Filosofia dell'informatica/Le radici filosofiche dell'informatica

Indice del libro

L'eredità pitagorica

modifica

L'assunto di fondo della filosofia digitale è che l'universo possa essere presentato come una gigantesca macchina che processa informazione di bits, di 0 e di 1. Tale impostazione epistemologica può essere ricondotta a un'antica tradizione di pensiero, la quale ha inizio con la Scuola italica di matematiche: i Pitagorici per primi credettero che i principi della matematica fossero principi di tutti gli esseri. Il modello bipolare è caratteristico di molte scuole filosofiche dell'antichità: anche per i pitagorici, tutti i numeri del mondo possono essere ricavati da due soli principi, il pari e il dispari, l'illimite e il limite.

I Pitagorici erano convinti che l’universo si reggesse su accordi aritmetici. Tutto era riconducibile a semplici proporzioni ed era perfetto, cioè compiuto, come le corde della lira. La matematica era il mezzo per unificare musica, cosmologia, filosofia, religione. La loro astrazione matematica sconfinava però nella contemplazione mistica: nessuno doveva dubitare che i numeri interi e i loro rapporti, cioè i numeri razionali (ratio in latino vuol dire rapporto) fossero l’essenza genuina della natura, basato su valenze etiche.

 
Ippaso di Metaponto

Eppure, uno di loro, Ippaso di Metaponto, dubitò: nel V secolo a.C. i dotti della Scuola s’impantanarono in una problematica solo all’apparenza banale: calcolare la diagonale del quadrato. La risoluzione passò attraverso il famoso Teorema di Pitagora: in un triangolo rettangolo la somma dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente al quadrato costruito sull'ipotenusa. Ippaso comprese per primo che una semplice formula mai avrebbe fornito in quel caso un risultato preciso e nemmeno una serie limitata di calcoli avrebbe potuto derivarlo: sussistevano pertanto grandezze incommensurabili, sfuggenti, come √2 o ∏: quantità reali che sviluppano dopo la virgola una serie infinita di decimali. La “terribile” scoperta dei numeri irrazionali (numeri che hanno una serie infinita e non ripetitiva di cifre decimali) mise in discussione l’idea che “tutto è numero” e mise in crisi il primo tentativo di decodificare ciascun ente nel mondo, matematicamente, come “misto” di due sole cifre, e aprì la prima grave crisi nella storia delle matematiche.

Per i pitagorici nessuno doveva dubitare che i numeri interi e i loro rapporti, cioè i numeri razionali, fossero l’essenza genuina del Creato: per questo motivo la scoperta che alcuni rapporti, come quello tra la diagonale e il lato del quadrato non fossero esprimibili mediante numeri interi, fu un grave colpo. Ippaso di Metaponto dubitò: egli scoprì che il valore esatto di √2 non poteva essere ricavato da una semplice formula e neppure da una serie limitata di calcoli. Aveva in pratica scoperto l'esistenza di grandezze incommensurabili, cioè non misurabili esaustivamente con metodi numerici.

La scoperta di Ippaso ha un significato teorico di enorme portata poiché introduce la matematica nei meandri affascinanti dell’infinito. Ippaso divulgò la scoperta dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato, contravvenendo ai tabù della Scuola che non poteva accettare l’idea di valori non del tutto calcolabili, conseguenza di un cosmo incompiuto e impuro. La parola cosmo fu coniata proprio dai pitagorici per rappresentare un universo rigidamente ordinato. L’irregolarità imprevedibile dei decimali nello sviluppo di un numero irrazionale non poteva adeguarsi a questo punto di vista. Radiando Ippaso dalla propria scuola, i Pitagorici mancarono così una grande occasione. La sovranità dei numeri razionali durò per 2300 anni, sino a quando i tedeschi Cantor e Dedekind tornarono ad affrontare e a risolvere la questione degli irrazionali e dell’infinito.

