Cromatografia/Gascromatografia
La gascromatografia è una tecnica analitica complementare alla cromatografia liquida in cui la fase mobile è costituita da un gas che ha solo funzione di trasporto.
Questa tecnica viene utilizzata su sostanze che abbiano una tensione di vapore sufficientemente alta, in modo da garantirne il passaggio in fase gas, e che siano termicamente stabili, per evitare che possano decomporsi per riscaldamento. La temperatura massima di esercizio è limitata non solo dalla stabilità termica degli analiti, ma anche da quella della fase stazionaria che, oltre una certa temperatura, può decomporsi o volatilizzarsi. Questa serie di fattori porta a scegliere temperature di esercizio che possono arrivare fino ad un massimo di circa 300-350 °C.
Caratteristiche generali
modificaA seconda della fase stazionaria che si va ad utilizzare si possono distinguere due tipi di gascromatografia:
- cromatografia gas-liquido (GLC - Gas-Liquid Chromatography) - è la più utilizzata e il suo funzionamento si basa sulla ripartizione degli analiti tra una fase mobile costituita dal gas e una fase liquida supportata su un solido inerte;
- cromatografia gas-solido (GSC - Gas-Solid Chromatography) - più di nicchia e con applicazioni molto più limitate il cui funzionamento si basa sul fenomeno di adsorbimento degli analiti sulla superficie della fase stazionaria solida. Il più grande limite associato a questa tecnica cromatografica è legato alla non linearità del processo di adsorbimento che comporta scodamenti importanti dei picchi e che ne rende complessa la riproducibilità, tuttavia viene utilizzata in caso di analiti a basso peso molecolare come solfuro di idrogeno, monossido di carbonio e ossidi di azoto.[1]
I vantaggi della gascromatografia sono:
- analisi rapida;
- efficiente, fornisce un'alta risoluzione;
- sensibile, in grado di rivelare anche sostanze presenti nell'ordine dei ppm ma può arrivare talvolta anche ai ppb;
- non distruttiva, il che la rende adatta all'accoppiamento con uno spettrometro di massa;
- molto accurata;
- richiede piccole quantità di campione.
Il problema di questa tecnica è dato dal fatto che gli analiti che si possono analizzare devono essere volatili ma al contempo non devono essere labili termicamente.
Il sistema utilizzato in gascromatografia può essere schematizzato con il seguente schema a blocchi:
Gas carrier
modificaLa fase mobile è costituita da un gas chimicamente inerte: in gascromatografia infatti, la fase mobile non ha azione chimica competitiva con la fase stazionaria ma ha solo funzione di trasporto, per questo motivo si parla di gas carrier. Le molecole interagiscono con la fase stazionaria e vengono trattenute più o meno a lungo a seconda dell'affinità e quindi della forza delle interazioni che questi stabiliranno con essa: più forti le interazioni e più lunghi i tempi di ritenzione. L'energia cinetica delle particelle fa sì che si abbia un continuo scambio di molecole di analita tra fase mobile e fase stazionaria: se un analita si distribuisce prevalentemente nella fase mobile le molecole passeranno più tempo nel gas carrier e quindi saranno trasportate più a lungo attraverso la colonna rispetto a quelle che verranno più stabilmente trattenute dalla fase stazionaria.
A seconda del tipo di rivelatore si utilizzano come fasi mobili: elio, idrogeno e talvolta anche azoto e argon. È estremamente importante che il gas presenti un'elevata purezza perché eventuali impurezze possono andare ad intaccare la fase stazionaria presente nella colonna e distruggerla, compromettendo quindi l'analisi. Tra questi possibili contaminanti troviamo l'acqua che, se presente in tracce, può andare a desorbire altri contaminanti della colonna causando un alto background e talvolta dando picchi fantasma. Un'altra possibile impurezza che va eliminata sono gli idrocarburi che costituiscono un problema importante nel caso si utilizzi un rivelatore a ionizzazione in quanto, dando un alto background, limitano la rivelabilità degli analiti. Dal momento che i gas carrier ad altissima purezza hanno prezzi estremamente elevati, spesso si sceglie di lavorare con gas ad alta purezza e li si purifica prima dell'utilizzo. Le impurezze di acqua e idrocarburi vengono eliminate attraverso l'ausilio di un filtro a setaccio che viene posizionato tra la bombola di gas e il resto della strumentazione, per eliminare l'ossigeno si ricorre invece ad un apposito filtro in quanto è più complicato da rimuovere.
Controllo del flusso
modificaDal momento che i gas carrier sono disponibili pressurizzati all'interno di bombole, sono necessari regolatori di pressione, manometri e flussimetri per regolare la velocità e la pressione di ingresso del carrier in colonna. Il controllo della velocità del flusso del gas carrier è infatti necessario per garantire un'adeguata efficienza, riproducibilità e al contempo rendere l'analisi adatta a determinazioni quantitative. Affinché l'analisi sia riproducibile è necessario che la velocità del flusso sia costante in modo tale che anche i tempi di ritenzione siano confrontabili e costanti, questo perché il metodo più semplice per identificare le sostanze è proprio attraverso l'osservazione dei tempi di ritenzione: due sostanze differenti possono avere lo stesso tempo di ritenzione, ma non esiste un composto che abbia due diversi tempi di ritenzione.
