Utente:Monozigote/sandbox11

G & G

Ma chi fu Gesù nella realtà?

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  Per approfondire, vedi Serie cristologica.

E’ una legge fondamentale della storia delle religioni che ogni religione rappresenta le proprie figure fondative in maniera in qualche modo distorta, sublimandole e idealizzandole. Si ascrivono ai fondatori azioni che non hanno commesso, parole che non hanno mai detto; gli si attribuiscono intenzioni che non ebbero mai, trasformandoli in eroi, quali non furono mai. Sotto questo aspetto, si deve diffidare di ogni religione, e pertanto anche delle cosiddette Sacre Scritture. Infatti, dal momento che già gli scritti sacri di un’unica religione si contraddicono, e più ancora discordano gli scritti sacri delle religioni tra di loro, si può ben asserirlo: le scritture sacre sono, in maniera peculiare, testimonianze di falsità.

La stima di cui godono non l’hanno meritata. Non è una volontà conscia di ingannare, tuttavia, quella che in esse si vede in azione. Sono troppo miopi le teorie del complotto, che vogliono vedere una religione come un’invenzione, per così dire, di ambienti, di gruppi o d’una classe dominante, in quanto questa trarrebbe vantaggi da tale finzione. No, qui si tratta non tanto d’un inganno, quanto piuttosto di autosuggestione. I credenti vengono ingannati non tanto attivamente, ma mostrano piuttosto la tendenza ad ingannare se medesimi, a cercare di persuadere se stessi di cose a cui vorrebbero tanto credere, a compiere rituali da cui si ripromettono aiuto, e a venerare capi religiosi che essi vogliono appunto onorare. La capacità di illudere se stessi è il decisivo presupposto della religione in principio, ed è la sorgente da cui scaturisce la scintillante varietà di concezioni e pratiche religiose. In considerazione delle mille religioni con tanti princìpi che si contraddicono, l’autoinganno nella religione è sicuro, come due più due fa quattro. Sennonché l’autoinganno si è camuffato da certezza fideistica: per chi ne è vittima esso è difficilmente riconoscibile, e così è difficile da far comprendere ai credenti da parte di chi ne sta fuori.

Non fu per volontà d’un intenzionale inganno che gli evangelisti diedero forma alla vita di Gesù. Piuttosto, la falsità ebbe origine dalla commozione religiosa, dalla fede in questo Gesù. Quando Matteo raddoppia semplicemente, o in qualche modo ingrandisce un miracolo che ha trovato prima in Marco, questo per lui (diversamente dal nostro modo di percepire) non è falsificazione o invenzione, bensì espressione del suo credere in questo “figlio di Dio” che, secondo le sue immaginazioni, non può essere rappresentato mai abbastanza grandiosamente. Per questa ragione, l’aderenza al territorio delle figure di fondatori di religione cala in proporzione inversa con la crescente adorazione. Tale fenomeno può essere riscontrato in tutte le religioni, ma più precisamente può essere indagato nel Cristianesimo e negli scritti neotestamentari.

Gesù non fu l’uomo che gli evangelisti, e più tardi la Chiesa, volevano dare ad intendere. La sua immagine è deformata e, in non pochi passi, tramutata nel suo contrario. Oggi è una verità lapalissiana, da lungo tempo nota ai teologi e alla ricerca, che però è ancora lungi dall’entrare nelle teste dei credenti. Il Gesù della Chiesa è un personaggio artistico, scolpito o intagliato ad arte da un’infinità di artigiani devoti, tra i più importanti dei quali vi furono gli evangelisti e Paolo. Quel poco che noi sappiamo di questo Gesù dev’essere faticosamente portato alla luce e ricomposto dai dipinti sovrapposti degli evangelisti. Ciò che troviamo sotto quello strato, non è molto spettacolare.

Gesù di Nazareth dev’essere visto come uno dei molti esponenti d’un ebraismo improntato in senso apocalittico. Della sua infanzia e giovinezza non si sa nulla; le mirabolanti leggende sulla sua nascita non meritano davvero questa denominazione, dato che in esse non si rinviene alcun nucleo storico. Sono tutte quante invenzioni devote, di stampo unicamente fiabesco. Esse devono la loro esistenza al comprensibile desiderio di dotare il capo religioso anche d’una nascita e d’una fanciullezza adeguata. Sennonché fanciullezza e gioventù erano state poco o punto spettacolari perché, quando Gesù iniziò tardivamente la sua vita pubblica, i suoi familiari non vi erano affatto preparati. I suoi lo ritengono uscito di testa, e vogliono riportarlo a casa. Molte circostanze fanno pensare che, in Giovanni il Battista, egli avesse visto qualcosa di somigliante ad un mentore, che egli venerò apertamente fino alla sua morte. Nel Nuovo Testamento si può ancora riconoscere che l’opinione di Giovanni nei riguardi di Gesù fu molto meno entusiastica. Ancora nel corso del primo secolo, tra i discepoli di Gesù e di Giovanni, si protrasse infatti qualcosa di simile ad una rivalità.

In ogni caso, Gesù proviene dal movimento di Giovanni, e ciò si riconosce anche dalle grandi concordanze tra la dottrina giovannea e l’annuncio intrapreso da Gesù. Ammesso che Gesù fosse il suo discepolo (malgrado ogni verosimiglianza, non ne abbiamo una prova diretta), gli evangelisti dovettero comunque eliminare la cosa, in quanto venne sentita presto come scandalosa. E’ tuttavia sicuro che Gesù fu battezzato da Giovanni, e che per questo vedeva se stesso come peccatore, che aveva bisogno di quel battesimo. La purezza di Gesù, il suo essere esente da peccato, è oggetto di dogmatica futura, ancora di là da venire; e gli verrà calcata sulla testa, come tante altre cose in più. La tradizione tenterà in seguito di relativizzare quel battesimo, tanto che l’evangelista Giovanni lo eliminerà di brutto.

Il nucleo dell’annuncio di Gesù è l’insegnamento dell’egemonia imminente di Dio, la svolta della storia attraverso un diretto intervento di Dio e l’instaurazione di un regno di Dio non nell’aldilà, ma pensato per questa terra. La prossimità di questo dominio di Dio è stata annunciata già dal Battista. Giovanni e Gesù vedevano se stessi entrambi nel ruolo di ultimi ammonitori, per mettere in guardia da questo intervento di Dio, precorritore della fine dei tempi. Ambedue nutrivano il sentimento spiccato di un’attesa assai prossima, ed entrambi si ingannarono in questo punto focale del loro annuncio. Il Regno di Dio non è venuto, e non c’è neanche dopo 2000 anni. L’annuncio profetico di Gesù fu pertanto una falsa profezia.

Come Giovanni, Gesù raccolse intorno a sé una cerchia di discepoli, e con essi percorse in lungo e in largo la Galilea, in qualità di predicatore ambulante, in prevalenza nei dintorni del lago di Genezaret. Questa attività si protrasse per circa un anno, fors’anche solo pochi mesi. Gli si dovrà riconoscere un notevole talento oratorio, nonché la capacità di entusiasmare la gente giacché, accanto alla più ristretta cerchia di discepoli, vi furono evidentemente molte persone inclini a sostenerlo, tra cui le donne. La sua attività consisteva in prediche, sovente sotto forma di similitudini e parabole, e occasionalmente anche in polemiche con le autorità religiose della provincia, più di tutto coi Farisei. Sembra tuttavia certo che l’aspra polemica coi Farisei rispecchiasse maggiormente la distanza dei primi cristiani dall’ebraismo, più che la distanza di Gesù nei loro confronti.