Neopitagorismo e combinatoria nei secoli medievali

modifica

Tracce significative di una visione matematica dell’universo – per cui le cose esistono in quanto sono ordinate e sono ordinate perché regolate da leggi matematiche – si ritrovano in diversi pensatori latini dell’età tardoantica e altomedievale, che si ricollegano più o meno esplicitamente al patrimonio concettuale pitagorico. In particolare, si può individuare un percorso che va da Agostino d'Ippona ai Carolingi e da qui fino alla scuola di Chartres, passando per Prisciano, Cassiodoro e soprattutto Severino Boezio e il suo De arithmetica, derivazione dell’Introduzione all’aritmetica di Nicomaco di Gerasa (neopitagorico della seconda metà del secolo II d. C.) che egli aveva tradotto in latino, e punto di riferimento per tutti i matematici dei secoli successivi.

 
Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo

L’opera boeziana inaugura un filone di pensiero speculativo che nei secoli a venire vede protagonisti alcuni dei personaggi di maggiore rilievo della cosiddetta rinascita ottoniana, testimoni di una rinascenza degli studi matematici e di una messa a punto di una filosofia del numero – che in riferimento ad autori moderni come Leibniz è stato definito ‘paradigma computazionale’ – e di una visione ordinata del mondo che aggiorna il sogno dell’armonia pitagorica con l’orizzonte trascendente della sapienza cristiana.

Non è un caso che il prodotto speculativo più rilevante di Abbone di Fleury (945-1004) sia un commento al Calculus di Vittorio d’Aquitania, un manuale di calcolo scritto con finalità prevalentemente pratiche intorno al 450 e composto principalmente da tavole di moltiplicazione. L’intento di Abbone, che compone l’opera intorno al 985, è quello di fornire un ‘ponte introduttivo’ all’aritmetica (ysagoge arithmeticae) nella forma di un’esposizione ad uso scolastico.

Le opere aritmetiche di Gerberto di Aurillac († 1003) segnano uno scarto rispetto alla tradizione computistica precedente, legata prevalentemente ai risvolti pratici della disciplina. Tale scarto può essere spiegato con i nuovi elementi della scienza araba appresi in occasione del viaggio in Catalogna del giovane Gerberto, ma più probabilmente lo si deve alla sua sapiente rielaborazione delle fonti tradizionali: come nel caso dell’abate di Fleury, infatti, la giustificazione speculativa di questo energico impulso al progresso delle discipline scientifiche va collocata all’interno di una cornice ontologica e teologica di matrice pitagorico-platonica.

L'Ars di Raimondo Lullo (1232-1316) è un sistema generale d’interpretazione della realtà visibile e invisibile, che si serve di tecniche semimeccaniche, di notazione simbolica e di diagrammi combinatori. L’Arte è il fondamento dell’apologetica e fornisce un metodo unico per tutti i campi del sapere, teologia compresa. L’Ars lulliana può essere integrata nell’orizzonte teorico dell’informatica poiché può essere tradotta nel linguaggio computazionale. Diversi componenti del sistema lulliano possono essere integrati nel mondo dei concetti informatici: l’idea (poi esplorata da Leibniz) di calcolare i risultati del ragionamento logico, l’idea di un alfabeto del pensiero (interpretata poi matematicamente da George Boole), l’idea di un metodo generale euristico e deduttivo, la teoria dei grafi. L’informatica poggia sull’idea di un calcolo logico e la sua ulteriore automazione: entrambe fanno parte, anche se in modo rudimentale, del progetto di combinatoria che costituisce un elemento di base dell’Arte lulliana.

Il sogno di Leibniz

modifica

L’idea di Lullo fu sviluppata da Gottfried Leibniz (Dissertatio de arte combinatoria, nata dall’Ars magna). Egli si appropria dell’idea lulliana di un alfabeto del pensiero umano che funzioni automaticamente, mediante la combinazione di lettere, e la mette in relazione con la sua idea di una mathesis universalis, cioè di una logica concepita come matematica generalizzata. "Secondo ciò — scrive Leibniz — quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo (calculemus)!". L’ Arte lulliana è interpretata, dunque, come un tipo di pensiero automatico, una sorta di meccanismo concettuale che, una volta stabilito, funziona da sé. Questo automatismo concettuale fu a lungo accarezzato da Leibniz, il primo a progettare, dopo Pascal, la realizzazione di una macchina per calcolare affidabile.

