Israele – La scelta di un popolo/Capitolo 6: differenze tra le versioni

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=== Volontà e scelta in Ha-Levi ===
[[File:ריהל ראלי.jpg|thumb|240px|right|Scultura di [[w:Yehuda Ha-Levi|Yehuda Ha-Levi]] in Israele]]
Il primo teorico sionista [[w:Ahad Ha'Am|Ahad Ha’Am]] (m. 1927) fu tipico di un certo numero di studiosi ebrei moderni quando notò di Yehuda Ha-Levi che "egli riconobbe il carattere e il valore della scelta di Israele (''behirat yisra’el'') e ne fece il fondamento del suo sistema (''yesod le-sheetato'')".<ref>"Shinui He’Arakhin" (1898), in ''Kol Kitvei Ahad Ha’Am'', II ediz. (Gerusalemme, 1949), 157.</ref> E il principale storico ebreo in tempi recenti, [[:en:w:Salo Wittmayer Baron|Salo Baron]], fu altrettanto tipico quando di Ha-Levi notò "the serene allegiance to history and the long-range forces of destiny high above the ... forces of nature".<ref>"la serena fedeltà alla storia e alle forze del destino di lunga portata al di sopra delle... forze della natura".<ref>, in "Yehudah Halevi: An Answer to an Historic Challenge", ''Jewish Social Studies'' (1941), 3:272.</ref> Se entrambe queste caratterizzazioni fossero vere, potremmo facilmente vedere Ha-Levi come un teologo rabbinico tradizionale, qualcuno che diede rinnovata espressione all'antica dottrina dell'elezione di Israele e qualcuno che anticipò lo [[w:storicismo|storicismo]] moderno. Tuttavia, un esame più approfondito di ciò che lo stesso Ha-Levi affermò effettivamente in merito all'elezione di Israele ci porterà, credo, a vederlo come un pensatore più indipendente, per il quale né la storia (una parola che lui stesso in realtà non usò mai) né l'elezione di Israele – almeno per come siamo arrivati ​​a comprendere queste due idee oggi – sono fondamentali.<ref>Anche se non posso essere d'accordo con il suo totale rifiuto del metodo filosofico per la comprensione dell'ebraismo, penso che il defunto Max Kadushin avesse ragione quando disse di Halevi: "Ha una concezione di Dio, quindi, abbastanza simile a quella dei filosofi ebrei medievali" (''The Rabbinic Mind'' [New York, 1952], 282). Infatti, in una delle sue poesie, Halevi dice: "I Servi del tempo (''zeman'') sono i servi dei servi; il servo del Signore, solo lui è libero" ("Helqi Adonai", in ''Selected Religious Poems of Jehudah Halevi'', a cura di H. Brody [Philadelphia, 1924], 121). Dio viene così contrapposto alla temporalità. Quasi ogni teologo razionalista di quel periodo avrebbe potuto dire la stessa cosa.</ref> Ciò che fu fondamentale per Ha-Levi era un reame al di sopra di quello della natura ordinaria (cioè una soprannatura), un reame in cui il popolo di Israele nel suo rapporto con Dio è centrale.
 
La chiave per cogliere la visione autentica di Ha-Levi in merito al ruolo di Israele nell'ordine cosmico reale può essere vista in due brani ontologici strettamente connessi nel suo capolavoro teologico, il ''[[w:Kuzari|Kuzari]]'' (in ebraico: הכוזרי‎, ''Sēfer Ha-Kūzārī'', "Libro del [[w:Cazari|Cazaro]]"; in arabo: كتاب الخزري‎, ''al-Khazārī'', "Il [[w:Cazari|Cazaro]]"). Lì scrive:
{{citazione|Dio, che Egli sia esaltato, vuole (''rotseh'). Per tutto ciò che è proceduto da Lui, è possibile (''efshar'') che potrebbe essere l'opposto, o non esser proceduto affatto ... Questo concorda con l'opinione dei filosofi ... La volontà (''ratson'') di Dio è assolutamente prioritaria (''qadmon'') ed è coerente (''u-mat’im'') con la Sua sapienza. In quanto tale, non succede le nulla all'improvviso (''mithadesh''), né vi è alcun cambiamento in essa.|''Kuzari'', 5.18.<ref>Traduco dal testo {{Lingue|He}} di Y. Even-Shmuel (Tel Aviv, 1972), p. 220. Il ''[[w:Kuzari|Kuzari]]'' è suddiviso in cinque saggi (''ma'amarim'', "articoli") e assume la forma di dialogo tra il [[w:monarca|re]] dei [[w:Cazari|Cazari]], probabilmente [[w:paganesimo|pagano]], ed un ebreo che era stato invitato a corte per istruirlo sui fondamenti dell'ebraismo. Scritto in [[w:lingua araba|lingua araba]], il libro fu tradotto da numerosi studiosi (incluso [[w:Judah ben Saul ibn Tibbon|Judah ben Saul ibn Tibbon]], padre di [[w:Samuel ben Judah ibn Tibbon|Samuel]] che fu anche traduttore di [[Maimonide]]) in [[w:Lingua ebraica|ebraico]] e altre lingue. Sebbene l'opera non sia considerata un resoconto storico della conversione dei Cazari all'ebraismo, studiosi come [[w:Douglas Morton Dunlop|Douglas Morton Dunlop]] hanno ipotizzato che Yehuda possa aver avuto accesso ai documenti cazari sui quali poi basò la sua storia. Il suo contemporaneo [[w:Abraham ibn Daud|Abraham ibn Daud]] narrò di aver incontrato studenti rabbinici cazari a Toledo (Spagna) a metà XII secolo.</ref>}}
 
