Riflessioni su Yeshua l'Ebreo/Sacrificio religioso: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
testo
testo
Riga 36:
 
[[File:Pidyon HaBen P6020102.JPG|right|200px|thumb|''"[[w:Pidyon HaBen|Pidyon HaBen]]"'': riscatto del primogenito]]
Inoltre, l'ebraismo non ha mai rifiutato del tutto l'idea che Dio richieda il sacrificio del figlio primogenito. Comunque valutiamo l'esistenza del sacrificio di bambini nell'[[w:Giuda (tribù)|antica Giuda]], in Israele, in Canaan e nelle colonie di Canaan-Fenicia, è evidente che abbiamo a che fare con un Dio che esige la morte di bambini. Riflettendo sulla questione del sacrificio di bambini nell'ebraismo e nel cristianesimo, Levenson commenta, "il complesso mitico-rituale che chiamo ‘sacrificio di bambini’ non fu mai stato sradicato; fu solo trasformato".<ref>Levenson, ''The Death and Resurrection'', 45.</ref> Un primario esempio di questa trasformazione è il rituale ''[[w:Pidyon HaBen|''pidyon haBen'' (פדיון הבן‎)]]'' in adempimento del comandamento già annotato: "Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a Me a mani vuote" (Esodo 34:20). Nella cerimonia (ancor oggi) il padre presenta il suo figlio primogenito a un ''[[w:sacerdote (ebraismo)|cohen]]'' o preposto sacerdote il trentesimo giorno dopo la sua nascita, dopodiché il sacerdote chiede al padre: "Quale preferisci, tuo figlio o il tuo denaro?" Il padre dichiara di preferire suo figlio e presenta al ''cohen'' cinque monete d'argento, l'equivalente simbolico di cinque sicli biblici, per "riscattare" suo figlio. Il sacerdote accetta le monete con la formula rituale: "Queste (monete) al posto di quello (il bambino). Questo in cambio di quello." Lo scopo fondamentale della cerimonia è di riconoscere subliminalmente le nostre tendenze infanticide e deviarne. A suo modo, questo motivo è operativo anche nel cristianesimo, poiché è Cristo, il Figlio, che viene sacrificato affinché gli altri possano essere redenti. Tuttavia capisco che, a un certo livello, il rituale ebraico riconosce che il potere sotterraneo dell'impulso infanticida non è mai del tutto scomparso. Oggi, la cerimonia è un'occasione familiare felice e pochi partecipanti, se non nessuno, sono consapevoli del suo significato più antico.
 
Non solo la tradizione ebraica continua ancor oggi la cerimonia del ''pidyon haBen'', ma, come abbiamo visto, in uno dei giorni più sacri dell'ebraismo, agli ebrei viene ricordato che la morte del figlio primogenito del loro patriarca ancestrale fu scongiurata solo a causa dell'incondizionata obbedienza al terribile comando di Dio. Pertanto, la Scrittura descrive un "angelo del Signore" che dice ad Abrahamo: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio". (Gen. 22:12) Segue un secondo discorso angelico. Ad Abramo viene detto: "Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce" ({{passo biblico2|Genesi|22:18}}) Non solo il sacrificio è stato evitato a causa dell'obbedienza incondizionata di Abramo, ma l'Alleanza di Dio è stata conferita a lui e ai suoi discendenti a causa di tale stessa obbedienza. Inoltre, l'obbedienza di Abramo fu pari a quella di suo figlio. La Scrittura descrive Isacco mentre chiede a suo padre: "Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" E Abramo risponde: "Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". La Scrittura quindi riporta: "E proseguirono tutti e due insieme" ({{passo biblico2|Genesi|22:7-8}}) indicando in tal modo la loro completa unità di risolutezza.<ref>Si veda Levenson, ''The Death and Resurrection'', 133-40.</ref> Alcune tradizioni si riferiscono alle "ceneri di Isacco" e affermano che Abramo compì il sacrificio ma che Isacco fu risorto.<ref>Si veda Levenson, ''The Death and Resurrection'', 298-99.</ref> Il poeta del XII secolo, Rabbi [[:en:w:Ephraim of Bonn|Efraim ben Jacob di Bonn]] (nato nel 1132), raffigurò Isacco mentre implorava Abramo così:
Riga 66:
Levenson vede echi del ruolo di Isacco nell’''Aqedah'' per la designazione di Gesù come il Figlio prediletto di Dio, ma c'è una grande ironia in questa designazione. Essere il prediletto figlio di Dio o anche il figlio benamato nel complesso religioso israelita-cananeo-fenicio non è una promessa di felicità duratura. Troppo spesso il destino del benamato figlio era quello di subire una prova sacrificale suprema o ancor peggio. A Cartagine, le famiglie nobili spesso sacrificavano ciò che era più prezioso per loro, il loro bambino, come dono alla dea [[w:Tanit|Taanit]] o al dio [[w:Ba'al Hammon|Baal Hammon]]. Inoltre, in una fase molto precoce, la neonata comunità cristiana arrivò a credere che il servo sofferente di {{passo biblico2|Isaia|52:13-53:12}} fosse collegato all'idea di Gesù come il Figlio prediletto di Dio. Ciò contribuì a trasformare la crocifissione da un'arma di morte dolorosa a una certezza di vita eterna.<ref>Levenson, ''The Death and Resurrection'', 200-01.</ref> Isacco, il servo sofferente di Isaia, e Gesù devono entrambi sottoporsi a un terribile confronto con la morte per compiacere il loro Padre celeste.<ref>Levenson, ''The Death and Resurrection'', 202.</ref>
 
