Utente:Monozigote/sandbox13
Il Grande Vecchio se ne va
modificaIl Grande Vecchio se ne sta seduto nell’ultimo sole autunnale, che quasi non dà più calore. Siede un po’ defilato dall’entrata principale, che porta al salone d’ingresso, senza il rumore che viene dalle cucine, e senza poter essere osservato dall’edificio. E’ il suo posto preferito, dove si fa portare quasi ogni giorno, per quanto il tempo lo permetta e si trovi un inserviente disposto a spingerlo fin là. Non ha paura di essere dimenticato là, sebbene questo sia accaduto abbastanza spesso. I timori in proposito, che i giovani infermieri fingono di avere, non sono i suoi. Quasi quasi egli desidera persino questa trascuratezza, che per breve tempo gli dà qualche scampo dalla custodia a cui si è già dovuto rassegnare molti anni prima.
Lui non si trova qui del tutto volontariamente, e tuttavia non prova alcun rammarico. Avverte qualcosa della sazietà di vivere di cui raccontano le antiche Scritture. Ora, finalmente, comprende che cosa esse intendessero con ciò. Ha dietro di sé la sua vita, che lo ha abbondantemente ricoperto di doni. Ma il suo tempo è trascorso, la vita fuori procede senza di lui, e non gli resta che il ricordo. Eppure questo è una proprietà preziosa, molto più importante di quanto possano comprendere i giovani. Egli la dispiega davanti a sé come una grande carta che egli studia e sulla quale segue col dito le stazioni della sua esistenza. Per fare questo, non ha bisogno di nessuno, per cui egli se ne sta perlopiù solo soletto. In tutti i modi, sono rimasti solo in pochi coloro ai quali egli potrebbe ancora comunicare qualcosa. Essendo stato dato per morto già da molto tempo, gli sembra che la morte si sia dimenticata di lui.
Una vita lunga e piena, una vita divina, è alle sue spalle. Nella sua remota giovinezza, da umili condizioni era riuscito a farsi una posizione; i suoi anni di apprendistato e di lavoro li aveva trascorsi come “dio della montagna” di un popolo da gran tempo dimenticato ai bordi d’un deserto che, oggi come allora, non ha da offrire nient’altro che privazioni e desolazione: scarne feste di culto, adoratori di dubbia fama, miseri regali di beduini, sia pure fatti col cuore. Molti altri dèi non ce l’avevano fatta a spiccare il grande balzo, finendo nell’insignificanza.
Col loro esempio sotto gli occhi, aveva impiegato lo slancio dei suoi giovani anni, con la scorta d’una tribù di seminomadi, per tentare il salto nella Palestina. Era pur sempre qualche cosa, sebbene non fosse la prima scelta. Ma le grandi regioni fertili della valle del Nilo e della Mesopotamia gli erano rimaste precluse: quelle divinità sorvegliavano gelosamente il proprio retaggio, mostrandosi riservate e inattaccabili per gli intrusi. Per la piccola zona verde, estesa nelle regioni ai margini di quei grandi imperi, nessuna di loro sembrava interessarsi più di tanto. Laggiù, tuttavia, lui finì per mettere radici. Seguirono secoli di progressiva edificazione. Anche qui non fu solo. Dovette difendersi da una quantità di dèi cultuali, di costumi tribali e riti di fecondità, imparando però anche molto da loro. Con l’andar del tempo, aveva raggiunto laggiù un certo prestigio ed una certa agiatezza.
Il suo popolo era piccolo e irrilevante, e divenne presto un trastullo delle Grandi Potenze che si alternavano nell’egemonia. Però esse si erano ficcate in testa di venerare soltanto lui. E pensare che lui non gliel’aveva nemmeno suggerito, anzi, gli sembrò all’inizio addirittura penoso, imbarazzante nei confronti con le altre divinità. Solo molto più tardi si accorse che questo fu forse il passo decisivo per distinguersi e profilarsi nel mondo delle Divinità. Così egli divenne qualcosa di speciale, anche se il suo popolo non poté scrollarsi di dosso il dominio straniero.
