Baruch Spinoza/Secondo capitolo
La filosofia di Spinoza come ricerca della beatitudine
L'emendazione dell'intelletto
modificaNella sua prima opera filosofica, il Trattato sull'emendazione dell'intelletto, Spinoza descrive, a partire dalla propria esperienza personale, un percorso che può essere intrapreso per distaccarsi dai beni effimeri e raggiungere una felicità stabile. Questo percorso parte dalla consapevolezza che l'infelicità è causata dalla caducità — alla quale sono legate la paura e l'incertezza — dei beni in cui normalmente gli uomini confidano, mentre solo un bene "vero" (cioè non effimero) potrebbe rendere l'animo sereno:
La ricerca del vero bene è intrapresa con titubanza, perché essa comporta un iniziale distacco da quei beni che, per quanto illusori, rappresentano l'unica aspirazione — e l'unica certezza — dell'uomo comune:
Ma Spinoza si convinse presto che, se la suprema felicità non era in quei beni, non bisognava temere di abbandonarli, anche perché, finché non ci si allontanava da essi, risultava impossibile accostarsi a un nuovo e più sano regime di vita:
L'autore — compiendo un percorso logico che va di pari passo col cammino di ricerca personale che si sta inverando nella sua vita — esamina i vantaggi che una rinuncia ai piaceri comuni comporta, soffermandosi in particolare sugli svantaggi legati ai tre falsi beni per il cui conseguimento gli uomini sono soliti profondere tutte le proprie energie: la ricchezza, l'onore e il piacere. Spinoza si ispira probabilmente alla filosofia classica, che, proprio in questi tre, tendeva a identificare i vizi per eccellenza:
Spinoza parla di un "disorientamento" che la mente patisce nel rivolgere la propria attenzione verso siffatti tre obiettivi, poiché essi la distolgono dal ricercare qualsiasi altro bene, senza del resto ripagarla con quanto essa aveva sperato di raggiungere. È il caso del piacere, nel cui smanioso inseguimento gli uomini non trovano altro che insoddisfazione e sofferenza:
Così avviene anche con la ricerca della ricchezza e dell'onore, che espongono a pericoli ancora maggiori, perché l'insoddisfazione che rimane dopo il loro conseguimento spinge le persone, anziché a pentirsi, a darsi ancora più pensiero di correr dietro a queste false fonti di felicità, in competizione e in contrasto con gli altri uomini. Sicché, se da un lato le ricchezze e gli onori sono causa di odi e conflitti, dall'altro — paradossalmente — spingono gli uomini a conformarsi e ad adularsi fra loro, rinunciando, in nome dell'onore, alla propria dignità personale e, soprattutto, a una concreta autonomia di azione e di pensiero:
A questo punto Spinoza fa una precisazione molto importante, che distingue nettamente le sue riflessioni da quelle banalmente moralistiche di un'etica austera di stampo stoico. L'autore, riallacciandosi nuovamente alla propria esperienza personale, riferisce di come i vecchi desideri fossero in lui scemati soprattutto dopo aver compreso che non si trattava di rinunciarvi tout court, ma piuttosto — senza affatto abbandonare i piaceri onesti — di finalizzare i propri desideri nella prospettiva dell'unico vero bene, soltanto in relazione al quale tutti gli altri beni possono definirsi, in quanto semplici mezzi, buoni o cattivi:
Ad esempio, un bene è cattivo laddove, spinto all'eccesso, conduce addirittura a mettere a rischio l'esistenza, com'è il caso della cupidigia:
La ricerca della felicità si configura come ricerca delle possibilità, per la mente, di emanciparsi dai falsi beni che la disorientano — e che possono rischiare di metterne a rischio la sopravvivenza — orientandosi invece a desiderare il più possibile un bene stabile e per sua natura perfetto:
Spinoza lascia intendere una identità fra "cosa eterna e infinita" e "l'intera natura", affermando che il sommo bene:
Compito della filosofia sarà dunque emendare (cioè, secondo una terminologia che pare attinta dal Novum Organum di Francesco Bacone, trarre fuori dall'errore e dall'inganno) la mente, permettendole di acquisire una retta conoscenza di se stessa e della natura di cui fa parte, in modo da orientarla — come già detto — a raggiungere una stabile felicità.