Subito dopo, Ha-Levi distingue tra volontà, nel senso primordiale che ha descritto poco sopra, e scelta (''behirah''). Egli colloca questa definizione in un pieno contesto ontologico. "Le azioni sono divine (''elohiyyim'') o naturali (''tiv’iyyim''), accidentali (''miqriyyim'') o scelte (''behiriyyim'')". Si noti che i due estremi sono atti divini da un lato e atti scelti dall'altro. Gli atti divini sono quelli compiuti da nessun'altra causa (''sibah'') che "la volontà di Dio". Gli atti scelti, in netto contrasto, sono quelli la cui causa è "la volontà dell'uomo nel momento (''sha’ah'') in cui si trova nella situazione di scelta (''be-matsav ha-behirah'')". Ed è "all'interno di questo dominio (''be-tehum zeh'') che c'è una possibilità perpetua (''tamid ha-efsharut'')"<ref>''Ibid.'', 5.20, p. 222. Per gli usi di "volontà" nel pensiero di Ha-Levi, cfr. A. Nuriel, "The Divine Will in the Kuzari", ''Jerusalem Studies in Jewish Thought'' (1990), 9:19 segg.</ref>
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Da questi brani ontologici appare del tutto chiaro che la scelta è temporale – storicamente situata – mentre la volontà primaria, che altro non è che la volontà divina, non lo è. Parlare della volontà di Dio, quindi, è parlare della coerente trascendenza di Dio del mondo. La volontà di Dio è primaria, nel senso che Dio stesso non è subordinato e nemmeno coeguale con nient'altro. Ma questa stessa trascendenza significa che il mondo ordinario della creazione è un mondo in cui Egli stesso non entra mai realmente, ma, come vedremo presto, è un mondo in cui permette e consente ad alcune delle Sue creature di trascendere almeno in parte. Di conseguenza, la differenza tra le possibilità davanti a Dio e le possibilità davanti all'uomo, per Ha-Levi, è che le possibilità davanti a Dio sono semplicemente logiche, mentre le possibilità davanti all'uomo sono realtà. Per questo la scelta umana comporta una reattività ''a posteriori'', qualcosa che non può essere postulato dalla volontà di Dio, che è sempre primordiale: sempre causante ma mai operata. Il fatto che gli eventi temporali siano il risultato di questa volontà divina primordiale comporta il problema filosofico che risale alla costituzione platonica della natura primordiale dell'eternità: come emerge il tempo mutevole dall'eternità immutabile?<ref>Cfr. ''[[w:Timeo (dialogo)|Timeo]]'' 37E segg.</ref> Inoltre, questa costituzione della volontà senza una scelta reale, e l'assenza di reattività che essa comporta, potrebbe ben spiegare la virtuale assenza di una teoria dell'alleanza nella teologia di Ha-Levi nel ''Kuzari''.<ref>Quando Ha-Levi parla di ''berit'' in ''Kuzari'', 1.34, p. 70, non ne sviluppa le implicazioni di reale reciprocità tra Dio e l'uomo.</ref> Quindi si potrebbe dire che per Ha-Levi Dio ''volle'' l'esistenza di Israele '''''pre'''''istoricamente, ma non che Dio in realtà ''scelse'' Israele ''dentro'' la storia.<ref>Cfr. Y. Silman, "Ha-Ta’amim Ha-Shitatiyyim Le-Rayon Behirat Yisra’el Be-Sefer Ha-Kuzari," ''Sinai'' (1977), 80:260.</ref>
 
La scelta, quindi, è qualcosa che è umano, non divino. La domanda che ora deve essere affrontata è come questa scelta umana sia coinvolta nello ''status'' cosmico unico che Halevi assegna al popolo di Israele.
 
