi contenuti centrali del suo annuncio; e se, in passato, Gesù era ancora il possente araldo d’una dottrina del tutto inedita, oggi lo si vede come una voce nel coro d’una vivente discussione tra rabbini.

Hermann Samuel Reimarus, il professore del ginnasio di Amburgo, i cui “Frammenti d’uno sconosciuto” furono pubblicati da Lessing negli anni 1774–78, fu il primo a sostenere l’opinione (non si fidava ancora di esternarla ai suoi contemporanei) che Gesù col suo annuncio era rimasto interamente dentro i confini dell’Ebraismo. Sebbene molte tesi di Reimarus siano oggi considerate superate, tuttavia, coi suoi scritti, egli diede un impulso decisivo alle indagini sulla vita di Gesù. Il giudizio di Reimarus, secondo cui Gesù rappresentò un’etica giudaica, trova ampio consenso, in forma modificata, anche ai nostri giorni.

Con ciò progredisce pure una revisione dell’immagine dell’Ebraismo, quale ci si presenta negli scritti neotestamentari. Il Nuovo Testamento, in realtà, trasmette un’immagine distorta, pressoché caricaturale. Ai cristiani della prima generazione, infatti, premeva per diversi aspetti di differenziarsi rispetto agli Ebrei, i quali non erano disposti ad accettare come Messia il figlio di artigiani proveniente da Nazareth. Gli Ebrei diventarono dunque l’avversario, per cui, nella letteratura cristiana, anche Gesù fu trasformato già in un nemico degli ebrei. Deformazioni, caricature o svalutazioni, caratterizzano l’immagine degli Ebrei già nei Vangeli e nella letteratura epistolare.

Il legalismo giudaico non deve assolutamente essere visto in maniera così negativa, come accade nei Vangeli. Per un ebreo devoto, la Legge non era un peso, bensì un dono di Dio. Il pensiero cristiano, secondo cui gli Ebrei dovevano essere liberati dal peso della Legge, non colpisce affatto nel segno, e manca totalmente il bersaglio. Anche l’opinione per cui la devozione ebraica sarebbe stata pietrificata in un esasperato legalismo casistico, oggi non si sostiene ormai più. Si è dimostrato invece che, nell’adempiere la legge giudaica, non si trattava affatto di singole disposizioni, ma che, per gli ebrei devoti, era costitutivo l’insieme della legge e la sua personale acquisizione esistenziale. La religiosità ebraica era più intima, più personale e, rispetto al prossimo, più responsabile di quanto sia stato ammesso da una retrospettiva cristiana.

Anche i Farisei, che nei vangeli sono rappresentati nettamente come gli avversari di Gesù, vi figurano sotto forma di caricatura. Non devono essere intesi quali rappresentanti d’una religione legalistica, credula ed esangue nei folianti giudaici, insensibile verso lo spirito della Thora. In loro, si dovranno vedere piuttosto degli ebrei seriamente impegnati nel condurre un’esistenza che piacesse a Dio, senza quelle insinuazioni cristianeggianti che hanno avvelenato durevolmente il rapporto tra queste due religioni, con l’unilaterale sofferenza degli Ebrei. Si deve in gran parte ai moderni teologi ebrei, come David Flusser, di aver ristabilito un correttivo a codesta deformazione bimillenaria.

Gesù ha dunque creato una nuova etica? Ha annunciato sostanzialmente qualcosa di nuovo? Questa domanda, oggi, trova in generale una risposta negativa. Nell’annuncio di Gesù, nella migliore delle ipotesi, vengono evidenziate tendenze, che tuttavia devono essere intese come posizioni giudaiche interne, e che quindi non rappresentano alcuna opposizione all’ebraismo.

Secondo Theißen, l’etica di Gesù è pura etica giudaica. Egli non avrebbe fatto, delle violazioni della Thora, leggi generalmente valide. “G. Kittel dimostra che, per tutte le singole istanze espresse nel Discorso della montagna, esistevano analogie nella letteratura dei rabbini. Tutto ciò che Gesù ha detto, è pensabile in linea di principio anche nell’ebraismo.” (Theissen/Merz, Der historische Jesus, S.315). Helmut Thielicke sottolinea che Gesù non avrebbe pronunciato “una sola parola che non si fosse potuta leggere prima di lui, almeno in forme somiglianti, nella letteratura rabbinica.” (H. Thielicke, Und wenn Gott wäre. Reden über Gott, S. 32). Anche Bultmann, nel suo libro su Gesù, non lo vede come portatore di un’etica nuova.

Questo aspetto risulta evidente nella cosiddetta duplice offerta dell’amore, un topos etico palesemente centrale nell’annuncio di Gesù (Marco 12:28-34). Qui Gesù viene interpellato da uno scriba su quale sia il primo e supremo comandamento. Ed egli risponde proprio come ci si aspetta da un devoto ebreo:

« Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore, amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la tua anima, con tutta la mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questo. »

Nella prima parte si distingue specialmente nel monoteismo, come esso appare nella preghiera ebraica certamente più celebre (accanto al padrenostro!), lo Sche’ma Israel, che gli ebrei devoti recitano anche oggi (Deuter 6,4). Il comandamento dell’amore per il prossimo (ama il tuo prossimo come te stesso), si trova nel Levitico 19,18. Nella sua risposta a Gesù, lo scriba lo ripete ancora una volta esplicitamente. Col nome di prossimo non ci si deve immaginare una persona qualunque (altrimenti lo si esprimerebbe diversamente) bensì, in sintonia con le concezioni ebraiche, persone appartenenti al proprio popolo.

Nel Sermone della montagna, in Matteo, si trovano proposizioni che sottolineano ulteriormente questo fatto, che ai cristiani creano problemi ancora oggi. “Non crediate che io sia venuto per abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.” (Mt 5:17-18) Gesù rimarca la validità della Legge. Sennonché la Chiesa ha voluto interpretare Gesù proprio come abrogatore della Legge. E si procede con maggior vigore:

“Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel Regno dei cieli” (Mt 5:19.) In questo punto, le parole stesse (si presume) di Gesù testimoniano contro questo topos della teologia cristiana. Il presunto superatore della Legge insiste gagliardamente sulla rigida osservanza della Legge ebraica. Ad onor del vero, si deve ammettere che nella ricerca la storicità di questo passo è controversa, giacché la si può intendere quale apologia della prima comunità giudaico-cristiana che voleva attestare, con la libera creazione di questa storia, di non volersi porre al di fuori dell’Ebraismo.

I cristiani che si considerano particolarmente devoti (cattolici o protestanti compresi nel ventaglio evangelico), si trovano dunque di fronte al problema: o Gesù ha detto effettivamente queste cose, e allora i cristiani sarebbero convinti colpevoli di violazione della Legge, avendo soppresso non solo una delle leggi minori, ma la Legge nel suo insieme (secondo il detto di Gesù non avrebbero più speranze per un posto privilegiato nel Regno dei cieli); oppure Gesù non le ha dette. In tal caso, essi dovrebbero ammettere la possibilità d’una parola di Gesù non autentica anche per altri passaggi della Bibbia. Non c’è da stupirsi del fatto che i devoti – pur divisi tra cattolici e protestanti –, valendosi di “interpretazioni” più o meno abili, finiscano per convergere, malgrado tutto, sulla curvatura dettata dalla dogmatica. Su questo, comunque, ritorneremo più avanti.

Non è solo il comandamento dell’amore quello che si riscontra nell’ambiente di Gesù. Neanche l’amore per i nemici è un pensiero che Gesù abbia pensato per primo, nonostante che molti cristiani continuino a crederlo ancora. Già nell’Antico Testamento si trova la disposizione di restituire al proprio nemico il bue o l’asino smarriti (Es 23.4). Nel Libro delle Lamentazioni si trovano questi versi: “Porga a chi lo percuote la sua guancia, si sazi di umiliazioni” (Lam 3,30). Nei Proverbi di Salomone si legge: “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare,/ se ha sete, dagli acqua da bere/ perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo/ e il Signore ti ricompenserà.” (Prov 25,21–22). Dove, con la parola nemico, non è designato il nemico del popolo, contro cui Israele, in quanto popolo, conduce la guerra. Per nemico s’intende soltanto il cittadino appartenente al proprio popolo: l’israelita, il giudeo. Altrettanto vale per il comandamento Non uccidere, che è riferito unicamente a membri del proprio popolo. Nemici del popolo, per esempio soldati stranieri, potevano senz’altro essere uccisi, il che era anzi imposto in varie maniere.

Ciò nondimeno, i cristiani interpretano l’amore per i nemici in senso universale, e credono di potersi così richiamare a Gesù. Gesù, però, pensava davvero in dimensioni tanto universali? Il dilemma, in realtà, non è così chiaro. Se Gesù si è sentito ebreo tra gli ebrei, quando manda i suoi discepoli dandogli esplicitamente il compito di non entrare nei territori pagani, quando si vede espressamente inviato tra le pecorelle smarrite della famiglia di Israele, se vi sono passi che gli fanno ribadire l’assoluta validità della Legge ebraica, quando il suo annuncio resta nell’ambito della cultura ebraica, se insomma egli si manifesta come particolarista giudaico, allora sarebbe assai strano se, con l’amore per i nemici, dovesse d’un tratto assumere una visione universalistica. E’ molto più verosimile pensare che, anche qui, egli rimanga nei confini della propria religione, e che per nemico s’intenda soltanto il connazionale di sentimenti avversi.

Del resto, Marco non dice nulla su quanto riguarda l’amore per i nemici, e sembra che nemmeno lo conosca. Che Matteo ne rechi una visione universalistica, è questione quantomeno aperta. In senso univocamente universalistico sembra pensare solamente Luca, il quale scrive per i pagani convertiti. E questo non avviene per caso, considerato che, per la missione tra i pagani, un Gesù che pensasse in maniera particolaristica era semplicemente inservibile. Se voleva diffondersi davvero, il Cristianesimo doveva necessariamente spezzare le anguste catene dell’Ebraismo. E se i pagani dovevano essere convertiti al cristianesimo, allora non gli si poteva proporre solo l’usanza stomachevole della circoncisione ed una generica legge ritualistica; era necessario offrirgli, in più, un Gesù che rivolgesse il suo annuncio a tutti gli uomini: un amico di tutti i popoli, non solo un amico del popolo ebraico.

Il fatto che, nella prima e seconda generazione dopo la morte di Gesù, si sviluppassero tendenze cristiano-giudaiche e cristiano-pagane ancora parallele (prima che le tendenze pagano-cristiane ne uscissero vincitrici) ha condotto a questo: che nei Vangeli si trovano anche parole di Gesù che sembrano confermare sia l’una sia l’altra visione delle cose. Il Gesù dei Vangeli appare insomma, in ugual misura, sia un universalista sia un particolarista ebraico. Se i Vangeli fossero stati scritti anche solo cinquant’anni più tardi, ogni accento particolaristico sarebbe stato probabilmente eliminato dalle loro pagine. Ma la linea di tendenza è inconfondibile: Gesù fu svuotato sempre più del suo radicamento giudaico, e fu reso utilizzabile alla funzione d’un universalismo cristiano.

Anche le antitesi del Sermone della montagna vengono spesso interpretate come attestazione del nuovo, che sarebbe arrivato con Gesù. Nella ricerca, però, non tutte le antitesi vengono considerate gesuane; almeno le antitesi riguardanti l’uccidere, il commettere adulterio e il giurare, vengono perlopiù attribuite a Gesù. Esse sono formulate in una contrapposizione netta e chiara d’acchito:

« “Avete udito che ai vecchi fu detto […] Ma io vi dico […]”. Sennonché la formula Ma io vi dico viene usata anche per la discussione rabbinica nell’interpretazione della Legge. Con questo enunciato viene espressa un’interpretazione nel senso di: “Avete udito, che un tempo [sul Sinai] ai progenitori di Dio fu detto: Non uccidere […] Ma io vi dico [andando oltre, ma non in antitesi a ciò]: la Thora non viene interpretata, non criticata, non eliminata, essa viene trascesa.” »
(secondo Theissen/Merz, Der historische Jesus, S. 325)

Nel suo libro su Gesù, Rudolf Bultmann ha così giudicato: “Gesù non ha contrastato la Legge, ma l’ha spiegata, dato che l’autorità della Legge era per lui ovvia e indiscutibile.”, Jesus, S. 46). Dalla presunta contrapposizione si giunge così ad una interpretazione, in questo caso ad un rafforzamento di quanto detto, ad un inasprimento della Legge. Anche le antitesi sono patrimonio intellettuale dell’Ebraismo; anche con esse Gesù si muove all’interno della propria religione.

La cosiddetta regola aurea è un altro punto dell’etica di Gesù. Matteo la esprime così: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.” (Mt 7:12) Anche per questo passo esiste una lunga serie di paralleli ebraici; e ve ne sono, per giunta, molti altri ricorrenti nel panorama della letteratura mondiale. In questa regola d’oro si può riconoscere addirittura una norma etica universale, che si ritrova in Confucio, nel Buddismo, nell’Induismo e nello Zoroastrismo.

Tale pensiero affiora anche nella filosofia, in Platone e in Epitteto; in altra forma, anche in Kant. Questa regola, inoltre, è insita nel patrimonio essenziale di ciò che si trasmette pedagogicamente in rime per bambini, essendo radicata nella coscienza più comune. Gesù si sarebbe dunque riferito principalmente alla più generale consapevolezza, o avrebbe pensato ad equivalenti proposizioni giudaiche. E potrebbe non aver avuto neanche un lontano presagio delle molteplici reminiscenze filosofiche o di altre suggestioni religiose. Questa massima, in tutti i casi, non è espressione di un’etica specificatamente gesuana.

L’atteggiamento di Gesù nei confronti della legge giudaica è stranamente ambivalente. Perché, se da un lato troviamo un’acutizzazione legalistica e un’assoluta insistenza nell’osservanza di essa, dall’altro lato ci imbattiamo anche in racconti che esprimono una posizione piuttosto liberale rispetto alla Legge. Ciò dipende, come già accennato sopra, dal convivere di comunità pagano-cristiane e giudaico-cristiane, nonché dal fatto che le comunità cristiane annacquarono i loro problemi, tematizzati nei racconti gesuani, diluendo il reale insegnamento di Gesù sicuramente in molti passi, o stravolgendoli addirittura nel loro contrario.

La storia della tradizione può contribuire ulteriormente a chiarire il fenomeno. Nel più antico vangelo di Marco, infatti, l’annuncio di Gesù resta ancora singolarmente privo di profilo. Il Discorso della montagna Marco non può conoscerlo, dato che fu composto solo per mano di Matteo. Il duplice comandamento dell’amore Marco lo conosce, è vero; tuttavia l’amore per i nemici, assai stranamente, non è presente in lui. Neanche la “regola d’oro” viene riportata da Marco; e persino il Padrenostro manca nel suo racconto. Siccome Marco si mostrò qui improduttivo, Luca e Matteo attinsero gran parte del materiale etico dalla famosa fonte Q dei logia gesuani. L’origine e la composizione di questa fonte, però, anzi la sua esatta dimensione, non ci è nota. Se si suppone di sapere molto dell’annuncio di Gesù, allora, ad un esame più ravvicinato, parecchie cose diventano non credibili; e diverse ardite costruzioni di teologi sistematici, ma anche di scritturisti neotestamentari, appaiono insostenibili, fondate e confermate in misura insufficiente. Sono fondamenti problematici, questi, sui quali una religione universale ha edificato cattedrali e palazzi.

La Chiesa cattolica potrebbe cavarsela ancora nel modo migliore, adottando un atteggiamento ambivalente di Gesù nei confronti della Legge giudaica. Siccome essa, rispetto al protestantesimo, ha una dottrina della giustificazione meno accentuata, sarebbe per essa più accettabile un Gesù che accentui maggiormente le leggi, e quindi le opere. Per i protestanti, è senz’altro più difficile. Il protestantesimo trova maggiori difficoltà già con alcuni passaggi nelle Lettere non paoline (per esempio con la Lettera di Giacomo), che suggeriscono una redenzione, o almeno una cooperazione, nel riscatto del peccatore, ottenibile attraverso opere di carità. Di più ancora con un Gesù, per il quale valesse soltanto la fede. In maniera particolarmente positiva sono perciò giudicati quei passi in cui Gesù mette apparentemente fuori gioco, o almeno la riduce nei suoi limiti, la Legge giudaica. Una posizione più libera Gesù sembra assumerla quando si occupa del sabato; e ciò si riconosce nella storia dei discepoli che strappano le spighe nel giorno del sabato, e in alcune guarigioni operate nel sabato, quali vengono raccontate già in Marco.

Tutti gli evangelisti informano sulle trasgressioni di Gesù e dei suoi discepoli ai comandamenti del Sabato. Per questo motivo si possono prendere le mosse da un reale appiglio nella vita di Gesù. E magari si trova qui una ragione per cui, alla fine, si decise di uccidere Gesù. In ogni caso, non si può dire che Gesù avesse rifiutato il sabato in linea di principio. Al contrario, i suoi discepoli e lui stesso lo hanno apertamente rispettato, manifestando tuttavia una comprensione più liberale, più filantropica. Gesù contravviene al comandamento del sabato ogni qualvolta sembra esservi un’esigenza di umanità.

Così, per esempio, nella guarigione della mano paralizzata nel giorno del sabato (Mc 3:1-6). Il narratore fa che la guarigione avvenga in una sinagoga. Per gli ebrei, essa diventa l’occasione di attentare alla vita di Gesù. “E i Farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.” Anche per gli ebrei devoti, tuttavia, era assolutamente conforme alle regole del Sabato di aiutare, per esempio, animali caduti in pericolo. Anche l’autodifesa era consentita nel sabato, fino all’uccisione del nemico. Ma la guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata non era una guarigione per pericolo di vita; ci sarebbe stato il tempo per aspettare la fine del sabato. Gesù ne era ben conscio, agendo in modo provocatorio. Così avvenne pure con la guarigione d’una donna inferma e che camminava tutta curva, in Lc 13:10-17. Anche qui la guarigione si svolge in forma dimostrativa, di sabato, nella sinagoga. Nella casa di un fariseo, infine, egli guarisce un uomo che soffre di idropisia (Lc 14,1–6). E motiva il gesto con le parole: “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito nel giorno di sabato? E non potevano rispondere nulla a queste parole.” Non potevano, non foss’altro perché il salvataggio d’un animale caduto nel pozzo era in realtà ammesso anche di sabato, in ogni caso per un fariseo “normale” (per gli Esseni, che osservavano rigorosissime regole sabatiche, era tuttavia vietato ogni aiuto per salvare un animale di sabato). Anche qui si può chiedere: la guarigione non poteva aspettare ancora un giorno?

Sennonché Gesù punta anche qui sulla provocazione. Vero è che non si pronuncia mai direttamente contro il Sabato, ma il suo comportamento sfiora pericolosamente i margini del possibile. Per molti, questa tolleranza dev’essere stata già eccessiva.

Nel raccogliere le spighe di sabato (Mc 2:23-38) non era in gioco nessuna guarigione. I Farisei accusano i discepoli di Gesù di avere strappato le spighe e di averle mangiate. Qui s’intende forse Gesù? Lui, comunque, si giustifica con la ben nota massima: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.” Anche con questa massima Gesù non dice nulla di nuovo, essendovi in proposito una serie di paralleli rabbinici. Ma forse, con tali azioni, egli ha messo a troppo dura prova la pazienza dei suoi avversari. In tutti i casi, con la sua liberale interpretazione, egli si è mosso sfidando rischiosamente il comandamento del sabato.

Indubbiamente, Gesù provocò allora i contemporanei col suo comportamento. Nell’intento di aiutare la gente, egli mitiga comandamenti rituali, peraltro senza abolirli nel loro complesso; in maniera autoritaria, è capace di non tener conto del sabato, senza polemizzare contro la consuetudine in quanto tale. Nonostante una più conscia e più libera interpretazione della Legge in situazioni concrete, per lui era fuori discussione che, in linea di principio, la Legge dovesse essere osservata. Gesù non era un rivoluzionario, né in senso politico né in quello cultuale. Il Sabato era sacro anche per lui. E sacro fu ancora per i primi cristiani in Palestina. Anch’essi restarono fedeli al culto nel tempio, ottemperando al sabato e alla Legge giudaica.

Giacomo, fratello carnale di Gesù e per alcuni anni guida della prima comunità a Gerusalemme, viene perciò definito “il Giusto” persino da Giuseppe. Egli e i primi ebrei cristiani poterono richiamarsi a Gesù, per ciò che riguarda la sua fedeltà alla Legge. Nondimeno, con l’influsso sempre crescente dei pagani cristiani, e con la progressiva scomparsa del cristianesimo ebraico, la Legge e il Sabato ebbero un ruolo sempre più esiguo.

Tale processo avanzò al punto che, al posto del sabato ebraico, subentrò la domenica cristiana. E anche qui si dovrà di nuovo tenere per fermo: ciò non avvenne in sintonia con la volontà di Gesù. Il Gesù storico fu un ebreo tra gli ebrei, e giammai avrebbe dato il suo consenso ad una tale svalutazione del sabato. Il fatto che egli dovesse pagare con la propria vita, che la sua vita dovesse essere usata per scardinare la sua propria religione ebraica, ebbene, a questo non si sarebbe certamente mai rassegnato. La promozione di Gesù da ebreo devoto a primo cristiano fu niente di meno che uno stupro: una violenza operata nella storia spirituale. E fu un bene che Gesù non dovesse più vivere siffatta esperienza.

Positività nell’insegnamento di Gesù

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Quasi quasi ci si sente costretti a prestare aiuto, a schierarsi in favore di quest’uomo, al quale la sua Chiesa giocò un tiro così brutto. Essa tradì le sue più intime professioni e convinzioni di fede, stravolgendo la sua religione e facendo, di un pio adoratore di Geova, un essere oggetto di adorazione; e questo già subito, dopo la sua morte, e fino alla nostra epoca. In modo tale che in lui ci sono parecchie cose che ci appaiono simpatiche.

Tra queste, il comandamento dell’amore sta naturalmente al primo posto. Esso viene visto volentieri come la quintessenza di ciò che Gesù ha insegnato, sebbene questo consistesse piuttosto nell’imminente governo di Dio. E anche se il comandamento dell’amore era già impresso nell’Ebraismo, e sebbene si trovi in altri testi religiosi e filosofici, si fa sempre una bella figura ad accentuarne il valore. E’ un linguaggio che ogni essere umano comprende ed accoglie volentieri. I testi che trattano dell’amore fanno sicuramente parte di quanto è più degno di conservazione tra gli scritti della Bibbia, per altri versi tanto sopravvalutati. Ed in ciò non fa differenza il fatto che il pensiero dell’amore venga talvolta propagato da personaggi altamente discutibili, da opportunisti, profittatori e da adulatori spirituali, del tipo di Bhagwan Osho e di altri capi settari. Resta, in ogni caso, che Gesù ha interiorizzato e divulgato questo ideale dell’amore.

Due limitazioni, peraltro, si devono pur fare. Abbiamo già visto come sia incerto se Gesù abbia inteso realmente l’idea dell’amore, se abbia pensato così universalmente l’amore per i nemici, nel modo che oggi noi gli accreditiamo. La concezione dell’amore per il nemico, infatti, è tanto più seducente quanto più la si concepisce priva di destinatari esclusivi. Pertanto, concretamente: Gesù di fronte ai Romani, che occupavano la sua terra e che col loro culto dell’imperatore rappresentavano per di più un costante pericolo religioso, pensava per davvero, esortando ad amare i nemici, anche a loro? Sono dubbi legittimi ed appropriati.

In secondo luogo: l’amore così propagandato non vale globalmente, per il prossimo indifferenziato. Questo amore è sempre connesso col comandamento dell’amore di Dio. Si deve amare Dio ed insieme il prossimo. E spesso l’amore per gli uomini viene desunto e suggerito dalla fede in Dio, in maniera tale che può amare gli uomini soltanto colui che ama anche Dio. Gli esponenti della Chiesa rimarcano questo aspetto, oggi, con aria sempre di sufficienza, dai pulpiti e nei talk-shows. Chi vive senza riferimenti a Dio, si limita a condurre un’esistenza solo deficitaria ed egocentrica. Come se, nella storia, non si potessero trovare abbastanza prove e conferme del fatto che la religiosità non protegge affatto dalla crudeltà. E come se, per converso, non vi fossero molte persone che vivono in maniera eticamente responsabile, anche senza riferimenti religiosi.

In Germania, per fare un esempio, le persone non religiose rappresentano già quasi una maggioranza nella popolazione: nella Germania orientale, ormai da lungo tempo. Domina forse, per questo, il caos, o una sorta di anarchia etica? Torneremo più avanti su questo tema; per ora basti accertare quanto segue: Gesù ha collegato l’etica con la fede in Dio. Un’etica futura, se e in quanto debba essere trasmessa per vie interculturali, deve necessariamente rinunciare ad una religiosa regressione dell’etica.

Suscita inoltre simpatia, in Gesù, il suo scarso interesse per il rito, o meglio la sua consapevolezza, ove la situazione lo esiga, di accantonare questioni ritualistiche, come abbiamo visto nel suo modo di trattare il problema del sabato. Gesù non era un bigotto ipocrita, e nemmeno un feticista della liturgia. Quando la situazione lo impone, persino il sabato viene declassato a favore delle persone. C’è in lui un impulso umanitario, una noncuranza per l’esteriorità, associata spesso ad un alito di anarchia. Riguardo al “precetto cattolico” di non mangiare carne il venerdì, egli ne avrebbe probabilmente riso; e la letteratura che riempie intere biblioteche, riguardo al contenuto e al significato simbolico della comunione, gli sarebbe sembrata quantomeno sospetta.

Oggi avrebbero pure qualcosa di simpatico i casi in cui Gesù (ciò che allora era inteso naturalmente come riprovevole) veniva descritto come “mangione e beone”. Per noi, gli asceti sono sospetti. Gesù non fu un asceta, e sapeva provare piacere anche per le cose profane della vita. In ciò si differenzia amabilmente da Giovanni il Battista, quel ringhioso profeta della fine del mondo che, venendo dal deserto, si nutre solo di cavallette e miele selvatico, annunciando il giudizio finale col cilicio. E che per di più digiunava, e i cui discepoli pure digiunavano. Gesù non ha digiunato, e neppure ha incitato i suoi discepoli a farlo. Per questo motivo egli viene attaccato senz’altro dai Farisei che digiunano (e rispettivamente i suoi discepoli per lui). Nel III e IV secolo, molti anni dopo la morte di Gesù, si formò in Egitto e in Siria il primo monachesimo, che nel corso dei secoli avrebbe assunto grande importanza.