Il compito sociale della filosofia
modificaIl Trattato sull'emendazione dell'intelletto non si limita a delineare un percorso personale di ricerca della felicità, ma, estendendo la propria attenzione all'intera umanità, esprime un'esigenza etica a cui è legato un fine sociale:
Prende forma così l'ambizioso progetto politico di una "fruizione collettiva del sommo bene"[12].
La filosofia assume quindi un compito che non si esaurisce col benessere di un'élite di pensatori illuminati — né tantomeno col consolidamento di un platonico potere dei saggi — ma, al contrario, assume la finalità di favorire la costituzione di una società in grado di far pervenire il maggior numero possibile di persone al possesso del sommo bene.[14] Ancor più, è correlata alla natura stessa del sommo bene l'esigenza di una sua acquisizione collettiva e non individuale, dal momento che, per chi avverte l'aspirazione di pervenire alla più completa felicità, ne consegue il desiderio che anche altri ne partecipino:
Spinoza auspica perciò una società in cui gli apparati pubblici della sanità e dell'istruzione permettano una crescita sana e vigorosa dei corpi e delle menti:
Una particolare preoccupazione sembra riservata da Spinoza nei confronti dei fanciulli, dal momento che è più arduo raddrizzare le proprie false opinioni da adulti, che non da bambini:
Le scienze dovranno essere incoraggiate, ma unicamente nella misura in cui (come nel caso della meccanica, che permette di risparmiare tempo e fatica)[17] offrano garanzia di essere al servizio dell'uomo e non offrano rischi di poter creare nuovi problemi all'esistenza e al benessere umano:
Cogliamo qui un'affinità con l'ideale averroista di una cooperazione sociale da attuare a livello sia intellettuale sia tecnico, allo scopo di condurre l'umanità intera, attraverso la fruizione del sapere e della felicità pratica, al godimento del sommo bene,[19] come auspicato da Dante Alighieri nella Monarchia:
Ma sulla teoria averroista dell'intelletto torneremo verso la fine del capitolo.
Spinoza, a questo punto del Trattato, menziona tre regole etiche che il buon senso suggerisce di seguire prima ancora di intraprendere un'emendazione dell'intelletto:
- esprimersi in maniera comprensibile alle masse;
- godere dei piaceri onesti (cioè dei piaceri non dannosi per sé o per gli altri) quanto basta per vivere gioiosamente;
- ricercare il denaro e ogni altro bene effimero solo in misura utile per sostentarsi e per non rendersi asociali.[21]
Si noti che già Cartesio, nel Discorso sul metodo, aveva delineato tre princìpi allo scopo di costituire una morale provvisoria in attesa che un metodo rigoroso permettesse di forgiare una morale definitiva. Cartesio aveva notato che, se si vogliono abbattere i muri della vecchia casa (immagine della vecchia morale), occorre andare ad abitare altrove, prima che la nuova casa sia ricostruita. Le tre regole cartesiane costituenti la dimora provvisoria consistevano in:
- ubbidire alle leggi, ai costumi e alla religione del proprio paese;
- operare scelte ferme e risolute nelle azioni, senza tornare continuamente indietro sui propri passi;
- cercare di dominare i propri desideri e i propri pensieri, piuttosto che cercare di cambiare il mondo.[22]
Mettendo a confronto le regole provvisorie di Spinoza con quelle di Cartesio, risulta che i princìpi spinoziani mirano a conferire un maggior compito sociale alla filosofia, che viene esplicitamente indirizzata alle masse, alle quali essa vuole rendersi comprensibile onde favorirne l'emancipazione, con la preoccupazione di non generare scandali o incomprensioni, che risulterebbero controproducenti per il cambiamento. Inoltre, come ha notato Marco Ravera:
Il compito sociale della filosofia era per Spinoza un punto di partenza irrinunciabile. Se quindi il discorso svolto in prima persona nel Trattato sull'emendazione dell'intelletto ricorda lo stile della riflessione personale intrapresa da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche e nel Discorso sul metodo, bisogna osservare che Spinoza conferì immediatamente alla filosofia uno scopo pratico e una volontà di intervento sociale, in coerenza col carattere attivo e laborioso della propria vita.