La velocità di flusso viene solitamente controllata regolando la pressione del gas carrier in ingresso mediante un riduttore di pressione all'uscita della bombola, dotato poi di un valvola di sicurezza e un filtro di ingresso per impedire ad eventuali particelle contenute nella bombola di entrare in colonna. La pressione del gas all'interno della bombola è circa 2500 psi e questa viene abbassata fino a valori compresi tra 20 e 60 psi[2] mentre la velocità del flusso viene mantenuta di circa 25-150 mL/min in colonne impaccate e 1-25 mL/min in colonne capillari.[3]
Dal momento che all'aumentare della temperatura aumenta la viscosità del gas, la velocità del flusso tenderà a diminuire all'aumentare della temperatura, questo aspetto va tenuto bene a mente nel caso di eluizioni a gradiente di temperatura: in questi casi si utilizza un sistema di controllo del flusso di tipo differenziale che consente di mantenere costante il valore di velocità.
In ogni caso si preferisce misurare il flusso attraverso la colonna. Lo strumento più utilizzato è il misuratore a bolla di sapone: questo è costituito da una buretta o da una pipetta graduata attraverso la quale viene fatto passare il gas ed è collegata all'estremità inferiore con un bulbo di gomma contenente una soluzione acquosa di sapone. Quando questo bulbo viene leggermente schiacciato, una bolla di soluzione passa all'interno della buretta: il tempo da questa impiegato per muoversi tra due tacche consente di valutare il valore del flusso volumetrico, che a sua volta può essere messo in relazione con la velocità lineare di flusso attraverso la seguente equazione:[4]
- con A →sezione del tubo
- uo velocità lineare all'uscita della colonna
Per comodità questo strumento viene posizionato all'uscita della colonna. Sono inoltre disponibili altri strumenti quali flussimetri digitali che misurano il flusso di massa o di volume, oppure entrambi.
Iniettore
modificaPer avere una buona efficienza cromatografica è necessario che il campione sia di dimensioni adatte e venga introdotto come tappo di vapore, ovvero è necessario che l'iniezione avvenga ad una temperatura sufficientemente elevata da permettere l'istantanea vaporizzazione del campione in modo tale da non avere perdita di efficienza, ma al contempo è necessario che la temperatura sia sufficientemente bassa da evitare la decomposizione termica delle sostanze (per questo motivo infatti solitamente la camera di iniezione è termostatata ad una temperatura di circa 50 °C superiore alla temperatura di ebollizione dell'analita meno volatile).[5][6] Dal momento che il volume cresce velocemente al momento della vaporizzazione, è necessario introdurre un volume molto piccolo di campione. Si pensi infatti che un campione di 1 μL di benzene, una volta vaporizzato dà luogo a 600 μL di vapore.[7] Se si inserisce un volume eccessivo di campione in colonna si rischia di avere bande molto larghe in quanto si inserisce più campione di quello che è realmente in grado di interagire con la fase stazionaria della colonna. Le dimensioni dei campioni variano a seconda del tipo di colonna che viene utilizzata: da pochi decimi di μL a 20 μL per colonne impaccate e volumi anche 100 volte più piccoli per colonne capillari.[8]
A seconda dello stato fisico in cui si presenta il campione e del tipo di analisi che va eseguita, si può ricorrere a diversi tipi di iniettori. Il più semplice metodo di introduzione del campione prevede l'utilizzo di una microsiringa la quale fora un setto di gomma che serve per evitare che, al momento dell'iniezione, i vapori si disperdano.[9] Il campione così introdotto entra all'interno di un liner, un inserto di vetro inerte e stabile aperto alle due estremità e posto dentro un sistema di riscaldamento. Qui il campione introdotto viene vaporizzato. Le eventuali sostanze non volatili vengono trattenute nel liner e quindi non raggiungono la colonna che altrimenti verrebbe danneggiata: a causa dell'accumulo di queste sostanze al suo interno è infatti necessario sostituire periodicamente il liner. Questo tipo di iniettore è di comune utilizzo per le colonne impaccate e può prevedere un sistema di introduzione con una valvola a loop come quello precedentemente illustrato per l'HPLC.
Un altro tipo di iniettore più complesso, ma molto usato, è l'iniettore split-spitless il quale ha due diverse modalità di funzionamento a seconda di come viene suddiviso il volume di vapore ottenuto a seguito dell'iniezione:
- split - solo una piccola parte del volume viene iniettato in colonna;
- splitless - tutto il volume viene iniettato in colonna.
Sono presenti diverse valvole che regolano lo splittaggio e il sectum flow. La valvola che si trova nella parte in alto controlla il sectum flow, ovvero il flusso di gas che viene utilizzato per lavare il setto ed è solitamente mantenuta sempre aperta; questo flusso non raggiunge la colonna ma viene scaricato ed allontanato dal sistema prima. È poi presente una valvola di splittaggio che regola il rapporto dei flussi diretti alla colonna e allo scarico. Quando questa valvola è chiusa tutto il gas va in colonna e l'iniezione avviene nella modalità splitless.