Va ricordato che il ''Kuzari'' è scritto come esposizione e argomentazione a favore de "la disprezzata religione", che era la condizione dell'ebraismo nel mondo di Judah Ha-Levi dell'XI secolo. In quest'opera, Ha-Levi difende l'ebraismo contro cinque diversi disprezzatori: (1) pagani, (2) filosofi, (3) cristiani, (4) musulmani e (5) [[w: caraismo|letteralisti biblici ebrei]] ([[w:caraiti|caraiti]]), che avevano rifiutato l'ebraismo rabbinico della maggioranza degli ebrei. Di gran lunga i più importanti disprezzatori contro cui difendere l'ebraismo e affermarne la superiorità, sono i filosofi.<ref>Cfr. Leo Strauss, "The Law of Reason in the ''Kuzari''", in ''Persecution and the Art of Writing'' (Glencoe, Ill., 1952), 103.</ref> Il paganesimo, di cui Ha-Levi sembra pensare che l'induismo sia la varietà più antica (e quindi la più formidabile), è liquidato di per se stesso non avendo alcun consenso riguardo alla documentazione scritta della rivelazione e quindi nessuna teologia coerente.<ref>''Kuzari'', 1.61.</ref> Cristianesimo e islam vengono rapidamente eliminati come semplici derivati ​​dell'ebraismo in quanto basano la veridicità delle loro rispettive rivelazioni sulle rivelazioni originali degli ebrei.<ref>''Ibid.'', 1.4, 9.</ref> Quanto al caraiti, sono intrappolati nell'incoerenza di negare la tradizione ma di dover ammettere che la Scrittura stessa è intelligibile solo quando c'è una tradizione per interpretarla.<ref>''Ibid.'', 3.35 segg.</ref>
 
Il ''Kuzari'' è un dialogo tra il re pagano della nazione noto come i [[w:Cazari|Cazari]] e un [[w:rabbino|rabbino]]. L'effetto di questo dialogo è di persuadere il re a convertirsi all'ebraismo, e successivamente a portare a convertirsi il resto del suo regno.<ref>''Ibid.'', 2.1.</ref> Questa, naturalmente, è una scelta umana fondamentale. La maggior parte del dialogo consiste nello spiegare al re i principi fondamentali dell'ebraismo a cui si è convertito. Questo di solito viene fatto rispondendo alle domande astute che il re pone su quegli aspetti dell'ebraismo che sembrano sconcertanti o addirittura irrazionali.
 
Ciò che porta il re alla ricerca che si conclude con la sua conversione all'ebraismo e l'integrazione nei suoi insegnamenti è un sogno inquietante che continua ad avere in cui gli viene detto da un angelo: "La tua intenzione è gradita (''kavvanatekha retsuyah'') a Dio, ma la tua l'azione (''ma’asekha'') non è gradevole".<ref>''Ibid.'', intro., p. 1. </ref> Questo è preoccupante per il re perché soleva essere "molto zelante (''zaheer m’od'') nell'obbedire ai comandamenti (''mitzvot'') della religione cazara".<ref>''Ibid.''</ref> Pertanto, il suo compito è di correlare pensiero e azione in modo veramente soddisfacente. Poiché l'intenzione come pensiero diretto è in definitiva una questione filosofica, è logico che la prima persona che il re consulta nella sua ricerca sia un filosofo. Poiché sembrerebbe che un filosofo, che meglio comprende la vera finalità dell'intenzione, che è la conoscenza di Dio come l'assoluto, dovrebbe meglio insegnare al re come rendere la sua azione coerente con il pensiero. Ciò che viene qui affrontato è la classica questione filosofica della giusta relazione tra eccellenza pratica ed eccellenza teorica, cioè la connessione tra verità e bene. Ciò è particolarmente importante in quanto l'interrogante è un re, un uomo che ha responsabilità politica. In effetti, sembrerebbe che Ha-Levi avesse in mente l'ideale platonico del re-filosofo quando sviluppò questo personaggio nel suo dialogo.<ref>Cfr. Strauss, ''Persecution and the Art of Writing'', 114.</ref>
 