Carriera di un Dio – ultima parte (in luogo d’una postfazione) Lui, intanto, era pur sempre approdato ad Alessandria, Atene, Corinto e persino a Roma, dove il suo popolo poté costituire importanti comunità della diaspora. I templi e le immagini di culto degli dèi romani ed ellenistici l’avevano molto impressionato; gli sarebbe piaciuto diventare lui stesso uno di loro, ma il suo popolo non l’avrebbe mai permesso. E mai nella vita avrebbe pensato di potere un giorno superare in grandezza gli dèi dell’Impero mondiale dei Romani.
Eppure, che egli dovesse riuscire nell’impresa, lo dovette non tanto a se stesso, ma piuttosto all’opera d’uno strano predicatore itinerante di Galilea. E più ancora ne fu debitore al prestigio che quell’uomo si guadagnò presto tra i propri seguaci. Infatti, non ci si accontentò di titoli come predicatore, rabbi o profeta, facendo di lui, subito dopo la sua morte, il Messia, anzi suo Figlio, addirittura. Fino a quel momento, non aveva udito nulla di lui, e naturalmente era assurdo che quell’uomo godesse d’un tratto di tanta considerazione. In quanto unico Dio, quale il suo popolo continuava a venerarlo, voleva elevare dura protesta contro l’abuso, ma si avvide ben presto che – con la popolarità del suo presunto figlio – anche il proprio prestigio andava aumentando in misura straordinaria.
Adorando suo figlio, le masse adoravano lui medesimo. E, con l’aiuto del Figlio, egli poteva realmente oltrepassare la limitazione al popolo ereditato, estendendo la sua popolarità anche sui territori pagani. D’un tratto, gli fu spalancato l’Impero Romano nella sua interezza. Opportunità allettanti si spalancavano. Quale Dio non si sarebbe arreso, a questo punto? Allora si adattò al suo destino, facendo posto accanto a sé al predicatore che sulle prime sorrise imbarazzato. E non se ne sarebbe mai pentito, giacché ora la via era spianata per diventare un Dio mondiale. Ormai prendeva dimora nelle grandi città in cui, in precedenza, era stato solo un turista divino.
Anche quando vi si aggiunse Maria, la madre del predicatore, adorata anch’essa nella stessa maniera, il vecchio Dio l’accolse, salutandola addirittura con entusiasmo. Perché con lei, finalmente, essi furono davvero una Sacra Famiglia. L’effetto psicologico di questa costellazione sui credenti fu straordinario. Ora si poteva veramente pensare di essere gli eredi degli antichi dèi greci e romani. Un programma migliore c’era già e, diversamente da molte delle religioni istituzionali, ci si rivolgeva alle semplici masse popolari. E presto, attraverso la massa degli schiavi, si sarebbe arrivati anche ai padroni. Non si era sbagliato; aveva fatto bene i suoi calcoli.
Ma che ora, con lo Spirito Santo, una terza persona dovesse ancora trovare alloggio nel pantheon cristiano, equiparata per giunta nella sua maestà a lui medesimo, collocandosi più in alto di Maria, ecco, di questo il vecchio Dio non riesce ancora a capacitarsi. A che cosa doveva servire? E che cosa avrebbe prodotto? Insomma: chi doveva essere costui? Una Shekhinah cristianizzata? Un ente stranamente privo di concretezza, al pari d’un vicino che assai di rado capita di incrociare, gli venne messo accanto qualcuno con cui non si può combinare un bel nulla. Per secoli, nei libri dei teologi, egli ha tentato di afferrare ciò che costoro possano avere escogitato in proposito. Ma sembrava che i teologi stessi non lo sapessero bene, preferendo occuparsi di Lui e del suo presunto Figlio. Ma che altro c’era da fare… i Concili avevano ormai deciso tutto, in qualche maniera bisognava accordarsi, e così Dio si lasciò fare anche questa. Lui, Dio, si è sempre reso conto di quanto fosse debitore ai suoi fedeli. Eppure, mentre riusciva a trovare un accordo col Predicatore, provando addirittura una certa simpatia per la madre di lui, Maria, ebbene, di questo Spirito (Santo che fosse, o meno), lui non ha mai saputo che farsene.