Dal momento che nella modalità split solo una parte del campione viene introdotto in colonna, può essere vantaggioso operare in questo modo se il campione è particolarmente sporco o se proviene da matrici complesse: in questo modo si protegge la colonna e se ne evita il deterioramento. Il problema associato a questa pratica è legato al fatto che rende impossibile fare un'analisi quantitativa: innanzitutto il rapporto di split è noto con scarsa precisione e ciò porta a degli errori di grande entità nella determinazione quantitativa degli analiti, inoltre il campione viene molto diluito, il che rende impossibile l'analisi di componenti in tracce. Un'altra problematica che si ha in questo caso è data dal fatto che la volatilizzazione in questo tipo di iniettore non è istantanea e quindi l'iniezione risulta disomogenea: gli analiti più volatili si vaporizzano per primi e la corsa cromatografica inizia in momenti diversi introducendo un errore importante.
Qualora esigenze particolari portino alla necessità di utilizzare la modalità di iniezione con split, è necessario prima valutare l'entità di questi fattori appena elencati attraverso l'ausilio di standard interni più o meno volatili, il che complica e allunga molto l'analisi.
Un altro tipo di iniettore è l'on column injector. Con questo tipo di iniettore il campione viene depositato direttamente in testa alla colonna cromatografica. Questo sistema viene utilizzato quando si ha a che fare con composti che risentono dello stress termico della vaporizzazione split-splitless oppure per sostanze con volatilità troppo diversa e che raggiungerebbero quindi la colonna già parzialmente disperse. L'ago di iniezione deposita il campione in testa alla colonna in condizioni di bassa temperatura, solitamente impostata a valori inferiori alla temperatura di ebollizione del solvente e solitamente, prima di iniziare con l'analisi, il sistema viene raffreddato con circolazione ad aria. È inoltre un metodo adatto all'analisi quantitativa in quanto è nota con accuratezza la quantità di campione introdotta, in più consente di eliminare il problema relativo alla degradazione termica e la discriminazione tra sostanze più e meno volatili all'interno del campione.
Il campione viene depositato direttamente in colonna, questo costituisce un problema soprattutto qualora il campione sia sporco: il primo tratto della colonna si sporca facilmente e si degrada per effetto della matrice, per questo motivo è quindi necessario tagliarne periodicamente qualche centimetro in corrispondenza dell'iniettore o si rischia che le prestazioni della colonna diminuiscano nel tempo. Una soluzione alternativa prevede l'utilizzo di un retention gap, ovvero di un capillare privo di fase stazionaria che raccorda l'iniettore e la colonna e che blocca le sostanze poco volatili facendole condensare sulle sue pareti. Il grande vantaggio di questo iniettore è dato dal fatto che quando la temperatura viene innalzata tutti gli analiti si volatilizzano insieme e la corsa cromatografica parte al tempo zero per tutti: ne consegue quindi che nel cromatogramma si avranno picchi molto stretti.
È inoltre possibile avere un altro tipo di iniezione che sfrutta iniettori particolari che consentono in inserire nello strumento dei supporti nei quali sono stati precedentemente intrappolati gli analiti che vengono rilasciati per desorbimento termico. Questo metodo di iniezione è molto utile nel caso in cui gli analiti siano stati raccolti all'interno di fibre SPME (Solid Phase Microextraction).
Colonna
modificaLa colonna costituisce il cuore del sistema cromatografico in quanto è il punto in cui avviene la separazione degli analiti. Dal momento che, affinché avvenga la separazione è necessario che i composti da analizzare siano in fase gas, la colonna è posizionata all'interno di un forno termostatato ad una temperatura che varia in base alla natura dei campioni da analizzare. Esistono due tipi di colonne gas cromatografiche:
- colonne impaccate;
- colonne capillari.
Le colonne impaccate sono fabbricate con tubi di vetro, metallo o teflon riempite di fase stazionaria solitamente costituita da materiale solido con granulometria inferiore a 200 μm oppure da una fase liquida supportata su particelle solide. Il loro diametro è piuttosto grande e varia dai 2 ai 4 mm e la lunghezza varia tra 1 e 6 metri.[10]
Le colonne impaccate, un tempo molto utilizzate, vengono usate ormai solo per scopi preparativi (consentono infatti di lavorare con quantità relativamente grandi di campione), per le analisi quantitative si preferisce usare le colonne capillari.
Le colonne capillari sono le più diffuse e le più usate ai giorni nostri. Sono costituite da un tubo capillare di silice fusa ricoperta di polimmide che le rende più robuste. Le prime colonne capillari erano costituite di materiali plastici come tygon e nylon, il che comportava diverse limitazioni dal punto di vista della temperatura di esercizio. Per ovviare a questo problema si è quindi passati a realizzare le colonne di metallo, in questo modo si è risolto il problema delle temperature, ma si è introdotto lo svantaggio dell'attività catalitica dei metalli. Si è quindi passati alla realizzazione di colonne in silice fusa.[11]
La lunghezza è solitamente compresa tra i 10 e i 100 metri e il diametro varia da 0,10 a 0,75 mm.[12] La fase stazionaria è liquida e costituisce il rivestimento interno della colonna, è solitamente spesso pochi decimi di micron. Queste caratteristiche conferiscono alle colonne capillari molteplici punti di forza quali ad esempio: migliore separazione con risoluzione maggiore, tempi di analisi ridotti, sensibilità maggiore e richiedono una minore quantità di campione. Le dimensioni del campione da analizzare costituiscono un aspetto molto importante: è un grande vantaggio nel caso in cui il campione di cui si dispone è molto piccolo, ma costituisce un limite importante e che richiede particolare attenzione. Le colonne capillari infatti rischiano di essere sovraccaricate molto più facilmente proprio perché la quantità di campione che è in grado di interagire con la fase stazionaria è molto piccola: qualora si iniettasse un volume maggiore a quello sopportato dalla colonna si avrebbe la vanificazione dell'analisi. Il piccolo volume che queste sono in grado di gestire unitamente al grande numero di piatti teorici, le rende particolarmente adatte ad impieghi analitici.
