Il Nome di Dio nell'Ebraismo/I settanta volti di Dio: differenze tra le versioni

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Possiamo inoltre trovare qualche suggerimento in questa direzione nelle meditazioni di Rosenzweig sulla costanza sostanziale desiderata che non si trova da nessuna parte se non nei nomi (1999, 47-53).</ref> Kripke sostiene che un nome non è semplicemente un'entità linguistica, non soltanto una raccolta casuale di lettere o fonemi che sono attaccati arbitrariamente agli oggetti — invece, un nome designa un riferimento e come tale pone il soggetto e l'oggetto in relazione tra loro. Un nome quindi postula il soggetto tanto quanto l'oggetto, poiché deve essere collocato in termini di un riferitore specifico oltre che di un referente specifico. Per questo motivo un nome, anche se storicamente falso perché quello che stiamo usando non è quello con cui la persona era conosciuta, non può comunque essere errato perché riesce nella sua funzione di localizzarci/indicarci il referente. Kripke fa l'esempio di Socrate, di cui la forma scritta o pronunciata sarebbe completamente estranea alla figura storica per la quale la usiamo. Eppure il nome Socrate, per noi, indica quella figura. Quindi, un nome è intrinsecamente localizzato nel contesto del suo utilizzo e forma un punto di contatto tra chi parla e di chi si parla.<ref>Vale la pena notare che un dato nome storico sarebbe in realtà semplicemente una qualità dell'oggetto, e potrebbe effettivamente essere un segno arbitrario se nessuno utilizzasse effettivamente quel nome in riferimento ad esso. Quindi, 2 + 2 = 4 è necessariamente vero, nonostante il fatto che qualcun altro possa intendere il segno 4 a significare il numero 7, perché non sono i segni stessi che vengono discussi ma gli oggetti in relazione ai quali quei segni ci collocano, noi che ora li utilizziamo. Questo, aggiungerei per chiarezza, è il punto in cui i segni diventano nomi: quando sono usati per formare un legame tra un soggetto e un oggetto. Senza questo impiego nell'azione del nominare, un semplice segno è sempre arbitrario.</ref>
 
Il nome, quindi, nel localizzare l'oggetto per il soggetto, è essenzialmente una metafora del fenomeno soggettivo della presenza, qualcosa che deve essere sempre particolare. La presenza deve essere sempre presente-a e non può essere rimossa dal soggetto. Il nome porta l'oggetto nel mondo del soggetto e presenta un volto particolare di quell'oggetto.
 
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Possiamo concludere che mentre nomi diversi possono essere usati per la stessa essenza (definendo così relazioni diverse), un nome non può riferirsi a più di un'essenza — sebbene lo stesso ''segno'' possa significare oggetti diversi per soggetti diversi, ogni ''nome'' proprio definisce un singolo oggetto per il soggetto. Il Tetragramma come nome quindi non può essere un significante semplicemente arbitrario. Il suo uso nei testi deve sempre puntare alla stessa essenza, e quindi tutti gli "esseri" a cui il Tetragramma è appeso sono articolazioni di Dio, incluse nell'essenza divina. Ciò suggerisce che non siamo corretti nel vedere il Tetragramma come un suffisso; piuttosto, i nomi angelici prima di esso sono prefissi. Questi nomi prefissati prima del Tetragramma offrono una sorta di particolarizzazione, una qualità specifica di Dio.<ref>Grözinger ha sottolineato che Ireneo di Lione sostene che gli eretici fraintendono i molti nomi di Dio come entità separate. Qualsiasi "figura angelica non è altro che la funzione espressa nel suo nome, un'ipostasi di questa funzione" (1987, 56). È interessante notare che anche alcune affermazioni di Eunomio lo predicono: "È chiaro che alla Divinità vengono dati nomi con varie connotazioni in accordo con la varietà delle sue attività, denominate in un modo che possiamo capire" (Sala 2007, 127); "Qualsiasi nome, scoperto dalla costumanza umana o trasmesso dalla Scrittura è, diciamo, esplicativo di ciò che scopriamo attraverso il pensiero riguardo a ciò che sta intorno alla natura divina, ma non contiene il significato della natura stessa" (Krivocheine 1977, 88). Cfr. anche Ann Conway-ones (2011).</ref> Questo è più evidente in Akatriel, il cui nome indica la corona. Il nome Akatriel YHWH significherebbe quindi, Corona di Dio. Similmente, Zoharriel YHWH significherebbe la luminosità di Dio — o Dio percepito come luminosità. Così, mentre molti hanno visto la proliferazione degli angeli durante questo periodo della storia ebraica come un corollario del Dio sempre più trascendente, in questa interpretazione gli strati angelici sono piuttosto una postulazione di entità ''linguistiche'', nomi, come livello epistemico tra l'essenza divina e l'altro umano, in modo tale che ciascuno sia protetto, consentendo alla capacità del soggetto e dell'oggetto di incontrarsi epistemicamente. Usare un nome particolare di Dio significa far emergere quell'aspetto della natura di Dio, mentre il tutto rimane nascosto.
 