Oltre a possedere doti predicatorie in grado di affascinare la gente, Gesù godeva anche fama di esorcista e di taumaturgo. Gli si attribuivano poteri terapeutici, e gli infermi cercavano di stargli vicini. Si può presumere che egli stesso riconoscesse nel suo operare, soprattutto negli esorcismi, una speciale predestinazione da parte di Dio, magari una conferma dell’imminente regno di Dio.

In occasione della Pasqua ebraica, Gesù abbandonò il suo territorio di operazioni in Galilea, recandosi coi suoi discepoli a Gerusalemme, probabilmente per la prima volta. E qui fu tosto messo in croce dai Romani. I motivi sono poco chiari, ma molti indizi indicano che furono più di tutto il turbamento arrecato alla funzioni religiose e la sua critica al Tempio e, pertanto, un attacco indiretto al ceto elevato dei Sadducei. I quali erano d’accordo coi Romani nell’interdire senza indugi atti di disturbo e manifestazioni di singoli individui in occasione della festa pasquale che attirava migliaia di pellegrini. E’ probabile che l’esecuzione di Gesù avvenisse per ragioni preventive: egli morì pertanto la morte d’un rivoltoso. Presumibilmente, la morte repentina colse Gesù impreparato e non intenzionato ad affrontarla; per di più, palesemente, egli non vi aveva preparato i suoi discepoli. I quali fuggirono da Gerusalemme, rifugiandosi in Galilea. Le predizioni della Passione, tramandate nei Vangeli, non sono che posteriori invenzioni della comunità.

Dopo la morte, i suoi discepoli affermarono (non è chiaro quando) che era risorto dai morti. L’origine della fede nella resurrezione consiste probabilmente nelle soggettive visioni di singoli discepoli, però mancano evidentemente testimoni estranei al fenomeno. Le storie delle apparizioni sono tutte quante creazioni successive della comunità.

Fino a tanto giungono gli scarsi dati miliari sulla sua vita, estratti a stento soprattutto dai vangeli sinottici, dove sono ormai fortemente ritoccati e idealizzati, e tuttavia ancora assai lontani dalla glorificazione e dalla divinizzazione che seguiranno.

Abbiamo davanti a noi la vita di un uomo apocalittico del primo giudaismo, il quale visse in tutto e per tutto nell’alveo dell’Ebraismo, morendo sulla croce da ebreo. E’ il basilare equivoco storico delle Chiese cristiane: ritenere che questo Gesù di Nazareth avesse avuto anche solo qualcosa a che fare con il cristianesimo. Ed è uno dei più generali paradossi storici che proprio lui diventasse l’emblema fondativo di una Chiesa che – più di qualsiasi altra religione –, avrebbe perseguitato e represso l’Ebraismo.

Sul fatto che Gesù intendesse e sentisse se stesso, fino all’ultimo, in qualità di ebreo, non sussiste il minimo dubbio nell’ambito della ricerca. La metamorfosi di Gesù in fondatore o iniziatore del Cristianesimo poteva attuarsi al prezzo d’una quasi violenta reinterpretazione di ciò che egli voleva nel profondo del suo animo: si poteva acquisire solamente con l’azione d’un violento stravolgimento della storia delle idee. Facendo di Gesù il suo Signore, la Chiesa ha asservito il Gesù vero – ossia il Gesù della storia –, usandolo per i propri scopi.

Il Gesù storico divenne la primissima vittima d’una Chiesa straripante di vittime. E mentre i Romani poterono togliergli soltanto la vita, la Chiesa, appellandosi falsamente a lui, intervenne molto peggio sulla sua immagine, reinterpretando la sua esistenza, privandolo della sua personalità, spogliandolo della sua identità ebraica, facendo di lui uno strumento nella lotta contro i suoi stessi fratelli di fede. Che cos’è la corona di spine degli sgherri romani, che cos’è la profanazione del suo corpo nel salire il Golgota, nel confronto con questa violazione inferta dalla Chiesa alla sua anima, contro quella falsa corona di spine, con cui lo si volle collocare subito al fianco del Dio onnipotente, dove comunque, secondo la fede giudaica, a nessun altro sarà mai lecito prender posto?

Ebbene sì, Gesù fu realmente immolato, ma in tutt’altro modo da quello che vogliono farci credere la teologia paolina e, in maniera tanto più massiccia, le successive dogmatiche cristiane. Egli non fece nulla che andasse oltre al suo essere ebreo: credette nell’unico Dio, a lui si rivolse con la sua preghiera, una preghiera ebraica in tutto e per tutto. Gesù ha predicato l’amore di Dio e del prossimo, anche questo secondo la buona tradizione ebraica. Ha insegnato nelle sinagoghe, parlando della edificazione del dominio di Dio, vivendo nel convincimento del suo imminente approssimarsi. Fu un giudeo tra giudei, e non volle essere nient’altro. In maniera dimostrativa, evitò ostentatamente il territorio dei pagani. Ma non gli servì a nulla: appena morto, la Chiesa avocò a sé la sovranità interpretativa riguardante la sua vita, facendone un uso straripante e spregiudicato. Facendo di lui il proprio Signore, lo trasformò in una figura tragica.

Accettarlo finalmente ed interamente nella sua qualità di ebreo devoto, ecco, a ciò le Chiese non saranno disposte giammai, poiché hanno bisogno di lui quale Figlio di Dio, che siede sul trono alla destra del Padre. Le due cose insieme non funzionano, anche se cristiani illuminati pensano di poter sistemare così la questione.

L’essere ebreo di Gesù significa però anche una limitazione. Tutti i non ebrei, infatti, non possono non chiedersi: ma quest’uomo, che cosa ha a che fare con noi? Gesù non pensò mai, infatti, ad un’azione missionaria nel mondo, o soltanto ad un messaggio per i pagani (cioè i non ebrei). Come si è visto, il comando della missione, che invia i discepoli ad evangelizzare tutto il mondo, è un’invenzione dell’evangelista Matteo; Gesù non l’ha mai impartito. Il suo messaggio si rivolgeva ai suoi confratelli di duemila anni fa; esso non puntava lo sguardo ai non ebrei, e tanto meno poteva guardare a noi moderni. E’ grottesco, ed è espressione d’un antistorico sentimentalismo, che oggi, e dappertutto nel mondo, i cristiani devoti approfondiscano, nei seminari sulla Bibbia, come le sue parole “siano da comprendere oggi”, chiedendosi che cosa egli “proprio oggi voglia dirci”, e che la sua parola sia commentata ogni domenica dai pulpiti “per noi moderni”. Questo Gesù non aveva nessuna cognizione di noi: eravamo estremamente estranei, fuori dal suo orizzonte. Per noi moderni, egli non ebbe a pronunciare una sola parola.

Tuttavia, pur ammettendo che le sue parole fossero rivolte a noi, l’imbarazzo non sarebbe meno grande. Perché, come Gesù fu una persona abusata, fino ad oggi non preso sul serio dalla Chiesa, così fu anche, nel suo essere uomo, una persona confusa ed errante. Come i credenti più tardi, anch’egli era incorso nell’autoinganno, cedendo all’erronea opinione che il regno di Dio fosse lì lì per realizzarsi. L’errore di Gesù lo colloca nella lunga schiera di visionari religiosi, iniziando in campo giudaico coi primi apocalittici e non trovando mai fine con i Testimoni di Geova, che già molte volte avevano profetizzato la fine del mondo. Con la sua falsa credenza, Gesù si trova in coda, in numerosa compagnia coi fanatici della Riforma, coi monaci apocalittici del Medioevo, coi movimenti popolari eretici che, perseguitati dalla Chiesa, hanno sempre vaticinato l’imminente fine del mondo.

