Riflessioni su Yeshua l'Ebreo/Storie di Gesù: differenze tra le versioni

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Il tema principale di questa sezione della preghiera ''Shemoneh Esreh'' è la risurrezione, menzionata due volte apertamente nelle invocazioni 16 e 20 e meno ovviamente nell'invocazione 15.<ref>Quale di questi "quasi sinonimi" in italiano coglie il senso inteso dagli autori ebraici dipende dalle loro concezioni di morte. Nel periodo pre-esilico, è possibile che la morte fosse concepita come qualcosa che accadeva alle persone sulla terra che poi portava alla loro traduzione nello Sheol dove continuavano un'esistenza dopo la morte in corpi essiccati ma con personalità intatta. Cfr. Ziony Zevit, "The Two-bodied People, Their Cosmos, and The Origin of the Soul", in ''Maven in Blue Jeans: Festschrift in Honor of Zev Garber'', cur. Steven L. Jacobs (Purdue University Press, 2009), 465-69.<br/>Le concezioni di ciò che accadeva dopo la morte molto probabilmente cambiarono in modo significativo nel periodo post-esilico, e poi di nuovo durante il periodo greco-romano, durante il quale fu composta la ''Shemoneh Esreh''. Con ogni diversa concezione della morte, cambiava anche l'idea di ciò che la rinascita o la risurrezione realizzava.</ref> Considerate insieme, 15-16 e 20 possono essere interpretate come riferite a Dio che sostiene la vita, resuscita i morti, e mantiene la Sua promessa a coloro che non sono ancora risorti.<ref>Non è chiaro cosa significhi l'invocazione 16. Tradotta letteralmente, "fa/i vivere i morti", se confrontata con l'invocazione 20 potrebbe portare alla conclusione che la liturgia dichiari che la risurrezione di alcuni potrebbe già essere avvenuta e che si tratta di un processo in corso piuttosto che un evento futuro.</ref>
 
Gli altri temi nelle invocazioni 17-19 che interrompono la sequenza della risurrezione potrebbero essere stati inseriti da qualcuno che pensava di chiarire cosa costituisse la risurrezione, o che interpretava l'invocazione 18 con "far vivere i morti" per riferirsi a coloro che sono così malati da considerarli già morti. Ciò non avrebbe fatto apparire ridondante l'invocazione finale.<ref>Si veda Elbogen, ''Jewish Liturgy'', 39, per un a discussione di queste frasi.</ref> Ciò che è significativo, tuttavia, è che il linguaggio di queste invocazioni, come la maggior parte delle quattordici sopra riportate, è anch'esso tratto dalla Scrittura.
 
Le 20 invocazioni di cui sopra descrivono parte del carattere complesso della divinità invocata dagli ebrei dopo il 250 p.e.v. come [[w:Adonai|Adonai]], "Mio Signore".<ref>Questo soprannome rimane in uso a tutt'oggi.</ref> È a lui che gli ebrei dirigevano le loro petizioni, aspettandosi una risposta del tutto positiva, ma non sempre ricevendola. Dal II secolo p.e.v., come risulta in gran parte della letteratura pseudepigrafica, e certamente dopo la distruzione del Secondo Tempio, Dio era considerato più universale che locale, più trascendente che immanente, sebbene disponibile a coloro che Lo chiamavano. Ritenevano che le sue caratteristiche fossero eterne e immutabili – in un vago senso neoplatonico – e reali. Cioè, non Lo lusingavano attribuendogli delle caratteristiche nella speranza che Egli potesse effettivamente operare dei cambiamenti nelle varie aree coperte dalle descrizioni; piuttosto, le caratteristiche erano astrazioni basate su eventi registrati.<ref>Non possiamo parlare di un canone Tanakh a questo punto nel tempo, poiché la canonizzazione, intesa come un atto ufficiale compiuto da un organismo autorevole, non si era verificata nel I secolo e.v. anche se la Torah, i Salmi e la maggior parte dei libri dei primi e ultimi profeti circolavano come raccolte e comprendevano, almeno in parte, la raccolta delle pergamene ebraiche. Si veda, Ziony Zevit, "The Second-Third Century Canonization of the Hebrew Bible and Its Influence on Christian Canonizing" in ''Canonization and Decanonization: Papers Presented to the International Conference of the Leiden Institute for the Study of Religions (LISOR), Held at Leiden 9-10 January 1997'', curr. Arie van der Kooij & Karel van der Toorn (Leiden: Brill, 1998), 133-60.</ref> Espresse da participi in una frase nominale, le predizioni delle ''Gevurot'' dichiarano che ciò che Dio fece in passato continua a farlo nel presente. La Sua presenza nel mondo è indicata dal Suo coinvolgimento attivo e continuo in queste questioni. Le invocazioni riflettono una controtendenza nell'ebraismo, una reazione di molti al distanziamento di Dio riflesso, ad esempio, nella teologia della comunità di Qumran e nel persistente copiare e tradurre i testi pseudepigrafici. Questa controtendenza alla fine divenne profondamente radicata nel primo ebraismo rabbinico, e ad esso normativa.
 