E’ questa una delle molte curiosità del Cristianesimo: nacque infatti un movimento straordinariamente influente, che elevò l’ascesi a principio universale, richiamandosi presuntivamente ad un Signore che, personalmente, era poco incline ad aspirazioni ascetiche; Gesù, per la verità, non avrebbe saputo che farsene delle molteplici macerazioni del corpo e dello spirito, di quelle mortificazioni spirituali e corporali che i monaci, spinti da una (spesso patologica) fantasia cristiana, andarono immaginandosi nel corso dei primi secoli “per la maggior gloria di Dio”. Quanta fatica sprecata! Quante pene d’amor perdute! E’ come se molte orchestre si fossero radunate per intonare un possente oratorio; non fosse che il Signore preferisce invece divertirsi, andando magari al cinema.

In tutto ciò, già la prima generazione dopo Gesù si mostrò più rigorosa del suo Signore. Intorno all’anno 100, digiunare fu già un’usanza consolidata. E la Didaché (o Dottrina dei Dodici apostoli) decretava: “Il vostro digiuno non dovrà aver luogo in contemporanea con quello degli ipocriti; costoro infatti digiunano il lunedì e il giovedì; voi invece digiunerete il mercoledì e il venerdì.” (Did 8,1; cfr. Conzelmann, Geschichte des Urchristentums, S.101). A prescindere che qui, con l’epiteto di ipocriti, s’intendono gli ebrei … ad una siffatta presunzione religiosa Gesù non si sarebbe mai spinto. Sennonché le cose erano in movimento, si aveva palesemente la sensazione che il digiunare fosse consono alla fede (o addirittura una necessità) e, da ultimo, in sintonia con la volontà di Gesù.

Le Chiese, in particolare quella cattolica, con codeste pratiche, hanno sovente riversato il proprio sentire contingente, legato alle contingenze dell’epoca, in una dogmatica vincolante per tutti, lasciandosi spesso impressionare poco o punto dai dati di fatto. E naturalmente si trovavano – nell’Antico e nel Nuovo Testamento – molti passi che giustificavano anche l’ascetismo e molte altre cose ancora, nonostante che, trattandosi di ascesi e dell’ostilità al corpo da cui traevano origine, ci si orientasse spesso più verso il neoplatonismo, verso le correnti gnostiche e diversamente dualistiche, più che sulle stesse fonti bibliche.

Anche sul problema del puro e dell’impuro, centrale per un ebreo, Gesù si mostra sorprendentemente moderno. Interpellato dai Farisei sulla questione, e sul fatto che i suoi discepoli mangiano con mani impure, cioè non lavate, quindi senza attenersi alle leggi giudaiche sulla purezza, così spiega: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro.” (Mc 7:15). Questa proposizione, che a noi appare oggi tanto ovvia e che rivela un Gesù quasi illuminista, sarebbe stata per l’Ebraismo (lasciandola stare così, in questa assolutezza) quasi un principio esplosivo. Per alcuni studiosi (per esempio Käsemann) questo sarebbe un motivo per disconoscerla a Gesù, considerandola piuttosto una creazione più tarda della comunità. In essa, si esprimerebbe il contrasto della comunità cristiana con l’ebraismo. Altri ricercatori, che non contestano la frase di Gesù (per es. Theißen), la interpretano come espressione dell’ordine superiore della purezza etica rispetto alla purezza cultuale. Il che potrebbe adattarsi tanto al libero rapporto che Gesù ebbe nelle questioni del culto quanto alla sua etica orientata sulla persona.

Oggi, sulla questione puro e impuro, noi, e anche le Chiese, non abbiamo più difficoltà. Il problema è considerato risolto, i precetti di purezza liquidati e superati. Gesù l’ha detto lui stesso, e così sta scritto nella Bibbia. Anche qui, tuttavia, è lecito dubitare che Gesù difendesse davvero una posizione così radicale, quale quella che qui gli si addossa. L’avesse fatto, la cosa si rispecchierebbe di certo più chiaramente nei Vangeli. Il completo distacco dalla giudaica antinomia tra Puro e Impuro, tra Sacro e Profano, Gesù non l’ha sicuramente compiuto; le posizioni delle Chiese a questo riguardo egli non le avrebbe difese. Dal suo coraggioso e flessibile rapporto con la Legge, con le categorie del Puro e Impuro, le Chiese avrebbero elaborato in avvenire una loro legge, del tutto inedita. Su questo tema, in un certo senso, Gesù aveva teso soltanto il mignolo; ma le Chiese si presero tutta la mano.

Simpatico ci appare oggi, per giunta, il suo stare insieme con gruppi marginali della società del suo tempo: con gabellieri, pubblicani e peccatori. Qui gioca sempre un po’ di romanticismo sociale, giacché qualcuno che oggi abbia a che fare con gruppuscoli emarginati della società, con prostitute, vagabondi o bancari, urterebbe in un rifiuto non minore a quello di Gesù in quel tempo. A questo punto si ama collegare un’immagine di Gesù che vuole vederlo come un rivoluzionario sociale, quasi un combattente per la causa di diseredati e reietti.

Sotto questo aspetto, è soprattutto Luca quello che sottolinea un Gesù “in cattiva compagnia” (Adolf Holl); gli altri evangelisti, evidentemente, non lo videro sotto questa luce. Solo in Luca si trova, accanto alle beatitudini, quel semplice “Beati sono i poveri” (un detto divenuto probabilmente storico), da cui Matteo, con diversa valutazione teologica, trasse un “Beati i poveri di spirito”, falsandone così il senso. La predicazione di Gesù era rivolta soprattutto ai poveri e alla gente semplice ed umile, come quella che egli incontrava in Galilea.

A costoro egli promette e dedica l’egemonia divina, rivalutandoli così nei confronti delle istituzioni religiose ed economiche della società. E’ propriamente questo carattere sociale ciò che ha contribuito al successo del movimento gesuano: l’essersi rivolto alla grande massa popolare. Naturalmente, anche la ricusazione della ricchezza conquista il consenso dei poveri. Non v’è dubbio che il cristianesimo fu, nei suoi primordi, un movimento dal basso, supportato in gran parte da gente povera, ghettizzata ed emarginata, e da donne. Certo, una religione aristocratica non avrebbe mai potuto diventare una religione mondiale.

Addirittura moderno si considera appunto il rapporto di Gesù con le donne. Nella patriarcale società ebraica, egli intrattenne con le donne un rapporto evidentemente molto più libero di quanto si sarebbe potuto aspettare. Nell’ambiente giudaico di Gesù, infatti, la donna non contava molto. Essa era una creatura di seconda classe, una persona nata di seconda mano, creata dal maschio e fatta per lui, priva di diritti. Nella liturgia dell’ebraica preghiera mattutina si recitava: “Sii lodato, Eterno, nostro Dio, re del mondo, per non avermi creato femmina.” Le donne erano considerate incorreggibili; in giudizio, la loro testimonianza non aveva alcun valore, e i rabbini ne stavano alla larga.

Nella tradizione gesuana, tuttavia, le donne compaiono spesso, almeno marginalmente. Esse non mancano tra gli ascoltatori delle prediche di Gesù; le loro vite ricorrono nelle sue parabole, e sembrano avere sostenuto materialmente Gesù in varie circostanze. Probabilmente, lo seguirono addirittura in certi momenti, come ipotizzano per esempio Theißen e (ovviamente) l’odierna teologia femministica. Al cospetto degli scribi, Matteo fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.”(Mt 21:31) In Luca, egli si lascia non solo toccare, ma anche baciare da una ben nota peccatrice (Lc 7,36–50, sebbene l’episodio sembri costruito). Per opera di Gesù, vengono tramandate molte guarigioni di donne.

Nella misura in cui questi passi, o queste tendenze, sono autentici (salta all’occhio che il vangelo più antico non ne parli, e che al contrario sia Luca a mettere in luce le figure femminili), Gesù avrebbe mostrato un atteggiamento assai spregiudicato verso le donne, ciò che nel suo ambiente aveva sicuramente suscitato malumori e critiche. Evidentemente, anche nelle prime comunità cristiane, le donne avevano un ruolo forte, in ogni caso una funzione molto più rilevante che in epoche successive. Tendenze ad una più spiccata accettazione sociale e religiosa, come quelle presenti e riconducibili a Gesù, furono poi presto ritrattate dalla Chiesa. La gerarchia ecclesiastica, nella forma che ne seguì, fu fin dall’inizio maschile ed esclusivamente maschilista.

Per quanto riguarda la sessualità di Gesù, nei vangeli non ve n’è traccia. Questo aspetto, che per le biografie moderne assume una rilevanza spesso grande (fin troppo), non ha palesemente alcun ruolo per gli autori dei Vangeli. Eppoi, per la Chiesa che si sarebbe formata nel prosieguo, la sessualità era un problema addirittura disdicevole o inappropriato, dato che il Dio ambulante sulla terra doveva essere naturalmente esente da desideri, impulsi o affetti di qualunque genere (anche in questo riguardo, tuttavia, il vecchio vangelo di Marco rappresenta un Gesù più umano). Guardando però Gesù come persona, sarà almeno lecito porre la questione del suo orientamento sessuale.

Un uomo nel fiore degli anni, che però non era sposato, che vaga per la regione con un manipolo di uomini, e col quale, al momento dell’arresto, si intravvede un ragazzo fuggire nudo … sono forse accenni ad una omosessualità di Gesù? E d’altro canto: un uomo, che ha evidentemente un buon rapporto con le donne, anzi ha contatto persino con prostitute … si dovrebbe insinuare che i suoi contatti con prostitute fossero soltanto di natura pastorale, e che solo in seguito fossero stati, per così dire, spiritualizzati attraverso la comunità? Certo, si vorrebbe saperne di più, ma tutto resta sul piano della speculazione: le fonti, su questo punto, non offrono alcuna informazione attendibile. E che si aprano fonti inedite, che per esempio dalle sabbie dell’Egitto venga alla luce un antico papiro, è quantomeno assai improbabile. Si può presumere che questo problema, così importante per le biografie moderne, non si lascerà risolvere nemmeno in futuro. Per le Chiese, potrebbe essere certamente una benedizione.

Eppure sarebbe stato un grande bene, per la storia del cristianesimo, se Gesù fosse stato sposato e avesse avuto figli. O se, quantomeno, avesse vissuto nel rapporto con una donna. Sarebbe stato, con ciò, parecchio più umano, e non sarebbe stato altrettanto idoneo ad una sacralizzazione. Di lui, non si sarebbe potuto fare così facilmente un Gesù asessuale e asettico (Augstein). E’ da presumere, inoltre, che anche la posizione della donna nel mondo cristiano si sarebbe sviluppata in forme più gentili. Molti passaggi misogini dei Padri della Chiesa, nettamente spregiatori della donna, non sarebbero stati scritti con tanta leggerezza, qualora il Maestro stesso fosse stato coniugato. D’altro canto: guardando al discepolo Pietro, è certo che fosse sposato, e che portasse addirittura con sé sua moglie nei suoi viaggi missionari. Osservando poi quanto poco riguardo i suoi presunti successori avrebbero avuto per questa circostanza, constatando come ogni femminilità e sessualità sarebbe stata poi rapidamente demonizzata, si dovrà pure ammettere che anche l’esempio di Gesù avrebbe cambiato poco o punto a questo riguardo. Anche per questo aspetto, la Chiesa avrebbe sicuramente riaggiustato l’immagine di Gesù, conformandola alla proprie esigenze.

Una posizione assai peculiare occupa nei vangeli Maria Maddalena. Non soltanto essa viene chiamata per nome tra le donne che seguivano Gesù, descritta come guarita da lui, ma anche iniziata da Gesù nell’insegnamento. Maddalena affiora in diverse fonti tradizionali; durante la crocifissione, essa sta a guardare da lontano. E’ lei la prima testimone della risurrezione, comunque nel vangelo di Marco (mentre Paolo nomina Pietro quale primo testimone). Sulla figura di Maria Maddalena, già nel mondo antico, si è sbrigliata la fantasia: nella letteratura e nelle arti, essa venne trasfigurata presto nella compagna di Gesù. Un motivo che fino ai nostri giorni continua ad essere modulato allegramente e, sul piano economico, con lo straordinario successo toccato ai romanzi dell’autore di bestseller Dan Brown (“Sacrilegio”).

Sennonché, ciò che è permesso al letterato, cioè di prendere spunto da una tradizione reale, per poi dipanare il filo narrativo nel regno della fantasia poetica, allo storico è rigorosamente vietato. Sono infatti interdette speculazioni che non siano orientate su fonti troppo lontane dagli accadimenti. In ultima analisi, non è possibile dire perché Maria Maddalena sia ricordata tanto spesso nei Vangeli, e nemmeno che tipo di rapporto avesse avuto con Gesù. Se fosse meretrice, amante, o soltanto discepola: anche questo, probabilmente, non si potrà acclarare mai più.

Ambiguità dell’annuncio

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Per quanto positivo possano sembrare, anche per i non cristiani, l’annuncio dell’amore del prossimo, il rapporto spregiudicato di Gesù con la legge, la sua inclinazione per i poveri e i diseredati, le sue relazioni così moderne con le donne, … – alla fine, là dove un uomo vive ed opera, non potrà non essere riguardato sempre anche con i suoi limiti e nei suoi aspetti negativi. Vero è che i dogmatici si danno un gran da fare, da duemila anni, per proporci un’immagine di Gesù senza macchia. Nell’agnello di Dio essi non trovano ombra di difetti. Ed è sotto questa luce che i cristiani leggono in tutto il mondo la Bibbia, ed è così che Cristo viene annunciato dai pulpiti.

Ciò nondimeno, già il cristiano un po’ critico, leggendo i vangeli, nelle parole e nelle rappresentazioni di Gesù, s’imbatte in diversi momenti che appaiono dubbi e problematici. Per di più, la ricerca neotestamentaria ha messo a nudo i limiti, talvolta angusti, di questo Gesù di Nazaret, rendendolo visibile e rappresentandolo appunto come figlio del suo tempo.

Gesù fu particolarista, e non intese proclamare un’etica per il mondo. La sua predicazione non era indirizzata a persone al di fuori del mondo ideale ed esistenziale dell’Ebraismo. E deve essere compreso solo muovendo dal suo personale orizzonte immaginativo. Il suo annuncio non era destinato a noi. Vedeva se stesso unicamente inviato alle pecore smarrite della casa d’Israele. Le sue prediche, il suo messaggio, il suo insegnamento – ivi compreso il comandamento dell’amore –, devono essere visti nella luce di questi confini ben circoscritti. Solo i primi pagani cristiani, solo Paolo e la Chiesa primitiva, fecero saltare questa cornice angusta, aprendo quasi i portoni della sinagoga alla vista del mondo. Nelle intenzioni di Gesù, però, tutto ciò non c’era ancora.

Quale figlio del suo tempo, Gesù condivise anche una credenza nell’inferno unita al suo mitico dualismo. Egli intimorisce e minaccia di frequente con l’inferno, evocando spesso quel pianto e stridore di denti che vi regna. (Mt 24:50-51, Lc 10:12-15, Mt 10:15;23:33). In contiguità di contenuti implicanti la fede nell’inferno, si trova in Gesù anche la fede nel diavolo. Anche questa fede Gesù la trovò bell’e pronta nell’ambiente che lo circondava. Nell’antica Israele, tuttavia, essa non esisteva ancora. Per i primi Israeliti sarebbe stato impensabile che, accanto al Dio onnipotente, subentrasse una seconda persona, addirittura un antagonista. Si credeva che anche il male, pure esistente al mondo, fosse in qualche modo operato, o almeno controllato da Dio.

Nell’Antico Testamento, pertanto, il diavolo praticamente non c’è. Dove, negli scritti più tardi, affiora la parola Satana, per esempio in Giobbe, non s’intende un essere assoluto, indipendente, bensì un Dio, un accusatore (Satan significa infatti accusatore) subordinato a Dio, incaricato di accusare gli uomini, davanti a Dio, in un immaginario tribunale. Così, nel Libro di Giobbe, si trova il racconto di Satana, letterariamente interessante, ma eticamente assai problematico; Satana riceve il potere di tormentare l’irreprensibile Giobbe con supplizi e rovesci di fortuna, per metterlo alla prova, per vedere se rimane imperterrito, ligio o no alla propria fede. Un gioco barbarico, certamente; ma Satana, qui, non è ancora un principio maligno (I Cronache 21,1 e Zaccaria 3,1). Anche il serpente in paradiso non è mai inteso, nell’interpretazione giudaica, come simbolo del Diavolo, o come uno dei suoi aiutanti, nemmeno quando la fede nel demonio, in epoche successive, sarebbe stata generalmente accettata.

Ma poi, in che modo entrò generalmente nell’ambiente del Nuovo Testamento la fede nel Diavolo? L’immagine del mondo mitico-dualistica ebbe il suo principale punto di partenza nelle antiche religioni della Persia, che conoscevano una brusca distinzione tra un principio buono e uno malvagio, entrambi in lotta perenne, dato che il mondo si divideva, per così dire, in una sfera buona ed una cattiva. E fu appunto a partire dall’esilio babilonese che gli Israeliti vennero in contatto più stretto con la concezione manichea del mondo persiano. Accanto al principio buono si collocò un principio del male, al fianco di Dio comparve il Diavolo. Ma ciò avvenne solo col tempo: l’idea del diavolo, in Palestina, fu una comparsa tardiva, essendo il diavolo un prodotto religioso d’importazione.

Nei vangeli, Gesù non tematizza la persona del Diavolo in maniera esplicita; implicitamente, però, la rappresentazione di un diavolo affiora sempre, senza interruzione, in sentenze singole e nelle parabole. Dopo il suo battesimo, Gesù viene tentato nel deserto dal Diavolo, raccontato in una storia fortemente intrisa di scene mitologiche. L’eroe aggredito dalla tentazione è un motivo ben conosciuto nella storia delle religioni. Il Diavolo gli mostra “tutti i regni del mondo”, e tenta di indurlo a rendergli omaggio. Nella parabola della zizzania in mezzo al frumento è il Diavolo quello che semina le erbacce, che dovranno essere bruciate. Nella parabola del giudizio universale Gesù dice: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli […] E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna” (Mt 25:41+46).

Gesù condivise le idee coeve sul Diavolo. Fosse nato un paio di secoli prima, sicuramente non l’avrebbe fatto. Certo è che, muovendo dalle ancora poche esternazioni nel Nuovo Testamento, la concezione cristiana del Diavolo si diffuse sempre più impetuosamente, guadagnando grande spazio ed influenza all’interno del messaggio cristiano. Già nei Padri della Chiesa questo motivo venne fortemente sviluppato e arricchito in senso negativo; il Diavolo venne stilizzato nel ruolo di antagonista di Dio, anche se alla fine (naturalmente) il principio buono avrà la meglio.

La fede nel Diavolo è un esempio, vivo e triste insieme, di come idee religiose legate ai tempi (e naturalmente tutte le idee religiose sono in qualche modo influenzate dall’epoca rispettiva) possano guadagnare durevolezza per mezzo d’una fissazione nella scrittura. Non un eventuale contenuto è caratteristico di esse, bensì la casualità d’una situazione determinata, di un’epoca precisa, di un luogo definito. Una singola frase, forse buttata giù senza sovrappensiero in una epistola o in un vangelo, può produrre, in determinate circostanze, non solo intere biblioteche di letteratura interpretativa, ma provocare anche la formazione di partiti, di scissioni, portando ad ostracismi reciproci, o addirittura a guerre di religione. Non è lo Spirito santo, come affermano i cristiani, a rivelare e a garantire la verità religiosa, quanto piuttosto il risultato della cieca e casuale interazione di condizionamenti che poi, travestiti da verità, s’insinuano nel ballo in maschera della storia.

Le ripercussioni storiche della follia religiosa che partorì un Inferno ed un Diavolo furono fatali. Quantunque il Cristianesimo non avesse inventato la fede nell’inferno e nel diavolo, certamente la rafforzò e la promosse col massimo zelo. La fede nell’Inferno si rivelò il mezzo più forte di disciplina, di ubbidienza e di repressione che le Chiese avessero mai avuto in pugno. Per quasi due millenni la Chiesa cristiana ha attizzato il fuoco infernale, ravvivandone senza tregua le fiamme, giacché, quanto più si dipingevano cupamente i terrori infernali, tanto più l’uomo, nella disperazione, si sentiva vincolato all’istituzione che faceva credere di poterlo preservare dalla perdizione. Che la Chiesa, con la propagazione della credenza nell’Inferno, indebolendo in definitiva anche il proprio messaggio di redenzione, fu un rischio che essa dovette pure correre.

E si deve pure, con Gesù, porre la domanda su come egli stesso mettesse la sua fede nell’Inferno in armonia con le sue dichiarate tendenze all’umanizzazione. Oppure, con una domanda più diretta: che cosa vale ancora il pensiero di un Dio amorevole, se alla fin fine ci stanno un morire tra i supplizi e un’infinita sofferenza per la maggioranza degli uomini? Non è questa una contraddizione? E Gesù se ne accorse mai? In ogni caso, le Chiese (diversamente che in molti altri punti) possono a buon diritto richiamarsi al fatto che la loro fede nei diavoli e nell’Inferno fu condivisa già con Gesù. Mentre il cattolicesimo lo rimarca ancora oggi volentieri, negli illuminati ambienti protestanti domina in proposito un increscioso riserbo.

Coi concetti di Inferno e Diavolo è strettamente intrecciata anche l’idea del Giudizio universale. Questa corrente di pensiero genera qualcosa di simile ad una Trinità negativa. Si tratta del giudizio di Dio. Il giudizio divino significa una resa dei conti alla fine dei tempi, in cui ciascun individuo – nonché popoli interi – dovranno comparire davanti al tribunale di Dio, per essere condannati o assolti. La teologia parla in proposito di duplice esito della storia dell’umanità. Salvezza o dannazione, Inferno o Paradiso, spumante o acqua comune: come nell’idea dualistica del mondo, anche qui non c’è differenziazione, nessuna graduazione. Il pensiero del giudizio finale è determinato da un implacabile concepire in bianco e nero, nonché da estreme minacce di punizione.

E’ evidente che Gesù ha condiviso altresì l’idea del Giudizio. La quale prosperava non solo nel suo ambiente: anche il suo presunto maestro Giovanni Battista aveva in programma, come punto focale del suo annuncio, l’incombente tribunale della collera di Dio. In questo riguardo, Gesù lo seguì appieno. E così si finge spesso di non vedere come – sullo sfondo della sua “lieta novella” – incomba la predicazione del Giudizio. La cosa si fa molto chiara nel discorso sul giudizio finale, che si trova in Matteo.

« “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre. E porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a coloro che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.” Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” »
(Matteo 25:31–45)

Questo passo trova molteplici applicazioni nelle chiese, più di tutto a causa dell’ultima frase “Tutto quello che avete fatto ad uno solo, l’avete fatto a me”. Il cristiano amore per il prossimo trova qui un’importante motivazione biblica, ed in più si pronuncia qui la speciale vicinanza di Gesù ai poveri e derelitti, agli infermi, agli offesi. Nessuna meraviglia, quindi, sul fatto che su questo passo della Bibbia si seguiti a predicare senza sosta, e che esso sia sentito da molti cristiani ricolmo di consolazioni. Eppure si sorvola facilmente sul fatto che qui si tratta d’una situazione giudiziaria, in cui è in gioco niente meno che la vita o la morte dell’imputato, tanto che Gesù continua:

« “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, ero malato e in carcere e non mi avete visitato.” Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”. »
(Matteo 25:41-46)

Fede nel Diavolo, rappresentazione dell’Inferno e verdetto finale sono qui congiunti in maniera tipica, e vengono unitamente propagati da Gesù. Che questa parabola del Giudizio finale venga ciò nonostante sentita dai credenti in modo positivo, dipende semplicemente da questo: essi stessi si associano inconsciamente alle pecore salvate, provando quindi poca compassione per quelli che non sono salvati. Tanto più che il destino di costoro viene qui rappresentato ancora come una punizione giusta. Il Vangelo, nei modi annunciati da Gesù, non è dunque – di per sé – una lieta novella. Per grande parte dell’umanità (Perché molti sono chiamati, ma pochi gli eletti, Mt 22:14), esso comporta nient’altro che condanna, dal momento che implica sempiterni supplizi infernali.

Si può solo condividere lo stupore di Franz Buggle quando ci si rende conto “che il medesimo Gesù, a causa della difettosa misericordia in questo mondo, minaccia tormenti eterni nell’aldilà: una crudeltà che supera infinitamente la stigmatizzata spietatezza terrena.” (Buggle, op.cit., S. 24). A guardar bene, è piuttosto un messaggio di angosce quello che Gesù annuncia qui. Oppure, come Michael Schmidt- Salomon formula drasticamente: “Alla parte grandemente preponderante dell’umanità egli prospettò […] una specie di Auschwitz ultraterreno, un inferno dell’altro mondo, con tanto di angeli in veste di selezionatori disseminati sulla rampa celeste.” (Manifest des humanitären Humanismus, S. 51)

Nel pensiero di Gesù, dunque, la triade diavolo-inferno-giudizio ebbe un ruolo cruciale, in una dimensione molto più forte e incisiva di quanto sia presente nella coscienza dei cristiani. Questo modo di pensare negativo è consolidato ulteriormente dal rigorismo etico che Gesù sembra voler difendere di quando in quando. E allora si pone tosto la domanda: chi mai potrebbe essere ancora salvato? Tant’è vero che, nel Discorso della Montagna, si trovano le note minacce di punizioni:

« Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira col proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice “pazzo senzadio”, sarà destinato al fuoco della Geènna.” »
(Matteo 5:21-22)

Rudolf Augstein vede in queste frasi una “pura stupidaggine, semplicemente crudele” (Augstein, op.cit. S. 154). Ma Gesù lo pensa seriamente? Una trasgressione proporzionalmente esigua dovrebbe essere sufficiente per essere esposto al giudizio? Ma dove rimane, allora, il concetto della proporzionalità? La pena non starebbe dunque più in un ragionevole rapporto con il delitto? E Gesù non sarebbe colpito lui stesso dalla sua parola, apostrofando gli scribi come una covata di vipere, come sono spesso definiti? L’adulterio è inasprito da Gesù al punto tale da considerare adulterio già il solo fatto di guardare una donna con desiderio. Le città di Corazin e di Betsaida sono minacciate esplicitamente di annientamento, per il solo fatto di non aver accolto i suoi discepoli inviati laggiù.