Gesù si colloca nell’identica fila, a fianco delle innumerevoli sétte in attesa della fine dei tempi: in buona compagnia con pietisti, entusiasti, predicatori religiosi, sedicenti profeti, fanatici visionari, con tutti coloro che ansiosamente attendono l’inizio del nuovo eone. Ancora oggi, in cerchie di devoti, si aspetta l’edificazione del Regno di Dio e il ritorno di colui che a sua volta, duemila anni or sono, avevano atteso già invano quel Regno. Tutti gli esponenti dell’attesa, tutti questi ammonitori e vaticinatori si sono esposti al ridicolo, almeno a giudicare col senno di poi. Di fatto, erano tutte falsità. In questa serie di religiosi predicatori della fine dei tempi, Gesù non fu il primo, e non sarà certo l’ultimo. Tra costoro, però, è stato sicuramente il più conosciuto.

Ma come si deve giudicare una dottrina il cui punto focale si è dimostrato falso? L’Antico Testamento lo esprime chiaramente:

« Quando il profeta parlerà in nome del Signore, e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta ha parlato per presunzione. Non devi aver paura di lui. »
(Deuter 18,22)

Come la Chiesa ha piegato ed incurvato l’ebreo Gesù per farne il “quasi” primo cristiano, così ha anche aggiustato senza tregua il suo insegnamento, conformandolo alle proprie esigenze. Rispetto al risultato, non aveva nessuna importanza ciò che Gesù avesse realmente pensato e detto, ciò che davvero avesse voluto. La fede religiosa si ritaglia il mondo esattamente a misura del proprio gradimento. Evidentemente, anche questa è una legge storica delle religioni: un fondatore di religione ha un’influenza sulla configurazione d’una determinata dottrina minore rispetto a quelli che la tramandano per primi, che sono quindi i suoi primi seguaci.

Paolo, in effetti, ebbe un’influenza di gran lunga maggiore di Gesù stesso sulla formazione del cristianesimo e sui basilari princìpi cristiani. E già Paolo poté permettersi di presentare al mondo un Gesù completamente diverso: un prodotto artistico della propria fantasia. Incurante di appurare quale fosse la volontà del presunto fondatore. E di questo anche la Chiesa non s’interessò più di tanto, preferendo attenersi a Paolo, oppure all’insegnamento della tradizione sua propria.

Non tenendo in nessun conto il “santo volere” (Goethe) di Gesù, la Chiesa poneva la prima pietra della sua stessa esistenza. Il Cristianesimo è basato su un errore diventato oltremodo efficace per la storia del mondo. Sia quindi sottolineato ulteriormente: non è un’impostura attiva, nel senso d’una teoria del complotto; è piuttosto un autoinganno di credenti, quale si ritrova certamente all’inizio di tutte le religioni. I credenti non hanno inventato consapevolmente una religione, ma si sono piuttosto avvitati nel prestar fede in fantasie e convincimenti religiosi. Da suggestioni fideistiche, inizialmente ancora non sviluppate e per molti versi ancora contraddittorie, scaturirono poi rapidamente articoli di fede più saldi. L’influsso paolino e il predominio del cristianesimo pagano, ed in più, successivamente, i primi Concili cristiani, giocarono quindi il loro ruolo determinante. Alla fine prevalse e troneggiò un’immagine di Cristo, che non aveva più nulla da spartire con il Gesù della storia. Le Chiese credono quindi in una finzione creata da loro stesse, e considerano questa fede come una virtù.

Ciò non ha nulla a che fare con Gesù, e questo, sotto certi aspetti, va pure bene. Perché la sua fede aveva dei tratti assolutamente inquietanti. Gesù fu un estremista religioso; il regno che attendeva non era un regno di pace, giacché implicava anche il Giudizio. Sebbene non manchino nel suo annuncio anche aspetti umani e progressivi, il suo pensiero è tuttavia inglobato nelle correnti idee apocalittiche del suo tempo. Esso è improntato dai pensieri giuridici e dalla fede nell’Inferno, risonante di urla e “stridore di denti”, ricolmo non solo di grazia divina, ma anche della sofferenza di coloro che vengono respinti e dannati.

Il suo amore per il prossimo, perfino quello per i nemici, trova il suo rapido limite all’interno di queste coeve rappresentazioni, inumane e terrificanti, dalle quali non seppe affrancarsi. Questi aspetti oscuri del suo annuncio sono spesso ignorati; non ci si accorge “che Gesù visse e annunciò una radicale religione di conversione e di proselitismo. Ciò significa anche: in nessun momento Gesù è ‘caro’, intimo e famigliare. Non è un amico dell’anima, e tanto meno è quel “adorabile Gesù bambino” che si ama tanto dipingere. E non è nemmeno un combattente per la solidarietà coi diseredati. La sua persona e il suo messaggio hanno aspetti del tutto autoritari.” (Roman Heiligenthal, Der verfälschte Jesus, S. 27). La predicazione sul Giudizio la assunse forse da Giovanni il Battista, il quale andò a smerciarla di casa in casa molto più efficacemente di Gesù. Eppure essa è presente anche in Gesù. Ogni albero che non dia buoni frutti viene sradicato e bruciato.

Un Gesù di questa fatta, un predicatore del Giudizio, un annunciatore dell’Inferno, un estremista e fondamentalista religioso, dovrebbe fungere da modello, essere di esempio per la nostra epoca? O non si dovrebbe invece, nella società moderna, attenersi a valori come tolleranza e libertà di opinione? Questo Gesù, e i valori che si presumono incarnati nella sua dottrina, sono davvero cosi importanti per la convivenza umana, come ci inculcano le Chiese da duemila anni? Dei valori cristiani, e di ciò che sono realmente, verremo a parlare ancora nei prossimi capitoli. Guardando Gesù nei limiti della religione, di quella religione che fu la sua, si evidenzia presto la sua limitatezza, pur con tutte le concezioni certamente positive che questo spirito apocalittico pure coltivò. Gesù di Nazareth, in breve, sarebbe in ogni caso la figura più sopravvalutata in assoluto della storia del mondo.

La coscienza di sé

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Gesù sopravvalutò forse non solo l’importanza del proprio messaggio, ma anche se medesimo? Ci chiediamo, per l’ennesima volta, se avesse una consapevolezza messianica di sé? Aveva ritagliato per se stesso un ruolo, in vista dell’avvento del regno di Dio? Eppoi, ha forse creduto di essere lui il Messia? Questi quesiti hanno scosso intensamente e appassionatamente la ricerca neotestamentaria. E sono connessi coi titoli di Gesù, che compaiono appunto nei Vangeli.

A questi titoli, nella ricerca, si concede uno spazio eccessivo, come pure alla questione se egli li avesse usati. Una cosa è infatti chiara: perfino se Gesù si fosse ritenuto il Messia, ciò non direbbe granché sulla sua natura metafisica, ma la direbbe lunga sul suo religioso stato mentale. E’ naturale che ognuno si ritenga più importante di quanto viene considerato oggettivamente. Con grande perspicacia, Kurt Tucholsky osserva che la massa crede sempre qualcosa di più di quanto si pensi.

