Emozione e immaginazione/Immaginazione responsabile

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A day dream, di Edward Poynter (1863)

L'immaginazione responsabile

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Firma di Albert Einstein

Ho iniziato questo wikilibro dicendo che un nuovo modo di conoscere il mondo e noi stessi sorse all'inizio del diciassettesimo secolo e arrivò rapidamente ad occupare una posizione di importanza e autorità che ora, circa quattro secoli dopo, sembra incrollabile. A dire il vero, molti hanno messo in dubbio la sua autorevolezza e accuratezza nell'affrontare aspetti della nostra esperienza che sembra mal attrezzata ad affrontare. Abbiamo visto che anche all'inizio di questo nuovo modo di conoscere, allo "spirito della geometria" fu consigliato di non dimenticare il suo stretto cugino, lo "spirito della finesse" e che non doveva ignorare il suo contributo alla nostra comprensione di noi stessi e del mondo. La persona che sollevò questa preoccupazione, Blaise Pascal, aveva le credenziali per farlo. Era sia un matematico che un logico e un'anima sensibile ai significati più profondi e ambigui dell'esistenza umana. Poteva riflettere sulle complessità della teoria dei numeri ed elaborare le complessità di quella che in seguito sarebbe diventata la teoria della probabilità, essenziale per il nostro uso moderno della statistica, ma era anche interessato al significato della vita umana e agli imponderabili sempre presenti che la rendono un mistero.

Molti sono venuti dopo Pascal e si potrebbe scrivere una storia della coscienza occidentale moderna dal punto di vista delle decine di personaggi importanti che hanno fatto eco alla sua preoccupazione. Un elenco includerebbe vincitori di premi Nobel, celebri scrittori, artisti, poeti e filosofi. E si potrebbero oggigiorno includere anche numerosi registi.[1] Tirare le somme di tale elenco sarebbe noioso, ma si potrebbe fare, e sospetto che la maggior parte dei lettori potrebbe snocciolare una manciata di nomi se pressati. Persino una figura imponente come Einstein viene a far parte dell'"altro" modo di conoscere. In un'intervista nel 1929 con The Saturday Evening Post, Einstein disse: "I believe in intuitions and inspirations. I sometimes feel that I am right. I do not know that I am". Disse che quando le spedizioni, finanziate dalla Royal Academy, furono inviate in Sud America e Africa per confermare la sua teoria della relatività – cosa che fecero durante l'eclissi solare del 29 maggio 1919 – non fu sorpreso nel constatare di aver avuto ragione: "I would have been surprised if I had been proved wrong". Quando il giornalista George Sylvester Viereck[2] chiese a Einstein se si fidava più della sua immaginazione che della sua conoscenza, Einstein rispose quanto segue:

« I am enough of the artist to draw freely upon my imagination. At times I feel certain I am right while not knowing the reason. When the eclipse of 1919 confirmed my intuition, I was not in the least surprised. In fact, I would have been astonished had it turned out otherwise. Imagination is more important than knowledge. For knowledge is limited, whereas imagination embraces the entire world, stimulating progress, giving birth to evolution. It is, strictly speaking, a real factor in scientific research. »
(Albert Einstein, 1929[3])

Non molto tempo dopo questa intervista, Einstein ripeté tale osservazione nel suo libro Cosmic Religion, apparso nel 1931 con una prefazione del drammaturgo Bernard Shaw. Entrambi Premi Nobel (sebbene in campi diversi), all'epoca Shaw, come Einstein, era uno degli uomini più famosi al mondo. Shaw era un grande profeta dell'immaginazione, vedendola come la forza trainante di quella che, seguendo il filosofo Henri Bergson, chiamò "evoluzione creativa", in contrapposizione alla varietà più meccanica di Darwin. In Back to Methuselah (1922), il suo "Pentateuco metabiologico" antidarwiniano, Shaw sostenne che una volontà sufficientemente persistente, informata da un'immaginazione sufficientemente potente e focalizzata su scopi oltre i propri – cioè su valori più ampi e impersonali – poteva sconfiggere anche la morte, o almeno tenerla a bada abbastanza a lungo da aumentare considerevolmente la durata della vita umana. Shaw credeva che avessimo bisogno di questo tempo extra per maturare come esseri umani a pieno titolo, e lui stesso visse fino all'età di novantasei anni. Scrisse: "Imagination is the beginning of creation. You imagine what you desire; you will what you imagine; and at last you create what you will".[4]

Einstein non era un profeta così potente, ma la sua fede nell'immaginazione come potere creativo non era inferiore a quella di Shaw. Nella suddetta citazione da Cosmic Religion Einsten afferma che l'immaginazione abbraccia il mondo intero, stimolando il progresso, dando vita all'evoluzione. È, a rigor di termini, un vero fattore di ricerca scientifica, che lo scienziato dimostrò di poter usare creativamente nei suoi sperimenti mentali. Einstein infatti dimostrò di avere anche lui una copia della "chiave maestra" di Ernst Jünger, quando osservò di esser certo di avere ragione senza conoscerne il motivo.