Questo Gesù è ancora in grado di discernere, o è ormai fuori di testa? Ricorre in lui già la sindrome del fanatismo? Con frasi di questo genere, sembra essere lontano mille miglia da una giurisdizione umanitaria, come la conosciamo noi. Quanto poco queste frasi tradiscono una sana intuizione della natura umana, e quanto parla qui invece l’utopista fanatico! Eppure il pensiero di eterni castighi infernali sta sulla medesima lunghezza d’onda. Per dirla astrattamente: l’uomo è un essere finito. Siccome può peccare, allora può peccare soltanto finitamente; non dovrebbe essere immaginabile nessuna violazione, nessun delitto tanto grande a cui fosse adeguata una punizione infinita, tale da non avere mai fine. La pena di morte inflitta una trasgressione lieve, per un parcheggio sbagliato, sarebbe certo una grottesca insensatezza. Eppure Gesù, in alcuni passaggi, sembra parlare a favore d’un tale rigorismo etico, senza curarsi del fatto che in altri momenti, soprattutto riferendosi ai comandamenti del culto, si fa vedere assai accondiscendente. E’ un dilemma etico, dal momento che le due tendenze sono entrambe attestate nella tradizione, e si fanno ricondurre senz’altro al Gesù della storia.

Naturalmente, si è cercato di spiegare gli eccessi con una opaca storia della tradizione, con una spoliazione situazionale di singoli detti di Gesù, oppure col fatto che Gesù, avendo il Regno di Dio davanti agli occhi, avrebbe annunciato un’etica provvisoria, ossia ad interim. che doveva valere solo per breve tempo, fino all’irrompere del Regno, e che quindi non avesse affatto l’intenzione di impartire istruzioni etiche durevoli. Tutte le spiegazioni, tuttavia, non riescono a convincere più di tanto. Forse egli si espresse semplicemente solo in maniera contraddittoria, senza acquistarne consapevolezza; o forse gli faceva difetto, pur con tanta autorità in pubblico, l’acutezza del pensiero. Oppure aveva assorbito dal mondo circostante concezioni che egli, nelle sue deduzioni mentali, non elaborò completamente, o non riuscì a sondare e a penetrare a fondo. Non sarebbe stato il primo.

In ogni modo, cercando in questi passi di prendere sul serio Gesù, si va scolorando in ugual misura – come già nella sua fede nell’inferno e nel giudizio – la sua “lieta novella”, ovvero il cuore del suo messaggio. Se, per piccole infrazioni etiche, si perviene già al giudizio e alla condanna infernale, egli avrebbe potuto risparmiarsi tranquillamente il discorso riguardante un padre amorevole. Si può essere lieti del fatto che la giustizia terrena, o almeno la giurisdizione, non si fondi di fatto su ragionamenti talmente disumani e astrusi, come quelli che Gesù ci presenta qui, almeno in alcuni momenti.

Analizzando altri notissimi detti di Gesù in ordine alla loro plausibilità, alle loro premesse e conseguenze inespresse, si devono porre necessariamente altri interrogativi. Gesù era incline ad esagerazioni, disposto ad un certo romanticismo religioso. Non altrimenti si dovrebbe comprendere il passo seguente:

« In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: “Lévati e géttati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà. Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe. »
(Marco 11:23-24)

Tutto questo suona assai devoto e sorretto da saldo convincimento. Ma è poi anche rispondente al vero? Che la fede possa avere una forza che trasforma, resti pure un principio indiscusso, ma non c’è qui, d’altra parte, una buona dose di candida ingenuità, non è una gagliarda sparata di romanticismo religioso, se non di kitsch dello stesso stampo? Molte generazioni di monaci – per fare un esempio – vissero in profonda disperazione a causa di queste parole, dovendo constatare che le loro preghiere non venivano esaudite, non avendo ottenuto ciò per cui avevano tanto pregato. E, naturalmente, la causa di tanta frustrazione veniva ricercata nell’inadeguatezza della propria fede e non, possiamo ben dire, nell’insensatezza della parola gesuana.

E poi sempre, con immutato compiacimento, si cita nelle chiese anche questo passo:

« Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo; non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? […] Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. »
(Matteo 6:25-26;31–33)

Anche qui, ancora una volta, parole che suonano bene; si ha la sensazione di essere in un centro specializzato per il lancio del messaggio gesuano. E tuttavia: quale cecità di fronte alla realtà si manifesta qui, di quale insensatezza si ritengono capaci le persone, quale svenevole rimbambimento religioso trova qui espressione? Si reca davvero aiuto, con questo kitsch religioso, ai genitori nel Terzo mondo, che ai loro bimbi vorrebbero assicurare la pura sopravvivenza? E il “Padre celeste” sa davvero di che cosa c’è bisogno? “Guardate i bambini affamati nel Terzo Mondo: non seminano, non mietono, e il Padre celeste non li nutre.” Questa parola centra la situazione molto meglio dei sogni propagati da Gesù in questi termini: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.” (Mt 6:25-26;32-33) Fosse la vita così semplice! Ognuno lo sa bene: la realtà ha tutt’altre sembianze.

Si obbietterà che non è lecito sottoporre le parole di Gesù alla tortura della logica, dato che a lui stava a cuore più l’accoglimento d’un pensiero diverso e di una mentalità nuova. L’obiezione può essere giustissima. Sennonché proprio tali esternazioni metaforiche di Gesù sollecitano i cristiani ad indagare ancora più a fondo le parole della Bibbia, analizzando le parole del loro Signore nella loro sostanza contenutistica. Questa sostanza del contenuto viene naturalmente sempre data per scontata dai credenti, ma presupposta appunto in maniera acritica. Anche ad un credente converrebbe rendersi conto che la sua Bibbia non si muove su un livello spirituale unitario, che vi sono dislivelli enormi di qualità: per esempio, tra l’inno all’amore (in 1Cor 13) e certi riti di purificazione, simili a quelli descritti in dettaglio nel Libro dei Numeri.

Il credente stesso compie inconsciamente una differenziazione, quando legge alcuni libri della Bibbia, che gli sembrano più importanti ed edificanti, con maggiore frequenza di altri. Per di più, ogni biografo sa bene che anche la persona più ingegnosa non può essere tale in tutte le sue esternazioni; persino di un Goethe sono tramandate alcune cose mediocri. Ed anche di Gesù, naturalmente, c’è da aspettarsi qualcosa di questo genere, in ogni caso quando lo si osserva in maniera non deduttiva, con gli occhiali fumosi della dogmatica, bensì cercando di estrarre il contenuto delle sue esternazioni dalle esternazioni stesse. E dove si riconoscono banalità, o cose dubbie e problematiche, ciò può essere definito pure come tale. Ma ciò che è ovvio per persone normali, diventa poi un problema per persone dogmatiche, ove si tratti del presunto garante della dogmatica. A questo punto, non può essere ciò che non è lecito che sia. La religione mostra qui la sua onnipresente struttura basilare, di cui torneremo a parlare in seguito.

La radicalità, con cui Gesù fa appello ai “successori”, suscita per esempio una sensazione sconcertante. “Se uno viene a me, e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.” (Lc 14:26) Dunque, una successione sarebbe possibile solo se si odiano i propri consanguinei? Questo non può certo essere inteso alla lettera. Se così fosse, sarebbe necessario respingere tutto ciò, presi da indignazione. Qui, con l’intenzione di sottolineare la suc- Gesù di Nazaret: un figlio di Dio demistificato cessione, Gesù spara troppo oltre il bersaglio. E una condotta siffatta, come potrebbe conciliarsi con l’annunciato amore del prossimo? In un altro momento, Gesù risponde ad un uomo che vuole seguirlo, ma vorrebbe prima seppellire suo padre: “Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,22). Ecco qui un detto radicale a cui non si può disconoscere una certa insensibilità, anzi una vera crudeltà. Se un discepolo si comportasse così, urterebbe per di più contro il comandamento di onorare i genitori, che è pur sempre un comando del Decalogo.

Invece di protestare contro queste tracce di inumanità e di fanatismo nei discorsi di Gesù, i cristiani sono propensi a farsi “aggiustare” in qualche maniera le parole gesuane. Ma certo, il Maestro non può avere detto qualcosa di così brutto; e se pure l’avesse detto, ha sicuramente inteso qualcos’altro. Dove, per dirla figuratamente, sarebbe necessario picchiare i pugni sul tavolo e sbottare in un altolà, così non va!, i cristiani tendono – a priori, per così dire – ad un consenso in cerca di comprensione. E quanto più sono devoti, tanto più sono propensi a concedere un nullaosta acritico. La problematicità d’un tale atteggiamento si rende evidente anche ai cristiani, qualora si tratti non delle parole di Gesù, ma invece, per esempio, delle parole di Bhagwan Osho, o d’un altro autoproclamatosi capo religioso. Allora il messaggio di odiare la famiglia viene subito riconosciuto nella sua pericolosità. E i genitori, i cui figli si sono aggregati in tal modo ad un guru religioso, sanno bene quali dolori ne nascano.

E’ il problema che si pone con tutti i capi religiosi (anche politici), nominati o autonominatisi: da Gesù a Maometto, dal Dalai Lama al Papa. Là dove sarebbe particolarmente necessaria una distanza critica – cioè coi seguaci di carismatici capi religiosi – questa critica è per sua natura sviluppata al minimo. Joachim Kahl ammonisce: “I maestri di salvezza, che di se stessi affermano Io sono la via, la verità e la vita, hanno ceduto al rischio dell’autoassoluzione. Essi giudicano in modo sbagliato la molteplicità delle vie, la pienezza degli aspetti di verità, la diversità delle scelte di vita. Il loro proclama, rivolto alla successione e ai discepoli, è un adescamento a seguire una strada senza uscita.” (J. Kahl, Weltlicher Humanismus, S. 77). Il monito di Kahl è sempre valido, anche se Gesù non ha mai detto la frase, assai citata nelle chiese, che asserisce di essere lui stesso “la via, la verità e la vita”. Una frase, cioè, inventata liberamente dal quarto evangelista.

Conclusioni sull’etica di Gesù

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  Per approfondire, vedi Serie cristologica.

Per concludere, come si dovrebbe giudicare l’insegnamento di Gesù, come valutare la sua etica? Al cristiano credente, egli appare non solo come portatore di salvezza, ma anche come araldo di un’etica nuova. Da gran tempo, tuttavia, si è acclarato come la dottrina di Gesù non sia poi tanto unitaria. Visto nella prospettiva della storia della tradizione, colpisce il fatto che Paolo – in quanto testimone più antico – non comunica quasi nulla che riguardi l’insegnamento di Gesù. Ciò che Gesù aveva detto durante la sua vita, fu per Paolo manifestamente non meritevole di essere riferito: il Cristo alla maniera umana (ovvero secondo la carne) – ecco ciò che lui vuole imprimere negli animi – non ci deve interessare per niente. (2Cor 5:16). Anche nel vangelo più antico, quello di Marco, l’etica di Gesù resta sensibilmente sbiadita. Se avessimo soltanto Paolo e Marco, la ricerca storica su Gesù sarebbe costretta a brancolare nel buio ancora più di quanto non faccia lo stesso. Solo Matteo e Luca forniscono un contributo mediante un patrimonio di tradizioni che rende possibile un migliore inquadramento della dottrina gesuana.

Ciò che ne risulta, tuttavia, non è in alcun modo convincente ed unitario. Se in Matteo (11:30) Gesù dice che il suo giogo è dolce e leggero, poco prima, in Matteo 10,34, proclama che “non è venuto a portar pace sulla terra”; egli è venuto a portare “non la pace, ma la spada.” Una volta sottolinea la duratura validità della Legge, in altra occasione sembra metterla fuori gioco. Se apertamente rifiuta l’ascesi in principio (per se stesso), altrove invia i suoi discepoli a pre- Gesù di Nazaret: un figlio di Dio demistificato dicare nei villaggi vicini, con tanto di esortazioni ascetiche. Da un lato si mostra come umanizzatore d’una legalità descritta come inumana, dall’altro si presenta come rigorista etico. Ora annuncia l’approssimarsi dell’egemonia divina come “vangelo”, ora condivide col suo milieu sociale l’idea truculenta del Giudizio, tornando ad affievolire il proprio insegnamento.

L’annunciato amore del Padre celeste viene ostacolato, quasi contraddetto, dalla sua funzione di Giudice che verrà alla fine dei tempi. Gesù sembra non accorgersi che, con gli uomini gettati nell’eterno fuoco infernale, anche il suo messaggio d’amore viene dato alle fiamme. Che valore hanno mai il comandamento dell’amore e l’amore stesso per i nemici, di fronte all’idea del Giudizio universale? La forza e l’interiore sicurezza di sé, necessarie per riscattarsi dalla fede nel diavolo e nell’inferno, Gesù non le ha avute. E ciò vale ancor di più per la fede nella Giustizia, che nel mondo ebraico di Gesù era quasi una grandezza costitutiva.

Non gli si può per questo muovere un rimprovero, essendo egli appunto un figlio del suo tempo: i suoi modelli di pensiero, senz’altro inumani, mitologici e arcaici, visti dalla prospettiva odierna, gli appartengono in tutto e per tutto. Ma è deplorevole, tuttavia, che codesti modelli concettuali, sul cammino della tradizione e della prassi scritturale, abbiano trovato la via per giungere fino al nostro tempo.

Ma che dire delle evidenti contraddizioni, delle fratture nell’insegnamento di Gesù che i vangeli ci offrono? Sono vizi dovuti alla storia della Tradizione, la quale ci propone un Gesù non congruente con se stesso? Gli errori sono in lui, oppure nelle cose tramandate su di lui? Il suo insegnamento non fu, nella realtà, talmente confuso e contraddittorio? Potrebbe essere così, se non fosse che, in domande siffatte, si configura il problema fondamentale: ossia che, in ultima istanza, sulla base della fonti disponibili, noi non possiamo più sapere ciò che Gesù ha voluto veramente. Siccome noi perlopiù non sappiamo, in quali situazioni e in quale contesto siano state pronunciate determinate parole (ammesso che siano mai state dette), l’interpretazione di molti passi ha bisogno di supposizioni. Ciò comporta che talvolta, in un solo passo, viene fissata una determinata posizione di Gesù su una determinata questione, anzi, che da codesto passo vengano dischiuse addirittura posizioni diverse. Non c’è chiodo, però, che possa reggere tanto peso. Interpretazioni forzate devono essere una conseguenza logica, anche se questa non la si può sempre documentare nel caso singolo. E’ come il tentativo di mettere insieme un grande quadro con poche tessere d’un puzzle, quando in gioco restano ancora dei pezzetti che col quadro non hanno nulla a che vedere.

Una volta riconosciuta questa difficoltà di fondo, c’è da stupirsi di quante cose i teologi fanno sfoggio di sapere su Gesù. E di più ci si stupisce di come, dalle poche tessere disponibili, da singole discutibili frasi (slegate per giunta dal loro originario contesto), alla fine ne esca addirittura un quadro d’insieme che, all’osservatore, trasmette un’impressione di unità. Che teologi e dogmatici sistematici si sforzino di comporre un’immagine unitaria di Gesù, si può finanche comprendere; ma che anche studiosi neotestamentari, quindi storici nel senso vero e proprio, forniscano un quadro quasi armonioso di Gesù (così ad es. il buon lavoro di Theißen/Merz, Der historische Jesus, più volte citato), non può non rendere diffidenti.

Per una biografia in ogni caso, ma già per una sommaria rappresentazione dell’etica e della dottrina di Gesù, ciò che ci è tramandato nei Vangeli è semplicemente troppo scarso. Non sarebbe accettabile neanche se, conclusivamente, si riuscisse a separare con chiarezza il patrimonio riconducibile al Gesù storico dalle aggiunte apportate dalla comunità. Questa conoscenza degli ultimi duecento anni della ricerca sul Gesù storico (cioè a dire che noi in definitiva non ne possiamo sapere di più), deve costituire lo sfondo ammonitore anche per una ricerca scientifica futura, e tuttavia necessaria, su questo tema. Agli studiosi sistematici e neotestamentari dovrebbe essere interdetto di colmare lacune di conoscenza con le proprie congetture e coi propri sogni (da cui metteva in guardia già Albert Schweitzer). Altrettanto sarebbe da respingere la soluzione cattolica, cioè di collegare le insicure isolette delle nostre effettive conoscenze con ampollosi ponti dogmatici. La prima cosa sarebbe uno sconfinamento, la seconda sarebbe ridicola, oltre che ai confini con l’impostura.

Alla confusione contribuisce inoltre il fatto evidente che Gesù stesso non si attenne alle proprie disposizioni etiche. Il che si manifesta, per esempio, nei suoi scontri con i quasi proverbiali Scribi e Farisei. Pur con tutte le interpolazioni postpasquali della prima comunità cristiana, si deve tuttavia partire dal presupposto che il suo brusco attacco alle autorità didattiche giudaiche è storico nella sostanza. Stando ad esso, Gesù avrebbe definito i suoi avversari come pazzi, ciechi, ipocriti, addirittura come “covo di vipere”. Un uso siffatto del linguaggio, ove questi passi non fossero tutti inventati, sarebbe comunque espressione di fanatismo e di grave eccitazione religiosa. Tuttavia, anche rispetto all’esortazione di Gesù, è strano che chi va in collera col proprio fratello debba sottoporsi al giudizio finale. Se egli ha difeso effettivamente questo inasprimento della legge, allora ha dato un cattivo esempio. Collera sacra? Per i cristiani, in ogni caso, passi siffatti non sono un problema. Ma provate ad immaginarvi cosa accadrebbe se un predicatore musulmano si presentasse in pubblico con tesi di questo genere.

Questo Gesù, percepito volentieri come uomo dolce e mansueto, viene descritto all’inizio della sua passione (in Giovanni già all’esordio della sua attività) come colui che scaccia i mercanti dal tempio, e non soltanto a parole. Rovescia i tavoli dei commercianti e dei cambiavalute; secondo Giovanni è addirittura armato. Avessimo di Gesù solo questo racconto, ci troveremmo di fronte un estremista fanatico, pronto alla violenza. La sua condanna da parte dei Romani ci parrebbe consequenziale. Ed è verosimile che la sua condanna avesse realmente qualcosa a che fare coi suoi attacchi alle autorità giudaiche, oltre che con la sua critica alle autorità del Tempio.

Nell’immagine di un Gesù amorevole – generalmente diffusa e ridotta a kitsch pacchiano anche tra i non cristiani, eppure mai smentita dalle Chiese –, tornano a mescolarsi continuamente conflitti e dissonanze: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.” (Mt 10,34–36; Lüdemann lo ritiene comunque un passo apocrifo). Molte parole di Gesù fanno sentire appieno la mancanza del carattere consolatorio che da esse si attende e si assevera: sono parole più di sciagura che di salvezza.

Troppo spesso vi ricorre il discorso dell’Inferno, dell’ululare e del battere i denti, del giudizio e dell’eterna dannazione; eppure questi passi i cristiani preferiscono lasciarli perdere. I credenti ritengono infatti, anche senza di ciò, di non trovarsi essi stessi tra i dannati. E con la dannazione degli altri (in pratica di coloro che credono in tutt’altra maniera), si può ben vivere, vedendoci forse – persino con una dose di cinico piacere per le disgrazie altrui – un Dio giusto che fa trionfare la giustizia. Con forza anche maggiore di Gesù stesso, i primi cristiani trascinano in giudizio chi crede diversamente (o i loro stessi correligionari ebraici). Matteo impartisce il consiglio (messo in bocca a Gesù) di trattare come peccatori e pubblicani tutti coloro che non si conformano alle direttive della comunità (Mt 18,15–20). E la Chiesa si è sempre attenuta alle disposizioni penali con maggior fedeltà che al comandamento dell’amore.

In definitiva, Gesù ha portato davvero un’etica nuova? Sarà necessario dare una risposta negativa (insieme con Bultmann e con altri), malgrado tutti gli interrogativi che la storia della Tradizione dissemina nel cammino. L’etica gesuana trae origine dall’Ebraismo e dal suo mondo. Ciò vale esplicitamente anche per il comandamento dell’amore. Il fatto che, nelle singole questioni, Gesù avesse pareri diversi dalla tradizione giudaica, non cambia nulla nella sostanza. Il suo palese rifiuto del divorzio (Matteo lo attenua aggiungendo “tranne il caso di lascivia”), la sua fondamentale ricusazione del giuramento, la sua superiore considerazione per donne e bambini (sempre che la tradizione non ci giochi anche qui un brutto tiro), pur essendo tratti sicuramente gentili, non sono tuttavia appropriati alla fondazione di un’etica nuova. Il suo monito nei confronti della ricchezza, e l’invito a raccogliere tesori che non siano divorati da ruggine e tarme, non hanno del pari un autentico valore di novità, al contrario: che con le cose materiali si possa dare un senso alla vita, un’immagine deformata, da cui le Chiese credono di dover mettere in guardia senza tregua, non lo crede certamente nessuna persona mediamente ragionevole, tanto meno un ricco. Sono saggezze da calendario, quelle che Gesù esibisce in questi momenti.

Se non ha creato un’etica nuova, Gesù ha quantomeno provocato confusione etica, come si evidenzia soprattutto nel Sermone della Montagna (Mt 5-7) e nel problema su come lo si debba interpretare. Le istanze radicali di Gesù (nella misura in cui le ha veramente difese nel caso singolo) condussero subito alla questione su come esse potessero mai essere vissute. Furono considerate subito come norme riservate ai monaci, mentre per i credenti comuni era accettabile anche una moralità di livello inferiore.

Neppure larghi settori del Protestantesimo, men che meno il Luteranesimo, hanno considerato il Discorso della Montagna come un fondamento generalmente vincolante d’un ordinamento pubblico, vedendolo, nel migliore dei casi, come una criterio normativo per il singolo credente. Questa mentalità si è evoluta nella distinzione tra etica del sentimento ed etica della responsabilità. Anche qui, sullo sfondo, si ritrova la convinzione che la predicazione della Montagna non sia praticabile. E’ un uccello meraviglioso, che però non può volare, idoneo per ricrearsi, ideale per consolarsi, ma che non si può utilizzare per l’edificazione d’una collettività.

La soluzione più elegante, a questo proposito, è forse l’interpretazione del Sermone della Montagna in quanto etica provvisoria, rappresentata così per esempio da Albert Schweitzer. Secondo il quale il Sermone della montagna non sarebbe una legge universale, ma una normativa prevista da Gesù per il breve periodo, cioè fino all’istituzione e all’arrivo del regno di Dio: un’etica provvisoria, valida per il periodo dell’attesa. Un’etica ad interim, per l’appunto. Gesù non avrebbe voluto affatto dare delle regole generali. e perché poi, dal momento che il nuovo eone – la nuova eternità, ovvero il Regno di Dio – era lì lì per giungere, ormai in dirittura d’arrivo. E che così sarebbe stato, era per Gesù questione assolutamente fuori da ogni dubbio.

L’esecuzione capitale di Gesù

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La reinterpretazione della sconfitta sulla croce

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Secondo un celebre motto teologico (Martin Kähler), i vangeli sono storie d’una passione con introduzione prorogata. In effetti, tutto vi precipita verso il racconto della passione e della morte di Gesù. Nel più antico vangelo di Marco, comprendente sedici capitoli, già nel terzo capitolo i Farisei e gli Erodiani prendono la decisione di uccidere Gesù. Per il cristiano, i detti e i racconti miracolosi in circolazione su di lui hanno un senso vero e pieno solo quando si riflette a fondo sul significato attribuito alla sua morte. Sulla morte di Gesù si è difatti incardinata la cristologia (la dottrina sulla natura di Gesù), e per giunta la soteriologia (la dottrina su quanto si presume che egli abbia fatto per l’umanità). Come già accennato, fu la croce – soprattutto per Paolo – il punto focale della vita di Gesù, mentre il Gesù storico fu per lui del tutto trascurabile.

E dall’interpretazione della passione di Gesù dovette prendere l’abbrivo anche l’incipiente missione cristiana. Allora non bastò il fatto che qui avesse debuttato un taumaturgo. Di taumaturghi, in quel tempo, ce n’era in grande numero. Paolo (e forse altri già prima di lui) annunciarono l’importanza della salvezza per tutti gli uomini che scaturiva dalla morte e dalla risurrezione di Gesù: la radicale svolta della storia, l’eone nuovo che aveva inizio con la sua morte. La morte di Gesù fu ben presto trasfigurata dalla Chiesa in vittoria sulla morte e sul diavolo.

Per i suoi discepoli, intanto, la morte di Gesù fu sulle prime un colpo terribile. Presi dal panico, fuggirono da Gerusalemme rientrando in Galilea, certamente nel terrore di essere anch’essi catturati e uccisi, come il loro maestro. In Marco, solo alcune donne assistono da lontano alla crocifissione. In alcuni passi del Nuovo Testamento si può ancora rivivere quello shock tremendo. Della propria passione, Gesù parla così ai suoi: “Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.” (Mc 14:27) E’ indifferente che Gesù avesse detto veramente queste parole (piuttosto improbabili, si presume); vi si rispecchia in ogni caso lo stato confusionale in cui caddero i discepoli subito dopo la morte del maestro.

Nella narrazione di Emmaus (sicuramente non storica) successiva alla resurrezione di Gesù, i discepoli si lamentano: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.” (Lc 24:21). Dopodiché spiega a loro che tutto ciò doveva accadere. Ed è evidente: qui non è il Signore sublimato che parla ai discepoli, bensì l’evangelista che parla alla propria comunità. Ed è chiaro anche qui: la crocifissione fu vissuta dai discepoli come shock, trauma e catastrofe. Evidentemente, Gesù non aveva preparato in vita i suoi discepoli a questa fine, giunta per loro del tutto inaspettata.