Inoltre, come ha sottolineato Efraim Urbach, nel II secolo e.v., le attestazioni visibili delle potenti azioni elencate nelle ''Gevurot'' erano considerate manifestazioni dell'autorivelazione di Dio nel mondo a beneficio di tutte le persone, non solo degli ebrei. Infatti, in gergo rabbinico, Dio veniva indicato come ''ba‘al gevurot'', Signore di ''gevurot'', l'equivalente ebraico del greco δύναμις (''dýnamis''), potenza o autorità.<ref>Ephraim E. Urbach, ''The Sages—Their Concepts and Beliefs'' (Gerusalemme: Magnes Press, 1975), 86-96 (e le note allegate nel volume 2).</ref>
 
Sebbene il linguaggio delle predizioni fosse tratto quasi esclusivamente da Isaia e dai Salmi, si credeva che Dio si fosse guadagnato queste invocazioni grazie a manifestazioni passate. Le rispettive illustrazioni possono essere trovate per la maggior parte nelle narrazioni bibliche.
 
Le dichiarazioni sopra elencate con 2, 3, 4 sono meno invocazioni a Dio e più espressioni di ringraziamento riguardanti l'educazione civica postbiblica. Non ci aspetteremmo di trovarle nei racconti biblici. Le invocazioni 12 e 13 sono troppo vaghe per essere collegate ad una particolare narrazione. Restano 5-11 e 14-20, per un totale di 14 invocazioni. Alcune di queste sono identiche: i numeri 7 e 19, 10 e 15, e 16 e 20 sono uguali, sebbene anche 8 e 17 sembrino simili. Ciò riduce il numero di predizioni uniche a 11. La maggior parte di queste si riferisce a storie in cui Dio o un agente con autorità divina agisce per conto di una persona. Vediamole...
 
== Storie del Tanakh che giustificano le invocazioni ==
;1. Che ha dato al gallo intelligenza per distinguere il giorno dalla notte
: Secondo {{passo biblico2|Giobbe|38:36}} ciò si riferisce ad un qualche accadimento primordiale non citato altrove nella Bibbia. La parola, tradotta "gallo", a volte è resa con "mente umana" o simile, per superare l'imbarazzo di questa benedizione. Il versetto in Giobbe rimane poco compreso.
;5. Che apre gli occhi ai ciechi
: Dio aprì gli occhi a Balaam ed egli vide un angelo ({{passo biblico2|Numeri|22:31}}).
: Eliseo pregò Dio affinché aprisse gli occhi del suo servo in modo che il servo potesse vedere i cavalli soprannaturali e i carri di fuoco che li avrebbero protetti da un manipolo di razziatori aramei inviato per catturarlo ({{passo biblico2|2Re|6:15-17}}). Dopo che Dio ebbe accecato gli aramei con la luce, Eliseo li condusse in Samaria e pregò affinché gli occhi degli aramei venissero aperti ({{passo biblico2|2Re|6:18-20}}).
:Entrambe le storie usano i verbi dalla radice ''p-q-ch'' come la benedizione. Non ci sono, tuttavia, storie di persone cieche dalla nascita o accecate permanentemente per infortunio che vengano guarite.
;6. Che veste gli ignudi
: Dio creò abiti esterni adeguati per Adamo ed Eva nudi e li vestì ({{passo biblico2|Genese|3:21}}). Soddisfò inoltre i bisogni degli Israeliti durante il periodo che vagavano nel deserto. Israele non mancò di vestiti nuovi o sandali nel deserto perché quelli che aveva non si consumarono mai ({{passo biblico2|Deuteronomio|8:4;29:4}}).
;7 (e 19). Che libera i prigionieri
: È possibile citare alcune storie come quelle di come Giuseppe prosperò in prigione e fu poi rilasciato ({{passo biblico2|Genesi|39:19-23;41:14}}), come Sansone ({{passo biblico2|Giuda|16:25}}) e Geremia ({{passo biblico2|Geremia|37:15-38:13}}) fossero rilasciati dal carcere, ma questi sono solo esempi figurativi.