La scala verso Dio
modificaNel Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, Spinoza riprende il tema dell'emendazione dell'intelletto, che può essere tratto fuori dall'inganno attraverso il lavoro della ragione:
Spinoza, riferendosi alla ragione, richiama l'immagine della scala apparsa in sogno a Giacobbe, che, secondo il racconto biblico, conduce alla beatitudine chi la percorre e conferisce il possesso della terra promessa:
Il ragionamento non è in sé un bene, ma lo diventa quando ci rende serenamente consapevoli del nostro posto entro l'ordine della natura. Accettare ed amare l'equilibrio della natura permette di trovare un equilibrio anche dentro di sé, ed è in questa "stabile esistenza" che l'essere umano conquista la propria libertà.[26]
Come il Trattato sull'emendazione dell'intelletto, il Breve trattato sottolinea la fruibilità collettiva della beatitudine intellettuale:
Ma la scandalosa novità che sta alla base del Breve trattato consiste in quella che Filippo Mignini ha chiamato
La critica di Spinoza ai tradizionali sistemi di pensiero si fonda su una rivisitata idea di Dio, che viene definito
Dio viene così esplicitamente identificato con la Natura, definita proprio negli stessi termini:
La Natura possiede infiniti attributi, che ne costituiscono l'essenza e dei quali solamente due sono noti all'essere umano: il pensiero e l'estensione.[31] Un Dio siffatto, a cui la materia (l'estensione) non è estranea ma anzi ne costituisce l'essenza — identificandolo con la Natura — appariva ben diverso sia rispetto al Dio assolutamente trascendente della teologia giudaico-cristiana, sia rispetto al Dio-persona della filosofia di Cartesio. Il Dio di Spinoza si propone di essere — d'altro canto — un Dio affine a quello della Torah, nelle cui pagine la potenza di Dio viene descritta come la potenza stessa della natura, e il volto di Dio — tralasciando alcune pagine della Genesi, che vedremo — si presenta irriducibile a ogni umanizzazione. Come osserva Mignini, l'attacco sferrato da Spinoza si dirige proprio contro una visione antropomorfizzata di Dio, facendo del Breve Trattato
Mignini parla anche di "demitizzazione"[33] attuata da Spinoza nei confronti del tradizionale lessico biblico e teologico. Demitizzazione (o demitologizzazione) è un termine coniato dall'esegeta Rudolf Bultmann in occasione di una conferenza da lui tenuta nel 1941, in cui manifestò l'esigenza di rileggere la Bibbia scartandone i dati mitologici (eventi sovrannaturali, miracoli, profezie, vita ultraterrena etc.) e recuperando invece il nocciolo etico ed esistenziale (Bultmann si richiama anche alla filosofia di Martin Heidegger) che è sotteso alle pagine delle Scritture e che è ancora attuale e utile per indicare il cammino all'uomo contemporaneo. Scrive Bultmann:
Per inciso, va notato come Bultmann intenda la nozione di fede. Per lui il concetto originario di fede (in greco "pistis") non rimanda al credere in alcuni dogmi immutabili, stabiliti una volta per tutte da un magistero ecclesiastico, bensì
Per Bultmann "credere" non significa affatto sforzarsi di aderire a dei precetti distanti dalla propria ragione, né rinunciare a comprendere, ma, al contrario, il credere si invera nell'esercitare al massimo il proprio spirito critico: credere è comprendere, cioè indagare se stessi e il mondo, comprendere il valore positivo della vita, aprendosi alla verità e all'amore, cioè a Dio.[36]
Ritornando a Spinoza, egli opera una ridefinizione — nel Breve Trattato e poi nell'Etica — degli attributi di Dio. Spinoza demitizza il contenuto delle religioni istituzionali che si richiamano alla tradizione giudaico-cristiana, attuando una critica rigorosa dei dogmi, per ritrovare il Dio d'amore e di verità di cui parlano le Scritture.