Dal momento che le colonne capillari forniscono un'efficienza ed una risoluzione migliore rispetto alle colonne impaccate per i motivi sopra elencati, ne consegue che i picchi sono più stretti e con uno scodamento minore, il che facilita l'analisi rendendo più semplice l'integrazione dei picchi, soprattutto nel caso di analiti presenti in tracce: in questo modo si esegue un errore minore e di conseguenza l'analisi quantitativa, come anche quella qualitativa, risulta essere più affidabile. Il fatto di avere delle bande molto strette infatti, consente di avere un picco con altezza maggiore rispetto a quello ottenibile con un'analisi condotta con una colonna impaccata in cui invece il picco può risultare irrisolto o addirittura confondersi con il rumore di fondo.[13]
Le colonne capillari hanno inoltre un film di fase stazionaria molto più sottile rispetto a quello delle colonne impaccate, il che rende identici i cammini possibili all'interno della colonna e al contempo garantisce il fatto che ogni molecola di soluto possa interagire allo stesso modo e per lo stesso tempo con la fase stazionaria. Nelle colonne impaccate invece, la quantità di fase stazionaria costituente il rivestimento interno della colonna è maggiore, così come lo spessore: all'interno della colonna lo spessore della fase stazionaria non sarà omogeneo ma si avranno delle zone in cui lo spessore è maggiore e altre in cui questo è minore e questo aspetto influirà sui tempi di ritenzione delle componenti degli analiti. Ne consegue quindi una differenza nella forma dei picchi ottenibili che saranno quindi più larghi nel caso delle colonne impaccate a causa dei fattori che influenzano l'allargamento di banda (vedi Teoria dell'allargamento di banda ed equazione di Van Deemter).
A seconda del diverso tipo di rivestimento interno si possono distinguere tre diversi tipi di colonne capillari:
- FCOT (Fused Coated Open Tubular) - colonna sulle cui pareti interne è presente silice fusa;
- PLOT (Porous Layer Open Tube) - colonna cava all'interno sulle cui pareti è adesa una fase stazionaria solida porosa;
- SCOT (Support Coated Open Tubular) - sono le colonne capillari maggiormente usate e consistono in una colonna cava all'interno, alle cui pareti è adesa una fase stazionaria liquida supportata su un supporto solido.
Dal momento che in gascromatografia la fase mobile agisce solo come carrier, gli unici fattori che influenzano la separazione sono la temperatura di ebollizione degli analiti e le caratteristiche della fase stazionaria. Aspetto di rilevanza fondamentale quando si tratta di scegliere una fase stazionaria adeguata agli analiti, è la polarità: in genere si segue la regola secondo cui il simile scioglie il simile per cui si userà una fase stazionaria polare contenente gruppi funzionali come -CO, -CN, -OH per analiti polari, mentre colonne con fase stazionaria apolare costituita da idrocarburi e dialchilsilossani per analiti apolari.
Il fattore discriminante per la separazione delle varie sostanze rimane la temperatura di ebollizione: sostanze aventi punti di ebollizione molto differenti tra loro verranno separati da qualsiasi colonna cromatografica indipendentemente dalla fase stazionaria impiegata. Il tipo di fase stazionaria diventa invece un fattore essenziale nel caso in cui le sostanze da separare abbiano punti di ebollizione simili. Aspetto fondamentale da ricordare è che le sostanze utilizzate come fase stazionaria devono avere una bassissima tensione di vapore per evitare il loro movimento in colonna.
Sono possibili due diverse modalità di eluizione:
- eluizione isoterma - la temperatura alla quale si trova la colonna non viene modificata durante l'analisi ma rimane costante per tutto il tempo. È un metodo adatto a sostanze con punti di ebollizione molto simili e in cui la separazione si basa principalmente sulla diversa affinità degli analiti per la fase stazionaria;
- eluizione a gradiente di temperatura - la temperatura alla quale si trova la colonna viene aumentata gradualmente attraverso un programma termico. In questo modo si riescono a separare anche sostanze aventi punti di ebollizione molto diversi, inoltre i tempi di analisi risultano essere più brevi rispetto a quelli di un'eluizione isoterma: con questa modalità infatti si risolve il problema associato a tempi di ritenzione troppo elevati in quanto possono essere abbassati con l'aumento della temperatura. Bisogna infatti ricordare che la tensione di vapore di una qualsiasi sostanza aumenta all'aumentare della temperatura, per cui i soluti tendono a passare nella fase mobile e il loro tempo di ritenzione diminuisce. Per contro all'aumentare della temperatura aumenta anche la viscosità del gas a cui consegue una diminuzione del flusso a parità di pressione in colonna. Questo comporta una variazione della linea di base o la variazione rispetto alla velocità ideale secondo l'equazione di Van Deemter, e quindi il rallentamento dell'analisi con allargamento dei picchi. Per questo motivo si lavora solitamente a flusso costante e non a pressione costante in modo da compensare questi fattori al variare della temperatura. Un altro grande vantaggio è rappresentato dal fatto che un'eluizione a programmata di temperatura consente anche di pulire la colonna da eventuali residui di specie alto bollenti rimaste dalle iniezioni precedenti, è però necessario evitare di portare la temperatura a valori troppo elevati per non danneggiare la colonna.