Eppure Gesù allude per tre volte (la triade classica!) alla propria morte: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso. Lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”. (Mc 10:33-34). I discepoli, dunque, avrebbero dovuto saperlo. Non c’era motivo per il panico: tutto si svolgeva secondo programma. Che fosse subentrato il panico, è un chiaro indizio del fatto che gli annunci della passione nei Vangeli (e in ciò sono d’accordo quasi tutti i teologi) sono tutti quanti classici vaticinia ex eventu: racconti inventati a posteriori, che rappresentano gli avvenimenti come conosciuti in anticipo, destinati pertanto a presentare Gesù non solo come Signore del mondo, ma anche come Signore degli eventi. Ne abbiamo già parlato sopra. Sennonché la realtà era diversa: i discepoli furono colti impreparati.

Furono necessari grandi sforzi fino a quando, dall’imprevedibile catastrofe della morte di Gesù, si delineò una necessità più alta. Della necessità umana fu ricavata qui, nella realtà, una virtù divina: la sconfitta sulla croce riconvertita in una vittoria. Tutto doveva accadere in questo modo, e tale fu il convincimento postpasquale. E se questo era accaduto così, anche nell’Antico Testamento non potevano non esserci cenni premonitori. Così avvenne che la storia della Passione (più di tutte le altre storie dalla vita di Gesù) venne concepita partendo interamente dall’AT. Il nucleo, l’esecuzione di Gesù sulla croce, è sicuramente storico; sennonché l’intera inquadratura è trapunta da motivi tratti dall’AT, in maniera tale che riesce arduo ricostruire il fatto puro e semplice. La sofferenza e la morte d’un uomo, mediante motivi abbondantemente veterotestamentari, venne reinterpretata nella leggenda di culto d’una religione destinata a conquistare il mondo.

Con quale spregiudicatezza in ordine all’esito si procedesse qui, come l’annunciatore fosse trasformato nell’annunciato, si chiarisce per esempio dal fatto che morire sulla croce era propriamente impensabile per il Messia atteso. Ancora Paolo definisce questa morte come uno scandalo, un motivo di oltraggio. Studiosi cristiani ed ebraici sono d’accordo sul fatto che, nel mondo di Gesù, non si aspettasse nessun Messia sofferente. Il Messia annunciato era immaginato provvisto di tratti regali, in veste di vincitore e dominatore. Non già come un perdente, sconfitto sulla croce.

Per gli Ebrei, ancora oggi, la fine di Gesù è un segno che egli non può essere stato il Messia atteso. E anche il modo della morte sulla croce era, per un ebreo devoto, un’idea impossibile, dato che nelle Scritture si leggeva, con evidenza assoluta e incontrovertibile, “perché l’appeso è una maledizione di Dio” (Deuter 21,23).

Pendere dal legno (con cui s’intende una croce o una forca) equivaleva per gli Ebrei alla punizione più infamante in assoluto. Pertanto, come già un Messia sofferente era un’immagine impensabile per un ebreo, ora la sua morte conclamata sulla croce era addirittura una blasfemia. Bisogna sapersi immedesimare in questa cosa inaudita, inaccettabile, per poter comprendere l’effetto che la nuova dottrina può aver suscitato negli ebrei devoti. Da qui si comprende senz’altro come e perché un fanatico religioso come Paolo, quand’era ancora Saulo, dovesse ancora perseguitare i primi cristiani.

Sennonché il cristianesimo nascente aveva bisogno di prove dall’Antico Testamento, a conferma che i patimenti di Gesù erano stati in qualche modo profetizzati. In maniera facilmente intuibile, fu scoperto un giacimento. Ed ecco, la storia della Passione diventa ora il sedicente compimento di antiche profezie. L’ingenua creduloneria legge ancora oggi la leggenda della Passione secondo lo schema promessa-compimento. Eppure (tale è la quasi unanime opinione dei ricercatori), l’Antico Testamento fu utilizzato – seguendo il collaudato metodo della “cava di pietra” –, allo scopo di ricostruire la Passione fin nei dettagli, con elementi scenografici veterotestamentari.

La preghiera di Gesù sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15:34) cita tale e quale il Salmo 22:2; le parole Ho sete (Giov 19:28) riproducono quelle del Salmo 22:16, la distribuzione degli indumenti di Gesù si svolge in analogia col versetto 19: “Si dividono le mie vesti / sulla mia tunica gettano la sorte.” Mentre, in Marco, Gesù riceve da bere mirra nel vino, in Matteo gli danno vino mescolato con aceto, con riferimento al Salmo 69:22. Nella ricerca di elementi probatori, si sfruttarono in senso cristologico anche le più vaghe allusioni. Così, nel Salmo 3:6, – Io mi corico, mi addormento e mi risveglio:/il Signore mi sostiene. – si vide un accenno alla morte e alla risurrezione di Gesù. Alla stessa maniera, più tardi, i Padri della Chiesa troveranno la sua morte vaticinata “nel serpente salvifico fabbricato da Mosè, nel montone evocato nel Libro 3 di Mosè, in una vacca rossa che, nel libro 4 di Mosè, il sacerdote Eleazar deve macellare e gettare nel fuoco per ordine divino.” (cfr. Deschner, op.cit., p. 105). Già allora, per molti critici antichi, associazioni di questo genere sembravano tirate per i capelli. I cristiani, per contro, non sembrava che ne fossero disturbati. Perché, una volta che si creda nei fantasmi, ecco che il mondo ne è pieno.

Molto meglio, e di gran lunga più efficaci di quelle astrusità, vennero chiamati in causa, per spiegare e interpretare tale Mysterium crucis, i canti del Servo di Dio nel libro di Isaia, soprattutto Isaia 53:

« Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
[…] Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.” »
(Isaia 53:3-5;7)

Questo brano, almeno nei versetti citati, suscita quasi l’impressione d’un estratto della dottrina della giustificazione, tant’è che potrebbe stare in Paolo (e ci sta infatti, sia pure con parole diverse). I cristiani ci vedono una chiara predizione delle sofferenze di Gesù. Non fosse che i versetti non sono affatto formulati come profezia: al contrario, si volgono a rievocare cose accadute. Il Servo di Dio è un personaggio simbolo del passato con cui non può essere inteso un giusto dell’avvenire. Gli ebrei devoti, perciò, non hanno mai riferito questo passo al Messia. Il problema di chi sia, o fosse, il sofferente servo di Dio, viene discusso alacremente nella ricerca veterotestamentaria: “… si pensa a Mosè, a qualche figura di Profeta veterotestamentario, a Josia, a Gioacchino, a Tammuz, dio che muore e risorge, o ad una personificazione della profezia. Ma il più delle volte, forse, la sofferenza del servo di Dio viene posta in relazione collettivamente con Israele, che nel Deuteroisaia viene definito sovente ‘servo di Dio’, come anche presso altri Profeti.” (Deschner, op.cit. p. 106–107). Che con questo si debba in qualche modo intendere Gesù, oggi non viene più asserito da nessun ricercatore serio e responsabile.

Ciò nonostante, le Chiese amano insistere su questo passo, che gode di alta considerazione tra i credenti. La causa di tanto successo è che divenne realmente il punto centrale nella reinterpretazione della passione di Gesù. Solo che la successione era diversa: non era che in Isaia venisse vaticinato qualcosa (nulla venne infatti profetizzato) che poi si sarebbe avverato nella morte di Gesù, ma viceversa: sofferenza e morte di Gesù accaddero, per così dire, in precedenza, e solo in seguito questa morte fu congiunta con l’immagine del Servo di Dio sofferente. La passione di Gesù, per i suoi discepoli ancora incomprensibile e assurda, assume così un senso mutuato con prepotenza dall’Antico Testamento.

Da ciò si desume la dottrina paolina della giustificazione: Agostino, Anselmo da Canterbury, Tommaso d’Aquino (e molti altri) la recepiscono; la Riforma luterana, e tutto il Protestantesimo, si richiamano ad essa. Tutti si appellano ad un passo che nulla ha a che fare con un Messia, tanto meno col Gesù della storia. Si potrebbe speculare su come la teologia cristiana si sarebbe sviluppata, se non si fosse travestita la passione di Cristo in una uniforme militare alla maniera di Zuckmeyer, {allusione all’opera teatrale di Hans Zuckmeyer, autore della satira antimilitarista teatrale “Il capitano di Köpenik”, fantasia d’un truffatore travestito da ufficiale nella Berlino dell’età guglielmina}, corredandola con una interpretazione che, già nell’intenzione, risultò in ultima analisi troppo grande di qualche taglia.

L’Antico Testamento (canonizzato solo alla fine del primo secolo cristiano) fornì dunque non solo i dettagli decorativi della Passione di Cristo, ma contribuì altresì alla formazione del quadro interpretativo. Per i primi (giudei-) cristiani ciò fu importante, per poter assicurare a se stessi, nonché al loro ambiente giudaico, la continuità verso il mondo della fede giudaica. Per i successivi cristiano-pagani, il retrospettivo legame veterotestamentario dovette assumere, comprensibilmente, un ruolo minore. Questi, del resto, non sapevano che farsene della concezione giudaica d’un Messia. Contro ogni falsa modestia, Gesù, nella loro mentalità, assunse la forma di un Dio.

Idealizzazioni nei Vangeli

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Gli evangelisti non sono interessati ad una ricostruzione della storia, ma sono essi stessi, assai più probabilmente, a configurarla. Eppure gli avvenimenti, in Marco, sono raccontati nella maniera più sobria. In lui si trova descritta ancora, prima di tutti, la crudeltà dell’evento, quando fa dire a Gesù sulla croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato. Con queste parole, Gesù ripete tale quale la preghiera del Salmo 22. La scena non rappresenta forse un Gesù disperato, un Gesù che, alla fine della sua esistenza, deve riconoscere dolorosamente il proprio fallimento, il suo essere abbandonato da Dio? In questo salmo ci sono anche versi del tipo:

« Ma io sono un verme e non un uomo,
rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. »

Il recitatore del salmo è, in tutti i casi, un uomo, e nulla più di un uomo. Eppure qui, secondo la dogmatica futura, è appeso alla croce il figlio di Dio. Il Salmo 22, nella bocca di Gesù, si adatta assai malamente alla dottrina religiosa della Chiesa. Forse è questo il motivo per cui Luca non accoglie la versione di Marco (ciò che fa ancora Matteo) e fa dire a Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Con questo, sul piano dogmatico, si riesce a cavarsela già meglio. In Luca, Gesù si lascia andare interamente al volere del padre, e viene descritto come il figlio ubbidiente che svolge il proprio compito secondo il dovere.

Nemmeno il vangelo di Giovanni, presenta l’imbarazzante Salmo: la gloria di Gesù è ancora presente, persino sulla croce. Gesù non è soltanto padrone della situazione; perfino nella sua esecuzione è colui che agisce attivamente. Riguardo alla propria vita, Giovanni gli fa dire: Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. […] (Gv 10:17b-18). La sua croce, in Giovanni, la porta lui stesso; non ha bisogno, nella sua opera salvifica, di aiuti altrui, mentre in Marco è necessario l’aiuto di un certo Simone di Cirene (probabilmente storico). Sulla croce muore con le parole “E’ compiuto!”; e ogni lettore sa che qui muore un Dio. In Marco, per contro, colui che pendeva dalla croce era ancora un uomo.

In Marco, l’evento è per altri versi meno glorificato. Niente discepoli, niente madre, niente parenti che assistono alla sua crocifissione; solo da lontano stanno a guardare alcune donne, non meglio identificate. Ciò deve aver corrisposto verosimilmente alla realtà storica; i suoi discepoli erano fuggiti, e i suoi consanguinei non avrebbero potuto raggiungere così rapidamente Gerusalemme, dove i Romani erano andati per le spicce col processo. In Marco, Gesù muore solo sulla croce, abbandonato da Dio e da tutti gli amici, oltraggiato per giunta dai passanti. Muore affiancato da due malviventi crocifissi insieme con lui. E persino questi lo ingiuriano, il che avviene comunque in Marco e Matteo. In Luca, infatti, è soltanto uno che lo vitupera, mentre uno addirittura redarguisce l’altro malfattore. In questa occasione, Luca escogita la frase che si cita tanto volentieri: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso (Lc 23:43).

Giovanni, tuttavia, non fa morire Gesù tutto solo; per motivi drammaturgici (Hollywood lo ha seguito in questo), sono presenti sua madre, sua zia, Maria di Màgdala e, accanto a lei, il misterioso discepolo che Gesù amava (Gv 19:26). Ancora dall’alto della croce Gesù si preoccupa che nulla manchi a sua madre: un figlio davvero esemplare. Dei suoi discepoli si era occupato già prima, quando, durante il suo arresto, aveva ottenuto che fossero lasciati liberi. Secondo Luca e Giovanni, non ci fu nessuna fuga dei discepoli. E anche le urla dell’agonia sono state cancellate da Giovanni; per lui erano troppo umane, e non collimavano con le sue idee teologiche.

I prodromi dell’odio cristiano per gli Ebrei

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Dopo un’iniziale irritazione, Passione e morte di Gesù divennero tosto per i cristiani il contenuto centrale del loro annuncio. La catastrofe, la disfatta sulla croce, venne reinterpretata e trasfigurata in una vittoria. Con un Gesù che insegnasse soltanto, e che si limitasse ad operare miracoli, la Chiesa primitiva non sarebbe andata lontano; con un Dio morto e resuscitato per i nostri peccati, per contro, la nuova religione inaugurò la sua marcia vittoriosa nel mondo allora conosciuto. Sennonché, con la passione del suo Signore, incominciò anche la sofferenza del suo popolo; con la salita sul Golgota ebbe inizio anche l’antigiudaismo cristiano.

Già per Paolo, in effetti, era chiaro che i Giudei avevano ucciso Gesù, così come avevano già fatto coi profeti (1Tess 2:15). Ai suoi occhi, sono loro gli assassini di Cristo, i veri colpevoli della morte di Gesù. E ben presto, riferendosi all’ebreo Paolo, gli Ebrei furono infatti perseguitati. Non si può imputare a Paolo il fatto che non potesse prevedere, o anche soltanto presagire, le tragiche conseguenze delle sue invettive attraverso i secoli; nondimeno, gli si deve rimproverare di non essersi nemmeno accorto come tale colpevolizzazione, da lui posta in essere, contraddica anche la sua teologia. Perché, se era volontà di Dio che Gesù morisse sulla croce per i nostri peccati (e questo Paolo lo insegna senza alcun dubbio), allora tutto ciò si è svolto alla perfezione: tutto secondo programma.

Come mai una colpa dovrebbe poi colpire gli Ebrei, come mai qualcuno ne avrebbe colpa? Giudei e Romani ebbero pure la loro funzione nella storia della salvezza, e l’hanno compiuta. Pure è lecito supporre che, tra l’altro, furono le ininterrotte polemiche con gli Ebrei (sulla persona di Gesù e sul suo significato) ad indurre Paolo, nella sua epistola più antica, e certo in molte altre occasioni, ad esternazioni sconsiderate. I suoi ex correligionari avrebbero dovuto espiare duramente la sua scelta.

Ma non solo su Paolo poté alimentarsi l’odio cristiano per gli Ebrei. Fu soprattutto quello sciagurato passo, incluso nelle leggende della passione in Matteo, a fornire le munizioni ai fanatici cristiani. Infatti, allorché si trattò di chi Pilato dovesse amnistiare, se Gesù oppure il rivoltoso Barabba, il popolo scelse Barabba, aizzato a quanto pare dai sommi sacerdoti. Dopodiché Pilato, in una celebre scena, se ne lava le mani (in tutta innocenza), tant’è che Matteo scrive: E tutto il popolo rispose:”Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli (Mt 27:25). Questa frase è una delle parole più obbrobriose della Bibbia, destinate a riversare sugli Ebrei patimenti inauditi.

Dovunque, nei secoli e millenni successivi, donne e uomini ebrei fossero perseguitate da cristiani, questi si ritrovarono sempre questo motto nel loro bagaglio. Fanatici cristiani, richiamandosi a questa frase, potevano impancarsi addirittura ad esecutori d’una giustizia divina. Gli Ebrei avrebbero reclamato da se stessi, per così dire, il proprio giusto castigo. La perfidia ne viene rafforzata ove si consideri che le parole della Bibbia vennero presto considerate come ispirate da Dio, in modo tale che la barbarie della persecuzione ne uscì confermata e legittimata anche sul piano dogmatico.

Matteo, dal canto suo, da dove ha mutuato queste parole? In Marco non le ha trovate, e nemmeno in Luca ci sono. Esse sono un’invenzione dell’evangelista stesso: un’altra brutta falsificazione, questa, dalla prospettiva di oggi (i neotestamentari sono qui largamente d’accordo, sebbene preferiscano formularla in maniera più raffinata), fatta probabilmente nell’intenzione di danneggiare gli Ebrei, coi quali anche la cerchia dello sconosciuto evangelista era coinvolta in aspre polemiche. Certo, delle conseguenze di ciò che scrivevano, e del fatto che i loro testi sarebbero stati letti ancora dopo duemila anni, nemmeno gli evangelisti potevano essere consapevoli. Per noi, oggi, e più ancora per gli Ebrei, questa non è che una magra consolazione. Ancora una volta si constata la leggerezza con cui gli evangelisti scrissero a loro piacimento, aggiungendo e cancellando, interpretando e deviando l’attenzione. Per cui bisogna porre di nuovo la domanda: dove mai si possa contare su una tradizione che sia in qualche misura autentica e credibile.

In buona sostanza: chi fu davvero responsabile della morte di Gesù? Nei vangeli è riconoscibile la tendenza a scagionare i Romani. Come detto, non solo Pilato se ne lava le mani, dichiarandosi innocente; anche sua moglie Procula conferma, in virtù di un suo sogno, l’innocenza di Gesù. In Luca si presenta perfino Erode Antipa, il sovrano della regione di Gesù, quasi come testimone a discarico (Lc 23:14-15). L’impressione suscitata dai vangeli è che Pilato venga costretto dagli Ebrei a condannare Gesù, quantunque fosse personalmente convinto della sua innocenza. In Giovanni, Pilato ribadisce tre volte la propria innocenza; e nell’apocrifo vangelo di Pietro, addirittura, i Romani non sono più presenti.

La tendenza a discolpare i Romani si può capire forse anche dagli sforzi dei primi cristiani di esternare la loro lealtà nei confronti delle autorità romane. Anche la presunta sentenza di Gesù – Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare e quello che è di Dio, a Dio (Mc 12:17) – considerata non storica dalla maggioranza degli esegeti (però Bultmann la ritiene autentica) – è in linea con questa tendenza. Di fronte ai Romani si voleva mandare segnali di lealtà, di fronte agli Ebrei si rimarcavano sempre di più i confini. La realtà, probabilmente, si presentava diversamente. Theißen e Merz sottolineano: “Rapporti giuridici e modalità di esecuzione comprovano univocamente i Romani come responsabili principali della morte di Gesù.” (Theißen/Merz, op.cit., S. 99). I Romani erano titolari del diritto di vita e di morte; la crocifissione era una punizione prettamente romana, applicata soprattutto agli schiavi e ai ribelli politici e religiosi. Fossero stati gli Ebrei ad uccidere Gesù, egli sarebbe stato probabilmente lapidato (come avverrà più tardi col fratello di Gesù, Giacomo). Il sogno di Procula, moglie di Pilato, è del tutto leggendario, anzi, persino il rilascio di Barabba al posto di Gesù (con le proteste d’innocenza di Pilato) è storicamente incerto, dal momento che nulla si sa circa una presunta usanza di amnistiare un malfattore in occasione di feste. E’ pensabile, tuttavia, che ambienti giudaici (e qui si pensa soprattutto all’aristocrazia del Tempio) avessero fatto pressione sui Romani per una condanna di Gesù, e che l’avessero in certa misura denunciato.

Insensatezze nel processo di Gesù

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Stando alle narrazioni degli evangelisti, Gesù fu condannato e giustiziato nel contesto d’una festa della pasqua ebraica. Le circostanze di questo processo fanno ravvisare moltissime cose insensate e contraddizioni, che hanno prodotto una grande mole di pubblicazioni specialistiche. In primo luogo, è poco chiara la data della morte. Nei sinottici, Gesù muore un venerdì e nel giorno 15 del mese primaverile Nisan del calendario ebraico. In Giovanni, per contro, egli muore già il 14 Nisan, un giorno prima, nel periodo in cui si macellano gli agnelli pasquali. Si suppone che, secondo Giovanni, Gesù debba essere rappresentato come il vero “agnello pasquale”; la sua datazione, pertanto, avrebbe una motivazione teologica.

Eppure, stando ai sinottici, il processo di Gesù sarebbe avvenuto nella notte di Pasqua. Sennonché i dibattimenti giudiziari non dovevano aver luogo il sabato o nei giorni festivi, e neppure nei giorni di preparazione alla festa. Contro Gesù, tuttavia, il dibattimento si svolge nelle ore notturne. Secondo il diritto processuale romano, una condanna capitale non può essere mai pronunciata nel primo giorno di dibattito, bensì al più tardi in una seconda seduta, il giorno successivo. Allora egli sarebbe stato crocifisso e sepolto nel primo giorno festivo: anche questo veramente impensabile. Allo stesso modo, non concorda il fatto che sacerdoti e scribi si presentino il venerdì sul luogo dell’esecuzione e si prendano beffe di Gesù. Tali questioni relative alla datazione, e le contraddizioni nel diritto processuale, hanno fatto porre al teologo Ernst Fuchs la domanda se un processo contro Gesù abbia mai avuto luogo: che non sia stato giustiziato in maniera accidentale, quasi casualmente? Pilato era d’altronde conosciuto come politico capace di non tener conto granché delle norme legali. Per di più, Gesù non era nemmeno cittadino romano. Le rappresentazioni date nei Vangeli sarebbero allora state montate dagli evangelisti, fino a farne un autentico processo.

A causa dei numerosi problemi, alcuni mettono in gioco il pensiero che Gesù fosse stato giustiziato non durante la festa pasquale, bensì nella festa giudaica dei Tabernacoli, ritenendo di trovarne conferma dai rami di palma agitati durante l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La festa pasquale sarebbe stata forse indetta solo dopo la festa pasquale. In tal caso, si capirebbe meglio anche l’ultima cena. Questa soluzione, d’altra parte, creerebbe una serie di altri problemi. Ma non mancano neanche i tentativi di salvare ancora la versione neotestamentaria. Nel che si è distinto, in particolare, il teologo Josef Blinzler col suo libro Der Prozess Jesu (1951), seguendo ancora con molta fatica la curva tecnica dell’esegesi tradizionale, secondo cui il processo di Gesù si sarebbe svolto nelle forme descritte. Ma solo pochi esegeti l’hanno seguito in quella direzione.

Eppure solo Marco e Matteo rappresentano di massima un processo. In Luca e Giovanni si descrive piuttosto un interrogatorio dinanzi al Gran Consiglio; in Giovanni, solo un interrogatorio nel cortile privato del sommo sacerdote. In Luca, la seduta del Sinedrio ha luogo la mattina, mentre in Giovanni l’interrogatorio avviene di notte davanti al sommo sacerdote.

La confusione è totale. Così sicuro non è neppure che Gesù morisse sulla croce sotto Ponzio Pilato, tanto nebulose e contraddittorie sono su questo punto le cronache degli evangelisti. Allorché furono fissati per iscritto, i racconti circa la passione di Gesù avevano già dietro di sé, palesemente, una lunga ed intensa tradizione orale, intessuta di parecchie matasse tradizionali, decorate con molti materiali veterotestamentari. Gli evangelisti hanno poi contribuito la loro parte, col frustrante risultato che oggi – oltre al nudo fatto della morte di Gesù –, non si può dire quasi più nulla di sicuro sui reali dati di fatto.

Proprio le storie sulla Passione sono state ricostruite e trasformate senza tregua, fino all’irriconoscibilità storica, in modo paragonabile con una chiesa barocca di cui gli storici dell’arte, attraverso i rifacimenti gotici e romanici, tentano faticosamente di decrittare forme e intenzioni originarie. Solo che gli storici, diversamente dagli storici dell’arte, hanno particolare interesse per l’edificio originario. Appena si scoprono un paio di fondazioni inavvertite, si è già soddisfatti; ma quando, tra le macerie della tradizione, viene alla luce una mezza colonnina, ecco scoppiettare i tappi di sughero per il giubilo.

Perché Gesù venne ucciso?

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Quando si chiede ai cristiani perché Gesù fosse comunque condannato a morte, che cosa avesse mai fatto, tanto che le autorità ritennero di dover così drasticamente procedere nei suoi confronti, ci s’imbatte perlopiù in una certa perplessità. Parecchi penseranno alle sue violazioni del sabato. Sennonché il suo comportamento, sicuramente provocatorio a questo proposito, non ebbe un ruolo in nessuno dei racconti sulla Passione. Evidentemente no, non si trattava del sabato.

Reimarus, nel Settecento, fu il primo a vedere Gesù nella prospettiva d’un messia politico, al quale stava a cuore la liberazione violenta del suo popolo. Solo dopo la sua morte, la sua attività sarebbe stata interpretata in modo diversi. Gesù sarebbe dunque morto come rivoltoso politico. A favore di questa tesi può essere addotto senz’altro il titolo al sommo della croce, che presenta Gesù come re dei Giudei. Questa dicitura è probabilmente autentica, quantomeno sembra che non fosse stata escogitata in ambienti cristiani. L’appellativo non ha senso, dal momento che, per i cristiani, Gesù non era certo un re.

Agli occhi dei Romani, però, questo titolo appare plausibile e dimostrerebbe che, con Gesù, si era trattato d’un ribelle politico, oppure che, almeno, egli non rifiutò questa pretesa. Secondo il diritto processuale romano, il silenzio d’un imputato di fronte a un’accusa, equivaleva ad una confessione, diversamente da oggi. E Gesù, di fronte ai suoi accusatori, effettivamente tacque, o almeno così affermano gli evangelisti (sebbene riportino anche parole dette da lui). Dal punto di vista romano, Gesù morì in quanto rivoltoso, o almeno in quanto potenziale rivoluzionario. Ma che egli avesse intenzioni davvero politiche, oggi non viene affermato quasi da nessuno: tutta la vita pubblica di Gesù è lì a dimostrare che il suo interessamento non era sul piano politico. Ai Romani, tuttavia, dev’essere stato indifferente il fatto che eventuali disordini nel popolo potessero essere causati da un agitatore che si sentisse politico o meramente religioso. Per la festa pasquale, Gerusalemme pullulava di gente proveniente dalla diaspora ebraica, e il rischio d’una sommossa era pertanto specialmente acuto.