Come abbiamo visto, coloro che seguono lo spirito della finesse – come fa qui Einstein – trovano difficile, se non impossibile, spiegare come fanno a sapere quello che sanno. Non possono esprimerlo direttamente e al massimo possono parlare solo per metafora, analogia o simbolo. Einstein lo sapeva, ma non sapeva come lo sapesse, o almeno non era in grado di dire come lo sapesse, nel tipo di linguaggio che gli scienziati dovrebbero usare quando parlano delle loro scoperte. Dovrebbero definire con cura tutti i dettagli affinché ognuno possa vederli e, se necessario, guidarci attraverso i vari passaggi. Einstein sapeva nel modo in cui gli scienziati non dovrebbero sapere. Sapeva nel nostro "altro" modo di sapere.

Eppure, anche con l'approvazione di Einstein, genio indiscusso e uno dei più celebri fisici della storia della scienza, l'immaginazione passa ancora in secondo piano rispetto al tipo più maneggevole di sapere con cui sentiamo di avere maggior familiarità. Pensiamo sì di avere più familiarità con questo tipo di conoscenza, ma in un senso che non è affatto vero. Conosciamo altrettanto bene l'altro modo di conoscere e lo usiamo sempre, spesso più dei nostri mezzi di conoscenza "ufficiali". Ma non lo consideriamo come un modo per sapere. Diciamo che è "solo immaginazione" perché ci è stato insegnato a dirlo. Se abbiamo più familiarità con il modo quantitativo di conoscere, è perché ci viene insegnato che questo è conoscere e che qualsiasi altra cosa è un pio desiderio e una finzione.

Questo ci ha lasciato nella posizione che ho descritto alla fine del precedente Capitolo, con un lato di polarità troppo dominante per troppo tempo. Il modo di conoscere quantitativo, che tratta il mondo come oggettivo, neutrale e assolutamente indipendente dalla nostra coscienza, sembra aver acquisito un ascendente che minaccia di eclissare la sua metà, necessaria, più partecipativa ma emarginata. L'opposizione che è la vera amicizia, è crollata e i contrari non stanno avanzando. Sono bloccati in una contraddizione infruttuosa e lo sono da tempo. Ma la situazione è anche peggiore: un polo nega virtualmente la realtà dell'altro. E se le preoccupazioni di persone come Iain McGilchrist sono valide, questo non fa ben sperare per il futuro. Può darsi che, come avverte McGilchrist, ciò che abbiamo in serbo per noi sia una specie di "21st Century Schizoid Man", nelle parole di una vecchia canzone.[5]

Walt Whitman fotografato nel 1869
 
Firma di Walt Whitman

I fautori dell'altro modo di conoscere erano consapevoli di questo squilibrio e, come abbiamo visto, molti di loro hanno cercato in modi diversi di correggerlo. Goethe cercò di armonizzare la sua scienza e la sua poesia. Sohravardi diresse i suoi sforzi verso coloro "che aspirano contemporaneamente sia all'esperienza mistica che alla conoscenza filosofica", all'intuizione e alla logica, un obiettivo perseguito anche dal suo interprete moderno, Henry Corbin. Ernst Jünger cercò di vedere le cose "in stereo", per così dire, percependo la loro superficie e le loro profondità simultaneamente. Kathleen Raine trovò la stessa bellezza che la perseguitava nella poesia romantica, all'interno dei suoi studi di botanica e zoologia. Pascal conosceva sia lo "spirito della geometria" che lo "spirito della finezza". Jacques Barzun sostiene che si può insegnare a chiunque a pensare come Euclide e Walt Whitman.

Sembra che non ci sia alcuna barriera intrinseca a entrambi i lati della nostra polarità cognitiva, lati che lavorano insieme in modo creativo. Potrebbe non essere facile da fare. Ma è possibile. Detto questo, quale dovrebbe essere la nostra prossima linea di condotta?

Se è il caso che stiamo privilegiando la nostra mente critica e analitica a spese di quella creativa e immaginativa, allora chiaramente sembrerebbe che ciò che dobbiamo fare sia ridurre l'analisi e aumentare la nostra immaginazione. Questo in effetti è ciò che hanno fatto gli studenti del "learning of the imagination" che abbiamo esaminato. Ma anche qui ci sono problemi e preoccupazioni. La sola immaginazione, a quanto pare, non basta. O per dirla in altro modo: qualsiasi immaginazione andrà bene, o ci sono limiti e linee guida che l'immaginazione dovrebbe seguire per riportare un equilibrio creativo nella polarità tra i nostri due modi di conoscere?