Questo tipo di eluizione ha però alcuni limiti di applicazione legati al fatto che gli analiti devono essere stabili termicamente così come la fase stazionaria. In generale altri aspetti da tenere in considerazione sono il fatto che all'aumentare del peso molecolare e della polarità, la volatilità degli analiti diminuisce. Solitamente l'aumento della temperatura è lineare con il tempo.
Rivelatore
modificaIl rivelatore è lo strumento che reagisce alla presenza di un composto e che in risposta produce un segnale elettrico che viene amplificato e poi registrato. A differenza dei rivelatori usati nella cromatografia liquida questi sono di tipo differenziale e sfruttano quindi la variazione di una proprietà del gas di trasporto e non di una grandezza assoluta.
Dalla colonna cromatografica esce un flusso di sostanze sotto forma di bande discrete le quali hanno un tempo di residenza all'interno del rivelatore relativamente breve, per questo motivo lo strumento deve essere in grado di fornire una risposta in tempi piuttosto rapidi.
Si definisce rumore una componente del segnale priva di informazione analitica legata ad una variazione casuale del valore rivelato dallo strumento causata da fluttuazioni casuali di tutto il sistema di misura. Esistono diversi fattori in grado di generare rumore, quali ad esempio una variazione nella temperatura, impurezze presenti nel gas carrier, fluttuazioni nel flusso di gas, bleeding della colonna oppure la presenza di contaminanti all'interno del rivelatore. Se il rumore di fondo è alto, questo può andare a compromettere la sensibilità del rivelatore e la riproducibilità dell’integrazione. Si possono distinguere tre possibili tipologie di rumore: il rumore a breve termine, quello a lungo termine e da deriva.
- Il rumore a breve termine consiste in perturbazioni della linea di base ad alta frequenza e si presenta sotto forma di picchi più alti rispetto al picco dato dall’analita oggetto di studio. Questa tipologia di rumore più essere facilmente eliminato grazie all’impiego di particolari filtri.
- Il rumore a lungo termine consiste invece in una perturbazione della linea di base di frequenza minore rispetto al caso precedente. Il problema maggiore ad esso legato, e che rende molto difficile riuscire ad eliminarne il contributo, è dato dal fatto che i picchi relativi al rumore a lungo termine sono solitamente di altezza minore o simile a quella del picco di interesse: i picchi risultano quindi essere simili tra loro e per questa ragione difficilmente differenziabili. È solitamente causato da fluttuazioni delle condizioni ambientali quali ad esempio la temperatura, oppure da instabilità di alcune componenti del rivelatore.
- Per quanto riguarda la deriva, questa consiste in variazioni della linea di base molto piccole, lente e costanti nel tempo che non oscurano tuttavia il picco cromatografico di interesse, e può essere causata da fattori quali ad esempio il cambiamento nel flusso del makeup gas oppure il bleeding della colonna.
Un parametro che viene impiegato spesso per valutare l'impatto del rumore è il rapporto segnale/rumore, che è indicativo della probabilità che un particolare picco, in una linea di base affetta da rumore, rappresenti il segnale di un analita.
Dal momento che quasi tutti i rivelatori impiegati nella GC sono distruttivi, non è possibile recuperare il campione dopo averlo analizzato.
Un buon rivelatore deve avere diverse caratteristiche, in particolare deve:
- essere sensibile - avere quindi un buon rapporto tra segnale e quantità di sostanza;
- essere selettivo - rispondere solo ad alcune classi di sostanze;
- avere un ampio intervallo di linearità (LOL) - l'intervallo di concentrazione dell'analita in cui il rivelatore fornisce una risposta linearmente proporzionale deve essere ampio. È infatti fondamentale che il rivelatore lavori all'interno del suo range di linearità affinché fornisca del valori affidabili: per questo motivo quantità doppie di campione devono restituire un segnale doppio;
- avere bassi LOD - ovvero avere bassi limiti di rivelabilità, il che si riferisce alla quantità minima di soluto che viene rivelata e fornisce un picco sul cromatogramma. Il LOD (Limit Of Detection) è definito come:
- e dipende dal rumore (N) e l'altezza del picco (S) e l'ampiezza del picco a mezza altezza .[14]
- essere stabile e operativo per lungo tempo;
- fornire una risposta velocemente perché il segnale che registra è transiente;
- avere un ridotto volume morto - per evitare che si verifichi il rimescolamento degli analiti nel tratto che collega il rivelatore e la colonna;
- sopportare elevate temperature per evitare che gli analiti vi condensino all'interno - la temperatura di esercizio deve andare circa da temperatura ambiente fino a 400 °C.
I principali rivelatori impiegati nella gascromatografia sono:
- TCD - Thermo Conductivity Detector;
- FID - Flame Ionization Detector;
- ECD - Electron Capture Detector;
- FPD - Flame Photometric Detector;
- MS - Mass Spectrometry.