Ma tant’è, ormai tutto andava a gonfie vele. Dappertutto, nei confini dell’Impero, le chiese spuntavano dal terreno come funghi, e talune raggiunsero presto la grandezza dei templi dei suoi predecessori, i quali ancora storcevano il naso. Tant’è, i loro giorni erano contati. I vecchi dèi levavano alti lamenti sull’infedeltà della gente, invocando la fede avita e la tradizione. Ma non servì a nulla. Appena agguantato il potere, furono confinati nell’ospizio per i vecchi. Da lungo tempo sono morti, costoro. Che anche gli Dèi debbano morire, gli dèi stessi l’hanno sempre saputo. Furono sempre e solamente gli uomini a volerli vedere immortali. Probabilmente perché gli umani stessi volevano essere immortali.
Ora, appena conquistato il potere sull’Impero Romano ormai decadente, si era diventati così potenti che, una volta crollato quell’Impero, dopo più d’un millennio, si poteva continuare a sopravvivere anche senza di esso. Si sopravvisse persino agli Imperi dei distruttori di imperi. Fintanto che si deteneva il potere sulle anime dei popoli, era indifferente chi o che cosa fosse a governare. Certamente, egemonia sulle anime significava pur sempre anche egemonia politica: anime cristiane voleva dire semplicemente regni cristiani. E, mille anni dopo le origini, si era raggiunta un’altezza da cui si poteva addirittura accampare diritti all’egemonia sul mondo. Eppure a lui, personalmente, di ciò non gli era interessato granché; erano più che altro le idee dei suoi luogotenenti sulla terra, che qui si rendevano indipendenti, ma che lui non voleva neppure frenare.
Per la verità, il vegliardo aveva dietro di sé una gioventù selvaggia e sanguinosa, avendo poi sempre bramato prestigio e potere. Ma che strano! Giunto all’acme del potere, non si sentiva più interessato ad esso. Ora, si sentiva piuttosto entusiasmato per le grandi chiese e le prime cattedrali, diventando un grande amico dell’arte; e si rammaricava molto del fatto che tante testimonianze dei suoi predecessori fossero state distrutte dai suoi fedeli fanatizzati … per la sua “maggior gloria”, si diceva, checché si intendesse con quell’espressione. Ora trascorreva anni e anni nei monasteri, studiava gli antichi, nella misura in cui costoro erano scampati ai roghi cristiani, e si mise alla prova, con discreto successo, perfino nella miniatura dei codici. Furono, quelli, i suoi anni più belli. Di quelle immense opere teologiche ne lesse pochine, anche se la loro epoca d’oro stava per trionfare. Se inizialmente era ancora bramoso di apprendere qualcosa su se stesso, si accorse presto che quei signori – rappresentanti della Sapienza divina – alla fin fine non sapevano, semplicemente, di che cosa stessero parlando. D’altra parte, da dove avrebbero mai potuto saperlo? In principio, Dio si era ancora divertito del loro troppo vanaglorioso brancolare nel buio, sollazzandosi delle loro ardite definizioni di ampollose assurdità, dell’analisi dei suoi attributi, del suo presunto ruolo nella creazione e nella redenzione. Ma sì, tutti risibili tentativi di abbracciare l’universo dall’ottica di pesciolini rossi chiusi nel vaso di vetro. Naturalmente, egli avrebbe potuto dar loro una mano, indirizzando quei ciechi teologi almeno sul giusto percorso. Ma d’altro canto: codesta Trinità era stata forse un’idea sua? Di più, era stato forse lui ad architettare la faccenda della morte in croce del suo presunto figlio? No, no, toccava ai teologi di sbrogliare la matassa, loro dovevano venirne a capo. Non era un problema suo, questo. Nel suo ruolo di Dio, lui se l’era cavata benissimo anche senza religione.
