Alla luce di ciò che si è detto nei precedenti capitoli, come si può riassumere la religione di Gesù? La sua religione è una particolare risposta ad una situazione specifica data da un uomo straordinario. Il Cristianesimo, d'altra parte, è lo sviluppo della religione di Gesù fatta da persone pratiche che pianificavano il futuro in un contesto temporale ordinario. Le due cose sono definitivamente connesse, eppure sono anche radicalmente differenti.[1]
«Guarda cosa Gesù stesso ha insegnato invece di ritenerti soddisfatto di ciò che gli altri hanno insegnato su di lui.» (Géza Vermes, The Authentic Gospel fo Jesus, 2003, p. 417)
PROFETA APOCALITTICO ERRANTE ED EBREO OSSERVANTE
Seguendo le conclusioni dello storico ed esegeta Géza Vermes,[1] si può certamente affermare che la situazione specifica sorse dal trambusto politico generato dal dominio romano in Palestina, iniziato verso il 63 p.e.v. L'agitazione fu chiaramente palese negli atti di ribellione dopo la morte di Erode il Grande nel 4 p.e.v., che furono soppressi violentemente dai romani, e nell'amaro risentimento causato dal censiomento o registrazione fiscale romana imposta sulla Giudea da Quirinio, governatore della Siria, nel 6 e.v. L'agitazione politica scatenò e alimentò un desiderio febbrile di intervento divino imminente, specialmente dopo il ministero vastamente influente di Giovanni il Battista nei tardi anni venti. Gesù avrebbe reagito e risposto a tale aspettativa febbrile. Il Regno di Dio si credeva fosse alle porte. Tale Regno era una questione prettamente ebraica, che coinvolgeva esclusivamente gli ebrei, e richiedeva una soluzione esclusivamente ebraica. Il mondo non ebraico non aveva nulla a che fare con tale problematica, assolutamente nulla.[1]
Una soluzione fu fornita da un uomo straordinario, Gesù di Nazaret, profeta provinciale, senza educazione "rabbinica", ma colmo di intuito, compassione, magnetismo e potere carismatico, pronto a gettarsi anima e corpo nel crescente movimento lanciato da Giovanni Il Battista e prenderne le briglia. Il suo modo particolare di promuovere la causa del regno derivò dalla sua convinzione totale della necessità del compito al quale era stato preposto. Di conseguenza dai propri discepoli egli pretese una fede illimitata in Dio. A ragione della natura escatologica del loro compito, portarlo avanti non ammetteva né lentezza né procrastinazione e richiedeva una devozione assoluta indipendentemente dai costi. Il fine previsto era un posto al banchetto escatologico preparato da Dio per coloro che rispondevano all'invito che Gesù offrì loro con urgenza profetica. Per seguire il suo appello ed entrare nello spirito del suo Ebraismo escatologico, i discepoli di Gesù dovevano abbandonare una religione banale, rivolgere la propria attenzione ai più alti ideali e progredire decisamente alla massima velocità.[1]
Ciò che rende questa religione particolare è lo sforzo incessante che Gesù impose a se stesso e ai suoi seguaci. Non mostrò mai segni di esitazione, né sopportò tattiche dilatorie o tergiversazioni da parte di potenziali discepoli. La fiducia che il Regno è vicino, sta arrivando, è arrivato, sottendeva una permanente atmosfera di urgenza. Afferma Vermes che la religione rivelata dal messaggio autentico di Gesù è lineare, senza dogmi complessi, o immagini "mitiche" o egocentriche speculazioni mistiche. Somiglia ad una gara che consiste soltanto di un rettilineao finale, che dai corridori richiede un ultimo sforzo di energia e con una medaglia di vittoria preparata per tutti i partecipanti ebrei che attraversino il traguardo. A questo punto, Vermes si chiede "come un genio religioso del calibro di Gesù possa essere stato un tale sciovinista di mentalità ristretta", esclusivista ebreo per soli ebrei.[1] Ma l'escatologia ebraica dell'epoca era esclusiva e forse Gesù era semplicemente un figlio del suo tempo. D'altra parte, potrebbe aver sposato l'idea profetica manifesta nella seconda metà del Libro di Isaia secondo cui l'entrata degli ebrei nel Regno di Dio avrebbe persuaso i gentili ad associarsi. Se fosse così, Gesù potrebbe benissimo essersi immaginato che, dopo il riuscito completamento della sua missione esclusivamente ebraica, Dio sarebbe intervenuto e si sarebbe preso cura del resto dell'umanità. Gesù si prospettava ottimisticamente una buona e positiva riuscita della sua missione nel radunare insieme i figli di Israele e di condurli sani e salvi alle porte del Regno di Dio. Non previde la crisi e la tragedia della croce.[1][2]
In questo contesto, e dopo un'accurata analisi bibliografica scaturita dalle ricerche storico-esegetiche di Géza Vermes, tra i libri consultati in lingua italiana, si riscontra particolarmente interessante quello di Paolo Flores d'Arcais, Gesù. L'invenzione del Dio cristiano[3] Il libro si è posto all'attenzione specifica dell'argomento qui trattato in appendice grazie alla seguente recensione di Valentino Salvatore (Agosto 2011), pubblicata su uaar.it. La si riporta in stralcio:
« Il fermento del variegato mondo miscredente e anticlericale nostrano, rilanciato soprattutto grazie ad internet, ha tra i suoi terreni di allenamento preferiti la critica testuale ai Vangeli e lo studio della figura di Gesù. Si nota così un fiorire di pubblicazioni e siti ‘artigianali’ che sviscerano i racconti evangelici. D’altronde, ora che possedere e leggere certi testi non è più reato o appannaggio della casta clericale, qualunque scettico può prendere in mano una copia del Nuovo Testamento e mettere nero su bianco tutte le evidenti contraddizioni che trova. Senza sapere magari che la critica di stampo illuministico e razionalista ha fatto lo stesso, già da qualche secolo. E che anzi il filone storico-critico è vivo anche nei giorni nostri e di alto livello, nonostante rimanga nella nicchia delle accademie e poco diffuso nel nostro Paese.