Secondo questa teoria, quindi, tutti i poteri angelici sono semplicemente nomi di Dio — punti nominali di contatto soggettivo con il Divino. Troviamo un interessante brano corroborante in ''3 Enoch'' dove Metatron "si erge ed esegue ogni parola e ogni espressione che esce dalla bocca del Santo" (48C: 10), diventando così l'autore della volontà divina. Qui i ruoli di signore/servo sono completi, perché Metatron è un'estensione virtuale di Dio. Parimenti, Metatron è spesso presentato come il mediatore attraverso il quale tutte le comunicazioni devono passare (''3En.''10:4) e condivide con Anafiel il ruolo di proteggere gli altri angeli dalla presenza pericolosamente intensa del divino (per es. ''Sefer Haqqomah'', riga 160). Pertanto, Metatron e i suoi congeneri formano una sorta di cuscinetto attorno all'essenza che può eseguire i suoi impulsi in una sola volta. Questa lettura aiuta a spiegare la strana somiglianza tra Dio e angelo: gli angeli appaiono simili a Dio perché sono parti o aspetti di Dio. Portano il Nome di Dio perché, molto semplicemente, è il loro nome: riferendosi alla Divinità ci si riferisce anche a loro. Possiamo vedere qui le implicazioni del titolo ''Sar haPannim'': Principe della Presenza, o Volto. Gli angeli a cui è stato assegnato questo ruolo sono le potenze che rappresentano la presenza o l'apparenza divina.
 
Discutendo la visione di Akatriel da parte di Rabbi Ishmael in b.Berakhot 7a, Schäfer sostiene che "non può esserci dubbio che per il redattore del ''Bavli'' Akatriel è identico a Dio" (2012, 180) — la preghiera che Akatriel accetta da Ishmael invoca gli attributi di giustizia e misericordia che sono unici a Dio e in nessun punto attribuiti agli angeli. Parimenti in diversi passi degli Hekhalot in cui è menzionato Akatriel. Tuttavia, dove Akatriel prende il posto solito di Metatron all'ingresso del ''pardes'', circondato da angeli ministranti (§ 597), troviamo un'immagine più confusa: Abuyah corre oltre Akatriel intronizzato e richiede una spiegazione direttamente a Dio, citando le scritture per stabilire che sicuramente deve esserci un solo Dio — al che Dio risponde: "Elisha, figlio mio, sei venuto a riflettere sul mio ''middot''?" Qui, in contrasto con la recensione di ''3 Enoch'', sembra che Dio parli in difesa di Akatriel, e apparentemente identifica il dilemma teologico di Abuya come fosse correlato alle qualità o ai misteri di Dio. Mentre la storia presenta Dio e Akatriel come entità ''apparentemente'' separate, Dio stesso afferma che le cose non sono così semplici, in effetti identificando Akatriel come una delle Sue qualità.
 
In ''HekhZ'', mentre R. Akiva ascende ed entra alla presenza di Dio, sente una voce da sotto il trono. La voce chiede: "Qual'è l'uomo mortale che è in grado di ascendere nell'Alto?... per contemplare il Suo splendore... chi è in grado di spiegare e chi è in grado di vedere?" (§349-350). Il testo quindi giustappone tre riferimenti scritturali all'esperienza di Dio: "Perché nessun uomo può vedermi e restare vivo" ({{passo biblico2|Esodo|33:20}}); "Che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo restare vivo" ({{passo biblico2|Deuteronomio|5:21-24}}); e "Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato" ({{passo biblico2|Isaia|6:1}}), prima di chiedere: "Qual è il Suo nome?". Questo brano suggerisce che, sebbene Dio non possa essere percepito direttamente, la rivelazione del Nome di Dio fornisce un percorso verso il divino e la possibilità di una relazione reale. Nel contesto della tradizione Hekhalot che enfatizza così tanto l'uso dei nomi e l'invocazione di Dio con molteplici nomi, è ovvio che sono i nomi stessi il ''desideratum'' e lo scopo del viatore umano.
 
