Ragionamento sull'assurdo/Parte VI

Indice del libro


"Sisifo e un'Erinna", su un vaso di Canosa
"Sisifo e un'Erinna", su un vaso di Canosa
« Perché si dovrebbe amare raramente per amare molto? »
(Albert Camus, Il mito di Sisifo)

L'ironia dell'assurdo

modifica

Osservando noi stessi da una prospettiva più ampia di quella che possiamo occupare fisicamente, diventiamo spettatori della nostra stessa vita. Non possiamo fare granché come puri spettatori della nostra stessa vita, quindi continuiamo a viverla e ci dedichiamo a ciò che allo stesso tempo siamo in grado di osservare come ad una curiosità, come fosse un rituale di una religione aliena.

Questo spiega perché il senso di assurdità trova la sua espressione naturale in quei cattivi argomenti con cui è iniziata la nostra discussione. Il riferimento alle nostre piccole dimensioni e alla nostra breve durata e al fatto che tutto il genere umano alla fine svanirà senza lasciare traccia, sono metafore del succitato passo indietro che ci consente di considerarci dall'esterno e di ritenere la particolare forma della nostra vita curiosa e leggermente sorprendente. Fingendo una veduta stratosferica, illustriamo la capacità di vederci senza presupposti, come occupanti arbitrari, idiosincratici, altamente specifici del mondo, una delle innumerevoli possibili forme di vita.[1]

Prima di passare alla domanda se l'assurdità della nostra vita sia qualcosa di cui pentirsi e, se possibile, sfuggire, lasciatemi considerare a cosa si dovrebbe rinunciare per poterlo evitare.

Perché la vita di un topo non è assurda? Neanche l'orbita della luna è assurda, ma ciò non comporta nessuno sforzo o scopo. Un topo, tuttavia, deve lavorare per rimanere in vita. Eppure il topo non è assurdo, perché gli mancano le capacità di autocoscienza e di autotrascendenza che gli permetterebbero di vedere che è solo un topo. Se ciò fosse accaduto e ne avesse le capacità, la sua vita diventerebbe assurda, poiché l'autocoscienza non gli farebbe cessare di essere un topo e non gli permetterebbe di elevarsi al di sopra dei suoi affanni muridi. Portando con sé la sua nuova autocoscienza, dovrebbe tornare alla sua vita misera ma frenetica, piena di dubbi a cui non sarebbe in grado di rispondere, ma anche pieno di propositi che non sarebbea in grado di abbandonare.

Dato che il passo trascendentale è naturale per noi umani, possiamo evitare l'assurdità rifiutandoci di fare quel passo e rimanere interamente nelle nostre vite sublunari? Bene, non possiamo rifiutarci consapevolmente, perché per farlo dovremmo essere consapevoli del punto di vista che ci stiamo rifiutando di adottare. L'unico modo per evitare la pertinente autocoscienza sarebbe o di non raggiungerla mai o di dimenticarla — nessuna delle quali alternative può essere ottenuta dalla volontà.

D'altra parte, è possibile spendere sforzi nel tentativo di distruggere l'altro componente dell'assurdo — abbandonare la propria vita terrena, individuale, umana per identificarsi il più completamente possibile con quel punto di vista universale dal quale la vita umana sembra arbitraria e banale. (Tale sembra essere l'ideale di alcune religioni orientali.) Se uno ha successo e ci riesce, allora non dovrà strascinare la consapevolezza superiore attraverso una vita mondana faticosa, e l'assurdità diminuirà.