Fintanto che la presunzione di sé resta nei limiti, non disturba, ed è addirittura positiva per la coscienza dell’individuo. Ma al di là di questo, purtroppo, la storia del mondo pullula di persone ispirate in senso religioso e/o politico, che si credettero in maniera stravagante qualcosa di eccezionale, vedendo se stessi al centro di qualche rivoluzione, con la pretesa di essere messaggeri di qualche rivelazione, realizzatori di qualsivoglia piano divino, o esecutori d’una provvidenza fatta su misura per loro. Ove gli uomini disponessero della capacità di entusiasmare il prossimo, potrebbero guadagnare influenza straripante. Gesù fu forse uno di loro? Il fatto che di loro, in seguito, se ne fosse fatto un campione, è più che evidente: ma fu lui stesso a ritagliarsi un ruolo nel dramma della fine dei tempi, addirittura quello di protagonista?

Abbiamo già discusso minuziosamente il concetto o, rispettivamente, il titolo di Figlio dell’Uomo. Nel prosieguo, però, la Chiesa definì Gesù non più come Figlio dell’uomo, bensì come Figlio di Dio, e continua a farlo ancora. Tale appellativo si ama ricavarlo dalla voce di Dio risonante al battesimo di Gesù, che a sua volta rimanda ai Salmi/Ps 2:7 “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato.” Sennonché, nell’ebraismo, questo essere figlio di Dio voleva esprimere non un dominatore soprannaturale, bensì il sovrano regnante. In questo senso, dunque, Israele conosceva una lunga serie di figli di Dio. Con che non si intendeva nessuna consanguineità genealogica, tanto meno un’essenziale identità di padre e figlio. Augstein sintetizza a buon diritto: “Non c’è un teologo degno di questo nome che affermi ancora, oggi, che Gesù si fosse dichiarato, o avesse creduto di essere figlio di Dio, quantunque il cristianesimo nel suo complesso […], con questo dogma, cioè che lui fosse veramente il figlio di Dio, o resta in piedi oppure crolla.” (R. Augstein, op. cit., S. 73)

Ma il concetto figlio-di-Dio poteva essere inteso anche in senso più generale. I credenti potevano sentirsi come figli di Dio (le figlie, peraltro, vi si accoderanno solo nel XX secolo), sicché Dio era padre non solo per Gesù, ma parimenti per i discepoli. Inoltre, Gesù stesso ha parlato dei figli di Dio (al plurale), definendo tali per esempio “gli operatori di pace, perché saranno chiamati figlio di Dio.” (Mt 5,9). Tuttavia, di un siffatto uso del concetto figlio-di-Dio in bocca a Gesù, la comunità aveva ben poco. Dopo la Pasqua, allorché Gesù venne connotato esclusivamente come figlio di Dio, questo uso generalista dovette scemare.

Questa intitolazione “figlio-di-Dio” ha la sua origine, in verità, ancora nel primo cristianesimo giudaico ma, in forma alterata, dispiegherà la sua efficacia più tardi, in un ambiente permeato dalla cultura greca. E’ qui che diventa praticamente popolare e può essere lentamente integrata con contenuti ontologici.

La comunità primitiva ha venerato Gesù in qualità di Mashiach (Messia), come l’unto di Dio per la fine dei tempi. Eppure nell’Ebraismo non esistevano solide rappresentazioni escatologiche. Vi erano attese escatologiche con e senza figure messianiche. La comunità di Qumran aspettava persino due Messia. V’erano inoltre certi messia esplicitamente politici e, rispettivamente, personaggi considerati dei messia. Tra questi c’era, in modo stranissimo, anche Ciro, il re dei Persiani, che Isaia definisce, in Is. 45,1, come messia (= unto) di Geova. Col termine di “unti”, nell’Antico Testamento, erano intesi di regola i re d’Israele. Pertanto, i messia vissuti fino allora erano tutti quanti personaggi del passato, mentre per l’avvenire, ma non da tutti gli strati del popolo, venne atteso pure un Messia. In molte rappresentazioni della fine dei tempi, però, Dio avrebbe dovuto agire da solo.

Per il mondo di cultura greca, tuttavia, il titolo di Messia (unto del Signore) era arduo da comprendere, per cui esso viene sempre più soppiantato dal titolo figlio-di-Dio. Quel che ne rimase fu la traduzione greca per Messia, vale a dire Cristo. E questo titolo viene inteso vieppiù quale nome proprio. Gesù ha inteso se stesso in qualità di Messia? Pur con tutte le varianti concettuali, questo appellativo sarebbe almeno deducibile dal milieu sociale di Gesù. In realtà, il concetto di Messia affiora solo di rado nello stile linguistico di Gesù. Theißen elenca solo cinque momenti, e li definisce eccezioni (Theißen/Merz, Der historische Jesus, S. 467). Inoltre, gli Ebrei non attendevano nessun messia che potesse risorgere; conoscevano soltanto un risorgere di tutti i morti in vista del giudizio finale.

Nella tradizione giudaica, per di più, non esiste da nessuna parte un Messia crocifisso. Eppoi il messia era sempre un personaggio di carne e ossa: non aveva in sé nulla di divino; al contrario, non era se non un uomo di qualità elevate. L’attesa messianica degli Ebrei era pertanto una realtà completamente diversa da quella che i cristiani presentarono presto col nome di Messia. I cristiani fecero di necessità virtù, incanalando senza esitare croce e risurrezione nell’alveo delle attese messianiche preesistenti, e facendo senz’altro, del messia umano, un Messia divino. Come col titolo figlio-di-dio, la maggior parte degli studiosi neotestamentari concorda anche su questo: Gesù non si identificò mai in un Messia. Il titolo di messia fu connesso dai primi cristiani con la figura di Gesù solo dopo la Pasqua.

Alcuni ricercatori suppongono tuttavia che Gesù, sebbene non si fosse esplicitamente definito come tale, avesse almeno implicitamente qualcosa di somigliante all’idea d’un Messia. E allora, Gesù si vide come intermediario escatologico, sempre più identificato in questo ruolo, forse anche solo nel corso della sua attività? Non sarebbe la prima volta che un predicatore, in un crescente entusiasmo religioso, ritiene di riconoscersi come il realizzatore, come vero e proprio strumento di Dio. Abbiamo già visto sopra che Gesù, in alcune parole palesemente autentiche, mette la sua attività in rapporto col Regno di Dio: “Se io scaccio i demoni col dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio.” (Mt 11:19) Alla domanda del Battista su chi egli fosse, rimanda altrettanto alla propria opera taumaturgica (Lc 11:4-5). Vero è che non si professa direttamente come Messia, nondimeno sembra che si veda in qualche modo connesso con l’annunciato Regno di Dio. Allora, Gesù ha sentito se stesso non solo quale annunciatore, ma per di più come mediatore di salvezza?

Quale significato spetterebbe allora alla sua marcia su Gerusalemme? Voleva, come molti ebrei devoti, trascorrervi solo la festa pasquale? O voleva di più? Gerusalemme, per un romano nulla più che una città insignificante in una provincia inquieta, era per un ebreo il vero ombelico del mondo. Se doveva essere, allora è da lì che sarebbe dovuto propagarsi il Regno di Dio: qui doveva necessariamente mostrarsi un intermediario in vista della fine dei tempi. E’ lì che Gesù voleva forse essere ucciso? Per la verità, gli Ebrei non aspettavano nessun liberatore disposto a sacrificarsi. Ma Gesù ha forse creduto, come pensano alcuni ricercatori, di poter forzare, con la sua morte – per così dire –, la venuta del Regno di Dio? Gesù attese “fino all’estremo il miracolo che non si avverò?” (Shalom ben-Chorin, cfr. R. Augstein, op. cit., S. 237). Riconobbe forse il suo fatale errore solo sulla croce?