Diavoli e demoni
modificaNel Breve Trattato, prima di parlare della vera libertà, Spinoza ritenne utile dedicare un capitolo alla credenza nei diavoli, per mostrare che un tale genere di cause esterne non esistono e quindi non possono imporre all'uomo la schiavitù delle passioni. Anche a proposito di questo capitolo, Mignini sottolinea il carattere demitizzante della riflessione spinoziana.[37] I diavoli, per Spinoza, non possono esistere se per essi si intende qualcosa di completamente contrario a Dio, oppure qualcosa che non ha nulla a che fare con Dio, dato che tutto fa parte del Dio-Natura e non si può sensatamente parlare del concetto di "nulla".[38] Supponendo, d'altra parte, che esista un diavolo inteso come realtà pensante che non riesce a compiere assolutamente niente di buono, Spinoza considera che
Ma si tratta di un'affermazione che ha il solo scopo di porre in ridicolo la credenza che intende i diavoli come esseri così cattivi che, se anche si ravvedessero, Dio non li accetterebbe più in paradiso. Spinoza non vedeva di buon occhio le credenze popolari che miravano a dipingere Dio quale un essere antropomorfizzato, dotato di sentimenti di ripicca e di vendetta. Ogni ipotesi sull'esistenza dei diavoli viene così liquidata in base all'assunto che, essendo la durata di una cosa pensante direttamente proporzionale alla sua perfezione, non può esistere alcun essere che non abbia in sé alcuna perfezione (cioè nessuna parte di quell'unione con Dio che è causata dall'amore), quindi "una cosa tanto miserevole" quanto il diavolo non può esistere un solo istante.[40] Spinoza conclude la questione quasi pentendosi di averla iniziata (difatti sarà l'unico argomento del Breve Trattato a non essere ripreso nell'Etica):
Un capitolo sui diavoli è contenuto anche nel trattato Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza,[42] il cui autore, che pare essersi richiamato direttamente alla filosofia spinoziana, fu forse quello stesso Jean-Maximilien Lucas che aveva composto La vita del signor Benedetto de Spinoza. Secondo l'anonimo autore, gli ebrei attinsero la credenza nei diavoli dai filosofi greci, alcuni dei quali davano credito all'esistenza di fantasmi privi di consistenza corporea, mentre altri avallavano l'esistenza di entità corporee composte di aria:
Gli scrittori greci, chiamando "demoni" questi esseri volatili e dai poteri straordinari, avrebbero dato origine a credenze analoghe non solo in Palestina — suggestionando ebrei e cristiani — ma anche in Asia ed Egitto. Persino Gesù ne sarebbe stato in una certa misura influenzato, trattando alla stregua di indemoniati persone che erano semplicemente malate:
Ma perché siffatte credenze sortirono successo e diffusione in maniera così ampia? La risposta dell'anonimo rivela una notevole dimestichezza politica, suggerendo che non tanto il popolino, quanto i governanti di ogni paese, avrebbero nutrito interesse a favorirne il proliferare
L'anonimo cita, a sostegno delle proprie tesi, lo storico dell'antichità Polibio, osservando che
Le superstizioni sui diavoli e sull'inferno verrebbero quindi diffuse per inculcare nel popolo il timore verso l'autorità, un timore consolidato attraverso l'istituzione di religioni che trasformano in dogmi di fede gli strumenti ideologici del potere. Ma, se si desse vita a una vera repubblica, simili espedienti diventerebbero inutili, dato che la saggezza e la libertà assumerebbero la forma di un patrimonio comune.