Allo stesso modo, lui non si è curato granché neppure della giusta dottrina. Il caos delle interpretazioni sbagliate gli era sempre sembrato più fascinoso del rigore dimostrativo delle certezze matematiche. Lui non era un ortodosso. E quei prepotenti di Tommaso, Lutero o Calvino, che vogliono sempre aver ragione, e che – in incognito – lui aveva personalmente ascoltato nei loro sermoni, gli erano cordialmente antipatici. Uno di quei bellimbusti lo aveva coperto di ridicolo, sputtanandolo quando non aveva saputo interpretare rettamente una “sentenza” del celebre teologo Pietro Lombardo. Il vegliardo aveva perso sempre di più l’interesse per la teologia, e non riusciva più a divertirsi per ciò che i grandi teologi spacciavano come verità.
Repentinamente alzò lo sguardo e tese l’orecchio. All’interno si preparavano i tavoli. Il sole era sparito dall’orizzonte e l’aria s’era fatta quasi fredda. Iddio sorrise. Si erano dimenticati di lui. Di lì a poco sarebbe giunto un infermiere, scusandosi e scaricandolo ad altri. Eppure non gli dispiaceva affatto di starsene seduto qui ancora un po’. Molto prima dei suoi fedeli, il vecchio Dio ha compreso che i vecchi tempi volgono al termine e non si lasciano richiamare in vita. Ad un’età di massima fioritura doveva seguire necessariamente una decadenza. Ma questa volta era tutto diverso. Nessun altro, nessun Dio più giovane appariva all’orizzonte: la messinscena divina, nel suo complesso, sembrava volgere al termine. Lui era stato uno dei primi a leggere le opere di Copernico, di Keplero e di Galileo, riconoscendone la forza esplosiva.
Benché avesse intuito che quelle opere annunciavano anche il suo stesso tramonto, e mentre i suoi luogotenenti organizzavano perciò ancora danze acrobatiche sulle uova, lui le divorò avidamente, osservando affascinato le lune di Giove. Vide da lontano Giordano Bruno ardere sul rogo, e gli si strappò il cuore. A bordo della “Santa Maria” aveva scoperto l’America, a fianco di Magellano aveva circumnavigato il globo terracqueo: un mondo molto più vasto e più bello di quanto egli avesse mai potuto pensare nella sua giovinezza. E si era reso conto che il suo Impero cristiano non si estendeva affatto fino ai confini del mondo, ma che, a dispetto della sua vastità, era modesto: più pretesa che realtà. Ragion per cui i suoi luogotenenti sulla terra erano incappati in gravi angustie interpretative. Quelle infinità, evocate con tanta passione da Giordano Bruno, costoro non riuscivano nemmeno ad immaginarle.
Sentiva il sorgere d’una nuova epoca come l’alba d‘una nuova giornata. Solo gente abbagliata dall’errore poteva tentare di trattenerla. E lui non era un individuo abbagliato. Nella nuova epoca, tuttavia, non ci sarebbe stato più un posto per lui. Certo, lo avrebbero definito diversamente, l’avrebbero spiritualizzato e, alla fin fine, ce l’avrebbero fatta anche senza di lui. La missione della sua esistenza era compiuta, ed ora iniziava anche per lui l’atto finale. Adesso, come i sacerdoti dei suoi predecessori greci e romani, anche i suoi sacerdoti lanciavano appelli a favore della tradizione da conservare, evocavano la fede dei padri e deploravano l’infedeltà degli umani. E così come, in passato, tutto sarebbe stato vano: anche questa volta ciò non avrebbe cambiato nulla. Nessuno vedeva tutto ciò più chiaramente di lui. Molto tempo prima che Nietzsche gridasse al mondo il suo Dio è morto, lui sapeva per chi suonava la campana. Bisogna saper bene, quando scocca l’ora di abdicare. Se si fallisce il momento giusto, ciò non può che dare adito a situazioni penose .
Per questo lui è qui, ora. Inopportuni i tentativi dei suoi fedeli di
voler ancora girare all’indietro la ruota della storia. Commovente
la cesta dei regali che, nelle feste di capodanno, arriva qui puntualmente
da Roma, dalla sua comunità più grande e più fedele. Ormai
tutto è finito. Come spesse volte un malato grave conosce benissimo
la propria situazione, mentre parenti e amici circostanti si sforzano
ancora di impetrare una pronta guarigione, così anche lui lo sa: indietro
non si torna. E’ tutto nell’ordine delle cose.