Abbiamo visto che Henry Corbin vedeva la necessità di una tradizione per impedire che l'immaginazione si riversasse in uno "spreco sconsiderato". Senza una tale tradizione Corbin credeva che l'immaginazione potesse, in collaborazione con la nostra "volontà di potenza", diventare una "fonte inesauribile di orrori". Goethe fu attento a radicare la sua Pianta Primordiale in quella che vedeva come la sua "necessità e verità interiori". Altrimenti sarebbe stato solo un esempio dei "fantasmi oscuri della vana immaginazione". Paracelso consigliava di stare vicini alla imaginatio vera, altrimenti abbracceremmo la "pietra angolare del pazzo" e ci ritroveremmo impegnati in un "esercizio di pensiero senza fondamento nella natura". Coleridge riconobbe la differenza essenziale tra un'immaginazione infusa nella comprensione, che produce la "ragione" che ci permette di cogliere la realtà viva dell'esperienza, e i "voli della fantasia" che si alimentano saldando insieme i frammenti di immagini e idee che abitano le nostre menti in un qualche "romanzo" che può divertirci per un momento, ma che manca di vera vita.

Sembra che l'immaginazione da sola non sia sufficiente. Deve essere guidata da limiti e criteri che in qualche modo corrispondano alle preoccupazioni degli studenti dell'immaginazione menzionati in precedenza. L'idea non è che l'immaginazione prenda il posto della mente analitica e quantitativa, proprio come la mente analitica e quantitativa non avrebbe dovuto spingere il suo partner intuitivo fuori dal quadro quattro secoli fa. L'idea è che lavorino insieme, o almeno riconoscano il bisogno reciproco, vedano l'uno nell'altro uno dei nostri "due bisogni permanenti della natura umana" e lavorino per soddisfare entrambi. Soddisfare un bisogno a spese dell'altro non funziona, qualunque sia il bisogno in questione. Far morire di fame la mente analitica sarebbe un errore tanto quanto lo è l'attuale marginalizzazione della nostra coscienza intuitiva. In effetti, possiamo spiegare l'aggressiva campagna contro il tipo intuitivo di conoscenza condotta all'inizio del diciassettesimo secolo, almeno in parte, osservando il freno che la Chiesa aveva imposto alla libera ricerca intellettuale prima di questo. Lasciato libero, lo spirito di indagine non avrebbe subito restrizioni e quindi ha operato per garantire che non fosse inibito di nuovo. Da qui l'universo "senza significato" in cui abitiamo ora, necessariamente, poiché il "significato" è suscettibile alla mente intuitiva, non a quella analitica. La mente analitica e quantitativa si è liberata dai vincoli della religione o di qualsiasi altra credenza che ne frenasse la crescita senza ostacoli. Un sottoprodotto di tale liberazione è il senso di inutilità che permea la nostra coscienza dall'inizio del ventunesimo secolo. Se il nuovo modo di conoscere non avesse dovuto combattere contro tale opposizione – e se la Chiesa non vi avesse paradossalmente contribuito unendo le forze per breve tempo, in modo da eliminare le reciproche rivali, le scienze ermetiche – allora è possibile che il tipo di conoscenza che Goethe credeva fosse buono per noi, ne avrebbe potuto essere stato il risultato e non, come sembra, il tipo che credeva fosse pernicioso.

Purtroppo, la polarità creativa possibile ma non garantita nell'individuo è ancor meno facile da realizzare in un'intera cultura che è, ovviamente, fatta di individui. Salvo alcune importanti eccezioni, che tuttavia dimostrano che tale armonia può essere raggiunta, ciò che tende ad accadere è una sorta di oscillazione del pendolo da una parte all'altra, con un accumulo di ragione e razionalità che innesca un tuffo nelle acque oscure dell'inconscio, e un desiderio di chiarezza e luce che porta quindi alla negazione dell'esistenza di quelle acque. Una di queste oscillazioni è avvenuta con il Romanticismo che ha lasciato il posto al Simbolismo, poi al Dada, al Surrealismo e all'assurdo. Un'altra accadde negli anni 1960, con il "revival dell'occulto" che ebbe luogo in quel decennio che portò alla "controcultura" e infine alla "[[w:New Age|New Age" che è con noi ormai da qualche tempo. Entrambi hanno reagito a un eccesso di mentalità quantitativa; per il Romanticismo era l'Illuminismo e negli anni 1960 era l'"era atomica" formale degli anni ’50. E poiché queste oscillazioni non sono né precise né controllate, nel tentativo di compensare l'eccesso precedente, creano eccessi propri. Farlo "giusto" come fece Riccioli d'oro, richiede una sorta di accuratezza puntuale – la "chiave maestra" – quando analisi e intuizione, quantità e qualità si incontrano e producono qualcosa di nuovo, creativo, vitale e che estende i confini della nostra coscienza e delle nostre vite. Che possa accadere è, come abbiamo visto, del tutto possibile. Che non succeda abbastanza spesso è una sfortuna.