Il vangelo di Marco menziona due punti d’accusa: un motto piuttosto ambiguo a proposito del tempio e la sua presunta professione messianica. Secondo Marco, 14:58, Gesù avrebbe detto: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo.” Matteo formula con più energia il modello di Marco: “Io posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni.” (Mt 26:61). Mentre in Marco i testimoni dell’accusa si contraddicono, in Matteo non c’è nulla di questo.

L’accenno ai tre giorni (fino alla risurrezione) è sicuramente posteriore alla pasqua, eppure la critica al Tempio in esso contenuta potrebbe avere un appoggio storico. Una critica al culto del tempio poteva essere intesa come blasfemia e, al tempo stesso, come attacco contro l’aristocrazia del tempio, alla quale Gesù, in veste di sommo sacerdote, si contrapponeva ora in qualità di accusato. Forse, la cosiddetta purificazione del Tempio rappresenta la chiave per comprendere la condanna di Gesù.

Gesù aveva scacciato i mercanti dal Tempio, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e dei venditori di piccioni. Sia i cambiavalute (nel tempio aveva corso una peculiare valuta) sia i commercianti di uccelli (i colombi erano il sacrificio tradizionale offerto dai poveri) erano assolutamente necessari per l’adempimento del culto. La condotta di Gesù, perciò, poteva essere interpretata nell’insieme come un attacco al culto del Tempio. E dovettero sentirsi attaccati anche quelli che guadagnavano sul commercio nel Tempio, i membri dell’alto ceto religioso di Gerusalemme. “Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento” (Mc 11:18). Con questa azione, forse sconsiderata e spontanea, Gesù si era presentato alle autorità religiose, che fino allora lo conoscevano tutt’al più per sentito dire, quale estremista militante e palesemente disposto alla violenza, o almeno come fanatico religioso. Alla élite religiosa un personaggio siffatto non poteva far comodo; doveva necessariamente essere visto come possibile pericolo, un rischio non calcolabile. Il fatto che costui affondasse per giunta la loro autorità, minacciando in più le loro entrate, non migliorava di certo la situazione.

Potrebbe quindi essere che Gesù, con questa azione, nonché con discorsi ostili al Tempio, a cuor leggero e certamente anche balordo, si fosse fatto nemici molto influenti. Non viveva più nella provincia di Galilea, e polemizzava con rabbini e soprintendenti di sinagoghe. A Gerusalemme tirava un vento diverso; qui l’aristocrazia ebraica e i Romani erano ugualmente interessati ad uno svolgimento della festa tranquillo e senza problemi. Il suo modo provocatorio di comportarsi qui, a Gerusalemme, fu dunque fatale per Gesù. Che la sua azione gli sarebbe costata la vita, egli non l’aveva sicuramente messo nel conto, cosicché fu travolto dalle conseguenze dei suoi gesti. La critica al Tempio, espressa in senso militante, sembra essere in ogni caso il motivo più plausibile della sua condanna. A questo punto, la pericolosità di quest’uomo era facile da vendere al potere degli occupanti romani: la morte sulla croce del potenziale rivoltoso ne fu la conseguenza ineluttabile.

Ma il vangelo di Marco menziona inoltre, come secondo capo d’accusa, il fatto che Gesù avesse definito se stesso come Messia: “Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il Sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? Gesù rispose: Io lo sono!

« E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo” »

Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: “Fa’ dunque il profeta! E i servi lo schiaffeggiavano” (Mc 14:61-65).

Le scene relative all’interrogatorio si leggono come se gli evangelisti non sapessero decidersi se descrivere Gesù in silenzio oppure in una netta affermazione di sé. Le due varianti, quindi, potrebbero essere costruite giacché, nell’interrogatorio, è improbabile che fosse presente qualche seguace di Gesù, che in seguito avrebbe potuto informare sull’accaduto. Il silenzio di Gesù trae probabilmente origine da Isaia 53:7:

« Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca. »

Ma l’affermazione di sé non risale sicuramente a Gesù, essendo piuttosto una collezione di titoli di sovranità attribuiti a Gesù dopo la sua morte. Fa un certo effetto, come se l’evangelista avesse qui messo insieme ancora una volta tutti i titoli di sovranità a lui noti, lasciando che Gesù si riconoscesse in tutti. La risposta di Gesù è inoltre composta di citazioni veterotestamentarie, questa volta tratte da Salmi 110:1: Oracolo del Signore al mio signore: Siedi alla mia destra […], e Libro del profeta Daniele 7:13:

« Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile ad un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. »

Tanto la domanda del Sommo sacerdote (in cui sono già intrecciate insieme due differenti rappresentazioni), quanto la risposta di Gesù, non si possono immaginare pronunciate da ebrei; al contrario, sono comprensibili solo come espressione della successiva comunità cristiana.

La stragrande maggioranza degli esegeti neotestamentari giudica pertanto questa confessione spontanea di Gesù come non storica. Anche se questo passo è sicuramente secondario, non si deve tuttavia tener conto del fatto che il popolo avesse trasferito su Gesù attese messianiche, senza curarsi se egli le avesse condivise o meno? Certo, il titolo di “re dei Giudei”, collocato ad intestazione sulla croce, gli attribuisce proprio la rivendicazione d’una dignità superiore. Si sarebbe mai potuto definirlo re dei Giudei, qualora egli avesse rifiutato tassativamente questo titolo? C’è tuttavia una questione che fa drizzare gli orecchi: in Marco, dopo il suo interrogatorio, Gesù viene beffeggiato non come Messia o figlio di Dio, bensì (unicamente) come profeta (Mc 14:65). Questa definizione non può venire dai cristiani, poiché per loro Gesù era ben più che un profeta. Si dovrebbe quindi supporre che Gesù fosse accusato in quanto profeta, più precisa- mente come falso profeta? Per falsa profezia, nonché per demagogia connessa con la relativa accusa, era infatti decretata la pena capitale.

Dunque, ciò che precisamente portasse alla morte di Gesù, come si formulasse nell’accusa contro di lui, su che cosa fosse fondata, anche questo alla fin fine non si potrà più acclarare. Che questa condanna fosse in qualche modo connessa con la sua critica al Tempio e con la sua militanza, in un’epoca in cui l’attenzione dei Romani e dell’aristocrazia giudaica era comunque assai tesa per la festa e la presenza di migliaia di pellegrini a Gerusalemme, sembra essere davvero la spiegazione più convincente. In tutti i modi, istanze ebraiche e romane si coalizzarono prestissimo contro di lui. Il fatto che fosse stato al cospetto di Pilato, e che questi si fosse occupato del suo caso, è assai incerto; la grande scena, con la celebre domanda di Pilato “Cosa è la verità?”, è in tutti i casi una leggenda.

Gesù, insomma, fu condannato e giustiziato dai Romani quale ribelle religioso e politico, o anche solo come potenziale agitatore. Che Gesù avesse voluto e avesse previsto tutto ciò, che quindi alla base degli eventi ci fosse una superiore necessità, addirittura un piano di salvezza, è una più tarda interpretazione cristiana, una leggenda fondativa del Cristianesimo. Che non ha nulla a che vedere con la realtà della storia. In modo evidente, i discepoli di Gesù non conobbero nulla circa un piano di salvazione. Gesù non li preparò in nessun modo ad un tale esito, sicuramente perché egli stesso non aveva contato sulla propria fine così rapida. Perciò i discepoli, presi dal panico, fuggirono da Gerusalemme, indubbiamente per la paura di dover subire il medesimo destino del loro maestro. Una reazione comprensibile. Un procedimento immediato contro di loro, tuttavia, non ebbe evidentemente luogo; se fosse accaduto diversamente, sarebbe stato riferito di sicuro.

Altre figure inquiete intorno a Gesù

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Dal punto di vista dalla romana potenza occupante, l’esecuzione di Gesù fu razionale e ben giustificata. Chi poteva sapere cosa mai questo Gesù avrebbe potuto combinare? Per di più, se fosse un intrigante politico, o soltanto religioso, era una questione puramente accademica. Il carisma per influenzare la gente, Gesù ce l’aveva in modo palese: quanto in fretta, poi, un predicatore poteva trasformarsi in demagogo! E la provincia orientale dell’Impero, anche senza di ciò, dava chiari segnali di turbolenza. Uno storico che, a metà del II secolo, avesse guardato indietro al passato, avrebbe giudicato Gesù e il suo movimento come parte d’una lunga sequela di movimenti messianici e profetici che funestavano la Palestina. Nel Nuovo Testamento, quei movimenti affiorano solo marginalmente, ma la loro conoscenza fa capire meglio anche il movimento gesuano. Nel suo libro (Theißen/Merz, op.cit., S. 138–144), lo storico ne fornisce un compendio sintetico. I seguenti paragrafi ricalcano codesta rappresentazione. Dove e come così non sia, il lettore se ne accorgerà senz’altro.

Dopo la morte di Erode il Grande (il presunto infanticida) nell’anno 4, vi fu una sequela di insurrezioni che poterono essere soffocate solo con l’intervento di parecchie legioni. Fin da allora, le rivolte furono motivate da aspirazioni messianiche. Secondo una cronaca di Giuseppe Flavio, un certo Simone, già schiavo di Erode, si proclamò re per breve tempo, attirando su di sé speranze messianiche; altrettanto fece un certo Atronge, un pastore che vedeva se stesso come il nuovo Davide. Un altro sedicente carismatico, un certo Giuda, figlio di Ezechia, si schierò apertamente a favore d’una radicale teocrazia e, di conseguenza, al fine di alimentare l’ostilità verso ogni egemonia straniera.

Nell’anno 6 EV la Giudea e la Samaria caddero sotto diretta amministrazione romana. Contro un censimento fiscale eseguito in questo contesto, si ribellò Giuda il Galileo. Essendo anche lui apertamente un estremista religioso, proclamò la dittatura di Dio, sostenendo che non si dovessero riconoscere altri governanti all’infuori di Dio. Attribuiva all’uomo non solo la possibilità, ma persino l’obbligo di cooperare nell’edificazione del governo assoluto di Dio. In concreto, istigava al rifiuto del pagamento delle imposte. La sua fine violenta è addirittura ricordata negli Atti degli apostoli (Apg 5:37). Due figli di questo Giuda furono crocifissi dal procuratore romano Tiberio Alessandro, evidentemente per aver anch’essi incitato al rifiuto di pagare i tributi. Giuseppe Flavio giudica la sua dottrina corresponsabile dello scoppio della guerra giudaica.

Anche Giovanni il Battista rientra nella schiera di questi personaggi inquietanti, che propugnavano con forza il Regno di Dio e la sua egemonia, ponendosi così in rotta di collisione coi Romani. Anch’egli fu una figura conservatrice, un fondamentalista che criticava l’ellenizzazione della società ebraica, sognando di far girare in senso opposto la ruota dello sviluppo sociale. Vedeva il dominio di Dio immediatamente incombente, e battezzava molti ebrei nel Giordano, per la remissione dei peccati. Radunava giovani intorno a sé, criticando tra l’altro il re Erode Antipa per il suo stile ellenizzante e la sua indifferenza alla Legge giudaica. Erode Antipa fece giustiziare anche lui, e i suoi discepoli sopravvissero ancora fino alla fine del secolo.

Un alunno di Giovanni Battista fu evidentemente Gesù di Nazareth, figlio d’un artigiano della Galilea, che si fece conoscere come esorcista e taumaturgo. Battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano, ribadì anche lui il dominio di Dio, ritenuto ormai vicinissimo. Radunò una propria cerchia di seguaci e predicò soprattutto nei paraggi del lago Genezareth. Ebbe grande venerazione per il suo maestro Giovanni fino alla morte di lui; tra i due gruppi di discepoli, tuttavia, vi furono delle rivalità. Sotto Ponzio Pilato, a quanto pare nell’anno 30, dopo una breve attività di circa un anno, durante la sua prima visita a Gerusalemme, Gesù venne crocifisso come ribelle sedizioso. Mediante la sua critica al culto del Tempio, questo Gesù aveva palesemente provocato il ceto religioso dominante. Il Regno di Dio annunciato da Gesù non arrivò. Ma i suoi seguaci annunciarono in seguito la sua resurrezione dai morti e seguitarono a venerarlo.

Un profeta di nome ignoto, dalla Samaria, radunò nell’anno 36 una grande massa di fedeli, e volle recarsi con loro sul monte Garizim, per disseppellire lassù gli oggetti di culto che si diceva fossero sotterrati da Mosè. Ponzio Pilato fece trucidare la folla, per cui venne destituito dalla sua carica a causa delle proteste.

Sotto il procuratore Cuspio Fado (44–46), un certo Theuda incita gli ebrei a seguirlo coi loro beni fino alle rive del Giordano. Anch’egli si riteneva un profeta. Annunciò che il Giordano, al suo comando, si sarebbe diviso, come un tempo il Mar Rosso al cospetto di Mosè. Anche questo movimento ebbe termine con un bagno di sangue provocato dai Romani. Lo stesso Theuda venne decapitato e la sua testa trasportata a Gerusalemme.

Un’intera serie di profeti venne alla ribalta negli anni tra il 52 e il 60, cercando di convincere i rispettivi seguaci a fargli scorta nel deserto. Costoro promisero a loro segnali e prodigi. Da sempre, infatti, il deserto era considerato luogo d’incontro con Dio. Tale movimento fu pure soffocato nel sangue.

Nello stesso periodo un egiziano raccolse i suoi seguaci sul Monte degli ulivi, annunciando di avere il potere di far crollare, al suo comando, le mura di Gerusalemme.

All’epoca del procuratore Porcio Felice (60–62), un profeta tenta nuovamente di condurre i suoi seguaci nel deserto. Prometteva salvezza e una fine del mondo. Anche questo movimento venne soffocato nel sangue.

Poco tempo dopo si presentò un altro profeta, un certo Gesù, figlio di Anania, annunciando il giudizio sulla città di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Consegnato dall’aristocrazia ebraica al procuratore Albino (62–64), questi decide che si tratta d’un pazzo, e lo rimette in libertà. Costui non smette di lanciare la sua profezia di sventure, e Gerusalemme viene realmente distrutta. Gesù di Anania muore nell’assedio, colpito probabilmente dal proiettile d’una catapulta romana.

Durante la Guerra giudaica (67–70), si fanno avanti parecchi pretendenti al trono, tra i quali un certo Menahem ed un certo Simon ben Giora. Quest’ultimo, dopo la conquista di Gerusalemme, verrà giustiziato a Roma. E’ probabile che altrettanto accadesse a Giovanni di Gishala, il quale aveva organizzato a Gishala la resistenza contro i Romani, e fu portato da Tito a Roma. Possibile inoltre che questo Giovanni si fosse sentito e presentato pure come un messia.

Anche dopo la Guerra giudaica vi furono parecchi pretendenti al titolo di re, oppure di messia. Uno di loro fu senz’altro Luca di Cirene, capo nella cosiddetta insurrezione della diaspora (115–117 EV). Costui si era presentato con pretese messianiche, e nelle fonti è connotato come re.

Esplicitamente in qualità di Messia si considerò Simon bar Kochbar, condottiero nella rivolta di Bar-Kochbar (132–135 EV) contro l’imperatore Adriano. Il rabbino Akiba, tenuto in alta considerazione, appoggiò la ribellione e riconobbe in Simon il messia giudaico lungamente atteso. Motivo per cui l’insurrezione avrebbe dovuto avere successo. Eppure anche questa rivolta fu soffocata nel sangue: Simon trovò la morte, e Rabbi Akiba fu giustiziato dai Romani.

I cristiani in ogni caso (però anche i non cristiani) sentono l’azione e la morte di Gesù come qualcosa di singolare, di unico e assolutamente incomparabile. Reperti e risultati storici dimostrano però che quell’impressione è sbagliata. La storia formatasi intorno a Gesù di Nazaret fu soltanto uno dei numerosi movimenti di rinnovamento che interessavano l’inquieta Palestina. Quasi ogni anno vi spuntavano profeti, carismatici, messia e pretendenti al trono, accampando teorie astratte e astruse. Il popolo ebraico di Palestina era esposto senza tregua all’influsso di fanatici religiosi, poiché tutti questi movimenti, ciascuno in un modo suo peculiare, erano rivolti al passato, estremamente conservatori, improntati ad un nazionalismo religioso o religiosamente connotato. E il popolo era chiaramente sensibile ad influenze di questo genere.

Risulta evidente, inoltre, quanto sia artificiosa la differenziazione (una distinzione tutta nostra) tra attività religiosa ed attività politica di questi profeti. La separazione di questi due aspetti fallisce già in questo: l’atteso Messia religioso era atteso perlopiù anche come messia politico. L’atteso Regno di Dio non era affatto un regno librato sulle nuvole (solo i cristiani l’hanno creato a tal fine), ma lo si aspettava realizzato sulla terra. Era in mezzo a questo mondo che Dio doveva instaurare la sua egemonia, e a tal fine i nemici reali dovevano naturalmente essere sconfitti. Dio stesso li avrebbe abbattuti, e i suoi fedeli seguaci l’avrebbero aiutato nell’impresa. La sfera religiosa privata è infatti, nella storia delle religioni, un’invenzione assai tardiva.

Ai Romani, perciò, i movimenti religiosi apparivano sempre sospetti, anche politicamente; dovevano esserlo necessariamente, giacché ogni predica che si riferisse ad un imminente Regno di Dio, per quanto spiritualmente fosse ispirata, minacciava indirettamente le loro pretese egemoniche. E sospetto era ognuno che, oltre a ciò, avesse in più forza d’irradiazione carismatica, ossia il potere di affascinare e di legare a sé tante persone. Non v’è dubbio che Gesù fosse un uomo di questa fatta. Il suo arresto e la sua esecuzione, visti dai Romani, furono soltanto logici e coerenti.

L’elencazione fatta qui sopra ha mostrato che l’opera di codesti (autonominatisi) profeti, o messia, causava spesso la morte di molte persone, in quanto l’autorità romana riteneva spesso di dover porre un freno a quei movimenti solo effettuando dei massacri. Nella guerra contro i Romani aumentava, col fanatismo, anche il numero delle vittime. Cosicché, poco prima della caduta di Gerusalemme, si ripresentarono sedicenti profeti, promettendo salvezza. Bastava recarsi al Tempio e aspettare l’aiuto di Dio. Nell’incendio del tempio arsero centinaia di persone, ma l’aiuto divino non si verificò.

La rivolta di Bar Kochbar (dal 132 al 135), significativamente innescata da un messia (in questo caso nemmeno autonominatosi), provocò non solo fiumi di sangue, ma ebbe come risultato anche la completa distruzione di Gerusalemme, nonché il divieto per gli ebrei di vivere nella città, avviando la diaspora. L’Ebraismo perdette così, fino al XX secolo, il suo baricentro religioso e culturale. Credenza nel Messia e attesa d’un Regno di Dio avrebbero avuto per l’Ebraismo ripercussioni catastrofiche, non solo come allucinazione, ma anche con ripercussioni sugli eventi storici.

Persino dopo aver preso atto della molteplicità di quei movimenti, i cristiani recalcitreranno di fronte al dovere di mettere Gesù nel novero di quei profeti e messia così astrusi. E’ di codesta schiera, in ogni modo, che anche Gesù fa parte. In realtà, cosa sarebbe successo se non ci fossero stati i discepoli a portare avanti la causa di Gesù, qualunque fosse stata, se la nuova dottrina non avesse incontrato un protagonista come Paolo, se alla setta giudaica non fosse riuscito il grande balzo nel mondo ellenistico? Gesù sarebbe rimasto una glossa marginale d’una storia locale, al pari di Theuda o di Luca da Cirene, che oggi nessuno conosce più.

Forse nella rete, in Wikipedia, non si troverebbe oggi nemmeno una noterella che lo riguardi. Solo la fortuita sopravvivenza, e naturalmente la trasformazione di quest’unico movimento innovativo, porta oggi soggettivamente a voler vedere, nella comparsa di Gesù, più di quanto esistette realmente. Ed in più, naturalmente, la possente costruzione dogmatica, l’immagine imponente di strutture chiesastiche che si richiamano a lui. Sennonché le cattedrali e le costruzioni dogmatiche sono realtà sviluppatesi in epoche successive; i fondamenti sui quali esse sono edificate, non reggono ad un rigoroso riesame.

Osservando i “risultati” dei movimenti di rinnovamento politico- religiosi, il movimento sorto intorno a Gesù sembra aver avuto un esito piuttosto riguardoso. E’ presumibile che i Romani l’avessero ucciso per pura precauzione, come misura preventiva, prima che accadesse di peggio. E, sulle prime, ebbero pure ragione. Il movimento gesuano richiese un’unica vittima: il presunto agitatore in prima persona. Così i Romani poterono considerare chiuso il caso. Come avrebbero mai potuto presagire che – ironia della storia! – il piccolo focolaio, considerato spento, avrebbe continuato ad ardere sotto la cenere, che l’uomo appena giustiziato sarebbe stato presto annunciato come risorto? e che l’esigua schiera dei suoi seguaci avrebbe invaso e travolto il mondo antico con un inestinguibile incendio religioso?

Le leggende sulla resurrezione

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Ipotesi sul miracolo cardinale del cristianesimo

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La morte del supposto Messia (così lo vedevano gli ebrei cristiani), oppure del Figlio di Dio (come lo venerarono tosto i cristiani pagani) non bastava sicuramente alla fondazione di questa religione mondiale nel suo stato nascente. Alla sinfonia mancava ancora il colpo di timpano, affinché essa potesse imprimersi saldamente nella memoria. Veramente interessante Gesù divenne solo dopo la sua morte, allorquando i suoi discepoli lo proclamarono risorto. Fintantoché fu solamente un morto ammazzato, gli rimase appiccicato il marchio del perdente fallito; ma quando fu annunciato come risorto, si trasformò in vincitore. E i vincitori, in tutte le epoche, hanno magicamente attratto i popoli. Anche quando le Chiese, per ragioni teologiche, definirono in seguito la croce come l’azione salvifica determinante, subordinando ad essa persino la resurrezione, la conclamata resurrezione di Gesù divenne il principio d’Archimede del cristianesimo.

Nella fede della risurrezione si mescolano, in maniera estremamente eccitante, il misterioso con il significativo, l’incantevole numinoso d’un intervento divino con la prospettiva d’un superamento della morte, anche per i credenti. Perché è di questo che si tratta: che valore avrebbe la risurrezione di Gesù, se i credenti non potessero ricavarne anche la speranza nella propria personale immortalità? Proprio questo fu l’annuncio dei primi e per i primi cristiani; i quali ne trassero un successo travolgente. Le risurrezione è il miracolo primigenio del Cristianesimo, il prodigio essenziale, che eclissa tutti i portenti decantati prima di allora, surclassando ed oscurando tutti gli esorcismi di spiriti maligni, tutte le guarigioni di paralitici, di piagati dalla gotta, di donne in preda alle emorragie, e quant’altro.

Al cospetto di questo super-miracolo, tutti i prodigi precedenti fanno l’effetto di giochetti per bambini. L’annuncio della resurrezione di Gesù divenne insomma la confessione primaria della comunità. Il Cristianesimo è fondato su un prodigio, anche se i teologi moderni amano esprimere il concetto in maniera più verbosa e con più eufemismi. Oggi, una fede ingenua nei miracoli viene naturalmente respinta dai teologi e, al posto di essa, si sottolinea per esempio la necessità della personale scelta di fede. Nella realtà, tuttavia, la Chiesa cristiana affonda le sue radici, ora come in passato, in questa selva magica, essendo edificata su questo incantesimo, su questo sortilegio di fantasia religiosa.

Le resurrezione di Gesù si riflette in varie guise negli scritti del Nuovo Testamento, offrendo così alla critica storica una grande quantità di punti di partenza. Una lunga serie di confessioni, di leggende e di linee tradizionali, si riscontrano nelle Scritture, considerate presto come sacre. E la prima confessione essenziale è appunto che – specialmente per quanto riguarda le leggende relative alla risurrezione – si ritrovano contraddizioni mai udite prima nella tradizione, e che qui, molto di più che in altre storie su Gesù, gli evangelisti e i loro predecessori si sono sbizzarriti senza ritegno per la realtà, o solo per la veracità, della storia.

Il credo originario della Chiesa cristiana ha configurazioni leggendarie in dimensioni straordinarie: è ciò che già Reimarus ebbe a constatare, e che oggi nessun serio studioso neotestamentario contesta più. Le contraddizioni rimandano ad una lunga storia della tradizione in fatto di leggende concernenti la resurrezione. “Fra tutte le cronache conservate non ce n’è una che concordi con le altre”, constata il teologo Hans von Campenhausen (Der Ablauf der Osterereignisse und das leere Grab//Lo svolgimento degli eventi pasquali e il sepolcro vuoto S. 19). Anche qui è un caso fortuito che noi possiamo ripercorrere in qualche misura il modo di lavorare degli evangelisti e le loro visioni teologiche. Poiché Matteo e Luca, su questo punto, hanno conosciuto, applicato e rielaborato il testo di Marco. E anche Giovanni, il più inventivo fra gli evangelisti, in questo passo ha conosciuto evidentemente i suoi predecessori. Per di più, anche nei vangeli apocrifi non mancano racconti di resurrezione, da cui si possono dedurre quantomeno certe tendenze della tradizione.