Tuttavia, questo non significa equiparare i nomi all'essenza della divinità. Questo passo sottolinea anche che c'è qualcosa di non percepibile, qualcosa che è così al di là della mente umana finita da costituire una minaccia esistenziale per essa. L'essenza stessa non è solo trans-linguistica, è ineffabile. Dio in Se Stesso non è mai visto nella letteratura Hekhalot anche se Egli viene descritto. Il materiale di ''Shi’ur Qomah'' offre abbondanti descrizioni di Dio senza mai ammettere il senso che Egli sia stato percepito. Non solo i nomi non sono descrizioni, ma devono riferirsi a qualcosa che è al di là della possibilità di descrizione: qualsiasi natura che possa essere totalizzata non è un'essenza ma una descrizione, perché è esclusivamente tecnica e costituita. Un'essenza deve essere singolare, non complessa, perché è ciò che fornisce l'unità a cui aderiscono le qualità. Un'essenza quindi è sempre trascendente, vale a dire che è ''nascosta''. Tuttavia, l'essenza che non può essere conosciuta può essere ''appresa'', resa nota, attraverso il nome, che nel postulare un ''altro'' postula necessariamente una tale essenza a cui si riferisce. Il nome non è solo una qualità ma va al cuore dell'oggetto nella sua funzione referenziale perché è legato all'essenza. Il nome quindi funge paradossalmente da condizione e occultatore: è l'azione del nominare che stabilisce un oggetto come un ''altro'' e quindi ne consente la conoscenza, ma così facendo impedisce all'oggetto di essere conosciuto fornendo la sua inviolabile integrità. Possiamo pensare al nome come una superficie o una pelle, che fornisce la possibilità di contatto allo stesso tempo come una resistenza opaca. Da notare che anche la mancanza di senso che per Kripke definisce i nomi è derivata dal linguaggio nella sua funzione magica: le parole insensate sono "il simbolo per eccellenza del linguaggio magico" (Janowitz, 1989, 90).<ref>Hayman, similmente, scrive che il "più grande paradosso" sia di ''SY'' che della letteratura Hekhalot è che, "il maggior potere, il potere magico, non risiede nel linguaggio normale con cui creiamo la nostra realtà sociale e diamo un senso al nostro universo caotico, ma in combinazioni di lettere senza senso" (1989, 232–3). In questa relazione vale la pena notare che il nome di settantadue lettere fu probabilmente raggiunto a causa del fatto che tutte le sequenze di tre lettere derivate da Esodo 14:19-21 non hanno alcun significato.</ref> Stando così le cose, nominare è l'azione magica essenziale, perché crea letteralmente le identità: non appena un nome viene usato, c'è qualcosa di ineffabile in più, che esso rappresenta. Janowitz scrive che, in ''HekhR'', "conoscere i nomi degli angeli è sapere come invocarli" (1989, 53). Come abbiamo visto nel [[Il Nome di Dio nell'Ebraismo/Presenza e discorso|Capitolo 1]], se il nome crea identità, e questa identità deve essere pensata in termini di rapporto – cioè presenza – allora il nominare manifesta di fatto il potere di quell'angelo, portandolo nel mondo del soggetto.
 
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Secondo l'analisi di Howard Jackson delle tradizioni ''Shi’ur Qomah'': "Per loro stessa natura i numeri, anche i numeri calcolati in unità di '''[[w:googol|googol]]''', funzionano per delimitare, e con ciò limitano ciò che misurano" (2000, 380). Lo stesso vale per i nomi, che hanno la funzione di relativizzare gli oggetti: li mettono in relazione e articolano l'essenza nei particolari di una situazione e di un individuo o di un gruppo che conosce il nome. Il nome diventa l'ombra proiettata da un oggetto invisibile.
 
La funzione di un nome quindi è quella di condensare e reificare. Il nome nel rappresentare un oggetto attinge necessariamente all'essenza, ma lo fa nell'ambito della soggettività perché un nome non può mai essere oggettivo; farlo significherebbe diventare una qualità (storica), un mero segno. Un nome forma così una traiettoria tra l'oggetto e il soggetto, collegandoli in un unico campo di azione referenziale. Il nome forma la manifestazione dell'oggetto in relazione al soggetto particolare, una traccia che l'oggetto lascia, una cicatrice sulla superficie della coscienza; un effetto senza compromettere l'esternalità dell'essenza.<ref>Sarebbe sbagliato chiamarla rappresentazione, poiché non condivide la forma dell'oggetto: l'oggetto stesso è senza forma, essendo questa una condizione di manifestazione. Avere forma significa essere limitati e quindi conoscibili.</ref>
 
Ciò significa che il nome non è il segno in quanto tale, ma il processo di riferimento in cui viene utilizzato il segno materiale; e il processo stesso è il semplice atto dell'intenzione, cioè è la relazione tra soggetto e oggetto. Questa relazione-processo è non-complessa; semplice, perché è il punto di contatto unidimensionale tra soggetto e oggetto, l'interfaccia che li collega. Il nome è l'incontro tra oggetto e soggetto: proprio come senza soggetto un nome è un semplice segno vuoto e morto, così anche senza oggetto il segno non è più un nome, ma solo una parola.
 
