Filosofia della religione di Kant/La teoria del male radicale

La teoria del «male radicale» nella Religione nei limiti della semplice ragione

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Avendo preliminarmente chiarito come Kant intenda interpretare la Scrittura, torniamo alla nostra questione di base, quella del male radicale. Avevamo notato che la posizione “illuministica” dava luogo a delle aporie, a cui il ricorso a una «religione nei limiti della semplice ragione» Kant spera possa dare soluzione. Esse sono relative a:

  1. l’esistenza di un «male radicale» che vada oltre una serie di singoli «mali morali»;
  2. la natura di tale male radicale, che la sola ragione non è riuscita a chiarire completamente;
  3. l’origine del male radicale;
  4. la possibilità di un suo superamento – a cui la ragione si era trovata impossibilitata.

Dunque procediamo con la trattazione analitica dei quattro punti.

1. La questione dell’«esistenza»

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Il testo di base per questa problematica è Rel. 20, 3:

« Per dire che un uomo è cattivo, si dovrebbe concludere a priori, da alcune azioni coscientemente cattive, […] a una massima cattiva che ne sarebbe il fondamento, e, da questa massima, ad un principio generale, esistente nel soggetto, di tutte le massime particolari moralmente cattive. »

Già il condizionale usato («si dovrebbe») lascia il ragionamento in una situazione ipotetica – che, del resto, è confermata dal Nostro, in seguito, quando si nega la possibilità di tale «dimostrazione formale». Per la ragione è problematico affermare l’esistenza di un «male radicale»:

  • che si situa a un livello morale più profondo dell’agire empirico – dato che «precede ogni atto che può cadere sotto l’esperienza» (Rel. 39, 27), tanto da poter risalire «alla primissima fanciullezza, anzi fino alla nascita» (Rel. 22, 4-5) – e viene dunque definito «atto intelligibile» situato a livello noumenico;
  • la cui esistenza non può e non deve essere dimostrata a priori a partire dal concetto di “uomo” – altrimenti godrebbe del carattere della «necessità», e dunque negherebbe ogni libertà di fare il bene all’uomo.

Dunque, se Kant è – e lo è – fermamente convinto dell’esistenza di un’universale tendenza al male, la sua giustificazione è extra-razionale: deriva da un’interpretazione etica del testo biblico, a partire dalla chiarissima affermazione di San Paolo:

« In Adamo tutti abbiamo peccato.[1] »

Frase, questa, che esprime perfettamente, al di là del letterale «Adamo», i due caratteri propri di questo male radicale: l’universalità («tutti») – il suo essere proprio a tutta la specie umana[2] – e insieme la libertà e la responsabilità individuale dei soggetti morali («abbiamo peccato»). Abbiamo qui il primo esempio di come la Bibbia possa illuminarci e spiegarci ciò che alla ragione rimane oscuro.

2. La questione della «natura»

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La teologia cristiana ha variamente elaborato delle interpretazioni riguardanti la natura del «peccato originale»:

  • l’«interpretazione teologica» (di matrice agostiniana, ripresa da Martin Lutero) ha affermato l’identità tra il peccato originale e la naturale inclinazione al male della sensibilità («concupiscentia»); ma, osserva Kant, se tale malvagità risiede a livello della natura, come è possibile imputarla a colpa all’individuo?
  • l’interpretazione che identifica il peccato originale con una definitiva e totale corruzione della «ragion pratica», della volontà etica umana – anch’essa rifiutata, in quanto ridurrebbe l’uomo a un «essere diabolico»; invece, per Kant, la razionalità e la libertà umane implicano una incorruttibile «disposizione al bene», che invece sì caratterizza l’uomo per natura.

Dovendo mediare tra un’esigenza di «libertà» e una di «naturalità/innatezza/universalità», Kant prospetta una soluzione innovativa, secondo cui:

« La tendenza al male presente in ogni uomo è il pervertimento del fondamento soggettivo dell’uso della libertà, che consiste nell’elevare a massima suprema del proprio agire la disponibilità a subordinare, all’occorrenza, il motivo della pura obbedienza alla legge ad altri motivi, ovvero gli interessi delle proprie inclinazioni sensibili. »

Si tratta dunque di una «perversità» (perversitas), che «capovolge l’ordine morale dei motivi a massima suprema del proprio agire morale» – e porta addirittura ad «autoingannarsi» riguardo alle proprie intenzioni (con una «perfidia» del cuore).