Tra poco vedremo come Spinoza sviluppò nel Trattato teologico-politico un'analoga critica verso le superstizioni; ma prima ci soffermeremo sulla corrispondenza da lui intrattenuta, tra il settembre e il novembre del 1674, con Hugo Boxel, strenuo sostenitore dell'esistenza degli spettri.
Spettri e fantasmi
modificaHugo Boxel, anziano burocrate di Gorcum, può considerarsi un rappresentante di quel clima superstizioso che, al volgere del Seicento, ancora persisteva nonostante l'affermarsi delle scienze positive. Paolo Cristofolini lo dipinge come
La ragione per cui Boxel, dopo aver discusso di persona con Spinoza, sentì la necessità di ricontattarlo per lettera, era una sola e assai curiosa: conoscerne il parere attorno all'esistenza dei fantasmi:
Boxel, per sostenere la veridicità delle apparizioni, non mancava di citare le testimonianze offerte in proposito dagli antichi. Spinoza, dal canto suo, non amava contraddire le persone che lo avvicinavano con cortesia, quindi, pur confessando il proprio scetticismo, suggerì all'amico di non farne nascere una disputa:
Spinoza non resistette però alla tentazione di accennare a qualche argomento razionale fortemente in contrasto con la possibilità che le apparizione di spettri fossero da considerarsi effettivamente reali. In primo luogo Spinoza invitava l'amico a non basare le proprie opinioni su un gran numero di dicerie, riferire da persone suggestionabili o ciarliere, ma semmai a trovare un unico e solido racconto degno di fede. Spinoza indicava poi l'opacità semantica del termine "spettro", notando che esso non richiama nulla di preciso e quindi risulta ambiguamente facile affermarne l'esistenza:
Spinoza prega l'amico, se proprio volesse continuare il confronto di idee su questo tema, di chiarire meglio cosa egli intenda per spettri e quali siano, nello specifico, i racconti a cui egli fa tanto affidamento per avallarne l'esistenza.
La risposta di Boxel si rivela un fiume in piena, accusando Spinoza di essere lui quello in balìa dei pregiudizi:
Le argomentazioni di Boxel si mostrano poi confuse e inconsistenti, senza chiarire cosa egli intendesse per spiriti, con divagazioni e richiami al concetto di provvidenza divina, alla tesi che gli spiriti possano esistere senza i corpi, alla bellezza che l'esistenza di creature incorporee conferirebbe al creato, a una vasta bibliografia che ne parla (da Plutarco a Sventonio; da Melantone a Cardano) e soprattutto alle mirabolanti esperienze che Boxel e un "uomo dotto e sapiente" di sua conoscenza avevano vissuto insieme di notte nei pressi di una birreria:
Spinoza, leggendo queste righe, probabilmente scosse la testa o sghignazzò, ma dovette poi ricomporsi e rispondere con rigore all'amico, chiarendogli, al di là della questione degli spettri, quale fosse il suo punto di vista sui concetti di provvidenza e di bellezza richiamati da Boxel. Spinoza ammette che il mondo non sia stato fatto a caso, ma lo ammette in una prospettiva ben diversa da quella di Boxel — che attribuiva a Dio una libera volontà intesa secondo la dottrina scolastica — in quanto la casualità, per Spinoza, è l'esatto contrario della necessità, e quindi il mondo, se non è stato fatto a caso, va considerato "un effetto necessario della natura divina". D'altra parte, coloro che sostengono, come gli scolastici, che Dio avrebbe anche potuto non formare il mondo, proprio costoro sarebbero costretti ad affermare che il mondo è stato fatto a caso:
Spinoza avverte poi Boxel che il concetto di "bellezza" da lui menzionato è puramente soggettivo e determinato dalla struttura del corpo umano:
Questi argomenti saranno ripresi da Spinoza nella critica al pregiudizio finalistico contenuta nell'Etica, di cui parleremo nei paragrafi successivi.