Se alla base dell’attività di Gesù in Gerusalemme vi fu un piano, fu comunque un piano sbagliato, il punto culminante di un’attesa esasperata, risultato tragico d’una perdita del reale. Non volendo ammettere un piano siffatto, non resta che l’ipotesi già espressa, cioè che gli avvenimenti di Gerusalemme l’abbiano semplicemente travolto, che egli, volendo provocare mediante la purificazione e la critica del Tempio, diventasse bersaglio d’un contraccolpo che non si era aspettato di tale durezza. Tante sconsideratezze causarono in Gerusalemme un rapido tracollo della sua missione, tanto fortunata in Galilea. I cristiani modificarono l’affabulazione, ribaltando in breve tempo il dramma del Golgota in una vittoria. Sulla croce, tuttavia, non è appeso un uomo fallito per un superiore ordinamento divino; da essa pende un uomo che ha fallito, sopraffatto dalla realtà.

E’ degno di nota come, anche nella ricerca neotestamentaria indubitabilmente seria, si lavori continuamente – nelle descrizioni riguardanti Gesù – ricorrendo ad eufemismi, e come il fallimento di quest’uomo venga rappresentato sempre come procedendo in punta di piedi, come se non si volesse svegliare nessuno, per non disturbare il sonno delle Chiese o spaventare i devoti lettori della Bibbia. Anche dagli esegeti, la visuale su Gesù viene mantenuta sempre in maniera compatibile con la comunità. Trattando di Gesù, lo studioso Theißen parla di un carismatico ebreo, della coscienza di delega per Gesù, di una consapevolezza di sé difficile da sopravvalutare. Egli avrebbe posseduto una autocoscienza messianica (Theißen/Merz, op. cit., S. 386 s.). Tutte belle, altisonanti parole, che deformano però il contenuto vero e proprio, cioè che con Gesù non abbiamo tanto a che fare con un carismatico religioso, ma piuttosto con un fanatico religioso: non tanto con un uomo religiosamente ispirato, bensì con un neurotico religioso. E che cos’altro è la sua “coscienza di delega”, se non espressione di svenimento e di deliquio?

Con riguardo per la Chiesa, e con rispetto per i loro studenti (molti dei quali destinati, quali parroci e pastori, a reggere le loro parrocchie), i professori di teologia non possono formulare tutto ciò con tanta chiarezza, perché non vogliono chiamare le cose col loro nome, dicendo pane al pane. Piuttosto, dev’essere adottato un linguaggio allusivo e ambiguo, onde tenere in qualche modo ad altezza d’uomo, nell’omelia, i risultati della ricerca. Theißen formula l’imbarazzo in maniera tipica: “Il Regno di Dio non venne […] Dio intervenne in maniera diversa: secondo la fede dei discepoli, risvegliò dalla morte l’uomo crocifisso” (Theißen/Merz, op. cit. S.487). In qualsiasi modo si voglia valutare questo “assecondando la fede dei discepoli”, ognuno potrà giudicare da sé. Sarà tutto nient’altro che abracadabra, oppure reale intervento divino? Una domanda simile, data la sua duttilità, può essere accettata senza sforzo in ogni sermone. Del linguaggio tipico dei teologi dovremo occuparci ancora in seguito. Da non teologo, lo storico Rudolf Augstein la esprime con maggior chiarezza: “Qualsiasi ebreo, che si fosse creduto un messia-figlio dell’uomo, dovrebbe aver avuto, diciamolo chiaro e tondo, un certo ramo di pazzia.” (op. cit. S. 83)

Se si vuole vedere Gesù con chiarezza, non lo si deve osservare attraverso le lenti rosate delle Chiese. Niente glorificazioni dogmatiche, niente leggende bigotte. I paramenti regali, che le Chiese gli hanno ritagliato addosso, non si addicono a lui. Senza questo travestimento, Gesù si riconosce bene anche coi suoi limiti ed errori. E’ stato abbastanza a lungo un vero Dio; adesso può tornare ad essere un vero Uomo. E può essere di nuovo membro del suo popolo e, come i devoti del suo popolo, venerare Dio e soltanto Dio.

Paolo sottolinea ancora l’essere ebreo di Gesù quando scrive che è “nato da donna, nato sotto la Legge” (Gal 4:4). Ma Gesù era di più. Pur non corrispondendo alle esasperate attese del cristianesimo, l’uomo fu certamente sopraelevato rispetto al Am Haarez, ossia al popolo semplice. Andò predicando nella regione, raccolse intorno a sé una cerchia di allievi (questo termine gli si presta meglio della solita definizione di discepoli) facendosi conoscere come taumaturgo ed esorcista. Certamente, sui suoi ascoltatori deve aver influito in maniera crescente e convincente, da persona che sprigiona autorevolezza. I suoi insegnamenti hanno un effetto provocatorio, eppure sono ancora collocabili nell’ambito della tradizione interpretativa giudaica: ha annunciato non soltanto cose nuove, ha messo piuttosto nuovi accenti. Ha interpretato, anziché fare strappi e demolire. Non è venuto per annullare la Legge, bensì per portarla a compimento.

Questa immagine, che di Gesù hanno conservato anche i Vangeli (sia pure in accezione non comune), è quella di un rabbino ebraico, di un interprete e commentatore della Legge. Gesù deve essere compreso come rabbi … ecco la categoria che certamente corrisponde più di tutte alla sua vita pubblica. A questa si confanno la sua cerchia di alunni, il suo annuncio, la sua etica, le persone che si rivolgono a lui con domande, gli scontri polemici con altri esponenti della spiritualità giudaica. A tutto ciò si può ascrivere anche, nonostante sia alquanto inusuale per un rabbi, la sua predicazione ambulante. A sostegno di ciò c’è pure il fatto che Gesù si faceva decisamente interpellare con l’appellativo di rabbi. I suoi stessi allievi lo chiamano rabbi (Mt 26:25; Mc 9:5; 11:21 e più spesso). Evidentemente, Gesù non vede alcun motivo per correggere quella denominazione.

Che Gesù vedesse e sentisse se medesimo come rabbi, dovrebbe ritenersi acclarato in tutti i casi. E’ problematico, al contrario, che egli volesse essere più di questo. Che si percepisse poi come figlio di Dio, è assurdo. Riflettendo su questo risultato, frutto d’una indagine scientifica, ci sembra forse una cosa ben nota. Ma dove l’abbiamo udita già una volta? Naturalmente non nelle chiese cristiane, ma certamente presso i teologi ebraici. Gesù quale rabbi devoto: questo non è solo il risultato della ricerca scientifica sui vangeli, è per di più la percezione che gli Ebrei hanno di Gesù, simile a quella dominante già nel mondo antico. E questo senza illuminismo e senza la ricerca moderna. In tempi recenti, è stata espressa tra gli altri da Schalom Ben-Chorin (cfr. S. Ben-Chorin, Bruder Jesus, S. 25).