L’accoglimento da parte del libero arbitrio morale di tale perversità è un «atto morale» (That) personale e responsabile: è il peccato originale – insieme peccatum originarium, in quanto radice della malvagità di tutti gli atti successivi, ma anche peccatum derivativum, derivato appunto da un pre-empirico, oseremmo dire «trascendentale», pervertimento dell’ordine morale.[3]

3. La questione dell’«origine»

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Se, con quanto detto finora, abbiamo chiarito la concezione che Kant ha del male radicale, non si è sufficientemente delineata la questione della sua causa, della sua origine (e, conseguentemente, della sua “estirpazione”). Infatti, se esso fosse un atto libero, esso dovrebbe essere regolato da un «principio soggettivo» (che determini la massima soggettiva ad esso relativa) a sua volta perverso – fatto che aprirebbe un circolo vizioso. Parimenti, il suo stesso superamento richiederebbe una massima morale tendente al bene, che, però, non sarebbe possibile in noi in tale situazione.

Il Nostro rifiuta senza dubbio l’ipotesi, tradizionale nel Cristianesimo, dell’origine «per eredità» del peccato originale: esso implicherebbe una deroga inconcepibile al principio della responsabilità morale individuale (e, per giunta, aprirebbe più problemi di quanti non ne risolva).

Un’altra possibilità prospettata è quella dell’«origine temporale», situata in un momento contingente della storia (quale il dettato letterale di Genesi, II suggerirebbe); ma Kant osserva in merito:

« Noi non dobbiamo cercare alcuna origine temporale ad una disposizione morale che ci deve essere imputata, per quanto inevitabile sia tale ricerca se vogliamo spiegarcene l’esistenza contingente. E per questa ragione, forse, anche la Bibbia ha rappresentato tale esistenza contingente in una maniera adatta alla nostra debolezza.[4] »

L’altra ipotesi (più vicina alle posizioni illuministiche), quella dell’«origine razionale», della derivazione da principi che regolano la libertà etica dell’uomo, pare a Kant «avvolta nella più totale incomprensibilità»: il fatto è che:

« Per noi non c’è alcun fondamento comprensibile dal quale il male morale possa per la prima volta essere venuto in noi.[4] »

E proprio di questa «incomprensibilità» nell’ambito delle forze interne all’uomo, l’autore biblico ha dato esempio con l’introduzione di un elemento esterno, lo «spirito seduttore», il serpente. Fatto, questo, che ha un secondo risvolto, che si ricollega all’affermazione di una «predisposizione al bene»: se lo spirito del male non risiede nell’uomo stesso, è possibile che sia rimasta in lui una volontà morale libera, a cui sia dunque possibile fare riferimento per un superamento del male radicale.

4. La questione del «superamento»

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Se il procedere è parso al lettore sinora abbastanza complicato, sappia che al problema-chiave, in definitiva, per la risposta alla domanda sul male – quella del suo superamento – Kant dedica, in forma diretta o indiretta – la gran parte della Rel., sia approfondendo i temi trattati dalla “soteriologia classica” (la conversione, la grazia e la giustificazione, i sacramenti, la fede nella Chiesa), sia mettendo specificamente a fuoco il proprio punto di vista etico-razionale.

Un punto fermo, per iniziare. Per Kant, qualunque sia la perversione del «fondamento soggettivo del buon uso della libertà», non può essere soppresso nel soggetto morale (anzi, è avvertito dalla ragione) la naturale tensione verso la «santità»: pertanto, non si può mai negare la possibilità di una conversione. D’altronde, le modalità di tale conversione rimangono oscure (tanto più che con essa deve mutare l’intenzione etica fondamentale, e in modo istantaneo):

« Com’è possibile che un uomo naturalmente cattivo si faccia buono? Ciò oltrepassa tutte le nostre idee; giacché come può un albero cattivo produrre frutti buoni?[5] »

La soluzione proposta da Kant sta nel porre un’esigenza, una «speranza» (in parallelo, certamente, con le esigenze finalistiche della Critica della ragion pratica e della Critica del Giudizio): «quando l’uomo ha fatto tutto quanto gli è consentito dalle sue forze naturali [verso l’obiettivo del ripristino della purezza dell’intenzione morale], egli è autorizzato a “sperare che ciò che non è in suo potere sarà completato da una cooperazione superiore” (Rel., 52, 44)»[6]. In questo modo, si giunge, sì, a un’ipotesi di soluzione del problema (l’intervento di «idee trascendenti», consistenti nei mezzi della grazia, nei miracoli, nei misteri della Rivelazione), però oltrepassando anche i limiti della «religione razionale» che ci si era posti in partenza.

Le idee trascendenti sono postulate non dalla fede razionale, ma dalla cosiddetta «fede riflettente», che confida umilmente in un aiuto spontaneo e gratuito di Dio, che aiuterà nel suo amore coloro che si impegnano a tendere verso di lui. Kant rileva però il «salto» intercorso con queste idee, che definisce “accessorie”, «parerga», rispetto ai mezzi della religione razionale.