Già nel Nuovo Testamento rimbalza l’accusa che i discepoli avessero rubato la salma di Gesù (Matteo 28:11-15). E’ chiaro che i primi cristiani, nella loro predicazione sul Risorto, dovettero confrontarsi di continuo con quella diceria. Reimarus diffuse largamente la tesi del furto della salma nella letteratura ebraica, rappresentandola per primo (in forma ancora anonima) in ambienti culturali cristiani. Sottraendo la salma di Gesù, i discepoli volevano procurarsi dei vantaggi, giacché ora apparivano non più come successori di un perdente, ma potevano anzi guadagnare per sé, nella luce della resurrezione, profilo e autorità. Essi, ora, non erano più soltanto uomini sedotti, al contrario, confermavano così, dinanzi al mondo, la giustezza del loro cammino. Sennonché i discepoli – secondo Reimarus – non riuscirono ad accordarsi bene su quale storia volessero raccontare: ragion per cui si giunse alle numerose e differenti versioni narrate nei Vangeli. Se questa tesi colpisse nel segno, il Cristianesimo risulterebbe fondato su un’impostura ovvero – con una formulazione un po’ più cortese – su un atto truffaldino, come Goethe ha formulato in uno dei suoi “Epigrammi veneziani”:

(IT)
« Aperto è il sepolcro! Che grandioso miracolo!
Il Signoreè risorto!
Ma chi ci crede? Imbroglioni, voi l’avete trafugato. »

(DE)
« Offen steht das Grab! Welch herrlich Wunder!
Der Herr ist auferstanden! – Wer’s glaubt!
Schelmen, ihr trugt ihn ja weg. »
(Goethe, Epigrammi veneziani)

L’ipotesi dell’impostura sarebbe concepibile sul piano psicologico, e spiegherebbe anche il sepolcro vuoto e le apparizioni della risurrezione per via del tutto naturale. Oggi, ciò nondimeno, questa tesi non viene quasi più sostenuta dagli storici, e perciò non verrà propugnata nemmeno qui. Essa rappresenta naturalmente una speculazione; e persino un critico della resurrezione, come il teologo Lüdemann, ritiene i discepoli troppo delusi e sgomenti subito dopo la crocifissione; allo scopo di ordire un tale imbroglio, essi “assai probabilmente, non ne sarebbero stati più in condizione.” (Gerd Lüdemann, op.cit., S. 85 s.). Anche questa, tuttavia, è speculazione. L’obiezione spesso ripetuta, secondo cui gli impostori non sarebbero potuti diventare poi dei martiri, non convince appieno; giacché erano solo pochi i discepoli che (lasciando da parte gli Atti dei martiri, cruenti, e perlopiù non storici) patirono la morte da martirio (questa sembra accertata solo per i discepoli Giovanni e Giacomo, mentre incerto è persino il martirio di Pietro a Roma).

Parimenti, furono chiaramente solo pochi i discepoli che portarono avanti la causa di Gesù. Che tutti i discepoli andassero in missione allo scopo di evangelizzare, non è che un’invenzione cristiana. Perché mai non tutti i discepoli incominciassero con la missione, è del resto una questione interessante. Non hanno forse creduto nella testimonianza relativa alla risurrezione? I pochi supplizi abbastanza sicuri dei discepoli partiti per l’evangelizzazione avvennero, cronologicamente, molti anni dopo la morte di Gesù. Per tutto quel tempo, discepoli ricchi di inventiva avrebbero potuto assicurarsi una posizione centrale e un alto prestigio nel milieu sociale della cristianità primitiva.

La ipotesi della morte apparente si aggira qua e là, come uno spettro che attraversi la bibliografia relativa. Friedrich Schleiermacher, il più importante teologo dell’Ottocento, nonché il teologo razionalista H.E.G.Paulus, si entusiasmarono per questa tesi, che oggi tocca sconcertanti tirature soltanto in libri di “rivelazioni” sensazionali, ma che a buon diritto non sono presi sul serio dagli specialisti. Anche questa tesi, d’altronde, si può richiamare ad argomenti biblici, cioè allo stupore di Pilato perché Gesù era già morto (Giuseppe di Arimatea gli aveva chiesto di avere il corpo morto di Gesù; Mc 15:43-45). Stando alla testimonianza dei vangeli, Gesù restò appeso alla croce solo per sei ore, un tempo sorprendentemente breve per un’esecuzione di questo tipo. In altri casi, l’agonia dei condannati di questo genere poteva protrarsi per giorni. Nella maggior parte dei casi, la morte subentrava per soffocamento o per collasso circolatorio. Sarebbe tuttavia sbagliato dire che Gesù avesse perciò sofferto poco; in verità, in conseguenza di questo tipo di morte, avrebbe potuto andare anche peggio. La conclusione a favore d’una morte apparente, comunque, dà l’impressione di essere una forzatura, e sembra quasi tirata per i capelli.

Più sospetta è già la circostanza che, per la resurrezione di Gesù, non vi fossero testimoni neutrali. Tutti quelli che attestano la sua resurrezione erano suoi seguaci o discepoli. L’assenza di questa autenticazione colpì molto già nel mondo antico. Tanto che Porfirio – certamente il più importante critico del cristianesimo nel mondo antico –, osserva: “Se il Cristo risorto si fosse rivelato a persone autorevoli, allora tutti sarebbero giunti alla fede per tramite loro, e nessun giudice avrebbe condannato loro [i discepoli] come inventori di favole bizzarre.” (Macario II,14, secondo la numerazione di Harnack).

Si faccia chiarezza su questo: è avvenuta quella che, secondo l’opinione dei cristiani, è la svolta decisiva di tutta la storia del mondo, e il Signore risorto se la svigna (secondo Luca nello stesso giorno) come un ladro nella notte, dopo essersi mostrato soltanto ad alcuni dei suoi più stretti seguaci. Ciò non è precisamente degno di fiducia. Per controbattere il critico del cristianesimo Celso, il teologo Origene si trasse d’impaccio adducendo che gli altri non avrebbero saputo sopportare la visione della sua trasfigurata comparsa (Origene, Contra Celsum, 2, 63,64). I cristiani più tardi fecero di necessità virtù, ribadendo che si trattava appunto di fede, e che un eccesso di sapere non andava bene in queste cose. In effetti, è con i più svariati e fantasiosi misteri della fede che la Chiesa cattolica, più degli altri, cerca di smerciare varie tesi dappertutto, ancora oggi, bussando da porta a porta.

Sospetto è altresì il fatto che il testimone più antico d’una apparizione del Signore risorto fosse Paolo, e che egli intendesse con ciò, in maniera evidente, nient’altro che una visione. Nella Prima lettera alla comunità di Corinto, Paolo cita non solo un’antica formula di fede, che si suppone risalisse agli anni trenta del primo secolo, ma reca per di più un elenco di coloro ai quali è apparso il Signore risorto (1 Corinzi 15:3-8)

« A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io
ho ricevuto, cioè
che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa, e quindi ai Dodici. »

In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me […]

Storicamente, questa testimonianza è molto più importante di tutte le leggende riguardanti la resurrezione. Perché queste compaiono solo nei vangeli posteriori, mentre la prima Lettera ai Corinti è databile dall’anno 50. E Paolo fa menzione d’una tradizione che egli stesso ha probabilmente trovato già pronta. Paolo inserisce se medesimo nella fila dei testimoni della risurrezione, definendosi come l’ultimo al quale Gesù sarebbe apparso. Dappertutto, per la locuzione egli apparve, viene impiegata la parola ophte (aoristo greco di horao). La conversione di Paolo alle porte di Damasco (Atti 9:1-22), a cui Paolo qui allude, era tuttavia una visione, quindi un avvenimento che i suoi accompagnatori non avevano affatto percepito. Essi non udirono né videro nulla di ciò che Paolo dice di aver visto e udito. E Paolo, per tutte le apparizioni di Cristo, impiega la medesima parola ophte (egli apparve).

Dunque, se l’apparizione del Risorto agli occhi di Paolo è da giudicare solo come una visione, mentre per le altre apparizioni è applicata la medesima locuzione, s’impone addirittura il sospetto che, nei primi anni delle origini, le apparizioni del Risorto fossero intese di massima unicamente come visioni. Gesù apparve a singoli discepoli sotto forma di sogno diurno – fatto ad occhi aperti – simile a quelli che gli Ebrei conoscevano dall’Antico Testamento, oniricamente vago e misticamente sfumato, non comunicabile per via intersoggettiva. Solo in uno stadio successivo della tradizione, queste visioni divennero per così dire tangibili e manifeste: il Risorto venne descritto come uomo in carne e ossa, da potersi toccare, e in grado di mangiare ostentatamente persino del pesce fritto. Il Gesù apparso a Paolo sarebbe stato sicuramente, per di più, uno spregiatore del cibo.

Il fatto che, nelle storie della resurrezione allo stadio nascente, si trattasse appunto di visioni, dà il suo nome specifico alla teoria delle visioni, oggi sostenuta dalla stragrande maggioranza degli studiosi neotestamentari. Che Gesù fosse apparso realmente, in forma corporea, ai suoi discepoli, è difficilmente digeribile per i teologi illuminati, mentre la riduzione delle apparizioni a pure e semplici allucinazioni è ancora accettabile. Eppoi, se a suggerirlo c’è anche il referto della tradizione, tanto meglio. Sennonché le visioni possono essere di duplice qualità. Se si muove dal presupposto che Dio stia davvero dietro la visione, si parla d’una teoria visionaria oggettiva; ma se si ipotizza trattarsi di processi meramente psicologici, allora si parla d’una teoria soggettiva delle visioni. Tra gli esponenti della teoria visionaria soggettiva ci sono non soltanto David Friedrich Strauß, ma anche Rudolf Bultmann e Gerd Lüdemann. “Visioni sono fenomeni che avvengono nella mente umana, sono prodotti della propria forza immaginativa, sebbene i visionari le raccontino di regola in modi diversi.” (Lüdemann, Die Auferweckung Jesu von den Toten, S. 39). Con questo, tuttavia, le visioni si accostano grandemente alle allucinazioni, quasi a coincidere con puri e semplici miraggi, identificandosi in una forma di intima e soggettiva rappresentazione cinematografica. E come tali esse devono pure essere considerate.

Ci troviamo qui di fronte al medesimo problema metodologico riguardante le narrazioni sui miracoli. In tutte le religioni si narra di miracoli. E’ inconseguente parlare di illusioni per le altre religioni, e di voler salvare invece i miracoli cristiani come “storicamente verosimili” oppure “forse non secondari”, ponendoli in qualche modo su un’isola soprannaturale. Ciò sarebbe espressione d’uno sciovinismo e d’un cervellotico mentalismo cristiano, assolutamente non giustificabile da una prospettiva scientificamente neutrale. Non è possibile spalancare la porta per i fantasmi cristiani, senza lasciare che vi entrino anche tutti gli altri. Analogamente avviene per quanto riguarda le visioni, che certi esponenti religiosi pretendono di aver avuto e che si presume siano originate da qualche divinità. Su un piano meramente metodologico, non è lecito muovere qui da visioni oggettive. Giacché, in tal caso, non si capirebbe perché si lascino entrare esclusivamente “visionari” cristiani. Se si apre la porta d’ingresso, o anche solo un’uscita di sicurezza, ci si ritrova subito la casa strapiena di illustri personaggi di tutte le religioni possibili, che ci fanno rintronare gli orecchi con le più astruse esperienze vissute.

Nel migliore dei casi, quindi, sia sul piano metodologico che della responsabilità, si può dare per scontato che si tratti di visioni soggettive. L’ipotesi scientifica da cui partire deve necessariamente essere questa: tutte le visioni sono personalissimi prodotti dell’io soggettivo che, attraverso gli impulsi del mondo circostante, viene eccitato in molteplici guise. L’influsso di qualsivoglia divinità, diavoli, spiriti, angeli o demoni, non può e non deve essere incluso in questa ipotesi, come del resto neanche l’influsso di Madama Holle e Witwe Bolte. {Frau Holle è una fiaba dei fratelli Grimm, che adombra una divinità germanica precristiana, mentre la vedova Bolte è un personaggio fantastico tratto dal popolare “Max und Moritz” dell’umorista tedesco Wilhelm Busch}.

Contraddizioni nel tramandare la resurrezione di Gesù

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Prima delle riflessioni teoretiche, gettiamo intanto uno sguardo tra le testimonianze sul Risorto contenute nel Nuovo Testamento. Dai racconti tramandati dagli evangelisti e dalle loro tendenze si può già ottenere una quantità di conoscenze. Certo, le piccole formule dogmatiche, come ad es. Dio ha risuscitato Gesù dai morti (Rom 10:9, simile a 1Cor 6:14; Rom 4:24), ricorrenti sovente soprattutto nelle Epistole, sono di regola chiaramente più antiche delle storie abbellite delle apparizioni del Risorto narrate dagli evangelisti.

Paolo, quale testimone più antico, suggerisce una comprensione delle apparizioni in forma di visioni. Sicuramente, lui le ha comprese come visioni oggettive, cioè operate da Dio. Nelle Lettere paoline, tuttavia, oltre a formule tradizionali, non si trova nessun racconto storico della risurrezione, sebbene questa avesse sicuramente già avuto luogo. D’altro canto, la visione di Paolo, quantunque sia quella attestata nel modo migliore fra tutte le visioni, non viene ricordata nei Vangeli. Solo Luca la riporta nella sua storia degli apostoli. Di conseguenza, per quanto concerne la pienezza contenutistica delle formule sulla risurrezione, si deve contare solo sui Vangeli. E qui, nel più antico evangelista Marco, si rivelano già fattispecie interessanti.

Per incominciare: il vangelo di Marco, nella sua versione originale, non aveva presentato nessun racconto di resurrezione. Terminava, in Mc 16,8, con la storia del sepolcro vuoto. I più antichi documenti testuali lo comprovano in modo univoco. Il motivo è sconosciuto, e anche la conclusione con le parole “Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore”, non sono molto adatte come epilogo di un vangelo. Per la verità, il vangelo di Marco nel suo complesso, quanto a lingua e composizione, sembra molto accidentato e sconnesso. Che questo vangelo non possa essere opera dello Spirito santo, non è difficile riconoscerlo già dal pessimo greco dell’autore. Forse Marco voleva, per ragioni sconosciute, terminare alla svelta il suo racconto. Comunque sia, le storie successive vi si aggiunsero solo dopo alcuni decenni. Ma sono solamente undici versetti. Il secondo autore vi immette non solo parecchie apparizioni, ma vi inserisce anche l’ascensione al cielo.

La storia del sepolcro vuoto, d’altronde, si trova in tutti gli evangelisti, e si può riconoscervi il modo in cui la materia fu elaborata. Al sepolcro giungono, in Marco, tre donne, cioè Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo, e Salomè. In Matteo ne restano solo due, avendo lui espunto Salomè. In Luca ci sono di nuovo tre donne, però, in luogo di Salomè, adesso c’è Giovanna, nominata prima in Luca. In Giovanni, finalmente, ha luogo la scoperta del sepolcro vuoto da parte della sola Maria Maddalena. La quale, racconta Giovanni, era andata al sepolcro da sola, nell’oscurità (!). In Marco, le donne giungono per ungere Gesù con pomate: un’impresa alquanto strana per un uomo che è morto ormai da due giorni. L’unzione ebraica dei cadaveri ha luogo naturalmente prima della sepoltura. Forse è per questo che Matteo l’ha cancellata; in lui, le donne vengono per guardare la tomba. In Marco, le donne comprano gli unguenti il giorno dopo il sabato, in Luca il giorno prima. In Giovanni, una unzione non è necessaria, e Gesù è stato unto già prima della sepoltura per mano di Giuseppe di Arimatea. In Marco, alle donne viene in mente solo in cammino che avranno bisogno di aiuto per far rotolare il macigno dall’apertura del sepolcro.

Gli angeli sulla tomba, che al lettore della Bibbia sembrano così familiari, in Marco non ci sono ancora: solamente un giovane (in greco neaniskos) sta seduto sulla tomba, vestito di bianco. Con lui, Marco pensò forse al ragazzo che era fuggito ignudo quando Gesù fu arrestato (Mc 14:51-52). In origine allora, nella più antica storia del sepolcro, neanche un angelo sarebbe stato ricordato. Ma non fa niente: Matteo accantona eventuali dubbi. In lui, quel giovanotto diventa un angelo (in greco angelos), mentre in Luca gli angeli sono già due. In Marco, il giovane siede ancora sulla tomba, in Matteo scende ormai dal cielo in forma di angelo, e qui, per fare il botto, Matteo s’inventa per di più un bel terremoto. La pietra, che in Marco è semplicemente rotolata via, in Matteo viene spostata dall’angelo.

Alle donne viene annunciato, in Marco, che Gesù non si trova nella tomba, e solo dopo le donne vedono che la tomba è vuota. Secondo Luca, esse scoprono prima che la tomba è vuota, e solo dopo ricevono da due angeli una spiegazione del fenomeno. Alla notizia Egli fu svegliato Matteo aggiunge un ulteriore come egli ha detto, ingrandendo ulteriormente l’evento. Anche Luca si dimostra ricco di inventiva; quel Perché cercate tra i morti colui che è vivo? (Lc 24:5), detto alle donne dai due sconosciuti, va ricondotto linguisticamente a lui.

Matteo è l’inventore della guardia al sepolcro, di cui Marco non sa nulla. Il senso è chiaro: Matteo reagisce con ciò all’accusa, evidentemente già propagatasi, secondo cui i discepoli avrebbero rubato la salma di Gesù. All’arrivo dell’angelo, Matteo fa sì che la guardia cada come morta; più tardi inventa un’altra storia che riconduce l’accusa di furto di cadavere ad un atto di corruzione ordito dalla classe sacerdotale. Gli Ebrei diffondono voci maligne: egli vuole che la sua comunità creda, e diventa così testimone, senza volerlo, d’una delle prime critiche antiche alla fede nella risurrezione. Nel successivo vangelo di Pietro non sarà soltanto una guardia, ma saranno subito parecchie, a darsi il cambio. In più, saranno presenti intorno alla tomba, di notte, anche il capitano e addirittura i più anziani (!) tra gli ebrei.

Come momento culminante del racconto sul sepolcro vuoto, Matteo fa riapparire Gesù in persona (Mt 28:9-10). Eccolo lì d’improvviso: le donne si avvicinano, gli abbracciano i piedi e lo adorano. Egli le incarica di informare i suoi fratelli (?) di recarsi in Galilea, dove potranno vederlo. Che anche qui noi ci troviamo di fronte ad un’invenzione di Matteo, non si evidenzia solo dal fatto che si manifesta di nuovo un vocabolario tipicamente “matteano”, e che questo passo si cerca invano in Marco, ma anche dalla circostanza che Gesù ripete quasi alla lettera gli inviti che le donne hanno appena ricevuto dall’angelo. Quello che a Matteo stava a cuore, chiaramente, era di tirare qui in ballo ancora Gesù in qualche maniera; ma il valore di novità del suo discorso (pur sempre le prime parole pronunciate dal Risorto!) è pari a zero.

Ancora una volta si può riconoscere, nella comparazione, che gli evangelisti non hanno scrupoli di inserire inventando, a propria discrezione, interi passaggi e parole. Ciò che non va a genio a loro e alla loro teologia, essi l’hanno allegramente aggiunto, cambiato o espunto. Già dai cambiamenti introdotti solo nel tramandare il testo di Marco a quelli di Matteo e Luca (ossia in un unico grado di trasmissione) si può intuire quali trasformazioni le storie abbiano dovuto subire già nella trasmissione orale.

I Vangeli – e non soltanto il vangelo di Giovanni – si dimostrano ancora una volta come scritture profondamente inattendibili in senso storico. Senz’ombra di ritegno, i loro autori hanno contraffatto e lasciato queste manipolazioni in eredità alla Chiesa cristiana: una mistificazione eseguita indubbiamente nella migliore buona fede. La Chiesa ha trasportato alla brava questi falsi attraverso le epoche, etichettandoli successivamente addirittura come opera della Spirito Santo, edificando su di essi un impero, non soltanto religioso. Si manifesta così una comprensione della tradizione, che è del tutto estranea da ciò che si intende per Tradizione nella teologia cattolica.

Il vangelo di Matteo ha termine, malgrado ogni compiacimento inventivo dell’evangelista, quasi altrettanto repentinamente quanto quello di Marco. Dopo la sorprendente comparsa di Gesù accanto al sepolcro vuoto, seguono ancora dieci versetti, di cui solo cinque si occupano dell’impostura dei sommi sacerdoti. Oltre all’apparizione di Gesù alle donne, si racconta ancora un’apparizione agli undici discepoli in Galilea. Anche questo è un po’ striminzito, non adeguato al piacere sensazionalistico delle future generazioni. Sennonché Matteo ha finalizzato tutto sulla missione di Gesù, e gli fa dire i ben noti versetti:

« A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. »
(Matteo 28:18-20)

Anche questi versi sono stati inventati presumibilmente da Matteo stesso, e rivelano comunque alcune incongruenze. Con il cosiddetto ordine missionario Matteo immette nel gioco l’espansione dell’indottrinamento religioso per i popoli. Questo l’avrebbe iniziato Gesù stesso: così Matteo vuole suggerire ai suoi lettori. Perché il Gesù terreno (lo sapeva anche Matteo) vedeva se stesso inviato solo in mezzo agli Ebrei, e aveva espressamente respinto un annuncio rivolto ai pagani o ai credenti di altre fedi: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani” (Mt 10:5). Questo è quanto egli aveva inculcato nei suoi discepoli.

I primi seguaci di Gesù avevano ancora dato ascolto a ciò: già il numero dodici rinvia alle dodici tribù di Israele, e non ad azioni missionarie tra le nazioni. Solo gli ellenisti presenti nella comunità primitiva, e poi naturalmente Paolo, vogliono portare il vangelo anche tra i popoli. E questo doveva essere duramente contestato dagli ebrei cristiani. Sennonché, quando Matteo scrisse il suo vangelo, si era passati ormai da tempo alla missione tra i pagani: il precetto di Gesù era dunque superato. Per questo motivo Matteo gli mise in bocca una parola che riconduce al suo mandato la missione tra i pagani. Ed è appunto l’esatto contrario di ciò che Gesù aveva annunciato.

Anche il comando missionario nella sua forma triadica in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo rispecchia una formula più tarda, dato che la comunità originaria aveva battezzato soltanto su Gesù, o sul nome di Gesù (il che, nel contenuto, è lo stesso). Il Gesù storico non ha mai battezzato in prima persona; qui gli viene addossato un ordine di battesimo in una forma che sarà applicata solo 30–50 anni dopo la sua morte, ma sicuramente nella comunità di Matteo, per la quale questo vangelo fu scritto. Che già nella frase iniziale A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra come pure nelle parole conclusive di Gesù Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo, si tratti, non solo rispetto al linguaggio, di una libera creazione dell’evangelista, si evidenzia l’intero capitolo come “composizione” dell’evangelista. Uno stratagemma che, ad onor del vero, gli riuscì piuttosto bene.

Ancora oggi questi versi, in effetti, sono tra i passi più popolari ed amati del Nuovo Testamento. Eppure si nasconde in essi un’altra parola obbrobriosa della Bibbia, per gran parte non percepita dai cristiani come tale. In realtà, questo Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome … si è rivelato – nella storia della Chiesa e nella storia della civiltà – come un autentico appello a versare sangue, avendo significato indubbiamente la giustificazione ideologica di guerre di religione e di incitamento a soggiogare interi popoli, intraprese per la propagazione della fede cristiana.

Solo nel Nuovo Mondo – richiamandosi sempre a codesto “comando missionario” – vennero sterminate intere popolazioni; il numero degli assassinati, nonché dei morti causati dalle conquiste, ammontò a milioni: fatti quasi inimmaginabili per società come quelle europee, ormai pressoché uscite dal Medioevo. Ed anche se le Chiese oggi se ne rammaricano onestamente, parlando addirittura di un abuso del Vangelo, e persino quando si ammette che la conquista, in quanto atto di mero potere politico, avrebbe avuto luogo anche senza il sostegno delle Chiese, ebbene, questo non assolve le Chiese da questo dato di fatto: fu appunto la loro religione ad offrire supporto e servizi per tanti eccidi. Scusarsi in tutta serietà, e rammaricarsene sinceramente, non restituisce la vita ai defunti, non rimuove le sofferenze patite.

Nel comando per le missioni si rivela la brutta faccia dell’intolleranza e della prepotenza religiosa, che certamente non viene avvertita quando ci si sente cristiani. Ma si provi una volta ad immaginarsi che qui a parlare non fosse Gesù, bensì qualunque altro capo religioso: poniamo Maometto, che fa appello alla diffusione dell’Islam, oppure Lenin, che sogna la rivoluzione mondiale. D’un tratto, allora, si percepisce l’arroganza che si sprigiona da quelle parole. L’intolleranza ha molti volti.

Ma torniamo al sepolcro vuoto. In Marco, le donne ricevono l’incarico di raccontare ai discepoli della risurrezione, e di recarsi in Galilea, dove Gesù dovrebbe apparire. Stranamente, il Vangelo (nella sua forma più antica) termina così: le donne non dissero nulla ai discepoli, perché erano impaurite. Questo non ha un vero senso, ed in più contraddice chiaramente alla missione dell’uomo nella tomba. Anche qui, perciò, Luca e Matteo introducono dei cambiamenti: nelle loro versioni, le donne raccontano le esperienze da loro vissute. Secondo Matteo, che prende da Marco, Gesù precede i discepoli verso la Galilea. Matteo, in più, fa apparire Gesù anche in Galilea. E’ evidente che Luca, invece, prende da lui solo il riferimento verbale di Galilea. Dove sono gli angeli a parlare: “Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno.”

Luca fa così perché non riferisce di altre apparizioni in Galilea; in lui, tutte le apparizioni hanno luogo in Gerusalemme e dintorni. Anche i discepoli dovrebbero restare a Gerusalemme. Luca si rivolge infatti ai pagani-cristiani, che della Galilea non sanno che farsene. Dunque, la tradizione radicata nella Galilea sarebbe più antica. In seguito, gli avvenimenti furono trasferiti a Gerusalemme. Se fosse il contrario, se cioè la tradizione legata a Gerusalemme fosse esistita già prima, sarebbe difficile spiegare come si sarebbe potuto ritornare alla tradizione di Galilea. Alla fin fine Giovanni, quale evangelista più giovane, riferirà di apparizioni in Galilea e anche in Gerusalemme.

Sul sepolcro vuoto, in generale, Giovanni narra una storia del tutto diversa. Secondo lui, intanto, non c’è nessun angelo che appaia; Maria Maddalena giunge sola alla tomba, la pietra di accesso è già rotolata via. Lei non guarda affatto nel sepolcro, bensì corre da Pietro, pensando che Gesù sia stato già inumato altrove (!). Pietro corre allora verso il sepolcro (in singolare gara con il discepolo prediletto), ma trova solo i lenzuoli funebri. E ancora niente angeli! I due discepoli ritornano stupiti a casa (?). Maria Maddalena, ricomparendo improvvisamente sulla scena, vede d’un tratto i due angeli (quelli di Luca) seduti sulla tomba. “Gli angeli. le dissero: Donna, perché piangi? Essa rispose loro: Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto.” (Gv 20:13) In Giovanni, gli angeli non annunciano la resurrezione, e nemmeno danno l’incarico di informare i discepoli. Ed è stupefacente che Maria continui a pensare che si tratti d’un cambio di sepoltura. Prendendo lo spunto da questi versetti, si è poi consolidata la cosiddetta ipotesi della sepoltura cambiata, in base alla quale la salma di Gesù sarebbe stata inumata altrove all’insaputa dei discepoli. La sua scomparsa sarebbe poi stata interpretata come risurrezione.