Il risultato è che non di rado toni polemici e pirotecnici e tesi discutibili sopravanzano la qualità delle argomentazioni. Quello che manca è infatti un retroterra culturale adeguatamente metabolizzato e approfondito, che ignora una schiera di studiosi di riferimento la cui produzione è soprattutto in inglese e tedesco. E’ anche vero che per tanti dubbiosi la produzione più schiettamente polemica è quella più abbordabile e facilmente reperibile. Soprattutto per quelli alle prime armi, desiderosi di risposte e conferme per consolidare la propria scelta esistenziale di non credenza. Ma sarebbe auspicabile traghettare i curiosi e gli appassionati verso opere più sostanziose.
È per questo che risulta particolarmente utile il recente libriccino di Paolo Flores d’Arcais su Gesù. L’autore infatti presenta le tesi di esperti del calibro di Bart Ehrman e Geza Vermes (solo per citare un paio di pesi massimi), in maniera chiara e sintetica. Meglio ancora, lo fa con un’opera concepita per essere divulgativa e dal costo veramente abbordabile. Chiaramente, non può essere esaustiva di tutto il dibattito accademico sui resoconti evangelici e sulla vita di Gesù. Ma può essere una bussola per chi volesse avventurarsi in quel mondo, indirizzandosi verso opere più serie e stimolanti.
Così, d’Arcais punta a fornire un’agile guida per smantellare una per una le «bugie» di Benedetto XVI, col quale già aveva duellato a colpi di fioretto quando ancora questi vestiva la porpora cardinalizia. Diventato papa, Raztinger ha avviato a tambur battente e con grancassa mediatica e culturale al seguito la sua opera di revisionismo storico e filosofico integrale (o integralista, a seconda dei palati), con i suoi tomi sulla figura di Gesù. D’altronde, il disegno è facilitato anche dalla generalizzata ignoranza su ciò che i testi effettivamente dicono e sulla loro evoluzione nei primissimi secoli di storia cristiana. E per contrastare ciò, ecco che Flores d’Arcais pensa ad un libro che invece è piccolo e snello. Si direbbe, in un patetico impeto di lirismo, come un seme che può germogliare negli spiriti più recettivi. O versatile ed essenziale una frombola, se volessimo proprio scomodare lo scontro biblico tra un Golia ‘raztingeriano’ e un Davide ‘razionalista’.
Così scopriamo (si fa per dire) che tanti di quei dogmi veicolati dal cattolicesimo non reggono al confronto della più navigata e attendibile ricerca storica. Già gli stessi seguaci del proclamato ‘messia’ erano ebrei osservanti. Un'altra «bugia» è che la parusia sia stata annunciata come lontana, quando invece lo stesso Gesù in maniera inequivocabile l’ha proclamata imminente. E così aveva fatto Paolo, con successivo slittamento dei tempi nelle lettere successive, fatte passare come opere degli apostoli per giustificare il cambiamento di rotta. Si capisce infatti che prorogare ad libitum la parusia diventa un’assicurazione per la Chiesa, che può quindi auto legittimare la sua esistenza virtualmente all’infinito. Negli stessi testi del Nuovo Testamento si trovano gli indizi di una modifica della dogmatica cristiana, che ad una analisi più attenta si mostra molto relativa (o relativista). D’Arcais parla in certi casi di «criterio di imbarazzo»: se i detti attribuiti a Gesù entrano in contrasto con la teologia successiva allora dovevano essere stati ritenuti originali e per questo non espunti dai testi.
Altro dogma di cui vengono mostrati gli ingranaggi difettosi è quello della resurrezione. Paolo ne ha una concezione prettamente mistica, mentre i Vangeli mostrano ricostruzioni discordanti e aggiunte molto tarde.