Cosa può succedere quando l'immaginazione "al grezzo", senza il tipo di linee guida di cui ho parlato, si lascia andare e cerca di compensare lo squilibrio da sola? Penso che il tipo di preoccupazioni sollevate da Erich Kahler, Jacques Barzun, William Barrett e Kathleen Raine, che ho esaminato nel Capitolo precedente, possano darcene un'idea. C'è ovviamente una lunga storia di come l'arte sia stata associata alla rivolta, al nichilismo e al rifiuto di idee "borghesi" come la bellezza e l'armonia, e abbia abbracciato con tutto il cuore ciò che oggi chiamiamo "trasgressivo". Non posso soffermarmi qui su tale problema e il lettore può avere un'ottima panoramica di questo nelle lezioni di Barzun – The Use and Abuse of Art – menzionate in precedenza. Barzun e gli altri hanno sollevato le loro preoccupazioni mezzo secolo fa e il lettore potrebbe chiedersi se le cose stiano ancora così male e se queste preoccupazioni non siano davvero obsolete. Non credo comunque che oggi molto sia cambiato. Gli artisti ora fanno fortuna esibendo squali conservati, letti disfatti o muri sfigurati.[6] E come predetto da Kathleen Raine, i programmi televisivi più popolari oggi sono una versione della "Reality-TV" in cui milioni di telespettatori guardano persone "proprio come loro" fare di tutto, dal sesso alla violenza e all'umiliazione.[7] C'è molto del luogo comune in tutto questo, ma non credo molta trasfigurazione.

Naturalmente, secondo il tono demotico dei nostri tempi, la bellezza, o la sua mancanza, è negli occhi di chi la guarda e senza dubbio molte persone trovano questi sviluppi eccitanti e importanti. Ma il mio gusto cade più dalla parte dei "monuments of unageing intellect" che dalle prove che dimostrano che Andy Warhol aveva ragione e che "art is what you can get away with".[8]

Tuttavia, se l'arte troppo costosa e indecorosa è tutto ciò di cui dobbiamo preoccuparci, potremmo ignorare ciò che non ci piace e cercare ciò che ci piace, anche se di questi tempi sembra meno facile trovare "monuments of unageing intellect" o bellezza trasfigurante. Ciò che compare nelle gallerie e nei musei e genera enormi somme all'asta è, per così dire, solo il primo sistema d'allerta per qualcosa che potrebbe avere conseguenze molto più ampie.[9] Marshall McLuhan asserì quanto segue:

« Instead of tending towards a vast Alexandrian library the world has become a computer, an electronic brain, exactly as in an infantile piece of science fiction. And as our senses have gone outside us, Big Brother goes inside. So, unless aware of this dynamic, we shall at once move into a phase of panic terrors, exactly befitting a small world of tribal drums, total interdependence, and super-imposed co-existence. »
(The Gutenberg Galaxy, 1962, p. 32)

Owen Barfield vide la necessità di una responsabilità dell'immaginazione. Ciò nacque dal semplice riconoscimento che l'immaginazione può essere buona o cattiva, per parlare nei termini più semplici. Quando i romantici rifiutarono per la prima volta i vincoli della razionalità illuminista, credevano che un'immaginazione illimitata fosse di per sé un bene, proprio come i primi razionalisti tenuti a freno dalla Chiesa credevano che la conoscenza indiscriminata fosse di per sé un bene. Ormai possiamo vedere che le prime restrizioni su entrambe le parti sono state superate da tempo e che ciascuna è libera di seguire il proprio corso. Abbiamo esaminato alcune delle conseguenze di ciò in questo wikilibro. La preoccupazione da parte di Barfield di essere responsabile della propria immaginazione è stata sollevata proprio dal tipo di arte che hanno sottolineato Barzun, Kahler, Barrett e Raine. Ma non era tanto che a Barfield non piacesse vedere "pictures of a dog with six legs emerging from a vegetable marrow or a woman with a motorcycle substituted for her left breast" – infatti non gli piaceva – quanto la preoccupazione che tali cose cominciassero a prendere il sopravvento sulla realtà.[10] Proprio come il cambiamento di coscienza provato leggendo poesie gli richiese uno sforzo di immaginazione, uno sforzo di volontà, così anche le persone a cui piace vedere queste cose faranno tale sforzo per vederle. Barfield era preoccupato che se un numero sufficiente di persone avesse fatto quello sforzo o, attraverso il "lethargy of custom", avesse lasciato che gli altri lo facessero per loro e avesse accettato passivamente i risultati, il mondo alla fine sarebbe diventato così. Barfield fece queste osservazioni nel 1957, quando fu pubblicato per la prima volta Saving the Appearances. Lascio al lettore il giudizio se nei sessantacinque anni trascorsi sia successo qualcosa di simile alle preoccupazioni di Barfield.

Paesaggio con arcobaleno, di Caspar David Friedrich (1810) – Immagine usata nell'edizione spagnola di Saving the Appearances

Come tutti gli altri in questo mio studio, Barfield prese sul serio il potere creativo dell'immaginazione. Paracelso, abbiamo visto, credeva di poter "pugnalare e ferire" con un pensiero e dava per scontato che la mente potesse far ammalare il corpo. Blake e Coleridge non avevano dubbi sui poteri creativi dell'immaginazione. Per Blake, "All Things Exist in the Human Imagination", e Coleridge è d'accordo, vedendo nell'Immaginazione Primaria "the living power and prime agent of all human perception". In questo è secondo solo all'"the eternal act of creation in the infinite I AM". Vale a dire, l'immaginazione dietro la nostra percezione del mondo è la stessa dell'immaginazione che lo crea. Coleridge dice persino che è una "repetition" di quell'atto di creazione. Quando apriamo gli occhi e vediamo il mondo, allo stesso tempo lo stiamo in qualche modo creando, o almeno stiamo partecipando – a modo nostro "finito" – alla sua creazione "eterna". Rudolf Steiner era d'accordo con Coleridge: "L'uomo non è lì solo per formarsi un'immagine del mondo finito", ci dice, "no, lui stesso collabora a far esistere il mondo... Il contenuto della realtà", assicura Steiner, "è solo il riflesso del contenuto della nostra mente".

