Storia della letteratura italiana/Giovan Battista Marino

Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Giovan Battista Marino è tra i principali rappresentanti del concettismo barocco, oltre che una delle figure più significative della lettatura italiana: animato da «un'aggressiva volontà di godimento e di successo», fu autore di opere disimpegnate, non mascherate dietro ideali, e trasmise ai poeti successivi un vasto repertorio di immagini, situazioni e miti.[1]

La vita

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Frans Pourbus il Giovane, Ritratto di Giovanni Battista Marino, c. 1621. Detroit Institute of Arts

Giovan Battista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Dopo essere stato cacciato di casa dal padre, visse sotto la protezione di Giambattista Manso, amico di Torquato Tasso e suo biografo. In seguito fu segretario di vari signori, tra cui il principe di Conca. Incarcerato una prima volta nel 1598 per aver rapito una ragazza, subì un secondo arresto nel 1600 con l'accusa di avere falsificato dei documenti per salvare un amico dalla pena capitale. Tornato libero, compì un viaggio in Italia, e alla fine si stabilì a Roma dove, grazie alla pubblicazione delle Rime a Venezia nel 1602, entrò al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini,[2] nipote di papa Clemente VIII. Nel 1608 al seguito del prelato raggiunse Torino, dove si guadagnò la protezione di Carlo Emanuele I, per il quale compose il poemetto Il Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuele duca di Savoia. Il panegirico gli valse la nomina a cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, di cui andò sempre fiero (tanto da essere noto anche come il «cavalier Marino»). In quegli anni esplose anche la rivalità con il poeta di corte, il genovese Gaspare Múrtola. L'astio tra i due passò dallo scambio di versi satirici alla violenza fisica, quando Múrtola arrivò ad attentare alla vita dell'odiato rivale. Marino rispose al gesto con la poesia, componendo i sonetti della Murtoleide.[3] Dopo il 1610, tuttavia, i rapporti con la corte sabauda andarono via via deteriorandosi. Marino si trasferì così a Parigi nel 1615, sotto la protezione di Maria de' Medici e Luigi XIII. In Francia condusse una vita fastosa e pubblicò La Sampogna (1620), La Galeria (1619) e soprattutto l'Adone, il suo poema più famoso, dedicato al re Luigi XIII.[4] Tornò quindi a Roma e infine a Napoli, dove fu osannato dalla nobiltà e dalle accademie locali. Amareggiato per le critiche rivolte all'Adone (che per altro ne aumentarono la diffusione), morì nella città partenopea il 26 marzo 1625.[2]

Lo stile

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Marino compose molte opere. Tra gli scritti in prosa si ricordano le tre Dicerie sacre (1614) e un ricco epistolario. Ci sono poi molte raccolte di liriche (la Lira, divisa in Amori, Lodi, Lagrime, Devozioni, Capricci; la Galeria, divisa in Pitture e Sculture; la Sampogna), oltre a epitalami, poemetti encomiastici, il poema La strage degli Innocenti e l'Adone, la sua opera più celebre.[5]

In vita, Marino godette di grandissima fama. Il suo merito fu di rompere completamente con il gusto rinascimentale per creare una tradizione che, attraverso Tasso e Guarini, si ricollegava ai poeti latini dell'età imperiale, venendo incontro alle richieste del pubblico a cui si rivolgeva. Primo modello di Marino è infatti Ovidio, che insieme ad altri poeti latini rappresentava un ricco repertorio di motivi, favole, espressioni preziose e rare da cui attingere per comporre le sue opere.[6] I classici per Marino non sono quindi un insieme di forme e modelli da imitare, ma sono una fonte da cui trarre situazioni e figure imprevedibili, mescolando immagini note e meno note prese dal mito e dalla letteratura.[7] Oltre che dai classici, Marino attingeva poi anche dagli autori moderni, sia italiani sia stranieri. Per descrivere questa operazione il poeta dice di «leggere con il rampino», cioè di raccogliere materiali dalle varie opere letterarie per manipolarli e ricavarne nuovi e sorprendenti significati attraverso il processo della «variazione ingegnosa». Da questo emergono quindi due aspetti del lavoro di Marino: da un lato la libertà di manovra che il poeta rivendica per sé e per il proprio ingegno, dall'altro il carattere eminentemente letterario dell'operazione poetica.[8]