Andando a sezionare le varie versioni dei Vangeli, la critica – pur con conclusioni e approcci differenti, come correttamente rilevato da Flores d’Arcais – le considera come espressione della «concorrenza» tra le varie correnti cristiane, su punti fondamentali quali il primato di Pietro rispetto a Giacomo, fratello di Gesù. Infatti proprio il Nuovo Testamento, grattando la patina dell’ortodossia, mette in luce le aspre diatribe tra le varie comunità. Prima di tutto, tra quella di Gerusalemme legata alla tradizione israelitica, di cui è rappresentante Giacomo, e le correnti ellenistiche, che ammettono i gentili e sorvolano sull’osservanza delle pratiche ebraiche. Lo stesso Paolo si scaglierà contro Pietro e la comunità originaria, bollandoli come ‘falsi apostoli’. Contrapposizioni che nella rielaborazione dell’ortodossia saranno appianate da una «ricostruzione posteriore». Tanto che Pietro e Paolo ora formano per la dottrina cattolica un’accoppiata inscindibile.
Anche il canone evangelico si forma molto più tardi rispetto ai fatti che suppone di narrare e in maniera tutt’altro che lineare. Considerato prima di tutto che Gesù doveva predicare in aramaico e solo agli ebrei, mentre i Vangeli sono in greco e diffusi tra ellenisti e non circoncisi. Si ritiene che il nucleo di partenza siano stati gli oscuri logia (i detti attribuiti a Gesù), diffusi oralmente e fusi – l’autore sostiene in buona fede – con i «carismi» profetici delle comunità, con corollario di glossolalia, estasi mistiche et similia. Dato il metodo di ricostruzione non propriamente attendibile, non è strano che si siano diffusi «misunderstanding» anche clamorosi. Come gli errori di traduzione e ortografia più o meno involontari (si vedano i casi arcinoti della ‘vergine’ o del ‘cammello’) nel corso della «diffusione/evoluzione» delle storie su Gesù.
Tutto questo processo fa dire a d’Arcais: «pensare ai canonici e agli apocrifi in termini di autenticità o falsità» dal punto di vista dell’analisi storica «sarebbe semplicemente demenziale». Fino al IV secolo infatti c’è un «caleidoscopio» di «cristianesimi» con «teologie inconciliabili» e non eresie staccatesi dal tronco di una ortodossia già definita. Di fatto, è solo con l’imposizione del cristianesimo come unica religione di stato nell’impero romano che prevarranno una ortodossia e una Chiesa. Opera fondamentale per capire questo revisionismo teologico è Contro le eresie di Ireneo, dove il padre della Chiesa cataloga le sette cristiane considerate eretiche e in particolare si scaglia contro Marcione. Il noto ‘eretico’ della fine del II secolo, paradossalmente, sarà il primo ad organizzare su larga scala una Chiesa e ad elaborare un canone. Lo farà espungendo dai testi alcune lettere false di Paolo «con perizia filologica straordinaria per quei tempi» e accettando il Vangelo di Luca senza la natività e senza nemmeno prendere in considerazione gli altri tre canonici. D’altra parte, saranno proprio gli “eretici” ad accusare gli “ortodossi” di falsificare le scritture a proprio piacimento, per controbattere alle obiezioni.
Punto forse deludente per alcuni è che D’Arcais non mette in dubbio la storicità di Gesù, interessato com’è a seguire la traccia dei testi rimasti e a rendere conto dei risultati della ricerca più seriosa. Proprio sulla base degli scritti però contesta l’idea che egli si sia proclamato “messia” o tantomeno Dio. La divinizzazione di Gesù e la sua trasformazione in Cristo sono «astrazioni successive» e riflettono piuttosto le diatribe successive tra rabbini e cristiani. Sulla scorta soprattutto di Ehrman, l’autore sostiene che saranno poi i cristiani ad alterare i testi per introdurre elementi tesi a legittimare la credenza in un Gesù divino. Come le storie «posticce» sulla nascita da una vergine. Racconti tesi piuttosto a rispondere alle eresie adozionistiche, secondo cui Gesù non è nato ‘divino’ ma al limite è stato ‘adottato’ da Dio dopo la nascita.
Capitolo interessante è quello dedicato a Gesù secondo l’ottica islamica. Un filo rosso legherebbe il cristianesimo ‘originario’ di Gerusalemme (quello ebionita) a Maometto. D’Arcais riporta che il profeta arabo si è probabilmente ispirato ai discendenti di gruppi di ebioniti diffusi in Arabia. Tanto che secondo alcuni testi islamici sarebbero stati proprio i cristiani ad abbandonare la religione di Gesù istigati da Paolo, per adattarsi ai costumi romani. La tradizione giudeo-cristiana, ritenuta eretica perché considerava Gesù semplice profeta ed era anti-trinitaria, sarebbe poi confluita nell’islam. E quindi il Gesù più ‘genuino’ sarebbe quello che emerge dai testi islamici, non quello della Chiesa.
La conclusione dell’autore è secca: Gesù non era un messia (o il Messia), ma un profeta apocalittico errante nonché ebreo osservante. In sostanza Gesù non è mai stato “cristiano”, ma lo diventerà nel pio sforzo fideistico dei suoi seguaci e dopo un percorso ideologico-teologico lungo e contraddittorio. » (Valentino Salvatore, 2011)