Tuttavia, la risposta del filosofo al re è molto deludente. Poiché limita la scelta umana intelligente a optare per la ''vita contemplativa'', cioè "scegliere (''li-vhor'') sempre (''tamid'') (li-vkor) la verità".<ref>''Kuzari'', 1.2, p. 4. </ref> Quanto alla ''vita activa'', dice semplicemente: "Non ti preoccupare (''al tahush'') con che mezzi tu adori Dio".<ref>''Ibid.''</ref> Quanto alla moralità in sé, egli consiglia semplicemente "conduci te stesso, la tua famiglia e la tua terra con buone qualità (''be-middot tovot'')".<ref>''Ibid.''</ref> Stando così le cose, il filosofo non ha correlato pensiero e azione; ha, piuttosto, reso l'azione quasi arbitraria. Ma se va bene qualsiasi ragionevole linea di condotta, allora perché l'attuale linea di condotta pagana del re è inaccettabile? La sua intenzione – la sua ricerca filosofica – non è forse qualcosa che dovrebbe già rendere accettabile la sua azione?
 
Questa incapacità di correlare l'eccellenza pratica e quella teorica è un particolare difetto della filosofia aristotelica. Lo stesso Aristotele indicò semplicemente che coloro che sono veramente coinvolti nella vita contemplativa sono così lontani dalle preoccupazioni della vita umana ordinaria nella società da essere inutili politicamente.<ref>''Etica Nicomachea'' 1177a25-30.</ref> Tuttavia, per Platone, c'è l'insistenza che in un modo o nell'altro i veri filosofi possono anche essere leader politici efficaci. Nei suoi momenti più ottimistici, Platone insiste sul fatto che l'efficacia politica dei filosofi non è solo malgrado la loro preoccupazione contemplativa, ma proprio per questa.<ref>Cfr. per es., ''Repubblica'' 473D; anche, D. Novak, ''Suicide and Morality'' (New York, 1975), 21 segg.</ref> Tuttavia, sebbene Platone enfatizzi il carattere razionale della filosofia, deve ammettere che la realizzazione della visione della politica filosofica avverrà solo attraverso una "qualche ispirazione divina".<ref>''Repubblica'' 499B.</ref> Solo il fattore divino, il ''tertium quid'', per così dire, può assicurare che ci sarà una situazione umana in cui l'eccellenza pratica e l'eccellenza teorica saranno pienamente correlate. Ma, ahimè, Platone non fu mai in grado di vedere realizzata una tale correlazione.<ref>Per i tentativi di [[Maimonide]] di costituire una connessione più convincente tra eccellenza teorica ed eccellenza pratica/politica, si veda ''[[Guida dei perplessi]]'', 3.54.</ref>
 
Con questo in mente, possiamo ora apprezzare il rifiuto da parte di Ha-Levi della filosofia per l'inadeguatezza nell'affronater la vita umana più piena con Dio e l'uomo. A questo proposito dice: "Considerando le azioni dei filosofi e considerando la loro conoscenza, considerando la loro ricerca della verità (''dorsham et ha’emet'') e considerando il loro sforzo personale (''hishtadlutam'') in questa materia, avrebbe dovuto essere il caso (''min hara’ui'') che la profezia divenisse manifesta e presente tra loro a causa del loro attaccamento alle cose spirituali (''ha-deveqim be-ruhaniyyim'')".<ref>''Kuzari'', 1.4, p. 5.</ref> Ora, perché è un'autocontraddizione dei filosofi che non sono mai diventati profeti? È la profezia a cui tendono i loro sforzi? La risposta è no, se l'intento dei filosofi è quello di essere filosofi alla maniera di Aristotele, cioè filosofi che si occupano realmente solo della ''vita contemplativa''. Ma se l'intento dei filosofi è quello di essere filosofi nello stampo di Platone, cioè coloro che si sforzano di unificare il teorico e il pratico, allora la risposta è sì. Perché, come Maimonide sottolineò meno di un secolo dopo, seguendo in gran parte l'arabo platonico [[w:Al-Farabi|Al-Farabi]], il profeta è colui che combina in modo più completo l'eccellenza teorica e pratica ed è in grado di utilizzare questa combinazione integrale per governare al meglio.<ref>Cfr. ''[[Guida dei perplessi]]'', 2.36 segg.; 3.27; inoltre, Leo Strauss, "Quelques remarques sur la science politique de Maimonide et de Farabi", ''Revue des Etudes Juives'' (1936), 100:1-37.</ref>
 
=== Lo stato soprannaturale di Israele ===