I «parerga» però non godono di alcun valore teoretico o pratico, come chiarito dal Nostro: nel primo caso, infatti, resta l’aporia di comprendere «come» Dio possa aiutare l’uomo a superare il male radicale (se l’uomo è libero, come può Dio sostituirsi alla sua libertà?); nel secondo caso, è fatto espressamente divieto da Kant di contare sull’aiuto soprannaturale – che invece rimane sempre “spontaneo” e “gratuito” – in sostituzione dell’impegno morale, oppure in cambio di atti di culto. Kant infatti ribadisce ancora che «l’unica cosa che l’uomo può fare per ottenere la grazia della conversione è solo il suo stesso impegno etico».

Sintesi della posizione di Kant

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Seguendo ancora il Ferretti[6], diamo uno sguardo sulla globalità della soluzione avanzata da Kant al problema del superamento del male radicale, nei suoi punti fondamentali:

  1. l’esclusione categorica del principio protestante della «sola fides», della salvezza per predestinazione e oscuro disegno di Dio – cosa che apparirebbe a Kant le barriere stesse del significato: sarebbe «il salto mortale della ragione umana» (Rel., 121, 130);
  2. la necessità dell’impegno pratico: non si può far altro che «partire da ciò che noi dobbiamo fare»: l’impegno a usare in modo responsabile della libertà concessaci, in vista dell’ideale della perfezione morale (dal quale può scaturire la speranza che Dio compia il passo ulteriore, nelle le sue infinite vie);
  3. la situazione irresolvibile di scacco della ragione teoretica, bloccata da una serie di antinomie;
  4. la constatazione che l’affermazione di una «fede storico-empirica» nella persona del Cristo (e nella salvezza all’interno della Chiesa) è di natura radicalmente differente rispetto alla «fede razionale» dell’impegno etico, e dunque non può sostituirvisi;
  5. ma anche la constatazione che, servendosi dell’ermeneutica etico-razionale, le due posizioni possono convergere in una: «e così tale fede è identica col principio di una condotta di vita gradita a Dio» (Rel., 119, 128).

Ma diamo un accenno più definito almeno a quest’ultima affermazione, di importanza fondamentale. Kant afferma, a proposito di un’interpretazione etico-razionale della figura di Cristo:

« Nella manifestazione dell’Uomo-Dio, il vero oggetto della fede santificante non è ciò che di lui colpisce i nostri sensi, o che può essere conosciuto mediante l’esperienza, ma l’archetipo presente nella nostra ragione, che noi poniamo a fondamento di tale manifestazione.[7] »

La distinzione tra il «Cristo storico-empirico» e il «Cristo metaempirico», “archetipo della santità”, è alla base della conciliazione del Cristianesimo razionalizzato con l’etica kantiana.

Conclusione

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Ci si conceda, in conclusione, di chiederci: ma perché voler scindere la figura del Cristo oggetto della fede razionale, archetipo di moralità, dalla sua figura storica? Non si fa, in questo modo, di una figura calata nel tempo storico un mero ideale?

Ferretti[8] ricorda «i limiti della sua [di Kant] concezione della ragione, illuministicamente ancora troppo poco aperta alla storia come evento di verità valido per l’uomo in universale». Come avevamo analizzato in precedenza, per Kant la lettera della Sacra Scrittura porta soltanto a definire «statuti e regole» dell’istituzione ecclesiastica: e se non fosse invece così? Se il Vangelo fosse una testimonianza autentica riguardo ad una figura «che fece saltare tutte le categorie umane», una figura in cui «la grandezza si colloca all’inizio»[9]?

Certo, nessuna filosofia teoretica potrà garantirci della “verificabilità” di questa scelta.
 Ma questo rimane lo spazio del Mistero.

  1. San Paolo, Lettera ai Romani, V, 12
  2. cfr. Rel., 29, 14
  3. Il Ferretti (op. cit., p. 114) afferma che da questa posizione kantiana hanno tratto spunto i teologi e filosofi moderni che hanno compiuto la «distinzione tra l’opzione fondamentale, che si situa a livello trascendentale della libertà umana, e scelte morali concrete, che si situano a livello fenomenico categoriale».
  4. 4,0 4,1 Rel., 43, 22-23
  5. Rel., 44, 35
  6. 6,0 6,1 Ferretti, op. cit., p. 118ss.
  7. Rel., 119, 128
  8. Ferretti, op. cit., p. 128
  9. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, Introduzione, Rizzoli, Milano 2007