Il rivelatore a termoconducibilità è un rivelatore universale e non distruttivo il cui funzionamento si basa sulla differenza di conducibilità termica del gas carrier causata dalla presenza di sostanze nel flusso in uscita dalla colonna. Viene molto spesso utilizzato nella determinazione di sostanze gassose che sono altrimenti difficili da determinare con altri metodi, in particolare è adatto a sostanze inorganiche quali ad esempio NH3, CO2 e H2O.[15]
Questa tipologia di rivelatori utilizza elio o idrogeno come gas carrier in quanto hanno conducibilità maggiore di tutte le sostanze organiche.
All'interno del rivelatore è presente un filo metallico che viene scaldato elettricamente: se il flusso di gas in arrivo è a composizione costante la temperatura del filo metallico sarà costante, quando però all'interno del flusso si trova un analita organico la conducibilità termica diminuisce (le sostanze organiche hanno conducibilità termica minore di quella del gas usato), e quindi la temperatura del filo aumenta. Questa variazione di temperatura provoca uno squilibrio nel circuito con conseguente variazione della resistenza che viene misurata attraverso un ponte di Wheatstone.
In alternativa al filamento metallico può essere usato un termistore, ovvero un resistore la cui resistenza varia significativamente al variare della temperatura. Il più grande vantaggio che questi hanno rispetto ai resistori è che sono inerti all'ossidazione e sono di dimensioni molto ridotte. Per contro però non possono essere impiegati in condizioni riducenti e presentano una serie di altri svantaggi che costituiscono un limite importante alla loro applicabilità. Un aspetto importante da considerare è che impiegando i termistori la rivelabilità degli analiti diminuisce velocemente all’aumentare della temperatura. Per questo motivo vengono utilizzati solo in analisi a bassa temperatura e con colonne capillari,[16] in quanto consentono di lavorare con volumi molto ridotti. Questo però costituisce un problema importante perché, come si vedrà in seguito, tale tipo di rivelatore non è particolarmente sensibile se confrontato con gli altri esistenti.
In generale per quanto riguarda il rivelatore TCD, sia esso a termistore o a resistore, il segnale ottenuto è proporzionale alla concentrazione degli analiti. Si tratta tuttavia di un rivelatore non specifico in quanto risponde ad ogni tipo di composto e universale, perché ogni composto modifica la conducibilità termica del flusso di gas in modo differente: per questo motivo è necessaria una standardizzazione. Viene infatti spesso aggiunto uno standard interno, che apporta importanti vantaggi all'analisi: innanzitutto le temperature della cella e del filamento sono rese indipendenti le une dalle altre, inoltre il risultato fornito è reso indipendente dal tipo di rivelatore (se a filamento o a termistore), dalla corrente misurata, dalla concentrazione del campione e dal flusso del gas carrier. Come si è già accennato in precedenza anche la sensibilità è molto ridotta, una delle peggiori se confrontata con quella degli altri rivelatori: tollera infatti un rumore fino a 2 μV, ha una rivelabilità compresa tra 106 e 108 g/mL nel gas carrier e il LOD è nell'intorno dei 10 ppm; in compenso il LOL è piuttosto ampio in quanto nell’ordine di 104.[17]
Per minimizzare le fluttuazioni termiche il rivelatore viene posizionato all'interno di un blocco metallico dotato di grande inerzia termica che viene mantenuto ad una temperatura di circa 50 °C maggiore di quella della colonna: è infatti molto importante controllare la temperatura in quanto si possono registrare variazioni di resistenza significative al variare della temperatura. La variazione della resistenza del filamento varia con la temperatura con la seguente relazione:
con α coefficiente termico che dipende dal materiale.
Si possono trovare strumenti a singolo o a doppio canale. Nel primo caso è necessario avere un sistema di correzione per le variazioni di temperatura, nel secondo invece si confrontano i due filamenti di cui uno esposto ad un flusso di una colonna di un bianco e l'altro al flusso uscente dalla colonna di analisi. Il secondo caso è ovviamente il preferibile in quanto consente di compensare non solo le variazioni di temperatura del forno ma anche il fenomeno di bleeding.
Il rivelatore a ionizzazione di fiamma è un rivelatore adatto pressoché ad ogni sostanza organica. Richiede un'elevatissima purezza del gas carrier, del combustibile e del comburente impiegato nella fiamma ma la sua risposta non è influenzata da piccole variazioni di pressione, temperatura e velocità del flusso. Non risente inoltre di impurezze eventualmente presenti all'interno del gas carrier quali ad esempio CO2 o acqua. In compenso anche piccolissime tracce di idrocarburi possono andare ad intaccare la stabilità della linea di base.[18] Il FID è costituito da una fiamma alimentata da idrogeno ed aria che sono rispettivamente il combustibile e il comburente. Quando il flusso contenente gli analiti raggiunge la fiamma si ha la combustione con formazione di nuove specie cariche. A seguito della ionizzazione di queste specie si ha il rilascio di elettroni che, una volta usciti dalla fiamma, incontrano un campo elettrico che viene applicato tra due elettrodi. Gli elettroni quindi si dispongono in virtù dell'effetto del campo elettrico e vengono raccolti e conteggiati all'elettrodo collettore: si crea così una corrente elettrica tra i due elettrodi che è proporzionale alla concentrazione degli analiti che l'hanno generata. È inoltre presente un amplificatore che ha il compito di amplificare il segnale registrato.