 
Gottfried Wilhelm von Leibniz

Leibniz creò la notazione per il calcolo differenziale e integrale per eseguire facilmente e quasi senza sforzi intellettuali calcoli complicatissimi. Leibniz sognava di realizzare qualcosa di simile per l’intera conoscenza umana: una compilazione enciclopedica, un linguaggio matematico artificiale universale in cui fosse possibile esprimere ogni aspetto delle nostre conoscenze, e regole di calcolo che mettessero in luce tutte le interrelazioni logiche esistenti fra le proposizioni di un simile linguaggio[1]. Affascinato dalla divisione aristotelica dei concetti in categorie, Leibniz concepì l’idea di un alfabeto speciale – i cui elementi stessero per concetti – in grado di stabilire, per mezzo di calcoli simbolici, quali dei suoi enunciati erano veri e quali relazioni logiche intercorrevano tra loro. Leibniz comprese che il primo passo verso un alfabeto dei concetti consisteva nell’enumerare tutte le possibili combinazioni dei concetti medesimi (Dissertatio de arte combinatoria, 1666).

Nel 1673 Leibniz presentò a Londra un modello di macchina calcolatrice capace di eseguire le quattro operazioni aritmetiche fondamentali. Leibniz intuì che riuscire a meccanizzare il calcolo aveva un significato ben più ampio. Leibniz paragonò il ragionamento logico a un meccanismo, con l’intento di ridurre ogni ragionamento a una sorta di calcolo e costruire una macchina capace di calcolare in questo senso generale. Nel 1675 Leibniz fece importanti passi in avanti - concettuali e computazionali – nell’uso dei passaggi al limite (ossia i tentativi di ottenere nei calcoli un valore esatto, non accontentandosi di valori approssimati particolari), fino a giungere all’invenzione del calcolo infinitesimale. Leibniz comprese la necessità di scegliere simboli adatti a rappresentare tutti i concetti fondamentali (l’alfabeto del pensiero umano) e di trovare regole (strumenti calcolo) che ne governassero la manipolazione.

Nella terminologia di Leibniz, un sistema simbolico con queste proprietà era una 'caratteristica'. Ogni simbolo del tipo di quelli usati in algebra, chimica o astronomia (non i simboli alfabetici, privi di significato) rappresenta un'idea definita, una ‘caratteristica reale’. Ma Leibniz avvertiva la necessità di una caratteristica universale, cioè di un sistema di simboli che non solo fosse reale ma abbracciasse anche tutto il pensiero umano. Leibniz rimase colpito dalla semplicità della notazione binaria, che permetteva di scrivere qualsiasi numero usando solo 0 e 1.

Leibniz divise il suo programma in tre parti: la creazione di un’enciclopedia che abbracciasse tutta la conoscenza umana, la scelta delle nozioni fondamentali e dei simboli ad esse adeguati, la riduzione delle regole deduttive a manipolazioni di questi simboli, ovvero al calculus ratiocinator, l’odierna logica simbolica.

Il sogno di Leibniz consisteva nel ridurre la complessità dell’universo ad un unico calcolo simbolico. Sarebbe stato così possibile trasformare il ragionamento in calcolo, ma non solo: la characteristica sarebbe stata preziosa anche come ars inveniendi poiché attraverso la combinazione dei caratteri primitivi sarebbe, infatti, stato possibile ottenere sistematicamente e in modo ordinato tutte le nozioni possibili. Inventore di macchine calcolatrici, il filosofo tedesco anticipa dunque con straordinaria consapevolezza le ricerche di logica simbolica, algebra, combinatoria, probabilistica, binaria, oltre alle nuove forme di calcolo infinitesimale, che avrebbero poi condotto, tra le altre cose, alla creazione del computer e ai temi della digital philosophy. La characteristica universalis anticipa il dibattito sull'Intelligenza Artificiale poiché si pone già l'obiettivo di trasformare il ragionamento in calcolo.

Riferimenti bibliografici

modifica
  • M. Davis, The Universal Computer. The Road from Leibniz to Turing, 2000; tr. it. Il calcolatore universale, Milano 2003, nuova ed. 2012.
  • U. Pagallo, Introduzione alla filosofia digitale. Da Leibniz a Chaitin, Torino 2005.

  1. Martin Davis - logico, pioniere dell'informatica e divulgatore di storia della scienza - ha ricostruito la storia concettuale del calcolatore universale, a partire dal cosiddetto 'sogno di Leibniz', ossia il desiderio di escogitare un calcolo simbolico, un'algebra del pensiero, grazie alla quale risolvere ogni tipo di problema.