Potremmo pensare: Beh, Steiner era un mistico, Blake e Coleridge erano poeti, Paracelso era un alchimista. Non si stavano abbandonando a voli pindarici con la propria immaginazione? Ma abbiamo visto che scienza e filosofia sono d'accordo con loro. Da Werner Heisenberg sappiamo che l'osservatore altera l'osservato e Goethe lo sapeva prima di Heisenberg. E Paul Ricœur, un rigoroso filosofo francese insignito di molti riconoscimenti accademici senza alcun interesse per l'occulto, ha affermato che possiamo capire meglio Husserl (un altro pensatore difficile e senza fronzoli) se riusciamo a cogliere che "l'intenzionalità che culmina nel vedere" – "perception is intentional" husserliana – è una sorta di "visione creativa". Ognuno di questi pensatori, e ce ne sono molti altri come loro, credono che in un senso molto reale la nostra immaginazione, la nostra coscienza, sia in qualche modo creativa, non solo nell'arte, nella poesia, nella musica, ma nella realtà stessa. In un certo senso per loro "creiamo la realtà", o almeno siamo un agente essenziale nel suo nascere. L'immaginazione quindi non riguarda il "far credere" ma il "rendere reale".

La nostra rifiutata tradizione occulta o esoterica lo ha da tempo riconosciuto. "Don’t call up what you can’t put down" è un solido consiglio magico, e i protagonisti troppo sicuri di molti racconti dell'orrore occulto lo hanno imparato con loro sgomento e a proprie spese.[11] I pensieri sono cose molto potenti, ci dice tale tradizione, ed è prudente essere consapevoli della loro potenza. Goethe avvertì del potere implicito in un ardente desiderio. "Stai attento a ciò che desideri da giovane”, consigliò, perché "lo otterrai nella mezza età". Yeats, lo sappiamo, gli fece eco: "Whatever we build in the imagination will accomplish itself in the circumstances of our lives". Lo scrittore John Cowper Powys, il cui mastodontico A Glastonbury Romance è forse il romanzo più mistico in lingua inglese, era così convinto del potere del suo "malocchio", della sua capacità, come Paracelso, di causare danni a distanza, che prese precauzioni enormi e complicate in modo da non danneggiare inavvertitamente coloro che lo circondavano, attraverso un atto casuale di immaginazione e volontà.[12]

Secondo il mago più famoso del ventesimo secolo, Aleister Crowley, "Magick is the Science and Art of causing change to occur in conformity with Will".[13] Crowley sapeva, come faceva il suo contemporaneo Bernard Shaw, che la volontà non può funzionare nel vuoto, e che prima di poter applicare la nostra volontà, dobbiamo avere un'idea chiara di ciò che vogliamo. Questo è il compito dell'immaginazione. È, come disse Shaw, l'inizio della creazione. La preoccupazione di Barfield è proprio questa. Non aveva dubbi sul fatto che l'immaginazione sia potente, così come lo è la volontà. La domanda è: cosa immagini? Cosa vuoi realizzare nella creazione? Il desiderio, disse Shaw, le dà inizio. Immaginiamo ciò che desideriamo e poi lo vogliamo, rendendolo reale. Naturalmente non tutti i pensieri o le fantasie vaganti sono creativi. Sembra che ci siano alcune salvaguardie in atto: dovremmo essere grati per questo, altrimenti il ​​mondo sarebbe pieno dei fantasmi del nostro desiderio incostante, sebbene per molti versi le nostre molteplici modalità di auto-intrattenimento tecnologico si avvicinino proprio a questa disposizione. Ma la domanda rimane: cosa vogliamo?

A riprova che la sua preoccupazione è giustificata, Barfield indica quella che in effetti era la "creazione" della Natura nel modo in cui la comprendiamo e la sperimentiamo, quella di William Wordsworth e Coleridge con la pubblicazione delle loro Lyrical Ballads nel 1798. Prima che il lettore sussulti esterrefatto e sottolinei che la natura esisteva ben prima di Wordsworth e Coleridge, consideriamo questo: nel 1773 il dottor Samuel Johnson e il suo amico e biografo James Boswell intrapresero un tour della Scozia, gran parte della quale, all'epoca, era ancora selvaggia e indomita. Il racconto di Johnson dei loro viaggi, A Journey to the Western Isles of Scotland (1775), è costellato di lamentele sulle montagne e sui laghi che la loro carrozza dovette superare. Scrive che tali "ostacoli" resero il viaggio noioso e lungo. A Johnson piaceva la natura ben ordinata, nei giardini ben disposti con arte topiaria e preferiva di gran lunga la città. Oggi le persone spendono grandi somme e fanno molti sforzi proprio per raggiungere i luoghi che Johnson avrebbe voluto evitare. Wordsworth e Coleridge e gli altri romantici insegnarono ai loro lettori come vedere la natura in un modo diverso, come un oggetto di bellezza e un mezzo per raggiungere ciò che Wordsworth chiamava "unknown modes of being".[14]