Il segnale è proporzionale al numero di atomi di carbonio presenti nella specie rivelata e non al suo peso o al suo numero di moli.[19] La risposta che viene fornita dal rivelatore è influenzata dalla presenza di eteroatomi quali ossigeno, zolfo e alogeni in quanto, essendo elettronegativi, possono catturare parte degli elettroni rilasciati durante la combustione e possono causare l'abbassamento della corrente di fondo.
L'elettrodo collettore di elettroni è solitamente di forma cilindrica in modo da massimizzare la superficie disponibile alla collezione di elettroni.
Il FID fornisce una miglior risposta se si usa azoto come make up gas, soprattutto nel caso si utilizzi una colonna capillare. È molto importante mantenere la temperatura controllata all'uscita della fiamma del rivelatore o il rischio è che l'acqua condensi nuovamente e torni verso la fiamma causando cortocircuiti: per questo motivo la temperatura del rivelatore viene mantenuta più alta rispetto a quella della colonna in modo tale da non avere la condensazione delle sostanze. Si deve comunque prestare attenzione al fatto che la temperatura non sia troppo elevata o il rischio è che le superfici solide costituenti lo stesso rivelatore emettano elettroni per ionizzazione termoionica. Il surriscaldamento del rivelatore può inoltre causare perdite elettriche causando instabilità nella corrente.
È un rivelatore molto specifico e dotato di una stabilità moderata. Il range di linearità si estende fino a 107, è dotato di bassi LOD, 10-13 gC/s[20] ma necessita di un gas carrier puro, in particolare privo di idrocarburi in modo da diminuire il rumore di fondo che rischia di essere molto alto essendo questo strumento molto sensibile alla presenza di atomi di C.[21]
Il rivelatore a cattura di elettroni è un rivelatore specifico e non distruttivo, particolarmente adatto a piccole quantità di analita e quindi molto sensibile.
il rivelatore ECD[22] sfrutta una sorgente radioattiva di 63Ni che emette particelle beta. Queste colpendo il gas di trasporto lo ionizzano e producono così un flusso di elettroni che restituiscono un valore di corrente che viene misurata tramite due elettrodi. In assenza di analiti tale processo di ionizzazione genera una corrente costante, ma se nell’eluato sono presenti analiti elettron attrattori ovvero molecole organiche contenenti gruppi funzionali con alogeni, azoto, fosforo, doppi legami coniugati o organometalli, la corrente diminuisce proporzionalmente alla concentrazione degli analiti presenti.[23] Al posto del 63Ni si può anche impiegare del trizio che presenta però diverse problematiche a livello operativo: innanzitutto può essere usato solo a temperature inferiori a 225 °C (mentre il Ni può arrivare fino a 400 °C),[24] in più può essere facilmente contaminato da composti che possono adsorbirsi sulla superficie della lamina affievolendo la sorgente di raggi x. Altro aspetto da tenere in considerazione è che ad elevate temperature il trizio emette radiazioni ad un livello tale da costituire un pericolo per la salute umana.[25] Questi importanti svantaggi vengono però compensati da un importante vantaggio: la forza di ionizzazione del trizio è molto più elevata di quella del nichel, il che comporta un flusso di radiazioni maggiori a cui consegue una ionizzazione del gas di trasporto più efficiente.
Solitamente viene usato azoto come gas carrier e talvolta argon invece che elio o idrogeno in quanto è più facilmente ionizzabile avendo una sezione trasversale di ionizzazione maggiore, inoltre viene spesso aggiunto un make up gas per migliorare le prestazioni.[26]
La differenza di potenziale può essere applicata in modi differenti: come tensione costante, corrente costante a frequenza pulsata variabile oppure corrente costante a frequenza pulsata costante.
La tensione ad impulsi riduce significativamente l'accumulo di zone cariche nel rivelatore risultante da differenze nella velocità degli ioni carichi positivamente rispetto alla mobilità degli elettroni liberi. Gli elettroni dotati di una certa energia termica, quando non è presente alcun tipo di impulso, si attaccano a qualsiasi specie elettronegativa e vengono prodotti ioni carichi negativamente. Gli ioni negativi così ottenuti si combinano con quelli positivi presenti causando una diminuzione della corrente: per questo motivo è necessario regolare in modo molto accurato il periodo di impulso o si rischia di andare a perdere l'informazione relativa alle specie cariche positivamente annullate dalla combinazione con quelle negative. Solitamente l'impulso è nell'ordine dei 30-50 V e viene ripetuto ogni 10 μs.[27]
Esigenza fondamentale è l'elevatissima purezza del gas di trasporto in quanto qualsiasi specie elettron attrattrice eventualmente presente causa un abbassamento della corrente. In ogni caso è comunque consigliabile l'utilizzo di standard interni ed esterni.
Vista la sua elevata sensibilità e dati i limiti di rivelabilità molto bassi in particolare per alogeni, zolfo, fosforo e nitrogruppi (arriva a rivelare quantità nell'ordine di picogrammi e talvolta femtogrammi), viene spesso utilizzato in ambito biomedico e ambientale.
Il rivelatore fotometrico a fiamma è un tipo di rivelatore che viene utilizzato per la rivelazione di composti e metalli contenenti zolfo o fosforo quali ad esempio stagno, boro, arsenico e cromo.