Come in Matteo, però, Gesù riappare anche in Giovanni. Sulle prime, tuttavia, Maria lo scambia per un giardiniere (!). Gesù le dice: “Donna, perché piangi? Chi cerchi? Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo.” (Gv 20:15). Nuova sottolineatura d’un cambiamento di sepoltura; da dove Giovanni l’abbia presa, non è noto, ma non l’attinse comunque dai vangeli sinottici. Oggi, l’ipotesi della tomba cambiata non viene più proposta; si constata, tuttavia, come anch’essa possa rivendicare passi biblici a proprio sostegno.

Gesù si fa comunque riconoscere, invitandola però a non toccarlo. “Gesù le disse: Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre.” (Gv 20:17). In Matteo, egli non era ancora così sensibile; lì si lascia abbracciare dalle donne. Si ha l’impressione, in linea di massima, che Giovanni non sappia bene come dovrebbe rappresentare il Risorto. Da un lato, lo descrive come uno spirito che non si deve toccare e che può passare attraverso le pareti, dall’altro lato sfida addirittura l’incredulo Tommaso a toccarlo, mangiando dimostrativamente del pesce fritto. La spiegazione di questo consiste nel fatto che Giovanni vuole da un lato esaltare la magnificenza del Risorto (per lui l’uomo incarnato è già un Dio ambulante sulla terra), mentre dall’altro lato intende prendere posizione contro l’opinione allora diffusa che Gesù avesse avuto solo un corpo apparente (secondo il docetismo, contro cui si scaglia già Luca). Ragione per cui si rimarca sia l’apparizione eterea sia la mangiata del pesce fitto. Certo, dopo una spaccata del genere, qualche cosa deve pur dolere nel deambulare.

Nelle epoche successive, la formazione delle leggende si espanse. Ci limitiamo a ricordare qui l’apocrifo Vangelo di Pietro, chiamato così perché fu scritto in prima persona dal punto di vista di Pietro, ma che risale al II secolo. In esso, i due angeli escono fuori dal sepolcro con Gesù, sotto gli occhi dei soldati, del capitano e del più anziano, e c’è una croce (!) che li segue. Dal cielo risuona una voce possente (in modo conseguente con la storia della tradizione, giacché ora anche Dio viene coinvolto negli avvenimenti) e grida: “Hai predicato il defunto? E dalla croce echeggiò forte la risposta: Sì!”. La gente che sta intorno al capitano corre nella notte da Pilato esclamando: “In verità, era il figlio di Dio!”.

La storia del sepolcro vuoto (lo constatiamo con estrema evidenza), è stata ampliata e trasformata nei modi più vari e molteplici. Ma dove si trovano le origini, che cosa c’era in principio? Vi sono ricercatori neotestamentari che ne disconoscono radicalmente qualsivoglia nucleo storico. Secondo Lüdemann, ad esempio, tutta la storia è stata plasmata inizialmente dall’evangelista Marco. “Bisogna senz’altro contestare che sia esistita una storia del sepolcro prima di Marco. Giacché il testo è improntato dalla redazione di Marco. (Lüdemann, op. cit., S. 73). Un argomento a favore di questa tesi è anche la mancanza d’un diretto accenno al sepolcro vuoto nelle formule di fede e di resurrezioni, molto più antiche, del Nuovo Testamento.

Paolo, per fare un esempio, non menziona in nessun luogo il sepolcro vuoto. Non conosceva ancora quella storia? Sapeva soltanto delle apparizioni? Questo presupporrebbe che Gesù fosse stato in realtà seppellito in forma anonima, o che il luogo della sua tomba fosse caduto nell’oblio. In realtà, la tumulazione d’un giustiziato in una tomba dispendiosa era molto inusuale, e certo non sarebbe stata vista di buon occhio dai Romani e dagli ebrei devoti. Così infatti, secondo una tradizione negli Atti degli apostoli, 13:29, Gesù viene deposto semplicemente in un sepolcro da ignoti ebrei. Le leggende relative alle apparizioni sarebbero quindi sorte prima della storia del sepolcro vuoto. Ed è strano che la tomba di Gesù non fosse stata venerata nei secoli prima di Costantino. Si dovrebbe senz’altro ritenere che i primi cristiani si sarebbero presi cura proprio di questa memoria. Anche questo fa pensare che, semplicemente, d’una tomba di Gesù non si fosse saputo più nulla. Cosicché anche Gerd Theißen non osa decidere se il sepolcro vuoto abbia qualche base storica o meno. In ogni modo, però, un sepolcro vuoto non costituirebbe di per sé una prova per una risurrezione.

I fautori della storicità del sepolcro vuoto obiettano però che la fede nella risurrezione certamente non si sarebbe mantenuta a Gerusalemme, se non si fosse potuto esibire un sepolcro vuoto. Eppoi la diceria del furto di cadavere presupporrebbe addirittura un sepolcro vuoto. Inoltre, ci sono due personaggi storici legati univocamente con la tradizione: la discepola Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea che, stando ai vangeli, mette una tomba a disposizione di Gesù.

Per tutti e quattro gli evangelisti, fu Giuseppe d’Arimatea a prendersi cura delle esequie di Gesù. Siccome è chiamato col suo nome, ma altrimenti non compare più in nessun luogo, si dà per scontato che si tratti d’un personaggio storico. Anche questa volta, in ogni modo, la tradizione ha offuscato la prospettiva in misura crescente. Per cui, in Marco, Giuseppe d’Arimatea è un membro del Gran Consiglio, in Matteo si trasforma in discepolo di Gesù (trascurando la qualità di consigliere), in Giovanni egli è un discepolo segreto per timore dei Giudei; nel più tardo vangelo di Pietro egli è un amico di Gesù e di Pilato. La tendenza a rappresentarlo sempre più positivamente è riconoscibile in modo chiaro. In Giovanni, (già prima della morte di Gesù) – e insieme con Nicodemo, un interlocutore di Gesù (nel vangelo di Giovanni) – egli provvede a far sì che Gesù riceva la consueta unzione dei defunti. Del che gli altri vangeli non sanno niente; e mentre in loro si vede al massimo Maria Maddalena affrettarsi al sepolcro, nell’ombra notturna, con un piccolo contenitore di unguenti, in Giovanni il corpo di Gesù viene impomatato con l’equivalente di 33 chili (!) di mirra e aloe, dall’astronomico controvalore di 30 000 denari. Questa esagerazione è naturalmente suggerita da esigenze teologiche. Giovanni vuole che si sappia, e lo dice chiaro e tondo: che qui, ad essere unto, è un re.

Anche il sepolcro di Gesù diventa sempre più pomposo. I morti erano considerati impuri, tanto più quelli condannati alla pena capitale. Di regola, costoro non potevano contare di essere seppelliti in una fossa singola; i cadaveri sparivano perlopiù in forma anonima. In Marco, però, Gesù viene tumulato già in una costosa tomba rupestre, in Matteo la tomba è ancora nuova (quindi non contaminata da precedenti sepolture), ed è la tomba propria di Giuseppe. In Giovanni, la tomba è per giunta situata idillicamente in un giardino. Secondo la consuetudine, i defunti venivano seppelliti avvolti in un lenzuolo usato. In Marco, il telo è naturalmente acquistato di recente, mentre Matteo ne sottolinea in più la purezza.

Con la leggenda del sepolcro vuoto sembra essere saldamente collegata Maria Maddalena. La quale si ritrova sia nei Sinottici sia in Giovanni. E’ lei che scopre, in Marco, il sepolcro vuoto. Matteo e Giovanni aggiungono perfino un ulteriore incontro con il Risorto. Che precisamente una donna facesse questa importante scoperta, induce molti studiosi neotestamentari a riconoscervi un ricordo storico. In realtà, secondo il diritto giudaico, la certificazione da parte femminile non aveva alcun peso, giacché le donne erano considerate per legge inette, incapaci di rendere testimonianza.

Allora, perché Maria Maddalena non compare nelle formule di fede abbreviate, che sono certamente più antiche delle narrazioni? Come Paolo non menziona mai il sepolcro vuoto, così non cita mai neppure la Maddalena. Nella sua elencazione dei testimoni della resurrezione, in I Cor. 15, il suo nome non c’è. Al suo posto, si nomina Cefa. ossia Pietro, quale primo testimone dell’evento. Ne tace il nome perché è una donna? O forse non seppe semplicemente nulla di lei? Che Pietro fosse il primo testimone della risurrezione, lo afferma anche Luca (24:34), ma stranamente non c’è nessun racconto in proposito. Nel contempo, tuttavia, Luca racconta anche la storia di Emmaus, che suggerisce come i due discepoli di Emmaus avessero il primo incontro con Gesù redivivo. Il tardo vangelo degli Ebrei fa il nome di Giacomo, fratello carnale di Gesù, come primo testimone. Nel vangelo di Pietro, finalmente, ha luogo la prima apparizione agli occhi di Pietro, Andrea e Levi. Quanto più fantasiosi si fanno gli avvenimenti descritti, tanto più contraddittori diventano i testimoni; il che vale in special modo, naturalmente, nella storia delle apparizioni.

La maggioranza degli storici ritiene comunque che almeno il sepolcro vuoto sia storico, e che fosse scoperto presumibilmente da Maria Maddalena. Ma gli angeli sulla tomba sono in tutti i casi abbellimenti leggendari; anche il giovane raccontato da Marco potrebbe non essere storico. Tuttavia, ove lo si ritenga storico, è probabile che ci si trovi di fronte ad uno dei profanatori di tombe; ma è più verosimile che sia una sua totale invenzione. Nonostante tutti gli abbellimenti, la leggenda del sepolcro vuoto mantiene ancora un nucleo di verità. Ma le cose si fanno più oscure con le vere e proprie leggende che riguardano la risurrezione.

Apparizioni di un redivivo

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Per dirla in anticipo: non c’è quasi uno studioso del Nuovo Testamento che annetta un qualche valore storico alle leggende relative alla risurrezione. Ciò non avviene per miscredenza personale, ancor meno per malevolenza. Il giudizio negativo sulle storie concernenti il Risorto scaturisce dall’analisi degli stessi testi biblici. I modi con cui sono stati tramandati gli avvenimenti presunti sono lì a dimostrare la loro inattendibilità storica. I teologi, a dire il vero, non strombazzano ai quattro venti questa conoscenza che, a ben guardare, dovrebbe avere conseguenze inequivocabili per le Chiese e per i fedeli. Personalmente, nonché in qualità di scienziati, si è convinti che, ad esempio, le storie della resurrezione siano prodotti confezionati più o meno bene dagli evangelisti, e per giunta si difende questo convincimento in commenti esegeticamente impeccabili, in presenza di colleghi e studenti di teologia.

Pubblicamente però, nel mondo ecclesiastico e nella società, ci si trattiene assai dal fare esternazioni dirette nel merito. Con ciò non si può collezionare nessun punto a favore; si è sempre interessati ad intrattenere buoni rapporti, e non si vorrebbe guastarsi con la Chiesa, né irritarla. Insomma, lavori dettagliati riguardanti un insignificante versetto in un vangelo apocrifo incontrano riconoscimenti da parte ecclesiastica, e anche da parte scientifica; ma lo stesso non vale per quanto riguarda la critica, troppo chiaramente espressa, verso immagini di fede ormai popolari, decretate e sancite sul piano ecclesiastico.

Si verifica così una situazione assai strana: la ricerca neotestamentaria, più di tutto, ha da esibire risultati propriamente rivoluzionari, effettivamente in grado di scardinare i fondamenti della Chiesa. D’altra parte, tuttavia, la Chiesa stessa tende a minimizzare questi risultati, oppure ritiene di pretendere dalle persone, solo in un linguaggio formulato in modo incomprensibile e insieme sdrammatizzante, un atto di volontaria autolimitazione. Ci si sente più inclini a consolidare positivamente le convinzioni di fede, anziché dimostrare la loro infondatezza. Tutto si svolge come se – in senso traslato – i teologi sapessero da molto tempo che la Terra è indubbiamente una sfera, seguitando ad elogiare comunque il fervore religioso di coloro che, oggi come in passato, mostrano di considerarla una superficie piatta.

Nessuno costringe i teologi a questo (e ciò vale limitatamente ai teologi cattolici); è più che altro il desiderio di corrispondere verso l’esterno ad un certo valore social-religioso intermedio, inteso a mantenere soprattutto buoni rapporti con la Chiesa. Perciò i professori di teologia sono visti sempre volentieri all’interno della Chiesa. Ma poi, quando un teologo parla più chiaro, mettendo in discussione atteggiamenti clericali sulla base delle sue ricerche, deve fare i conti col vento che soffia contro, anche nelle Chiese protestanti.

E’ ciò che ha dovuto sperimentare Gerd Lüdemann, professore e specialista di Nuovo Testamento all’università di Gottinga, dopo aver dichiarato pubblicamente, nel 1998, che la maggioranza delle parole di Gesù non sono autentiche, aggiungendo pure che la risurrezione di Gesù non c’era mai stata. In sostanza, Lüdemann ha affermato qualcosa che la maggioranza dei ricercatori neotestamentari sarebbe in grado di sottoscrivere, ma che non pronuncerebbero mai apertamente. Dopo di che la Chiesa diede grande rilievo al richiamo di Lüdemann e al suo allontanamento dalla Facoltà di teologia. La sua cattedra, come gran parte delle cattedre di teologia, è vincolata alla professione di fede: un fatto che, nel suo caso, divenne noto anche al grande pubblico. Obbligo di confessione per una Università statale! Ammesso che tu fossi un Einstein della teologia … ebbene, senza la dovuta appartenenza ecclesiastica, in una Facoltà teologica, potresti sedere tutt’al più davanti al portone! Lüdemann si rifiutò di uscire dalla Chiesa, perché anche questo avrebbe significato la sua destituzione obbligata.

Di conseguenza, la sua cattedra cambiò nome, non gli fu permesso di fare esami di teologia, e perdette molti studenti. Un posto di assistente fu cancellato, i mezzi d’informazione parlarono d’un caso Küng in campo protestante. Oggi, Lüdemann non avrebbe nessuna probabilità di essere chiamato di nuovo ad una cattedra di teologia, dal momento che le Chiese hanno di regola un diritto di consulenza nell’occuparle. Lüdemann è morto nel 2021. Ebbe a ribadire che la ricerca dev’essere libera, e si battè per la sostituzione delle Facoltà di teologia con Istituti di Scienze religiose, fondati sulla ricerca indipendente. Ma la Chiesa possiede un lungo respiro. E non v’è dubbio che aspetterà fino a quando il problema si risolverà da sé.

La critica storica riconosce subito che, per quanto riguarda le leggende sulle apparizioni, ci si muove su uno strato di ghiaccio ancora più sottile che in altri settori del Vangeli. Del fatto che la Chiesa si richiami senza tregua a questo miracolo centrale, trovando molteplici ripercussioni nella tradizione del Nuovo Testamento, i tentativi degli evangelisti che mirano ad illustrare le formule confessionali con racconti tangibili, fanno un’impressione più che dilettantesca. Laddove tutti gli evangelisti riferiscono, almeno in grandi linee, del sepolcro vuoto, ecco che ciascuno, trattando delle apparizioni del Risorto, sembra cucinare la propria minestrina.

Non ci sono due cronache che concordino, ciascuna racconta qualcosa di diverso. Il che consiste forse nel fatto che il vangelo di Marco terminava in origine senza che fosse raccontata un’apparizione del risorto. Perciò i relatori collaterali Matteo e Luca non trovarono già pronte delle narrazioni che potessero rielaborare (ed eventualmente falsificare). E la fonte Logia Q – la seconda grande fonte di Matteo e Luca – non conteneva, per quanto ne sappiamo, né una storia della Passione, né apparizioni di sorta. Sennonché la seconda e la terza generazione di cristiani esigeva ormai maggiore chiarezza, tanto più che nelle comunità si trovavano cristiani che volevano attribuire a Gesù un corpo soltanto apparente. Le storie sulla resurrezione, soprattutto in Giovanni, polemizzano contro questo docetismo. In ogni caso, gli evangelisti dovettero darsi da fare, se non volevano far terminare il proprio vangelo come in Marco. Tant’è vero che le leggende sulla resurrezione, più fortemente di altri contenuti nei Vangeli, dimostrano chiaramente le peculiarità linguistiche e le intenzioni teologiche dei rispettivi evangelisti, che in gran parte divennero pubbliche nel momento stesso in cui furono redatte.

Le storie della risurrezione nella conclusione (spuria) di Marco, e in Matteo, hanno aspetti assai concisi e, in rapporto al significato attribuito alla resurrezione dalle prime generazioni, sembrano addirittura abbozzate e marginali nelle dimensioni. In Marco, come già detto, sono solo undici versetti; in Matteo solo dieci. I versetti, nell’epilogo spurio di Marco, sono inoltre, per gran parte, presi in consegna dagli altri vangeli, quindi letterariamente dipendenti da essi. Con loro si è colmato l’epilogo di Marco. Dei dieci versetti conclusivi in Matteo abbiamo parlato più sopra. Essi contengono l’apparizione di Gesù alle donne, l’abbraccio ai suoi piedi, l’impostura dei sommi sacerdoti, l’apparizione di Gesù in Galilea con il comandamento della missione. Tutte queste storie risalgono a Matteo; e il loro valore storico è pari allo zero.

In Luca troviamo pur sempre quaranta versetti, che informano sulle apparizioni del Risorto. Di questi, però, ventitré versi narrano l’incontro di Gesù coi discepoli di Emmaus, i rimanenti descrivono un’apparizione in Gerusalemme dinanzi ai discepoli. Anche in Luca, quindi, la risurrezione trova, quantitativamente, solo poca considerazione, dato che, in sostanza, si raccontano solo due apparizioni.

L’apparizione modellata alla perfezione, col massimo senso artistico, è il racconto fatto dai due discepoli in cammino alla volta di Emmaus. (Lc 24:13-35). Uno straniero (Gesù) si accompagna a costoro, i quali gli raccontano della crocifissione. Lo straniero spiega loro che, secondo le Scritture, tutto bisognava che andasse in quel modo. Quella sera, i due discepoli riconoscono il loro Signore dal modo con cui egli spezza il pane. Questo racconto ha qualità quasi letterarie. Nel mondo greco-romano, il motivo del Dio ambulante era ben noto, e questo motivo viene qui trasferito su Gesù. Così il lettore si associa, per così dire, lungo il cammino, ascoltando insieme le spiegazioni di Gesù. Si mantengono diversi momenti di tensione, fino a quando ai discepoli si svela l’identità del forestiero. Se inizialmente lo sentono solo come profeta (sic!), presto si accorgono che egli era più di questo, era cioè il Messia, e che tutto quanto era accaduto (ciò che li rendeva cosi tristi all’inizio del loro percorso), trovava la sua giustificazione, ed era voluto da Dio.

Qui, non è tanto Gesù che parla ai due discepoli, quanto piuttosto l’evangelista, che rivolge così il suo discorso alla propria comunità, lasciando spiegare la morte di Gesù come evento salvifico, e precisamente attraverso il Signore in persona. Anche il punto focale della storia è meramente teologico: i discepoli riconoscono Gesù da come spezza il pane. E’ nella cena, è dalla comunione che si ravvisa il Signore: ecco la lezione teologica che qui viene impartita. Inoltre, la celebrazione dell’eucarestia si collega, sul piano artistico, con la tradizione della risurrezione.

Si parte dal presupposto che la storia di Emmaus, data la struttura più elaborata, non sia creazione originale di Luca, ma che lui l’abbia già trovata bell’e pronta. La situazione presupposta (l’agape fraterna quale tradizione ormai consolidata, interpretazione dell’accaduto dalla Scrittura e teologico approfondimento, la Passione di Gesù quale evento di salvazione) rimanda a condizioni di vita, ossia al contesto vitale e socio-culturale presente non nella prima comunità, ma piuttosto nella seconda o terza generazione. A favore di ciò depone anche la strutturazione letteraria, come pure la circostanza, che i due discepoli non sono menzionati nella forma tradizionale del Nuovo Testamento. Gli strati più antichi della tradizione non sembrano conoscere questa storia e questi discepoli.

Gesù appare poi in mezzo agli undici discepoli (Lc 24:39), che lo scambiano per uno spirito. Mostra loro le sue ferite, ma i discepoli continuano a non credergli. Infine chiede del pesce, e ne mangia dinanzi a loro in maniera dimostrativa. Anche in questo egli spiega loro la necessità del suo patire, avvenuto secondo la Scrittura. Come appendice, nella conclusione, si trova ancora l’ascensione al cielo di Gesù. Dopo l’escursione nell’alta letteratura rappresentata nel racconto di Emmaus, siamo ritornati così nella semplice prosa dell’evangelista.

Gesù dà prova di non essere uno spirito, ribadisce la sua corporeità, il suo consistere in carne e ossa. Accanto ai docetisti, si suppone anche che, nell’ambiente dei primi cristiani e dei loro critici, vi fossero pure persone disposte ad affermare che ai discepoli era apparso soltanto uno spettro funebre. Quella storia, allora, avrebbe lo scopo di confutare quei critici. C’era forse nella comunità chi concepiva la risurrezione in senso simbolico? Oppure come metafora? Anche in tale caso avrebbe un senso la sottolineatura della corporeità di Gesù. In tutti i casi, alla base del racconto si riscontra un chiaro intendimento teologico.

Con questo, però, quali problemi gli evangelisti sono andati a crearsi? Un uomo resuscitato, che gira in carne e ossa, esibendo le sue ferite e mangiando come un vivente, che cosa dovrebbe mai significare? Ce lo si dovrebbe immaginare ancora provvisto di altre funzioni corporali? Quale fantasma sta prendendo qui forma? Un morto vivente, che presenta ancora le ferite della sua agonia? La scena fa pensare piuttosto ad un film americano dell’orrore. E più di tutto, che cosa se ne dovrebbe fare, dal momento che occupa fisicamente uno spazio? Si dovrebbe lasciarlo andare in giro ulteriormente? O lasciare che spaventi altri seguaci? Come liberarsi di nuovo dagli spiriti mitologici che si sono evocati?

Questo Gesù deve per forza sparire di nuovo: questo è chiaro anche agli evangelisti. Anche per loro, a lungo andare, un morto ambulante sulla terra non ha nulla da perdere. Così essi ricorrono alla soluzione, elegante per quei tempi, di una ascesa al cielo: una soluzione mitologica, appunto, per un problema mitologico. Il Gesù risorto, per dirla in modo figurato, viene smaltito in cielo, non senza, naturalmente, avergli prima messo in bocca alcune parole altisonanti. Si potrebbe chiedere, magari, che cosa il cielo dovrebbe farsene di un Gesù fatto di carne e ossa. I cristiani dovrebbero immaginarselo, essendo lui ora un Dio, anche fisicamente assiso sul trono celeste? In alternativa, i cristiani vogliono ipotizzare anche qui una metamorfosi, dato che anche a loro questa immagine sembra troppo astrusa? Ma perché, allora, la rappresentazione fantasmatica di un uomo rinato col suo corpo?

Si constata come sia necessario solo accogliere e riflettere sui frammenti mitologici sparsi qua e là, per mettere in luce la loro insensatezza. Se, nella primitiva comunità cristiana, v’erano correnti di pensiero che interpretavano Gesù in maniera non rozzamente materialistica, (e i Vangeli danno indiretta testimonianza di codeste correnti), volendo cioè intendere la sua risurrezione come simbolo o metafora, in senso appunto non materiale, allora si potrà darlo per scontato: quelle correnti si muovevano su un livello spiritualmente molto più alto delle descrizioni fatte dai Vangeli nella loro evidente primitività. Ma fu proprio questa visione dei Vangeli, invece, ad avere la meglio.

Ancora poche parole sui racconti delle apparizioni in Giovanni. Nel quale è particolarmente vistosa la sproporzione tra la lunghezza del suo vangelo e i pochi versetti che si occupano del Risorto, soprattutto quando si osserva che il suo Gesù tiene lunghi sermoni prima del Golgota. I pochi versi riguardanti la risurrezione sono, a partire dal sepolcro vuoto, precisamente dodici (!), ma suscitano addirittura un effetto di meschinità nel confronto con il compendio del vangelo. Gesù vi appare alquanto laconico, perfino per Giovanni, altrimenti così inventivo. Sei versetti trattano dell’incredulo Tommaso, del quale è memoranda l’esclamazione: Mio Signore e mio Dio! (Gv 20:28). Egli rappresenta una fase tardiva nella risposta alla domanda su chi fosse Gesù. Per un ebreo devoto, questa espressione è blasfema.

C’è una seconda parola degna di nota. In Giovanni 20:22, Gesù sgrida i discepoli con le parole: Ricevete lo Spirito Santo. La discesa dello Spirito Santo, come la intende la Chiesa, ebbe luogo soltanto a Pentecoste, quindi 14 giorni dopo la risurrezione. Ma Giovanni la riporta già qui, otto giorni dopo la risurrezione, e per di più in tutt’altro contesto. Su questo punto, la Chiesa ha seguito la storia narrata con più suggestione negli Atti degli Apostoli, ignorando la concorrenza della tradizione giovannea.

Il vangelo di Giovanni si chiudeva in origine col capitolo 20; il capitolo 21 fu aggiunto solo più tardi. Lo si può riconoscere facilmente dal fatto che, in Giovanni 20:30f, è già presente una conclusione del libro. Il capitolo 21 reca esclusivamente, per 25 versetti, altri racconti pasquali: apparizioni in Galilea, dopo che nel capitolo 20 erano state raccontate apparizioni in Gerusalemme. Si tratta di un’armonizzazione tra Marco e Matteo, dove vengono annunciate apparizioni in Galilea, nonché con Luca, che fa accadere le apparizioni a Gerusalemme e dintorni.

