Biografia del Melekh Mashiach/Capitolo 93
Parabola del Figlio Prodigo
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Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".
(Luca 15:11-32)
Ci sono molte pagine bibliche, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, che ci presentano Dio come Padre Misericordioso, tuttavia la parabola che ci riporta il Vangelo di Luca al capitolo 15 è sicuramente la raffigurazione principale dell'amore misericordioso di Dio: in questa pagina davvero tocchiamo con mano come la "misericordia" sia una delle componenti essenziali dell'essere stesso di Dio. Nella parabola in realtà non si parla di un solo figlio, ma di due figli, e forse è più giusto chiamarla, come suggeriscono alcuni, "la parabola del padre misericordioso". Un padre che è padre: un padre è colui che ama i suoi figli. Tutti e due i nati da lui, il figlio che se ne va e quello che brontola sempre, il figlio del piacere e quello del dovere – tali sono i suoi figli. La parabola gioca tutto quanto sul rapporto che c'è tra questo padre e i due figli.
Un uomo aveva due figli, questo modo di iniziare la parabola è strano, sarebbe stato infatti naturale iniziare il racconto dicendo: un padre aveva due figli. Come mai Gesù utilizza invece la prima espressione? Potremmo forse vedere in questa particolarità un richiamo a uno dei temi principali della parabola: questa racconta infatti di due figli incapaci di comprendere sia i disegni sia il cuore del padre loro, ed allora ai loro occhi quel padre non è un padre ma soltanto un uomo; quindi la cosa che risalta subito è che quest'uomo non era un padre, in quella casa non esisteva il concetto di paternità. Un uomo dal quale allontanarsi appena possibile, oppure un uomo a cui si serve e si obbedisce più per timore o per forza che per amore.
Due figli, quindi, il maggiore e il minore. Due caratteri e temperamenti distinti, due modi diversi di relazionarsi e interagire. Intorno, una casa piena di ricchezza ed operosità dei suoi lavoratori e, lontano, ettari di campi che si perdono all'orizzonte. Questo non è un racconto che distingue i due fratelli in uno buono e in uno cattivo. Solo il padre è buono. Egli ama entrambi i figli. Corre fuori per andare incontro a tutti e due. Vuole che, sia l'uno che l'altro, siedano alla sua mensa e condividano la sua gioia. "Nella casa del Padre mio ci sono molti posti" (Giovanni 10:2) dice il Mashiach. In essa ogni figlio di Dio ha il suo posto unico. Bisogna abbandonare tutti i paragoni, le rivalità e le competizioni arrendersi all'amore del Padre.
Il figlio minore non poteva aspettare che suo padre morisse. Voleva i beni immediatamente, nonostante suo padre fosse ancora vivo. Una volta che li ebbe, raccolse tutte le sue cose e partì per un "paese lontano", e ben sappiamo come poi finisce la sua storia.
Il figlio maggiore è sempre stato proteso verso la conquista del suo essere figlio. Giorno per giorno, con il duro lavoro, paga il "dazio" della sua condizione, cerca di allontanarsi da un padre che, come il fratello, sente crudele e padrone. Di fronte ad un padre così ha deciso di attuare la strategia del dovere: nessun debito, nessun credito. Ma si è perso pure lui, nella sua durezza interiore, nel suo risentimento verso il padre che accoglie con misericordia il figlio tornato a casa, nella sua incapacità di credere che l'amore è più forte di ogni male, nella sua cecità di vedere quell'uomo, un Padre.
"Mi leverò e andrò da mio padre, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te" (Luca 15:18). Tale è la condizione indispensabile per convertirsi; una confessione umile, chiara e sincera, ingenua; non piena di superbia, di scuse, di lamenti contro tutti: perché mi hanno fatto questo o quello, mi trattano male, non mi amano e l'odio che sentono contro di me li porta a giudicare male tutto quello che faccio. "Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni" (Luca 15:19). Il figlio prodigo, per fare penitenza, rinuncia al bene del quale poteva rallegrarsi, e si impone la mortificazione di farsi chiamare servo. "Egli dunque si levò e andò da suo padre", cioè, mise in atto il suo proposito, come deve fare ogni persona che ha mancato: levarsi dal peccato e andare dal Padre.
Infatti, la parabola del figliol prodigo ci richiama tre verità fondamentali: 1) la vicenda del figlio minore mette in luce che la dignità della persona nasce dal fatto che Dio è veramente Padre nostro e noi siamo figli suoi, creati a immagine e somiglianza sua, chiamati a vivere della sua stessa vita; 2) la vicenda del fratello maggiore mostra che tutti indistintamente, anche quanti sono ritenuti (o si ritengono) «giusti», sono bisognosi di misericordia e di perdono; 3) infine la figura del Padre che ama e perdona i figli mostra che siamo tutti fratelli, chiamati a testimoniare e rendere visibile nel mondo l’amore misericordioso di Dio.
È infatti il Padre che dà la vita, il vivente. Nella parabola, il Padre aveva generato il figliol prodigo una prima volta, dandogli la vita fisica (che in greco si indica con il termine bìos), gliela aveva data una seconda volta quando gli aveva concesso ton bìon, la "parte dei beni che gli spettava", cioè la sostanza per vivere (che in greco si indica con lo stesso termine bìos), ora gli ridona la vita per la terza volta: ma qui il testo non parla più di vita fisica (bìos) bensì di una vita nuova (zoè). Il Padre non lo lascia neppure terminare il discorsetto che si era preparato per chiedergli perdono, e ordina ai servi: "Presto, portate la prima stola, quella più bella (stolén ten pròten, metafora della vita divina): mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi (non è schiavo, ma figlio), uccidete il vitello grasso e facciamo festa. Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita (anézesen), è tornato a una vita nuova (zoé), che va al di là della pura vita fisica (bìos) (cfr. 22‐24).
Significativamente la parabola qui s’interrompe e rimane incompiuta. Il Vangelo, cioè, non ci dice che cosa è accaduto dopo: i due fratelli hanno ripreso a vivere insieme nella casa del Padre? Le frasi finali lo fanno intuire. Anzi a questo punto il messaggio della parabola tocca il suo vertice. Che il fratello minore e il fratello maggiore, rientrati in casa partecipano familiarmente alla vita del Padre, diventando una cosa sola con lui e tra di loro, è possibile dedurlo dalla frase che il Padre rivolge al fratello maggiore: "Figlio mio – gli dice – tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo" (v. 31). Sono le identiche parole che Gesù usa per indicare il suo rapporto familiare di comunione con il Padre: "Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie" (Giovanni 17:10).
Ciò lascia intuire che sia questa la vera conclusione della parabola. E, ancora una volta, vale anche per noi. Sperimentando l'amore e il perdono di Dio, ci riscopriamo fratelli tra di noi, uniti dal vincolo dell'amore del Padre. Tutti, ognuno con la propria storia di peccato e di grazia, siamo chiamati a dare testimonianza, nello stesso tempo, dell’amore paterno di Dio e dell’amore fraterno: essendo amati e perdonati dal Padre, a nostra volta ci amiamo e ci perdoniamo tra noi, gli uni gli altri . Del resto, è stata questa l'ultima insistente preghiera, fatta da Gesù prima di tornare al Padre: "Siano uno come noi siamo uno: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo riconosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me" (Giovanni 17:23).
È il significato più profondo della parabola del figliol prodigo.
Per approfondire, vedi Serie cristologica, Serie misticismo ebraico, Serie maimonidea e Serie delle interpretazioni. |