Tuttavia, nella misura in cui questo auto-eziolamento è il risultato di impegno, forza di volontà, ascetismo e così via, richiede che ci si prenda sul serio come individui — che si sia disposti a impiegare tutte le proprie risorse per riuscire ad evitare di essere creaturali e assurdi. In tal modo si può minare lo scopo dell'oltremondanità perseguendola troppo vigorosamente. Tuttavia, se qualcuno permettesse semplicemente alla sua natura individuale e animale di andare alla deriva e di reagire all'impulso, senza fare del perseguimento dei suoi bisogni un obiettivo cosciente centrale, allora, a costi dissociativi considerevoli, potrebbe ottenere una vita meno assurda degli altri. Ma non sarebbe neppure una vita significativa, ovviamente; tuttavia non implicherebbe l'impegno di una consapevolezza trascendente nell'assidua ricerca di obiettivi banali. E questa è la condizione principale dell'assurdità: la coercizione di una coscienza trascendente non convinta al servizio di un'impresa immanente e limitata com'è la vita umana.[1]

"Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio" dice Camus. L'ultima fuga infatti è il suicidio; ma prima di adottare soluzioni affrettate, sarebbe saggio considerare attentamente se l'assurdità della nostra esistenza ci presenti davvero un problema, al quale bisogna trovare una soluzione: un modo per affrontare il disastro prima facie. Questo è certamente l'atteggiamento con cui Camus affronta il problema e ottiene sostegno dal fatto che siamo tutti desiderosi di sfuggire a situazioni assurde su scala minore.

Camus – non per motivi uniformemente buoni – rifiuta il suicidio e le altre soluzioni che considera d'evasione. Ciò che raccomanda è sfida o disprezzo: "Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo". Possiamo salvare la nostra dignità, sembra credere Camus, agitando un pugno al mondo che è sordo ai nostri motivi, e continuando a vivere nonostante ciò. Questo non renderà la nostra vita non-assurda, ma le darà una certa nobiltà.[2]

Questo mi sembra romantico e un po' autocommiserante. La nostra assurdità non garantisce né tanta angoscia né tanta ribellione. A rischio di cadere nel romanticismo da una strada diversa, direi che l'assurdità è una delle cose più umane che ci riguardano: una manifestazione delle nostre caratteristiche più avanzate e interessanti. Come lo scetticismo nell'epistemologia, è possibile solo perché possediamo un certo tipo di intuizione: la capacità di trascendere noi stessi pensando.

Se il senso dell'assurdo è un modo di percepire la nostra vera situazione (anche se la situazione non è assurda fino a quando non si manifesta la percezione), allora quale ragione possiamo avere di risentirci o di sfuggirgli? Come la capacità di scetticismo epistemologico, esso deriva dalla capacità di comprendere i nostri limiti umani. Non deve essere una questione di agonia a meno che lo vogliamo. Né è necessario evocare un disprezzo provocatorio del destino che ci consenta di sentirci coraggiosi o orgogliosi. Tali melodrammi, anche se portati avanti in privato, tradiscono l'incapacità di apprezzare la futilità cosmica della situazione. Se sub specie aeternitatis non c'è motivo di credere che qualsiasi cosa abbia importanza, allora non importa neanche questo, e possiamo affrontare le nostre assurde vite con ironia anziché eroismo o disperazione.

  1. 1,0 1,1 Per questa sezione si vedano int. al., Paul Feyerabend, L'irrazionalismo in filosofia e nella scienza, a cura di A. Crescini, La Scuola editore, 1989; Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, Cronopio, 2000; Andrea Gentile, Sulla soglia. Tra la linea-limite e la linea d'ombra, IF Press, 2012; Gianni Paganini, Scepsi moderna. Interpretazioni dello scetticismo da Charron a Hume, Busento, 1991; Silvano Tagliagambe, L'epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, 1991; infine il già spesso citato Raymond Angelo Belliotti, Is Human Life Absurd? A Philosophical Inquiry into Finitude, Value, and Meaning, BRILL, 2019, passim.
  2. "Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce l'intera portata della sua miserabile condizione: è quello che pensa durante la sua discesa. La lucidità che doveva costituire la sua tortura corona la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo" (Il Mito di Sisifo, ediz. Vintage, p. 90).