 
Francesco Petrarca

La gente ovviamente conosceva la Natura prima, ma l'idea della natura selvaggia come qualcosa di valore in sé, e non come una terra desolata da domare, era nuova. Fino ad allora, la Natura era una forza da rispettare e una risorsa da padroneggiare e utilizzare. Gli umani per la maggior parte erano in qualche modo contro di essa, lottando per ricavarne una vita e per proteggersi da essa. Ora i poeti invece cantavano il suo potere di lenire, guarire e ispirare l'anima. Possiamo dire che il cammino verso questa nuova percezione della Natura iniziò nel 1336 quando il poeta Petrarca scalò una montagna nel sud della Francia solo per vederne il panorama, cosa, fino ad allora, che pochi, se non nessuno, avevano pensato di fare. Lo stesso Petrarca fu considerato pazzo per averlo fatto.[15] Ma lentamente il gusto per la Natura prese piede. Possiamo dire che quando Petrarca fece la sua ascesa al Mont Ventoux, aveva avviato l'industria del turismo naturalistico.

Quattro secoli e mezzo dopo, Wordsworth e Coleridge ribadivano il punto ai loro lettori. Ormai ha raggiunto molte più persone e ha alterato non solo l'immaginazione ma anche le economie. A titolo di esempio, Barfield fa notare: "the economic and social structure of Switzerland, which is determined in no small part by its tourist industry, has the Romantics to thank for the fact that the mountains that twentieth-century man sees are not the mountains that eighteenth-century man saw".[16] La sostanza fisica o "materia" delle montagne è la stessa – anche se con gli sviluppi della fisica elementare forse non si può dire nemmeno questo – ma il modo in cui è "rappresentata" è diversa. Le montagne del XX secolo sono più simboliche di quelle del XVIII secolo perché il movimento romantico ci ha insegnato a vedere nelle montagne qualcosa di più della semplice forma fisica. Significano qualcosa di più per noi che per il dottor Johnson, proprio come la montagna di Petrarca significava qualcosa di più per lui che per le persone che cercavano di dissuaderlo dallo scalare le sue vette.

Cosa ha trasformato le montagne non simboliche in simboliche? L'Immaginazione. E questo ha aiutato non solo gli svizzeri. Le riserve naturali, i parchi nazionali e la conservazione della fauna selvatica sono il risultato diretto dell'alterazione nella nostra percezione operata da quella che possiamo chiamare l'"esplosione dell'immaginazione" che arrivò coi Romantici e li produsse. Non sto dicendo, né lo dice Barfield, che chiunque oggi vada in mezzo alla "natura" e cerchi il "selvaggio" come fonte di bellezza abbia letto Wordsworth o addirittura sappia chi fosse. Ma penso che il desiderio che abbiamo di farlo sia radicato nel cambiamento nella nostra percezione della Natura che i romantici hanno determinato.

Di cosa sono simbolici le montagne e la natura selvaggia? Per i romantici significavano una specie di libertà, un mondo vivente selvaggio, vasto, misterioso, non ridotto alle quantità e alle misure della nuova scienza. Sentivano in se stessi questa libertà e il mondo selvaggio la rappresentava per loro. Era come se i vasti spazi esterni che avevano sbalordito Petrarca portassero a scoprire vasti spazi interiori nella mente umana. Tuttavia, se queste riflessioni sull'impatto dell'immaginazione sulla realtà sembrano troppo astratte; si consideri un esempio più diretto di come il mondo interno ed esterno possono permearsi a vicenda. Anche se fu solo tardi nella sua vita che C. G. Jung parlasse apertamente del fenomeno che chiamava "sincronicità", in effetti se ne occupava da decenni. La sincronicità è il termine di Jung per ciò che possiamo chiamare "coincidenza significativa", "un principio di nessi acausali", quando il mondo interno ed esterno si riflettono l'un l'altro con tale precisione e significato ovvio che ricorrere alla semplice coincidenza come spiegazione è inutile. Jung racconta la storia di una sua cliente estremamente razionalista, il cui iper-intellettualismo la rendeva difficile da trattare. Stava raccontando a Jung di un sogno che coinvolgeva uno scarabeo d'oro, quando Jung sentì uno svolazzare alla finestra. Lo aprì e vi volò dentro uno scarabeo verde-oro. Questa è una sincronicità. La paziente di Jung cedette e il suo trattamento progredì.