Quando ''MerkR'' afferma che "nessuna (semplice) creatura può comprenderlo... non abbiamo misura in mano, solo i nomi ci vengono rivelati" (§699),<ref>Ripetuto anche nella maggior parte dei passi in ''ShQ''.</ref> afferma che i nomi non sono il punto finale di Dio, ma che sono il punto finale della comprensione umana. I nomi non sono l'identità di Dio, ma sono ciò che viene rivelato agli esseri umani. Ciò riflette l'affermazione che: "Egli è nascosto da ogni occhio e nessun uomo può vederlo... La Sua immagine è nascosta a tutti" (''HekhZ''§356),<ref>Cfr. ''HekhR''§159, "Nessuna creatura può riconoscerlo, né il vicino né il lontano possono guardarlo".</ref> realizzata descrivendo di continuo gli esseri pseudo-angelici che popolano il paradiso. L'immaginario stranamente corporeo dello ''Shi’ur Qomah'' sta quindi in effetti tentando di delineare non l'essenza di Dio, ma i limiti che la comprensione umana pone alla nostra percezione. Riferisce che c'è un senso molto preciso di percepire il divino, dato nei nomi — ma questo non deve essere equiparato all'essenza di Dio stesso. Metatron articola Dio in parole (nomi) e numeri (descrittori) in modo che Dio possa essere percepito, e così fornisce una sorta di cuscinetto attorno all'essenza divina.<ref>Questa funzione di articolazione e categorizzazione è, come ho affermato in precedenza, essenziale per la natura di Metatron nel corso della sua storia (Miller, 2009).</ref> Vediamo qui la stessa nozione espressa da Adorno quando scrive che il concetto è sempre e "intrecciato con un tutto nonconcettuale. Il suo unico isolamento da quell'insieme è la sua reificazione, ciò che lo stabilisce come concetto" (1973, 12). Per essere reso concettuale, ciò che trascende il pensiero viene reificato in simboli (nomi), che per loro natura esistono come il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano.
 
Tutti questi nomi, questi punti di riferimento o designatori di Dio non sono la Sua essenza; la dimensione oscura di Dio trascende questi, ma i nomi formano una superficie, una superficie caleidoscopica mobile, un confine che suggerisce un al di là. L'essenza, la dimensione oscura o l'interiorità si estende dietro questa superficie di nomi, che in realtà sono punti di vista particolari su Dio, ciascuno un rapporto individuale. Così il [[w:pleroma|pleroma]] di cui hanno discusso alcuni studiosi non è quello degli esseri ma dei nomi: Dio, come ogni oggetto non totalizzabile, è sigillato ermeticamente all'interno di un poligono di nomi, e da ogni angolazione a cui ci avviciniamo troviamo un nuovo nome o variazione, una nuova superficie che rifrange l'essenza in diverse tonalità. Le "settanta nazioni" del mondo ricevono ciascuna un nome diverso, una relazione diversa con Dio.
 
Joseph Dan scrive che: "Il misticismo dei nomi, dei numeri e delle lettere è un misticismo del contatto con l'essenza divina attraverso la sua rivelazione in simboli terreni" (1998, 64). In questo contesto, dire terreno è dire psicologico: il piano dell'umano. L'essenza divina, che sappiamo bene non può essere concepita in se stessa (vale a dire, non può essere nel mondo), deve assumere una qualche forma quando entra nella coscienza. Per essere presente nella vita umana, il Dio ir-rappresentabile e in-visibile deve essere compresso in una forma che, sebbene distinta da Dio, può ancora agire come un vaso. Sebbene Dan lo distingua dal misticismo della discesa del divino al mistico terreno (e dell'ascesa dell'umano), sembra essere una discesa metaforica: il divino si manifesta in qualcosa di concepibile dalle menti finite degli esseri corporei. È quindi una discesa concettuale o ideologica, dell'informe nella forma. Il linguaggio torturato che troviamo in questi testi rappresenta come, nel processo di emergere attraverso il velo e nella coscienza, l'oggetto (Dio) viene contorto e frammentato in parole — parole che sono esse stesse distorte e fratturate dal peso di ciò che stanno provando ad esprimere.
 
Nella letteratura Hekhalot, Dio è sia trascendente che presente; ma questo dualismo deve essere compreso epistemologicamente. Dio non è così trascendente da essere inimmaginabile, impensabile, inconoscibile, ma ciò che possiamo sapere di Dio deve essere temperato dalla conoscenza della tendenza della nostra mente a ridurre e comprimere le informazioni in una forma soggettiva. Ciò significa che tutta la conoscenza umana di Dio prende la forma della conoscenza umana, che è linguistica: è a forma di linguaggio. Ciò non lo invalida. Questo portare nel reame soggettivo, o nel rendere conoscibile il divino, è essenziale in qualsiasi teologia che rivendichi una rivelazione. Tuttavia, la conoscenza non deve essere confusa con la cosa stessa.
 
 
 
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