Il suo funzionamento si basa sul monitoraggio dell'intensità dell'emissione luminosa di specie dopo che queste sono state eccitate attraverso l'ausilio di una fiamma idrogeno/aria. Gli analiti presenti nel campione vengono indirizzati alla fiamma dove vengono decomposti e portati allo stato eccitato. Le specie così ottenute emettono luce con una lunghezza d'onda caratteristica. La radiazione viene prima fatta passare attraverso un filtro che seleziona una lunghezza d'onda, dopodiché l'intensità viene amplificata e poi rivelata con un tubo fotomoltiplicatore.
Il rumore aumenta all'aumentare della temperatura di esercizio per cui la temperatura del rivelatore deve essere impostata ad un valore tale da impedire la ricondensazione delle sostanze nel rivelatore. Per questo motivo la temperatura di esercizio di questo rivelatore è di circa 150-275 °C.[28]
La sensibilità dipende dall'intensità della luce emessa dalle specie analizzate ed aumenta al diminuire della temperatura della fiamma. Altri aspetti che possono andare ad aumentare la sensibilità del rivelatore sono l'utilizzo di gas carrier come elio o idrogeno, in quanto dotati di alta conducibilità termica, e l'utilizzo di una fiamma ricca di idrogeno che però rappresenta un problema perché rende la fiamma instabile. L'intervallo di linearità è nel caso del fosforo di circa 104 e per lo zolfo 103.[29]
Un altro rivelatore che viene spesso usato in GC è lo spettrometro di massa che risulta essere un accoppiamento vincente in quanto consente di restituire informazioni sulla natura degli analiti separati e permetterne anche l'identificazione. È per questo che si parla di accoppiamento GC-MS. Alla trattazione di questo argomento verrà però riservato un capitolo nella sezione successiva.
Esempio di applicazione
modificaNell'esempio qui riportato si vedrà come la gascromatografia possa essere applicata alla determinazione quali-quantitativa di idrocarburi lineari. La metodologia analitica impiegata prevede una separazione GC e rivelazione tramite FID.
Viene fornito un campione contenente un analita incognito da identificare e di cui determinare la concentrazione. Vengono preparate delle soluzioni standard a concentrazione nota e crescente delle seguenti specie: C10H22, C11H24, C12H26, C13H28. Per identificare l'analita presente nel campione in esame si confronta il tempo di ritenzione ottenuto dall'analisi cromatografica del campione incognito con i tempi di ritenzione delle specie delle varie soluzioni standard, avendo cura di mantenere inalterate le condizioni operative durante tutte le analisi.
L'analisi delle varie soluzioni standard a concentrazione 30 ppm ha riportato i seguenti risultati:
Analita | Tempo di ritenzione [min] |
---|---|
C10H22 | 3,454 |
C11H24 | 4,048 |
C12H26 | 4,630 |
C13H28 | 5,186 |
Si è quindi eseguita l'analisi sul campione incognito che ha portato ai seguenti risultati:
Campione | Tempo di ritenzione [min] | Area analita [mAU*s] | Area media [mAU*s] |
---|---|---|---|
Replica 1 | 3,462 | 6116 | 6225 |
Replica 2 | 3,457 | 6333 |
Andando a confrontare i valori ottenuti nel campione con quelli delle soluzioni standard analizzate si può quindi affermare che l'analita presente nel campione in esame è C10H22.
Per quanto riguarda la determinazione della concentrazione dell'analita si procede costruendo la retta di taratura sulle aree dei picchi del C10H22 a diverse concentrazioni. I risultati ottenuti sono i seguenti:
Tempo di ritenzione [min] | Area [mAU*s] | |
---|---|---|
Std 10 ppm | 3,454 | 3792 |
Std 20 ppm | 3,451 | 8827 |
Std 30 ppm | 3,454 | 13279 |
Std 40 ppm | 3,454 | 18098 |
Andando a riportare i dati sopra riportati in un grafico con l'area del picco in funzione della concentrazione si ricava la retta di taratura del tipo y = mx + q, dove y è l'area del picco e x la concentrazione. Dal grafico risulta che l'equazione della retta è y = 473,7x - 843,5.
Essendo l'area del picco relativo al campione pari a 6225, andando a sostituire tale valore nell'equazione della retta è possibile ricavare la concentrazione:
Note
modifica- ↑ Skoog, pp. 887-909
- ↑ Miller, p. 17
- ↑ Skoog, p. 888
- ↑ Skoog, p. 866
- ↑ Skoog, p. 889
- ↑ Miller, p. 25
- ↑ Miller, p. 20
- ↑ Skoog, p. 889
- ↑ Sadek, p. 177
- ↑ Skoog, p. 899
- ↑ Grob, pp. 110-111
- ↑ Skoog, p. 899
- ↑ Grob, p. 112
- ↑ Grob, p. 283
- ↑ Sadek, p. 198
- ↑ Grob, p. 295
- ↑ Sadek, p. 5
- ↑ Grob, p. 298
- ↑ Grob, p. 300
- ↑ Grob, p. 303
- ↑ Sadek, p. 81
- ↑ Sadek, p. 62
- ↑ Sadek, p. 62
- ↑ Grob, p. 307
- ↑ Grob, p. 307
- ↑ Grob, p. 307
- ↑ Grob, p. 308
- ↑ Grob, p. 328
- ↑ Grob, p. 328