Nel 1951 Jung chiese l'aiuto del fisico Wolfgang Pauli per cercare di spiegare il fenomeno della "coincidenza significativa" attraverso la fisica quantistica. Il risultato fu il loro libro Synchronicity: An Acausal Connecting Principle. Jung stava cercando di fornire un'ancora scientifica per l'esperienza, da cui il termine "principio di connessione acausale" che, in senso stretto, significa una causa senza causa. Gli elementi di una sincronicità sono collegati mediante il significato, non causa ed effetto, come lo sono nei processi meccanici. Il sogno sullo scarabeo e lo scarabeo reale non erano in nessun modo collegati, almeno non in modo usuale. Ma che lo scarabeo dovesse apparire quando la paziente di Jung stava raccontando il suo sogno sembra significare qualcosa. Per Jung significava che il mondo interiore della sua paziente e il mondo a lei esterno partecipavano l'uno all'altro. La barriera impermeabile tra loro era stata infranta. Il vero scarabeo le stava dicendo di prendere sul serio lo scarabeo dei suoi sogni. O, piuttosto che una barriera violata, più probabilmente l'illusione che i nostri mondi interni ed esterni siano strettamente separati si è dissolta per un breve periodo e l'"inconscio" – o qualunque cosa fosse responsabile – si è mostrato come un agente attivo nel cosiddetto mondo "oggettivo", assumendo un interesse speciale per il caso specifico.

Sono convinto che le sincronicità siano fenomeni reali, veri, e io stesso ne ho sperimentato alcune. Non ho idea di come accadano né sono convinto dai tentativi fatti finora per spiegarli in termini di fisica quantistica, come hanno cercato di fare Jung e Pauli. Ma sono convinto della loro realtà quanto lo sono della scrivania che ho davanti e del computer su cui sto scrivendo. In un certo senso, sospetto che non li spiegheremo mai in alcun modo scientifico, tranne per dire che sembrano essere un'esperienza in cui ciò che sta accadendo nella nostra testa e ciò che sta accadendo nel mondo esterno sono direttamente collegati attraverso il significato: sono, credo, legati a una condizione di coscienza che al momento sperimentiamo solo in modo intermittente ma con la quale, con un po' di fortuna, diventeremo più familiari.

Ma spiegare le sincronicità non è il punto della questione. Le cito ad esempio di come il nostro mondo interiore può influenzare quello esteriore. In un modo che non possiamo ancora capire, il nostro mondo interiore si protende in quello esterno e lo dispone in modo che avvenga una sincronicità. Trovo che siano quasi sempre utili, benefici, e sembrano essere una specie di ammiccamento o spinta gentile per andare nella giusta direzione, o un riconoscimento che lo sto già facendo. E come sembra essere il caso, tendono ad accadere di più quando siamo ottimisti e positivi. E se l'ottimismo e una visione positiva possono stimolare le sincronicità, allora è chiaro che le nostre menti possono influenzare la realtà.

A questo punto, l'idea che possano farlo ritengo sia più importante da afferrare di come possono farlo. Forse il "come" è un mistero solo perché si parte dalla posizione del punto di vista naturale, cioè con la convinzione che il il mondo è qualcosa "là fuori", che le nostre menti riflettono, e quindi sembra che non ci sia modo che possano in alcun modo imprimersi su di esso. Come ci dice la scuola di psicologia della "tabula rasa", la verità è l'esatto opposto: ci si imprime addosso. Ma con questo siamo tornati al punto di partenza.

A. R. Orage, il critico letterario e allievo del maestro esoterico Gurdjieff, credeva con Shaw che l'immaginazione fosse il propellente dell'evoluzione. Scrisse: "Evolution is altogether an imaginative process, you become what you have been led to imagine yourself to be".[17] Barfield sarebbe d'accordo, ma farebbe un passo avanti. Non solo noi stessi, ma anche il mondo diventa ciò che immaginiamo che sia. I fenomeni che compongono il "mondo" non sono indipendenti da noi. Se, come ci dice Blake, diventiamo ciò che vediamo, vale anche il contrario: ciò che vediamo diventa noi. La simpatica massima di Mark Twain coglie il segno: "To a man with a hammer, everything looks like a nail".[18] Una delle cose più strane che Rudolf Steiner abbia detto è che i pensieri delle persone di oggi determineranno l'essere fisico del mondo in futuro, proprio come i pensieri delle persone in passato hanno determinato la nostra terra oggi. Barfield gli fa eco con un po' più finezza fenomenologica, avvertendo: "The future of the phenomenal world can no longer be regarded as entirely independent of man’s volition’".[19] Se siamo ciò che mangiamo, il mondo è ciò che pensiamo.