Al primo incontro di Gesù e Giovanni Battista, il quarto Vangelo descrive il Battista che dichiara: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!" ({{passo biblico2|Giovanni|1:29}}). Queste parole sono state incorporate nella Messa latina come ''[[:en:w:Agnus Dei|Agnus Dei qui tollis peccata mundi]]'', "un'immagine che prefigura la prossima passione".<ref>Paula Fredricksen, ''From Jesus to Christ'', II ediz. (New Haven: Yale University Press, 2000), 20.</ref> In realtà, questa doppia identificazione di Gesù come Figlio di Dio e Agnello di Dio potrebbe non indicare una reale differenza, in quanto il termine Figlio di Dio può anche indicare il ruolo di Gesù come vittima sacrificale.
 
Potrebbe esserci qualche domanda riguardante la veridicità storica della versione di Giovanni dell'incontro tra il Battista e Gesù. Tuttavia, poiché Giovanni descrive Gesù come uno straniero che discende da un regno celeste per un soggiorno temporaneo sulla terra, i dettagli storici riguardanti le attività terrene di Gesù erano meno preoccupanti per lui che non per Marco, Matteo e Luca. Quindi, almeno nel racconto riguardante il coinvolgimento delle autorità ebraiche nella morte di Gesù, [[w:Paula Fredriksen|Paula Fredricksen]] sostiene che Giovanni potrebbe in effetti preservare più dettagli storici di quanto non facciano gli scrittori evangelici successivi.<ref>Fredricksen, ''From Jesus'', 204.</ref>
 
Il primo racconto scritto su Gesù, le lettere di Paolo, identifica Gesù come l'Agnello Pasquale. Paolo non solo era a suo agio nell'usanza ebraica, ma il simbolismo e lo stato d'animo della [[w:Pesach|Pasqua]] sono presenti in 1 Corinzi dove Paolo chiama Cristo "la nostra Pasqua" e usa come metafora l'usanza ebraica di purificare la casa da tutto il lievito prima della festività di Pesach per l'autopurificazione morale della Chiesa di Corinto ({{passo biblico2|1Corinzi|5:6-8}}).<ref>Richard L. Rubenstein, ''My Brother Paul'' (New York: Harper and Row, 1972), 91.</ref> La prima lettera di Paolo ai Corinzi è anche il più antico documento cristiano esistente sulla Cena del Signore.<ref>Jean Hering, ''The First Epistle of Saint Paul to the Corinthians'', trad. A. W. Heathcote e P. J. Allcock (Londra: Epsworth Press, 1962), 115.</ref> Sebbene Paolo non abbia lasciato un'esposizione sistematica del significato dell'Eucaristia, egli discute in modo approfondito la Cena del Signore in due passaggi di tale epistola. In questi passaggi si riferisce alla Cena del Signore in connessione con i suoi sforzi per affrontare i problemi sorti a Corinto in sua assenza. Mettendo in guardia i credenti di Corinto dal comportamento immorale e idolatra, Paolo scrive:
{{q|Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane... Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni.|{{passo biblico2|1Corinzi|10:16-21}}}}
Nel capitolo successivo, Paolo scrive:
{{q|Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie (''eucharistéō''), lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.|{{passo biblico2|1Corinzi|11:23-26}}}}
 