Si rammenti, inoltre, che nel vangelo di Luca tutte le apparizioni di Gesù sono terminate già nel giorno della sua risurrezione. In lui, l’ascensione al cielo ha luogo la sera della domenica di Pasqua. Questo non è il caso nel vangelo di Matteo, dove le apparizioni accadono in Galilea, e dove nel frattempo dovevano radunarsi i discepoli. In Luca, Gesù proibisce addirittura di allontanarsi da Gerusalemme. In Giovanni, inoltre, gli avvenimenti si susseguono articolati per parecchi giorni. Negli Atti degli apostoli di Luca, l’evangelista dà una versione contraddittoria col suo stesso vangelo. Mentre in esso l’ascensione al cielo aveva luogo già la domenica pasquale, negli Atti, ora, leggiamo: “[…] durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” (Atti 1,3b).

L’elencazione di tante contraddizioni e insensatezze nei testi biblici non si fa, del resto, solo per evidenziare la problematica della tradizione da un punto di vista storico. Dovrebbe anche rendere perspicuo come sia assurdo considerare la Bibbia una fonte di verità, e i suoi testi come sacrosanti. In settori sempre più grandi del Protestantesimo, soprattutto in gruppi pietistici e fondamentalisti (ma anche nel Cattolicesimo), la Bibbia viene intesa come Parola di Dio, e le sue componenti passano per ispirate divinamente, o addirittura dettate con ispirazione verbale dallo Spirito Santo.

Di conseguenza, le contraddizioni vengono semplicemente negate. Nella sostanza, un atteggiamento siffatto trae origine da ignoranza o da un ingenuo dogmatismo, spesse volte da entrambi. Soprattutto ai gruppi devoti del mondo protestante bisogna contestare di non leggere abbastanza accuratamente la loro Bibbia, perché altrimenti gli salterebbero agli occhi diverse contraddizioni. Il fondamentalismo biblico non è propriamente un prendere sul serio la Bibbia (come esso ama farsi vedere), bensì espressione d’una comprensione del reale atrofizzata: una religiosa perdita della realtà. Non può non suscitare preoccupazione il fatto che proprio gruppi del genere possono esercitare talvolta un grande influsso su politica e società, più che altrove negli USA. In Italia è una fase trascorsa.

Impiegare la definizione di leggende per le storie di apparizioni, è quasi un eufemismo. Nella realtà, ad un’analisi storica, queste storie si rivelano come rispecchiamento di situazioni comunitarie molto posteriori, come proiezioni retrospettive della dogmatica, come libere creazioni degli evangelisti e dei rispettivi preliminari orali. Un nucleo storico non si lascia stabilire in nessuno di questi racconti; tutt’al più, è la storia del sepolcro vuoto ad offrire un appiglio storico. Il problema non è quindi se si ritenga in linea di principio possibile la risurrezione d’un uomo, dal momento che le storie corrispondenti sono bocciate già nel preesame storico. Per le Chiese, il risultato non potrebbe essere più negativo: il miracolo fondativo della Chiesa non è supportato da nessuna tradizione narrativa degna di fede.

Restano dunque soltanto le brevi formule tradizionali, che danno notizia del puro e semplice che cosa della resurrezione di Gesù, ma nessuna informazione sul come. Esse sono invero antiche, ma anche assai fragili. Per di più, anch’esse non sono esenti da contraddizioni. La ricerca tenta volentieri di rispondere alla domanda su chi, secondo la tradizione, fosse considerato il primo testimonio della risurrezione. Secondo la formula citata da Paolo nella lettera 1Cor. 15, fu Cefa=Pietro. Ma non c’è da nessuna parte, nei vangeli, un racconto su questo fatto; solamente Luca (24:34) sembra farvi allusione. Ulteriori testimoni sarebbero i Dodici, come li chiama Paolo. Questo è strano, giacché i discepoli dovrebbero essere soltanto undici: Giuda, in quanto traditore, dovrebbe esser morto già da tempo, ucciso da una delle tre (!) specie di morte raccontate su di lui. Anche Giacomo, fratello carnale di Gesù, viene ricordato ancora da Paolo quale testimone della risurrezione, sebbene qui sia stata probabilmente la sua centrale posizione nella comunità primitiva a condizionarne la nomina.

Nella Prima lettera ai Corinzi (15:6), Paolo ricorda più di 500 (!) fratelli, ai quali Gesù sarebbe apparso in contemporanea. Alcuni di loro, dice, sono ancora in vita. Questo versetto non fa più parte delle formule citate da Paolo; qui sembra che sia il missionario stesso a parlare. E fa meraviglia che qui, nel mezzo delle apparizioni individuali, si menzioni d’un tratto un’apparizione collettiva, al cospetto di tante persone. E’ l’unico passo in cui questo fenomeno viene raccontato. Paolo non se ne interesserà mai più, e l’episodio non avrà più un ruolo neanche in seguito. Il ricercatore neotestamentario Lüdemann ci vede una visione di massa, analoga a quella descritta per i crociati, ai quali san Giorgio sarebbe apparso sulle mura di Gerusalemme. Qualche crociato credette di vedere qualcosa, lo comunicò agli altri, ed improvvisamente a tutti parve di vedere qualcosa. Visioni simili pare vi fossero state anche dopo l’esecuzione di Thomas Becket e di Savonarola. (Lüdemann, Die Erweckung Jesu von den Toten, S. 60). Altri teologi vedono qui descritta l’esperienza della Pentecoste.

Ma la soluzione, forse, è molto più vicina. La menzione avviene non solo in maniera repentina, ma fa pure l’effetto di essere gonfiata piuttosto massicciamente. Infatti, se si considera che nella comunità di Corinto c’erano dei negatori della risurrezione, e che Paolo nella sua epistola deve fronteggiare e sfidare quei negatori, si delinea il sospetto che Paolo si fosse semplicemente inventato quei 500 fratelli, allo scopo di polemizzare più efficacemente contro quei contestatori. Il fatto di sottolineare che alcuni di quei testimoni vivono ancora, servirebbe solo a rafforzare questo “argomento”. Anche senza di ciò, nessun corinziano sarebbe stato in grado di recarsi a Gerusalemme per convincersi della giustezza di quell’asserto.

A questo proposito, le cose stanno forse nel modo analogo alla descrizione della morte di Gesù secondo Matteo. Mentre Marco si limita a ricordare che il sipario nel tempio, dopo la morte di Gesù, si lacerò in due pezzi dall’alto al basso, in Matteo leggiamo: “Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.” (Mt 27:51-53) Anche questa storia non viene mai più ricordata in seguito, sebbene l’avvenimento raccontato fosse addirittura sensazionale, qualora fosse realmente accaduto. Però non è altro che un teologico vaneggiamento di Matteo, il quale intende esprimere il fatto che la morte di Gesù segna l’inizio d’un generale risveglio dai morti. I santi che escono dai sepolcri sono palesemente già cristiani, quantunque alla morte di Gesù non potessero esserci ancora dei cristiani morti.

Quindi, per promuovere la propria visione teologica, Matteo escogita qui non solo un terremoto e rocce frantumate, ma per di più persone risorte vaganti per la città. Evidentemente, quando si trattava di testimoniare la fede, ogni mezzo andava bene: persino il nonsenso più astruso viene raccontato e creduto, rendendolo così funzionale e utilizzabile per la maggiore gloria di Dio. Anche a Paolo bisogna far carico d’un tale deviato rapporto con la verità. Anch’egli ha bisogno di testimoni della resurrezione, giacché quei pochi della tradizione non gli bastano contro i Corinzi riluttanti; e allora ne aggiunge un bel po’ di propria iniziativa.

I testimoni d’una risurrezione furono esclusivamente seguaci di Gesù: i suoi “partigiani” vita natural durante. Suo fratello Giacomo fu presto tra i suoi seguaci. Perlopiù si suppone che fosse Pietro ad essere considerato primo testimone della risurrezione. Ma v’era almeno un’altra tradizione ad ascrivere questo ruolo a Maria Maddalena. E si trova, tra l’altro, nella più tarda conclusione del vangelo di Marco e nel vangelo di Giovanni. Anche lei era una discepola di Gesù, e gli altri vangeli la ricollegano alla scoperta del sepolcro vuoto. Paolo non ne fa cenno, il che potrebbe dipendere dal fatto che Paolo non ricorda nessuna donna in questo contesto: persino i suoi 500 testimoni della risurrezione sono esclusivamente “fratelli”. O forse non ne fa menzione perché giudicava la donna pressoché incapace di intendere e di volere?

In effetti, Maria Maddalena viene descritta, in Marco 16,9, come donna dalla quale Gesù aveva scacciato sette demoni. Qualora dietro a ciò si nasconda un ricordo storico, si dovrà dedurne che Maria Maddalena soffrisse d’un disturbo psichico. In tal caso, la prima testimonianza della risurrezione di Gesù deriverebbe da una donna mentalmente confusa. Una testimone, insomma, non propriamente degna di fiducia. Perciò Celso, l’antico critico del cristianesimo, ebbe ad osservare beffardo: “Ma chi ha visto tutto questo? Una donna per metà fuori di testa.” (cfr. K. Deschner, op. cit., p. 111). Nel mondo cristiano, oggi, Pietro e Maria Maddalena godono di alta considerazione, ma solo nel cristianesimo, per l’appunto. Per un osservatore neutrale, i testimoni che qui si presentano a favore d’una risurrezione, non solo sono sconosciuti, ma anche di dubbia credibilità. Provate ad immaginarvi che Osho Rajneesh sia risorto dalla morte, e che tra quanti lo asseverano vi siano il suo più intimo allievo e una donna di dubbio stato mentale.

“Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede”

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Le cose vanno male per quanto riguarda la fede delle Chiese nella risurrezione di Gesù. E ciò non avviene perché una fede di questo genere è ardua da sopportare per una coscienza moderna, in quanto essa, con i suoi colori mitologici, non si accorda più con la nostra percezione del mondo. La critica alla fede nella risurrezione ha inizio già molto prima, cioè nei testi medesimi. Si dimostra che il miracolo cristiano per eccellenza non è credibile già prima della storia tradizionale dei testi; si evidenzia che le storie sulle apparizioni di Gesù, già esigue di per sé, ad un’analisi più precisa si dissolvono nelle loro componenti, risultando in massima parte libere creazioni degli evangelisti, intrise del loro linguaggio e delle rispettive teologie. Il Gesù delle apparizioni, ancora di più del Gesù anteriore alla crocifissione, si rivela come personaggio di fantasia. Non è che devoto fumo negli occhi oppure, in alternativa, lirica di pensiero teologico: quello di speculare sull’importanza d’un evento, una volta che la ricerca storica abbia stabilito che l’evento stesso non si è verificato.

La sostanza storica che rimane, delle apparizioni del Risorto, consiste tutt’al più nelle visioni che Paolo, ed alcuni dei suoi più stretti seguaci, pare che avessero avuto dopo la morte del Maestro: fantasmi puramente soggettivi. Agli uomini, già in quel tempo, essi non erano comunicabili in forma oggettiva. La fede nella risurrezione nacque e si sviluppò prestando fede ai testimoni della risurrezione: Gesù, insomma, rinacque nel cervello dei credenti.

In ogni modo, questa fede fu abbastanza forte da innescare l’accensione primordiale alla credenza cristiana. Con protagonisti decisi (più di tutti con Paolo), e con la speranza dei credenti di possedere, con la risurrezione di Gesù, qualcosa di simile alla garanzia d’una propria personale rinascita, questa fede fece sì che Gesù non finisse come un qualunque apocalittico dimenticato, ma che diventasse un Dio.

Su questo punto, i teologi amano rimarcare la peculiarità della risurrezione di Gesù: la mancanza di analogie. Eppure il pensiero di una rinascita dopo la morte non era assolutamente inedito. Come nel mondo antico comparivano in massa personaggi taumaturghi, allo stesso modo l’antichità conobbe anche il pensiero d’una possibile risurrezione. Un elenco di antichi parallelismi (riguardanti non solo la fede nelle rinascite) ce l’ha presentato Karlheinz Deschner nel suo libro Abermals krähte der Hahn //tr.it. Il gallo cantò ancora, Massari 1998, che val bene la pena di leggere.

L’antichità non conobbe soltanto divinità morenti, ma anche dèi che ritornavano in vita. Una resurrezione fu raccontata per ciascuno di questi dèi: per il dio babilonese Tammuz, per Attis e per Adone, oltre che per il dio egiziano Osiride e per il greco Dioniso. “Parecchi di questi dèi patirono sofferenze e supplizi, alcuni morirono sulla croce; la loro morte aveva persino carattere di espiazione.” (Deschner, p.112, p. 88 ss.) Attis e Osiride rinacquero dopo tre giorni, al pari di Gesù. Il principale dio di Babilonia, Marduk, risorge parimenti dopo alcuni giorni, diventando un redentore inviato dal dio padre, nonché risuscitatore dai morti, proclamato “re dei re” e buon pastore: e ciò molto tempo prima del vangelo di Giovanni, che attribuisce a Gesù la funzione di buon pastore.

I parallelismi sono sconcertanti: “Come il Cristo della Bibbia, Bēl-Marduk fu arrestato, processato, condannato a morte, fustigato e giustiziato insieme a un malfattore, mentre un altro delinquente fu lasciato libero. Una donna asciugò il sangue del dio, fluito da una ferita inferta da un colpo di lancia. Infine, anche Marduk discese nell’inferno a liberarne i prigionieri; e la sua tomba fu ben nota agli antichi.” (Deschner, op. cit., p. 88), con riferimento al libro di Johannes Leitpold, Sterbende und auferstehende Götter//Dèi morenti e rinascenti).

Il divino Apollonio di Tiana appare, dopo la sua risurrezione, a due dei suoi discepoli, facendosi persino toccare da loro, per convincerli di essere vivo. Il filosofo cinico Peregrino Proteo appare, dopo essersi suicidato col fuoco, vestito di bianco e splendente nel volto; poco dopo, anch’egli ascende in cielo come Gesù. Nell’antichità, si ha notizia di ascensioni in cielo compiute da Cibele, Eracle, Omero, Attis e Mitra. L’obiezione opposta spesso e volentieri da teologi, che in questi casi si tratterebbe di figure mitologiche, mentre in Gesù è in questione un personaggio storico, non convince del tutto, giacché anche Apollonio fu un personaggio storico. Per giunta, ascensioni in cielo sono attribuite anche a Cesare, a Paolo, ed in seguito anche a Maometto. Un pretore romano giura di avere visto la sagoma dell’imperatore Augusto mentre saliva in cielo (Deschner, op. cit. p. 89).

Le concordanze sono parzialmente così aggravanti da far riflettere, con buone ragioni, se le storie di passione e di apparizione, e per giunta grandi settori della teologia protocristiana siano stati modellati trasferendo semplicemente sulla persona di Gesù certe rappresentazioni mitologiche largamente diffuse. In tal caso, la Chiesa delle origini, per essere presa sul serio in un mondo intriso di mitologia, avrebbe equipaggiato altrettanto la persona del proprio salvatore con un ben noto armamentario mitologico. E l’insistenza sulla storicità di Gesù – la sedicente novità della fede, ma anche della fede in lui – è, a ben guardare, una verità lapalissiana. Ogni movimento, naturalmente, tiene sempre qualcosa di nuovo nel bagagliaio, per quanto il nuovo possa essere stato desunto dai suoi precorritori.

Subito dopo la sua morte, Gesù venne infilato in un abito davvero troppo grande per lui. Ma è l’abito che fa il monaco, appunto. L’uomo così sublimato divenne degno di adorazione, e l’adorazione di lui rafforzò a sua volta la sua sublimazione. La venerazione di Gesù, iniziata subito dopo la sua morte, fu il preannuncio della sua peculiare ascesa al cielo.

Da David Friedrich Strauß, nell’Ottocento, attraverso la scuola storico- religiosa e la cosiddetta teologia liberale, fino a Rudolf Bultmann, si giunge propriamente a riconoscere che la fede nella resurrezione (ove non si voglia vederla in toto come “pia frode”) trova la sua origine tutt’al più nelle visioni dei suoi seguaci, in circostanze religiose eccezionali, non trasmissibili oggettivamente. Solo in una seconda fase, questi prodotti d’un entusiasmo devoto vennero illustrati, più malamente che giustamente, per mezzo di storie efficaci. Si sono messi in moto qui, sicuramente, meccanismi psicologici analoghi a quelli operanti nella nascita di molte altre religioni. In realtà, l’ipotesi Dio non è affatto necessaria per spiegare queste circostanze di fatto.

Ma come è possibile, con questi risultati negativi, coltivare ancora una teologia? Ciò è possibile soltanto a condizione di non prendere sul serio i risultati della propria ricerca, oppure quando se ne minimizzi il significato. E la teologia del XX secolo offre in proposito molti esempi eccellenti. La cosiddetta teologia dialettica, di cui fu esponente principale Karl Barth – il massimo teologo protestante del Novecento –, elude largamente i risultati della ricerca storica o, in alternativa, nega in ultima istanza la loro importanza ai fini della fede. Per Barth, la risurrezione non è un fatto storico, è vero, ma è nondimeno un’azione effettiva di Dio. Se in ciò si vede una contraddizione, si è magari nel giusto, eppure i teologi dialettici non vorrebbero perciò essere intesi in questa maniera. Per loro, queste taglienti formulazioni (come del resto nella teologia cattolica) non sono espressione di illogicità e di teologica falsificazione di monete, ma prova, per così dire, di un credo superiore. Rudolf Bultmann, quale scienziato d’una radicale demitizzazione del Nuovo Testamento e della fede nella risurrezione, è stato membro leale della Chiesa. In che modo fosse nata la fede nella risurrezione, sarebbe “oggettivamente di nessuna importanza” (Bultmann, “Theologie des Neuen Testaments”, S. 47). Quel che conta, in definitiva, sarebbe ciò che la croce e la risurrezione significano per noi, essendo importante riconoscere che l’ascoltatore, nella predicazione della Chiesa, viene messo di fronte ad una scelta, ad una decisione esistenziale; e la predicazione chiesastica diventa quindi per l’uditore un evento escatologico.

Non già nel modo, ma esclusivamente nel cosa dell’avvento di Gesù, Bultmann ritiene di vedere una possibilità di mettere tutti d’accordo, conciliando la radicale critica storica e l’appartenenza alla Chiesa, la propria esistenza come ricercatore e il legame personale nella Chiesa. Ciò che difende come studioso, egli lo minimizza in quanto membro della Chiesa. Di conseguenza, Bultmann è diventato la figura teologica forse più tragica del XX secolo.

In ogni modo, il programma bultmanniano della demitizzazione dei testi neotestamentari andava nella giusta direzione. I contenuti essenziali del messaggio cristiano devono essere messi a nudo, liberati dagli orpelli mitologici, che erano stati condizionati dall’epoca relativa. L’uomo contemporaneo dovrebbe quindi sentirsi interpellato nei testi del Nuovo Testamento, e posto di fronte ad una decisione. Come fosse sorta la fede nella risurrezione, Bultmann lo dichiara in fondo insignificante, e la Resurrezione stessa è per lui soltanto un’espressione del significato della croce. Le storie della risurrezione sono storie mitologiche; in quanto tali, esse non hanno più niente da dire all’uomo di oggi, dal momento che possiedono, nel migliore dei casi, un carattere illustrativo.

Tale, in ogni caso, la teoria. Bultmann ritiene di spogliare la verità sopratemporale dalle sue forme mitologiche, e di poter così eliminare anche l’indecente evento di un defunto ambulante sulla terra. Con ciò non ha visto (o non ha voluto vedere) che, con la forma, doveva per forza cadere anche il contenuto. Il tentativo di liberare i contenuti esistenziali da un involucro inservibile, così come si libera una castagna dal suo guscio, ha ignorato – per restare nella metafora – che non si aveva tra le mani una castagna, bensì una cipolla. Con l’involucro mitologico non può non sparire anche il contenuto che vi è trasportato. Oppure, come si vuole altrimenti comprendere la Resurrezione, se non la si interpreta come chiaramente mitologica? Che cos’è la risurrezione di Gesù, se non la si mette in relazione con l’uomo crocifisso che cammina sulla terra? Non diventa allora un semplice guscio verbale per qualcosa? Si può comprendere la resurrezione unicamente nell’accezione mitologica. Solo in una visione mitologica del mondo, la valuta della risurrezione conserva un certo potere d’acquisto. Nel nostro tempo, nel nostro mondo, essa non viene più accettata.

Non è solo con la Risurrezione che la forma mitologica è costitutiva per il contenuto. E’ lecito chiedere una buona volta che cosa rimane dell’essere Gesù figlio di Dio, qualora si cerchi di comprendere la questione in maniera non mitologica. Che cosa resta ancora, una volta eliminata la mitologia, della maestà e del significato di Gesù? Importanti esponenti della teologia protestante degli ultimi 150 anni hanno cercato di valutare il significato di Gesù senza le chiacchiere della mitologia. Che cosa ne è venuto fuori, che cosa rimane allora di Gesù? Nella migliore delle ipotesi, nulla di più che un uomo buono.

Ma facciamo ritorno alla resurrezione. I tentativi di comprenderla “modernamente” danno l’impressione di essere inefficaci e senza speranza. Per Bultmann, come si è detto, sono espressione del significato della croce; per il teologo Willi Marxsen essa è un’interpretazione legata al suo tempo, espressione del fatto che la causa di Dio procede comunque. Anche il teologo Herbert Braun la giudica un’espressione condizionata dall’ambiente circostante: il giusto servizio a Dio sarebbe servizio per l’uomo. Di fronte a siffatti atteggiamenti, Rudolf Augstein sospira a buon diritto: “E per tale effetto dovevano esserci duemila anni di Chiesa!” (Augstein, Jesus Menschensohn, S. 102)

Non c’è in pratica nessun teologo che dalla sua cattedra, non c’è parroco che dal suo pulpito non ci provi ancora a guadagnare per questo evento – in fondo decrepito e sorpassato – una qualche importanza, un qualche significato, magari grazie ad acrobazie retoriche, ricorrendo a funambolismi verbali. Si parla d’un Sì di Dio all’uomo, si fanno sermoni su una egemonia di Dio sulla morte, oppure d’una realtà della resurrezione. A darne una formulazione conseguente è solo il teologo Gerd Lüdemann, per il quale “non ha senso scrivere qualcosa sulla realtà della risurrezione, quando si può dire con sicurezza che Gesù, per la storia, non è stato mai svegliato dai morti.” (Lüdemann, op. cit., S. 17)

« Se la risurrezione di Gesù non ebbe luogo, e di conseguenza egli non fu richiamato in vita e trasformato, non ci aiutano né la rianimazione di miti, né l’introduzione d’un nuovo concetto della storia, né le usanze del linguaggio predicatorio. La fede cristiana, allora, è morta esattamente come Gesù, e può essere tenuta in vita solo in virtù di autosuggestione. »
(Lüdemann, S. 18)

All’incensamento verbale, che anche da parte protestante viene sventolato sempre volentieri, allo scopo di sublimare e tenere in piedi l’evento centrale del Cristianesimo con la nebbia del mistero e della significanza, Lüdemann contrappone la disincantata conoscenza del fatto che il miracolo fondante del cristianesimo non regge all’indagine storica.

« La ricerca storica lo dimostra con certezza irrefutabile: Gesù non fu affatto risvegliato dai morti. Quantunque la fede primitiva dei cristiani lo riconosca, e la Chiesa sia costruita su tale evento […], quel fatto che si dice avvenuto per opera di Dio deve d’ora in poi considerarsi confutato. […] Con questo, risultano comunque distrutte le fondamenta della religione più potente e numericamente più grande della terra, e la vita cristiana stessa ne esce con le sembianze d’una apparenza esteriore. Per duemila anni, la fede nella risurrezione di Gesù ha esercitato effetti incalcolabili; ma ora, data la sua totale infondatezza, si rivela nella sua qualità di impostura nella storia del mondo. »
(Lüdemann, S. 156)

E dev’essere rimarcato ancora una volta: è stata la ricerca storica teologica a produrre questo risultato negativo, questo smascheramento di una delle colonne portanti della cristianità. Questo risultato non trae origine da atei o agnostici, lontani dalla Chiesa. Depone sempre a favore della qualità della ricerca il fatto che essa non indietreggia spaventata dall’analizzare criticamente anche le opinioni e i pregiudizi di quanti portano avanti l’indagine. A maggior ragione ciò deve valere per la teologia, i cui gestori stessi si sentirono (e anche oggi in gran parte si sentono ancora) membri privilegiati della Chiesa. Se un chimico, grazie alle analisi, deve correggere i suoi pregiudizi su una sostanza attiva, ebbene, questo è molto più agevole di quando uno studioso neotestamentario, credente per principio, deve constatare che Gesù si sbagliò. Il fatto che, nondimeno, i risultati decisivi allo smascheramento delle Chiese, relativi a Gesù e alla sua autocoscienza, provengano da teologi, depone a favore della ricerca teologica, quanto meno a favore della ricerca neotestamentaria, e in ogni caso per la ricerca che ebbe origine dal mondo protestante.

Di questi risultati, ciò nonostante, si continua a fare mistero. Eppure, questi prodotti della ricerca neotestamentaria sulla vita e la morte di Gesù non sono meno spettacolari e rivoluzionari per la Chiesa di quanto fu la sostituzione dell’immagine geocentrica del mondo con l’immagine eliocentrica nel XVI secolo. Ciò nondimeno, essi vengono sottaciuti quasi pudicamente, costituendo di rado, per le loro conseguenze pratiche, oggetto di qualche seminario teologico; e tanto meno costituiscono un tema per la predica domenicale. Chi non osserva questa tacita norma di comportamento, chi – come il professor Lüdemann – chiama le cose col loro nome, non viene più perseguitato e messo al rogo, è pur vero, come la Chiesa usava fare in passato in tanti modi; costui deve però mettere nel conto di essere isolato dai suoi colleghi, e che la Chiesa tenterà di ridurlo all’impotenza sul piano professionale.

La fede nella resurrezione è talmente centrale nel Nuovo Testamento, e viene ribadita così fortemente da non poterla sopravvalutare ulteriormente. Perciò lasciano perplessi i tentativi di parroci e teologi, finalizzati a trarla in salvo nella nostra epoca, sia pure sotto forma modificata. La fede nella resurrezione è troppo essenziale; non si può spiegarla come una cosa che non sarebbe poi tanto importante, o che si debba intendere solo simbolicamente, o unicamente come metafora. Come un colpo di clava, agli orecchi di cristiani e teologi, dovrebbe tuonare l’assioma dell’apostolo Paolo:

« Ma se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede, e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. »
(1 Corinzi 15:17;19)

Vana, infatti.