Dico questo per non indurre nei miei lettori uno stato di panico e ansia, una preoccupazione paranoica per i pensieri nella loro testa, un inquietudine che non dovrebbero pensare i pensieri che stanno pensando. Tale paura nevrotica è l'opposto dell'effetto che vorrei che queste riflessioni avessero. Il mondo in cui viviamo attualmente è in uno stato di mutamento, con i vecchi confini che si infrangono senza che nuovi contorni vengano stabiliti. C'è la sensazione che possa succedere di tutto. Tali tempi sono, credo, particolarmente sensibili alle forze in gioco e un leggero spostamento in qualche elemento può avere un effetto molto più ampio e influente di quanto ci si sarebbe mai aspettati. C'è, possiamo dire, una specie di "effetto farfalla" nella storia, proprio come c'è nel tempo, con lievi cambiamenti a un'estremità che si traducono in quelli più grandi all'altra.[20]

È in questi momenti che è particolarmente necessario qualcosa che assomigli alla responsabilità dell'immaginazione proposta da Barfield. Ciò richiede una consapevolezza calma, distaccata, ma impegnata, il tipo di "potenza passiva" di cui parlava Swedenborg: un'attenzione vigile e controllata ai dettagli e la prontezza a ricevere, con entrambi i modi di sapere disponibili ad operare. È in un tale stato di autoconsapevolezza e di finalità che ciò che possiamo aver appreso dalla conoscenza perduta dell'immaginazione può essere utile a noi stessi e al mondo. Per parafrasare Blake, in futuro, il volto del mondo mentre si dispiega dipenderà dalla mente che lo spiega.

  Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie dei sentimenti.
  1. Si veda, ad esempio, Solaris, il bellissimo e inquietante film di fantascienza esistenziale di Andrei Tarkovsky.
  2. Stranamente, George Sylvester Viereck fu un tempo il collaboratore del noto esoterista Aleister Crowley, quando questi era a New York durante la Prima guerra mondiale.
  3. Citato in Quote Investigator.
  4. Bernard Shaw, The Complete Plays of Bernard Shaw (Londra: Odhams Press, Ltd, 1934) p. 858.
  5. McGilchrist 2009 pp. 52seg., 212seg.
  6. The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living di Damien Hirst presenta uno squalo conservato sotto formaldeide in una teca. My Bed di Tracey Emin presenta un letto in cui è rimasta per diversi giorni in uno stato depressivo durante il quale non mangiava nulla e beveva solo alcolici. Entrambe le opere vendute all'asta per ingenti somme. Banksy, pseudonimo di un "artista dei graffiti" non ancora identificato, dipinge gli edifici con lo spray. In questo modo ha accumulato una fortuna stimata a più di $20 milioni.
  7. Si veda, int. al., l'articolo "Why America loves reality-tv" (2001).
  8. Questo aforismo è attribuito anche a Marshall McLuhan, che inoltre ebbe a dire: "Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un'azienda privata o dare in monopolio a una società l'atmosfera terrestre (Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare).
  9. Per uno studio di come i cambiamenti di stile nell'arte anticipino cambiamenti nel nostro "quadro" del mondo, si veda Leonard Shlain, Art and Physics: Parallel Visions in Space, Time & Light (New York: Quill William Morrow, 1991).
  10. Barfield 1988, p. 146.
  11. Con questo in mente dovremmo considerare i fenomeni di tulpa ed eggregora, due esempi diversi ma correlati di quelle che possiamo chiamare "forme pensiero". Un tulpa è un tipo di entità o essere immaginato che viene portato all'esistenza attraverso la meditazione e la visualizzazione prolungate, persistenti e intense. In Magic and Mystery in Tibet, il viaggiatore Alexander David-Neal racconta una classica storia di ciò che accade quando si perde il proprio controllo. Una eggregora è una specie di entità di gruppo che è mantenuta dalla credenza, dal rituale, dal sacrificio e dall'immaginazione dei suoi devoti. Con un numero sufficiente di questi, l’eggregora può assumere una vita propria. Cfr. Joscelyn Godwin, The Golden Thread (Wheaton, IL: Quest Books, 2007) pp. 47–54.
  12. John Cowper Powys, Autobiography (Londra: Picador, 1982) p. 408.
  13. Aleister Crowley, Magick in Theory and Practice (New York: Dover Books, 1976) p. xii.
  14. Ovviamente non erano i soli né i primi. Ci sono anche Rousseau e Goethe. Sto parlando, come ha fatto Barfield, del cambiamento che appare nella letteratura inglese. Anche qui Wordsworth e Coleridge sono stati un po' anticipati da Mary Wollstonecraft. Le sue Letters Written During a Short Residence in Sweden, Norway, and Denmark (1796) mostrano quel tipo di gioia contemplativa per la natura e la sensibilità per il "sublime" – la sua stranezza e mistero – che il romanticismo avrebbe reso ampiamente popolare.
  15. Petrarca, Ascesa al monte Ventoso, lettera scritta in latino e raccolta nelle Familiares (IV, 1).
  16. Barfield 1988, pp. 145sg.
  17. A.R. Orage, Consciousness: Animal, Human, Superman (New York; Samuel Weiser, 1974) p. 68.
  18. Riproposta da Abraham Maslow: "Suppongo che se l’unica cosa che hai è un martello sia allettante trattare tutto come fosse un chiodo".
  19. Barfield 1988, p. 160.
  20. L'"effetto farfalla" deriva dalla teoria del caos e sostiene che lievi variazioni in quelle che chiama "condizioni iniziali" possono alla fine avere effetti enormi. È una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente appunto nella teoria del caos. L'idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. Quindi una farfalla che sbatte le ali in una parte del globo può causare un tornado in un'altra.