Nella sua forma scritta, il racconto di Marco della Cena del Signore ({{passo biblico2|Marco|14:12-26}}) è di alcuni anni più tardi di quello di Paolo, ma probabilmente riflette la stessa tradizione orale utilizzata da Paolo. Sebbene il racconto di Paolo differisca in qualche modo da quello di Marco nei dettagli, c'è un accordo fondamentale che suggerisce che la chiesa primitiva conservò un ricordo ben definito dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli, in cui identificò il pane e il vino con il proprio corpo e sangue. In tal modo, Gesù aprì la possibilità allo sviluppo di un rituale sacrificale centrato nella propria persona. Tuttavia, l'Ultima Cena di Gesù non è ancora un pasto in cui Gesù stesso è la vittima sacrificale. Durante l'Ultima Cena, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio" ({{passo biblico2|Marco|14:25}}). Queste parole indicherebbero che l'Ultima Cena fu principalmente una festa di commiato e di speranza anticipatoria. Gesù attendeva con ansia il tempo in cui sarebbe stato di nuovo a mangiare in compagnia dei suoi discepoli "nel regno di Dio". È consenso dell'opinione accademica che la promessa di Gesù si riferisca alla futura festa messianica che il Messia godrà con i fedeli quando tutto sarà compiuto.
 
È molto probabile che la promessa di Gesù di tornare corrispondesse al desiderio più profondo dei suoi discepoli. Erano consapevoli della minaccia terminale che incombeva sulla vita del loro maestro e non era affatto certo che il gruppo potesse mantenersi e continuare senza di lui. In virtù dell'impatto assolutamente unico che Gesù aveva sui suoi seguaci, egli non poteva proprio essere sostituito. Con ogni probabilità, le sue parole di fiduciosa certezza che sarebbe tornato riflettevano la sua comprensione intuitiva di ciò che la sua perdita avrebbe significato per loro.
 
[[w:Oscar Cullmann|Oscar Cullmann]] ha commentato che i pasti condivisi dai discepoli subito dopo la morte di Gesù erano inizialmente pasti di gioia e di ringraziamento piuttosto che dolorose commemorazioni della crocifissione.<ref>Oscar Cullmann, ''Early Christian Worship'', trad. A. Stewart Todd e James B. Terrence (Londran: SCM Press, 1962), 10-15.</ref> Secondo Atti, i discepoli "ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con gioia e semplicità di cuore" ({{passo biblico2|Atti|2:46}}). Se i pasti che condividevano avessero avuto un carattere spiccatamente sacrificale, enfatizzando la consumazione del corpo e del sangue di Cristo risorto, è improbabile che avrebbero continuato a incontrarsi "ogni giorno nel Tempio" dove venivano offerti i tradizionali sacrifici ebraici.
 
Forse il modo più utile per comprendere l'evoluzione dell'Eucaristia si trova nella distinzione di Oscar Cullmann tra i primi pasti sacri, in cui i discepoli mangiavano con Cristo, e il successivo Pasto del Signore, in cui Cristo fu mangiato.<ref>Cullmann, ''Early Christian Worship'', 19.</ref> I pasti gioiosi della comunione in cui Cristo risorto era presente ai suoi discepoli, erano pasti in cui i discepoli o mangiavano con Cristo o si aspettavano di mangiare con lui durante la festa messianica. Tuttavia, ci fu un momento in cui la speranza anticipata del ritorno di Cristo predominava sul sentimento della sua presenza. Le fonti descrivono Cristo come presente subito dopo la Risurrezione, ma, in breve tempo, i discepoli sono lasciati a continuare la loro opera senza di lui. È a questo punto che il loro desiderio del suo ritorno deve essersi intensificato. Questo desiderio è fortemente espresso nella liturgia eucaristica conservata nella ''[[w:Didaché|Didaché]]'', che la maggior parte degli studiosi data non più tardi del 150 e molti molto prima. Quando il pasto sacro si conclude, il leader prega: "Si avvicini la sua Grazia (cioè Cristo) e il mondo present passi via". La congregazione risponde: "Osanna all'Iddio di Davide". Leader: "Chi è santo, si avvicini. Chi non lo è, si ravveda". La congregazione conclude con il ''[[w:Maràna tha|Maranatha]]'': "O Signore, vieni presto. Amen."<ref>''Didache'', trad. {{en}} Maxwell Staniforth, in ''Early Christian Writings: The Apostolic Fathers'' (Harmondsworth, Middlesex: Penguin Books, 1968), 231-35.</ref>
La versione ''Didaché'' dell'Eucaristia si basa sull'assicurazione di Gesù ai suoi discepoli che egli non avrebbe bevuto più vino fino a quando non lo avesse fatto nel regno di Dio. Questa versione esprime la nota di anticipazione e aspettativa che abbiamo già notato nelle prime forme del pasto sacro cristiano. Tuttavia, c'è un limite alla capacità umana di desiderio non corrisposto. In definitiva, gli uomini devono scegliere di abbandonare l'oggetto del desiderio e reinvestire la loro energia emotiva altrove oppure di trovare un modo per ricongiungersi all'oggetto perduto.
 
