Linguistica contestuale/De vulgari eloquentia

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Intuizioni dantesche di chiarissima attualità sono: la considerazione del linguaggio come «forma» e del «segno» come «libero»; il riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di «lingua» come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.

Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illustrati da Antonino Pagliaro[1].

Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.

La parola è per lui il «segno fonico», come noi l'intendiamo, «rationale et sensuale» (De vulgari eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perché gli uomini ve lo attribuiscono: «nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idest ad placitum» (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcunché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appare significare alcuna cosa a piacimento)[2].

Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ragione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu necessariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare (De V.E. I, III, 2).

Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione.

Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno linguistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni variamente organizzati. Tale arbitrarietà («aliquis significare ad placitum») è legata da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che obbediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emotive («per proprios actus vel passiones» — per mezzo dei suoi propri atti o passioni — De V.E., I, III, 1).

La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'attuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della libertà che è inerente alla loro «ratio»:

« Opera naturale è ch'uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v'abbella »
(Paradiso XXVI, 130-132))

A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse. Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e originale. Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.

« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medesima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano »
(De V.E. I, VII, 7)

Dante individua nel bisogno di comunicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.

Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria «sinergastica» (greco: synergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.

Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama «idioma tripharium» come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.

Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.

E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la «lingua del sì», la «lingua d'oïl» e la «lingua d'oc» sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della «lingua del sì» alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comunione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della «lingua» nel senso «storico» della parola.

« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane.
E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede »
(De V.E. I, XVI, 3-4)

È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.

Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva intuito, che l'affermarsi di una lingua comune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, politiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il prestigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.

Ma Dante non si trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.

Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali, primissima signa, il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.

Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di creazione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.

Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine linguistiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come «forma» (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del «segno» come «libero» (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di «lingua» come «comunione linguistica» nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.

  1. A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dottrina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.
  2. Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b