Nelle pagine di Marino trova posto l'interà realtà, descritta nei suoi svariati aspetti grazie alla sua sicurezza di gusto e al patrimonio inventivo e linguistico di cui disponeva.[6] Dimostra in particolare una certa preferenza per temi come l'amore, la voluttà, la donna e tutto ciò che è splendente e lussuoso. Ogni immagine e figura viene svuotata di ogni carattere etico e variata fino allo strenuo attraverso i metodi dell'amplificatio e della replicatio: l'argomento viene amplificato mediante aggiunte, digressioni ed enumerazioni, diluito e variato con luci e colori, effetti musicali, giochi retorici, preziose descrizioni.[7][9] Come scrive Ferroni, «la poesia del Marino è invadente, avvolgente, sempre pronta a eccedere, a far proliferare dalla realtà una quantità infinita di figure, di aspetti, di segni».[4] Questo viene raggiunto attraverso un raffinato gioco di concetti, che porta a sorprendenti composizioni di figure.

Marino innovò inoltre la tradizione metrica, continuando a utilizzare il sonetto ma ricorrendo anche alle forme aperte che si erano diffuse nella seconda metà del Cinquecento: il madrigale, le alternanze libere di endecasillabi e settenari, le stanze di canzone variati nei modi dell'ode (quindi sciolte dalla struttura petrarchesca), le strofette ronsardiane. Si afferma così – con Tasso, Marino e i lirici del Seicento – una nuova tradizione metrica e di linguaggio che avrà larga fortuna, proseguirà per tutto il Settecento e arriverà fino alle soglie del Romanticismo.[10]

L'Adone

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Frontespizio di un'edizione del 1623 dell'Adone

L'opera in cui Marino sprigionò tutto il suo ingegno poetico è senza dubbio l'Adone, a cui lavorò fino alla pubblicazione nel 1623, aggiungendo e innestando materiali diversi.[7] Il poema si compone di venti canti in ottave, e con i suoi oltre 40 000 versi è una delle opere più ampie e complesse della letteratura italiana. La trama, estremamente semplice, ruota attorno all'amore di Venere per il giovane Adone, la cui storia era stata narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.

A partire da questa vicenda esile e schematica viene costruito l'intero poema, che invece di elencare gli avvenimenti si sviluppa procedendo per analogie (Ferroni parla di «negazione della forma romanzesca»[7]). L'orizzonte dell'opera è erotico-sensuale e presenta un continuo avvicendarsi di immagini, luoghi, segnali mitici, che descrivono i diversi aspetti della realtà: trovano così posto, gli uni accando agli altri, temi religiosi e mistici, digressioni scientifiche, riferimenti politici, descrizioni di oggetti (abiti, gioielli, congegni meccanici etc.). L'esperienza è ridotta a sensazione, la realtà esiste solo se può essere goduta con i sensi e la letteratura è la sapiente evocazione di un'ampia gamma di sensazioni.[11]

La stessa storia di Adone, che alla fine si trasforma in fiore, è emblema della possibilità dell'uomo di sfuggire all'annullamento dovuto allo scorrere del tempo per rifugiarsi nella letteratura e nelle sue immagini. D'altra parte, l'insistenza nella descrizione di ogni dettaglio e la ricerca di immagini e suoni gradevoli attraverso metafore e giochi di parole arguti possono essere interpretate come l'invito a stringere con maggiore voluttà le cose, sapendo che il tempo le strapperà via.[11]

Sebbene la ricchezza di dettagli alla fine lo renda cupo e ossessivo, l'Adone ha rappresentato un punto di riferimento obbligato per la poesia elegante del Seicento, e i suoi versi melodiosi influenzeranno lo sviluppo del melodramma e in particolare la produzione di Metastasio.[1] L'opera, d'altronde, sarà anche oggetto di critiche e nell'Ottocento verrà additata come sintomo della corruzione morale introdotta dalla dominazione spagnola e dalla Controriforma.[11]

  1. 1,0 1,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 409.
  2. 2,0 2,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1972, p. 396.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 406.
  4. 4,0 4,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 407.
  5. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1972, pp. 396-397.
  6. 6,0 6,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1972, p. 397.
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 408.
  8. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Il Barocco, l'Arcadia e l'Illuminismo, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, p. 15..
  9. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1972, p. 398.
  10. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1972, p. 399.
  11. 11,0 11,1 11,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Il Barocco, l'Arcadia e l'Illuminismo, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, p. 16.

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