L’Ebraismo ha dunque sempre visto, già con maggior chiarezza, chi è Gesù, e che cosa voleva. Le Chiese cristiane, al contrario, ce ne offrono da duemila anni una caricatura dogmatica. Solo negli ultimi secoli, nel corso dell’indagine scientifica sulle Sacre Scritture cristiane, si è raggiunto nell’Occidente cristiano il livello di conoscenza che l’Ebraismo possedeva intuitivamente da lungo tempo.

Per le Chiese, ad essere sinceri, ciò dovrebbe essere motivo di vergogna. Con la propria immagine di Gesù, il popolo degli Ebrei, perseguitato dai cristiani, è stato molto più vicino alla realtà di quanto fossero quelli che li perseguitavano a causa della loro falsa immagine di Gesù. Come qualcuno che accusi a gran voce il proprio fratello di furto, finendo poi per rinvenire la banconota smarrita usata come segnalibro nella propria biblioteca.

La progressiva divinizzazione dell’uomo Gesù

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Dopo la sua morte, l’uomo Gesù venne rapidamente riconvertito e ricreduto in un Dio. Nel Nuovo Testamento si può ravvisare ancora nettamente questo processo accrescitivo della cristologia, attraverso gradi preparatori e stadi intermedi. E vi si può riconoscere: non fu subito, fin dall’inizio, che si ebbe il coraggio di vedere in Gesù il figlio di Dio. La fede in Gesù quale figlio di Dio non è una rivelazione divina, ma è andata via via ingigantendo nel corso della storia.

Uno stadio iniziale della cristologia lo si riscontra già in un passo popolare, all’apertura della Lettera ai Romani:

« Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nella sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santificazione, in virtù della resurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore. »
(Romani 1:1–4)

L’investitura di Gesù a Figlio di Dio avviene qui solo dopo la resurrezione dai morti, quindi relativamente tardi. Solo con la risurrezione l’uomo Gesù, nella successione di Davide, viene quasi ufficialmente promosso a Figlio di Dio; però non lo è fin dall’inizio. E’ mediante la resurrezione che Dio ha dato espressione alla sua volontà. La tardiva elezione non è quindi opinione di Paolo. In modo palese, Paolo cita qui una vecchia formula di fede, che risale direttamente alla comunità primitiva. Tramandando questa formula, egli la salva per noi e per la ricerca storica.

In uno degli Atti degli Apostoli si legge un discorso di Paolo, del resto inventato dall’evangelista Luca, dove si trova una rappresentazione analoga, certamente assai antica:

« E noi vi annunciamo che la promessa fatta ai padri si è realizzata, perché Dio l’ha compiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo: Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato»
(Atti 13:32-33)

Solo con il risveglio dai morti, solo con questo oggi, Gesù diventa figlio di Dio, non prima. Questa immagine lascia poco spazio a favore di quel Gesù che, già come figura terrena, avrebbe carattere divino; essa contraddice implicitamente alle leggende sulla nascita – tramandate da Luca o inventate –, secondo le quali l’essenza divina di Gesù era fissata già prima della sua nascita. In un primo stadio di fede della comunità primitiva, non fu dunque Gesù ad agire, ma fu piuttosto Dio ad occuparsi dell’uomo Gesù, accettandolo come suo figlio. E’ questa una cristologia ancora contenuta, non ancora lanciata a tutto gas, ancora dissimile dalle posteriori rappresentazioni del Cristo figlio di Dio, ma tutt’al più orientata in questa direzione. Tuttavia, dopo che il convoglio cristologico si fu messo in movimento, i cristiani non si mostrarono più altrettanto discreti.

La sovranità di Gesù venne rimarcata sempre più fortemente. In Marco, le parole Oggi io ti ho generato si odono già nel battesimo di Gesù. Già col battesimo Gesù viene adottato come figlio di Dio. Anche qui, però, neanche una parola su una precedente vocazione o importanza dell’uomo, che adesso ha pur sempre 30 anni. Per Marco, la sua sovranità inizia già col battesimo; essa è pure la prima cosa che egli rammenti di Gesù. Marco non conosce ancora la nascita da una vergine, e nemmeno un figlio divino. Solo Matteo e Luca, nei loro vangeli, estendono ormai la sovranità di Gesù al bimbo nascituro. Ma le cose non si fermano qui.

Il vangelo di Giovanni inizia col versetto: In principio era il Verbo (Logos). Un incipit suggestivo, che prende a modello il primo verso dell’Antico Testamento: In principio Dio creò il cielo e la terra. Col nome di logos s’intende Gesù, e con questa connessione si vuole significare che Cristo era già il figlio di Dio prima dei tempi, prima che nascessero il mondo e gli uomini. Per Giovanni, Cristo è preesistente; far nascere la sua regalità solo col battesimo, o addirittura solo con la risurrezione, sarebbe per Giovanni già una bestemmia. Tant’è che il vangelo di Giovanni ci descrive Gesù come Dio peregrinante sulla terra, che in forma imperiosa tiene discorsi divini e che, persino sulla croce, ancora col suo E’ compiuto tiene salda in pugno la legge dell’agire.

Il vangelo di Giovanni, secondo la dichiarazione dell’autore, fu scritto addirittura per dimostrare la divinità di Gesù (Gv 20:31) Questa intenzione era ancora lontana in Marco. Nel vangelo di Giovanni, Gesù annuncia se stesso, laddove in Marco ha annunciato ancora il regno di Dio. L’incredulo Tommaso, in Giovanni, si rivela infine non troppo incredulo; anticipa infatti fissazioni dogmatiche più tardive quando, finalmente convinto, esclama: Mio Signore e mio Dio! (Gv 20:28). Un messaggio folgorante, vertiginoso anche per questo vangelo, che è il più fantasioso di tutti.

Quanto diverso appare Gesù qui, nel più antico vangelo di Marco, che sembra non sapere ancora nulla di questa divinità, e che Marco ci descrive molto più umano. Egli proibisce l’allocuzione Figlio di Dio agli spiriti impuri che lo chiamano in questo modo (Mc 3:12). Al contrario, Gesù viene spesso indicato come rabbi (Mc 9:5;11:21) e come maestro (in greco didaskalos). Proprio in queste ingenue descrizioni si rispecchia la verità storica, giacché è difficilmente immaginabile che, in tempi successivi, lo avrebbero designato ancora in modo così scarsamente spettacolare.

Nel vangelo di Marco, Gesù non è ancora onnipotente, in modo tale che presto suscitarono scandalo le righe in cui Marco attesta come a Nazaret Gesù non “poteva compiere nessun prodigio” (Mc 6,5). Anche se Marco sembra già voler correggere se stesso, aggiungendo di propria mano il versetto: ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Si può comunque riconoscere ancora agevolmente la frattura che avviene nelle esternazioni. Matteo attenua la rappresentazione di Marco, e parla di non molti miracoli (per tutta questa sezione si veda Deschner, op. cit. p. 41 s.). Una richiesta di segni ulteriori, in altri termini un miracolo particolarmente vistoso, fu respinta da Gesù. E lui avrà ben saputo perché.

In Marco, inoltre, Gesù non è ancora onnisciente. Ad un uomo posseduto da spirito impuro egli rivolge la domanda: Qual è il tuo nome? (Mc 5:9). Oppure, per dar da mangiare ai cinquemila, nella moltiplicazione dei pani, chiede ai suoi discepoli Quanti pani avete? (Mc 6:38;8:5). Un Figlio di Dio dovrebbe pure saperle, queste cose. E così non fa meraviglia che Matteo cancelli semplicemente molte di queste domande di Gesù. Esse non si accordavano con la sua visione teologica. Egli vuole infatti rappresentare Gesù in senso divino, e a questa intenzione dogmatica, anche in altri passi, sacrifica senza circonlocuzioni la verità storica. Non per nulla il vangelo di Matteo divenne il vangelo ufficiale della Chiesa.