Tale modo fu trovato mediante l'identificazione con Cristo. Nel corso della sua vita, Paolo vide il problema fondamentale dell'umanità in questi termini: come possiamo ottenere il giusto rapporto con il nostro Creatore? Prima della conversione, la sua risposta era la classica risposta ebraica: gli esseri umani raggiungono il giusto rapporto tramite l'obbediente sottomissione alla volontà di Dio. Questa sottomissione era il motivo per cui l'ebraismo normativo è sempre stato la religione della Torah e dei suoi autorevoli interpreti. Dopo la conversione, Paolo trovò un altro modo per ottenere una relazione accettabile con Dio: l'identificazione con Cristo. L'identificazione è quindi una categoria cruciale in cui sia il mondo religioso che quello psicologico si intersecano nell'esperienza di Paolo e dei suoi eredi spirituali.
 
Sono in debito con l'importante studio di [[w:Albert Schweitzer|Albert Schweitzer]] per gran parte della mia interpretazione del ruolo d'identificazione nel pensiero e nell'esperienza religiosa di Paolo.<ref>Albert Schweitzer, ''The Mysticism of Paul the Apostle'', trad. {{en}} William Montgomery (Londra: A &C Black, 1953); cfr. anche W. D. Davies, "Paul and Judaism Since Schweitzer", in Davies, ''Paul and Rabbinic Judaism: Some Rabbinic Elements in Pauline Thought'' (New York: Harper Torchbooks, 1967), vii-xv.</ref> Prima di Schweitzer, gli studiosi protestanti del Nuovo Testamento tendevano a leggere Paolo attraverso gli occhi e l'esperienza di [[w:Martin Lutero|Martin Lutero]], sottolineando la centralità della dottrina della giustificazione mediante la fede. Schweitzer sostenne che la dottrina della giustificazione per fede, anche se indubbiamente di grande importanza, era meno centrale nel pensiero di Paolo del suo "misticismo di Cristo" e della sua escatologia. Invece di considerare Paolo come un oppositore dell'ebraismo, come tendevano a fare i primi studiosi protestanti, Schweitzer lo interpretò come '''un ebreo leale convinto che il Cristo risorto avesse iniziato l'era messianica'''.<ref>Schweitzer, ''The Mysticism of Paul'', 52-74.</ref> Secondo Schweitzer, Paolo capì il tipo di esistenza che i cristiani battezzati avrebbero goduto nell'era messianica sarebbe stata letteralmente quella della solidarietà corporale con il corpo glorificato e immortale del Cristo risorto. Schweitzer affermò che la concezione fondamentale del misticismo di Cristo proposta da Paolo è che gli eletti e Cristo partecipano a un'identità corporea comune.<ref>Schweitzer, ''The Mysticism of Paul'', 116-25.</ref> Questa identificazione è espressa in modo più grafico nell'esclamazione di Paolo che, essendo stato crocifisso con Cristo, non è più lui che vive ma Cristo che vive in lui ({{passo biblico2|Galati|2:20}}: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me"). Paolo descrisse che i cristiani si erano "rivestiti" di Cristo, e con questo intendeva dire che Cristo era il loro nuovo corpo celeste piuttosto che il loro nuovo abito ({{passo biblico2|Galati|3:27}}; {{passo biblico2|Romani|13:14}}; cfr. {{passo biblico2|2Corinzi|5:3,4}} ; {{passo biblico2|Efesini|4:24}}; {{passo biblico2|Colossesi|3:10}}).
 
Secondo Paolo, nel battesimo i cristiani si identificano sia con la morte di Cristo che con la sua risurrezione. Pertanto, in {{passo biblico2|Romani|6:3-4}} Paolo scrive: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova". E in {{passo biblico2|Colossesi|2:12}}: "Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti".
 
L'idea che al battesimo i cristiani entrino in una nuova vita, in realtà la vera vita per la prima volta, fu centrale nel suo pensiero. Mise a confronto l'esistenza precristiana del convertito, nella migliore delle ipotesi una sorta di morte vivente che termina con la morte effettiva, con la sua vita cristiana, che era in procinto di diventare vita come era stata intesa da Dio prima del peccato di Adamo, la vita priva delle relative maledizioni del peccato e della mortalità ({{passo biblico2|1Corinzi|15:21-2}}; {{passo biblico2|Romani|5:12-15}}). Paolo descrisse ripetutamente il cristiano battezzato come ''en Christo'', "in Cristo", e insistette sul fatto che ''en Christo'' il cristiano diveniva un uomo nuovo. Scrisse ai Corinzi: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" ({{passo biblico2|2Corinzi|5:17}}). L'identità del cristiano è così radicalmente trasformata dalla sua esistenza in Cristo che Paolo poteva affermare della propria identità postbattesimale: "In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" ({{passo biblico2|Galati|2:19-20}}).