E scandaloso fu anche quanto si racconta in Marco, cioè che Gesù rimprovera un ricco che lo chiama buono: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10:18) Qui, Gesù risponde secondo la migliore tradizione rabbinica; ciò nondimeno, Matteo non può naturalmente passarla liscia così, e introduce la sua variante, falsificando il testo assunto da Marco: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo.” (Mt 19:17). Più tardi, di contro, il Gesù di Giovanni ne menerà vanto: “Chi di voi può dimostrare che ho peccato?” (Gv 8:46).

Le idealizzazioni si protrassero fino alla morte di Gesù sulla croce, che in Marco viene descritta come assoluto essere abbandonato da Dio, facendo pregare Gesù con le parole del Salmo 22 “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Il Gesù di Giovanni, al contrario, incede addirittura maestosamente verso la morte. Il Gesù di Marco non perdona Giuda, e nemmeno prega per i suoi carnefici.

Nel vangelo di Marco vi sono molti momenti in cui Gesù proibisce di parlare della propria maestà, di propagare i propri miracoli, in cui sembra voler stendere su tutta la sua opera il velo del mistero. Si è cercato molto di capire perché mai Gesù l’avesse fatto (ammesso che così fosse). La spiegazione più illuminante (seppure vista intanto più criticamente) è ancora quella di William Wrede. Il mistero messianico in Marco doveva, secondo Wrede, colmare la lacuna apertasi tra un’attività veramente non messianica di Gesù e la fede messianica dei primi cristiani.

Sia come sia: evidente resta in ogni caso che, nella saga gesuana, sussisteva ormai la netta tendenza a rimarcare sempre più fortemente la divinità di Gesù, affievolendo sempre più fortemente il suo essere umano. Queste tendenze sono chiaramente riconoscibili ancora negli scritti neotestamentari, sebbene questi partano ormai dall’immagine di Gesù come Messia e, rispettivamente, come Figlio di Dio. La progressiva affermazione della divinità di Gesù fu pressoché inevitabile. La storia delle religioni conosce molti parallelismi di questo genere. Personaggi centrali d’una religione – siano essi il fondatore, o siano discepoli o santoni – vengono rapidamente circonfusi da una ghirlanda fitta di leggende. Perciò assumono particolare rilevanza quelle rappresentazioni che non sottolineano la maestosità, bensì l’umanità del fondatore o dei suoi discepoli. Precisamente là dove Gesù compare in tratti umani, per l’appunto non divini, dove è fallibile, dove si presenta come rabbi e non come figlio di Dio, ebbene, là ci si muove, da una prospettiva storica, su un terreno migliore.

Il Cristianesimo come errore nella storia del mondo: un bilancio interlocutorio

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Alla fine di questa parte della nostra analisi, una cosa dovrebbe risultare assodata. Le Chiese, quali esse siano, si richiamano a torto a questo Gesù di Nazareth, che esse spacciano per Figlio di Dio. La ricerca critica dimostra le tesi tramandate della fede di cattolici e protestanti come non conciliabili, nella loro sostanza, col Gesù della storia. La critica dimostra che la loro formazione è cresciuta nel divenire della storia, ed è sottoposta alle leggi normali di una tradizione, in nessun modo debitrici di qualche rivelazione trascendente. Gesù non fu l’uomo che si credeva che fosse: solo attraverso la fantasia religiosa dei primi credenti egli fu trasformato in quello che poi venne annunciato. In ultima analisi, dunque, il Cristianesimo è privo di fondamento; è un’illusione.

Il Nuovo Testamento si rivela un coacervo friabile e contraddittorio di testimonianze di fede: una pia illusione, coagulatasi nell’epoca tra la prima e la terza generazione di cristiani. Precisamente, le cosiddette Sacre Scritture hanno reso possibile, per la ricerca, la prova della insostenibilità delle dottrine ecclesiastiche. Il principio Sola Scriptura (soltanto la Scrittura) dei protestanti – già sfida rocciosa contro i cattolici della vecchia fede – dimostra che il Protestantesimo odierno è ormai ridotto in camicia. La Scrittura, nel suo nucleo, è ormai diventata indegna di fede. E tale, quanto ai cattolici, era stato da sempre il richiamo ad una Tradizione.

Non serve a nulla che i teologi seguitino ad assicurare che la fede non dovrebbe rendersi dipendente da fatti storici, che ciò contraddice proprio alla fede, e che tutto dipende dalla decisione personale. Perché, di fronte ai fatti, nessuna fede può chiudere gli occhi, qualora non voglia – a lungo andare – rendere ridicola se stessa e i suoi sostenitori. Sarebbe veramente assurdo restare caparbiamente abbarbicati ancora alla forma piatta della Terra, dopo che questa è stata confutata nei fatti.

Chi lo fa, nonostante tutto, non dimostra pienezza di fede, ma semplicemente dabbenaggine. Le conoscenze storiche non hanno naturalmente la stessa intensità propria di quelle naturalistiche. Eppure l’onestà intellettuale esige la confessione che i fondamenti del cristianesimo non sono solamente fragili, ma che non sono mai realmente esistiti. Il Cristianesimo – nella sua globalità, con la sua storia e la sua dogmatica – si rivela per quello che è: un errore nella storia del mondo, un autoinganno gravido di conseguenze, un castello in aria ideologico.

Che le Chiese non possano accettare tutto ciò, è ben comprensibile. Parimenti, ogni seguace d’una religione, ove fosse messo a confronto con simili accuse, le contesterebbe. E’ lecito supporre che anche altre religioni non possiedano legittimazioni sufficienti, qualora fossero interpellate una buona volta con spirito critico. Sennonché a noi, in questo libro, non interessano altre religioni, e nemmeno la propagazione d’un generale ateismo.

Qui ci interessa unicamente il Cristianesimo. E questo è privo di sufficiente legittimazione. In quanto religione che si presenta e opera nella storia, esso non ha superato il test del fondamento storico. Una relazione basata nell’opera di Gesù di Nazaret e fondata sulla dottrina chiesastica diffusa su di lui, non esiste. Al contrario, si può evidenziare molto meglio che l’attività di Gesù, secondo le sue intenzioni e i suoi modi di vedere, è stata ed è addirittura spesso diametralmente opposta all’insegnamento della Chiesa. I prossimi capitoli lo motiveranno in maniera più approfondita.

Che i fondamenti del Cristianesimo siano a tal punto problematici, ha sconcertato e per molti versi anche costernato i teologi e i rappresentanti di un approccio scientifico alla teologia. A giustificazione delle Chiese, si può magari ritenere che esse non potevano sapere come le loro dottrine basilari non fossero rivelazioni divine, bensì il risultato di meccanismi interni alla storia ecclesiastica. Attraverso i secoli, le Chiese hanno agito sempre in buona fede. Solo l’Illuminismo e i suoi discendenti della ricerca storica sui testi neotestamentari hanno fatto crollare il castello di carta dei dogmi; richiamarsi oggi ancora all’ignoranza, ormai non può funzionare più. Al giorno d’oggi, la tattica di non prendere sul serio, o addirittura di sottacere le conoscenze scientifiche, sta a indicare quantomeno il pericolo d’un autoinganno. E’ tuttavia palese che non solo molti credenti, ma intere comunità ecclesiastiche seguono appunto questa politica dello struzzo.

Prescindendo dagli ostacoli che qui si frappongono ad un giudizio chiaro ed inequivocabile, ed inoltre dalla forza d’inerzia sociologicamente spiegabile, che è immanente tanto nelle grandi organizzazioni come nelle Chiese, anche lo sguardo retrospettivo nella storia del pensiero non potrebbe non rivelare un disastro. Per la verità, immaginiamocelo una buona volta in questi termini: il pensiero occidentale, i presupposti ideologici e statali, la fede personale e l’ordinamento della società (a partire almeno dall’imperatore Costantino del IV secolo) sono influenzati e determinati tutti quanti dal cristianesimo. Ove il fondamento cristiano si dimostrasse un’illusione, quasi duemila anni di storia del mondo non si rivelerebbero allora come illusione? Non bastava che le Chiese fossero nel torto; a posteriori, interi paradigmi e premesse della storia mondiale dovrebbero rivelarsi come pure e semplici chimere.

Si penserà sicuramente, di primo acchito, ai perseguitati, ai torturati e massacrati dalla Chiesa, agli ebrei assassinati nel nome d’una verità che tale non era. Da quando le Chiese non sono più in grado di impedirne la conoscenza, i delitti perpetrati dal cristianesimo sono stati descritti già in molti libri. Non ci sarà qui, pertanto, nessun nuovo elenco. Rinviamo comunque alla Kriminalgeschichte des Christentums//Storia criminale del Cristianesimo, tr.it. Ariele, 2005 e seg.// di Karlheinz Deschner, giunta ormai al nono volume: una storia della Chiesa vista, per una volta, dalla parte delle vittime.

Ma non furono solo i non cristiani e gli ebrei a diventare vittime di una Chiesa autocratica, trionfante nel suo assolutismo. Furono anche i molti milioni di cristiani, ove si consideri spassionatamente la quasi completa estraneità del Gesù storico con le dottrine della Chiesa, a soccombere ai sogni tramandati del potere ecclesiastico. Molti di loro furono sinceramente persuasi della verità della loro fede. Da qui i patimenti dei martiri cristiani … sempre esagerati oltremodo da parte della Chiesa, eppure accertati talora anche sul piano storico. Anch’essi vittime d’una menzogna esistenziale, d’un autoinganno: per una idea fissa affrontarono la morte, con gioia più o meno intensa.

I grandi fondatori di Ordini e grandi teologi del Medioevo, primo fra tutti forse Francesco d’Assisi, la figura quantomeno più popolare. Il quale mostra le stigmate, presunte ferite del Risorto, diventando, per la sua candida devozione, un modello per milioni di fedeli. Anche lui, alla fin fine, una vittima dell’inganno, dato che la divinità di Gesù, asserita dalla sua Chiesa, altro non era che entusiasmo religioso, e nulla più. Integrità e sincerità individuale, fervore di fede, persino abnegazione e amore del prossimo incuranti della propria persona, non sono la conferma della giustezza d’una religione o d’una visione del mondo. Persone sincere, infatti, si trovano in tutte le religioni e concezioni del mondo; ed è del tutto indifferente, allora, ciò che si creda o non si creda.

Che cosa significa l’autoinganno rispetto alle spaccature nell’ambito della stessa cristianità? Molte scissioni mostrano compassione per i perseguitati della Chiesa, che provenivano dalle loro stesse file: eretici, spiritualisti, scismatici. Però le differenze dottrinali sono in fondo totalmente trascurabili. Non ha importanza di che colore siano le cabine, quando la nave non può galleggiare e andrà a picco. Ma non sono stati solo gli eretici a credere invano, a fare professione di fede; anche i riformatori protestanti di ogni tendenza, gli ortodossi in Roma e altrove; anch’essi colpiti dal terremoto, quando il terreno, su cui ritengono di stare ben saldi, implode d’un tratto su se stesso. Uomini come Lutero, Zwingli o Calvino, suonarono a distesa le campane non per iniziare una vera riforma della Chiesa e della fede, come essi credevano, ma unicamente per fare un nuovo giro sulla giostra della superstizione cristiana.

I grandi problemi teologici del Cristianesimo, su cui si sono arrovellate migliaia delle menti più illuminate, che riempirono intere biblioteche nel Medioevo, che per secoli decisero le biografie di tante generazioni di eruditi, alla fine si sono rivelati, ad un esame più attento, problemi apparenti e fittizi. Che importanza può avere se un errore si limita solo alla scrittura, o se, per giunta, coinvolge anche la Tradizione?

Un tale orientamento fallace, protrattosi per quasi due millenni, non può essere indifferente per nessuno, neanche per coloro che sono stati sempre convinti di come, nel Cristianesimo, non si fosse mai trattato d’un fenomeno da prendere sul serio. Un soddisfatto fregarsi le mani per il manifestarsi di quelle illusioni non è ancora annunciato. Troppe vittime sono state travolte dagli zoccoli dei cavalli crociati, o sotto i cingoli dei carri armati cristiani; troppe risorse intellettuali sono state inghiottite dalla versione occidentale dell’aberrazione religiosa.

Ma ciò può mai esistere? Può un’intera epoca della storia mondiale essersi sbagliata a tal punto? Si rimane allibiti, esterrefatti dinanzi al bilancio conclusivo dell’èra cristiana. Eppure l’errore non è solo accaduto, ma è addirittura la regola. Perché, prima del paradigma cristiano, altri paradigmi avevano già tratto in inganno in ugual misura. Non c’è dubbio, i sistemi di fede religiosi sono molto più durevoli di tutte le costruzioni politiche. Essi sopravvivono a dinastie, dittature e sistemi sociali. Anch’essi, tuttavia, non sono immortali.

Gli antichi dèi venerati da Greci e Romani non hanno oggi più alcuna importanza per la fede; altrettanto non l’hanno le divinità germaniche o indiane. Eppure anch’esse – chi vorrebbe oggi metterlo in dubbio? – furono illusioni e forme, più o meno elaborate, di autoinganno. Non c’è un lettore che consideri i sistemi religiosi dei Maja, o gli dèi dell’olimpo germanico, qualcos’altro se non una variopinta espressione di concezioni trascorse e superate, interessanti, nel migliore dei casi, per una esposizione al museo. Chi volesse oggi seriamente ascrivere a codeste rappresentazioni un significato per noi, chi addirittura vi credesse ancora, non verrebbe più preso sul serio, a buon diritto.

Eppure anche quelle rappresentazioni hanno determinato la mentalità di intere epoche e culture. Non si dovrebbe pensare che le religioni attuali in avvenire verranno giudicate diversamente dai loro già estinti antenati. Sono possenti paradigmi religiosi, che vengono e vanno. Persino i credenti sono disposti a riconoscerlo, in ogni caso quando si tratti di religioni straniere (solo la propria rimane, manco a dirlo, eterna). Il Cristianesimo mantiene ancora il proprio valore, più di tutto, in virtù della sua più tarda nascita. Anche a questo riguardo, tuttavia vale sicuramente ciò che Thomas Jefferson formulò in questi termini (citato da Dawkins, Der Gotteswahn, S. 136/ tr.it. L’illusione di Dio, p. 100):

« Giorno verrà in cui si considererà la nascita mistica di Gesù dal grembo d’una vergine, fecondato dall’Essere Supremo, alla stregua della mitica nascita di Minerva dalla testa di Giove. »