Nella risposta a Boxel, Spinoza confuta inoltre l'idea che, dal momento che possono esistere corpi senza spirito, si debba di conseguenza dar per certa l'esistenza di spiriti senza corpi, poiché in tal caso bisognerebbe ammettere anche altre simili assurdità. Esistono infatti, ad esempio, delle persone senza memoria, ma non delle memorie senza persone:
In conclusione, Spinoza non nasconde di essere stato mosso al riso dall'aneddoto della birreria, che Boxel riteneva come il più serio e valido a confermare le proprie tesi:
La corrispondenza fra i due non durò ancora a lungo, e fu Spinoza stesso a notare che a dividerli c'era una differenza di vedute troppo ampia perché un simile scambio epistolare potesse generare qualcosa di più di una perdita di tempo.[51]
Quel che era in gioco, per Spinoza, era come sempre, al fondo della questione, la capacità di discernere i fatti dalle superstizioni. La filosofia ha il compito di esortare gli uomini a coltivare la ragione, a pensare con la propria testa, senza farsi sviare dalle opinioni correnti, che mettono in primo piano la credenza in streghe e fantasmi, piuttosto che la ricerca della verità:
Ma soprattutto, era in gioco la libertà dell'uomo. La superstizione — oltre ad essere una naturale inclinazione cui va incontro l'intelligenza umana quando non è coltivata — è un mezzo di ottundimento delle coscienze troppo ghiotto per non essere subdolamente sfruttato dal potere politico allo scopo di consolidare la propria autorità. A queste due caratteristiche della superstizione Spinoza dedicò le proprie riflessioni nel Trattato teologico-politico.
Dalla paura alla violenza
modificaNella prefazione al Trattato teologico-politico,[52] Spinoza dipinge la superstizione come una debolezza umana fra le più terribili, descrivendo donde essa tragga origine e forza.
Un ruolo fondamentale è giocato dallo sgomento di cui sono preda gli uomini quando, timorosi per il proprio futuro, cercano rassicurazioni e risposte immediate che possano dar sollievo al loro animo. Se non soffrono di alcuna preoccupazione, essi confidano soltanto in se medesimi, sopportando con fastidio i consigli altrui. Ma ciò avviene di rado, poiché la vita non manca di riservare per ciascuno una certa quantità di angustie e calamità indesiderate, che rendono le gambe tremolanti anche agli spiriti più risoluti, inducendoli ad ascoltare e a mettere in pratica i suggerimenti delle persone meno affidabili:
Nella storia di ogni società, questo ha sempre fatto la fortuna di chi i consigli li distribuiva per professione, poiché non vi fu tempo e luogo in cui mancarono presunti sapienti o sedicenti profeti che — sfruttando le situazioni di difficoltà ed inquietudine di altri più ingenui di loro — seppero conquistarsi invidiabili posizioni di influenza e di potere:
La predisposizione a farsi raggirare è quindi insita nella natura umana, dal momento che non esiste persona a cui non capiti — a chi in maggior parte, a chi in minor parte — di esitare nell'incertezza e nella paura quando sopraggiungono momenti di crisi:
Specialmente il volgo, a causa dell'ignoranza in cui giace, è poco preparato a gestire e a dominare le proprie passioni, risultando così preda continua dell'ansia e dell'incertezza. Come ha sintetizzato Piero Martinetti:
E coloro che si sentono oppressi dalle proprie ansie non desiderano nulla di meglio che essere in qualche modo rassicurati, accettando ben volentieri anche risposte o soluzioni del tutto in contrasto sia con la logica sia con la ragione, dato che purtroppo la logica e la ragione non sempre possono offrire buoni auspici riguardo al domani:
La superstizione è una debolezza fra le più terribili non soltanto perché le persone in balìa della credulità si allontanano dalla ragione ritenendo con ciò di fare una buona cosa, ma essa è altresì dannosa perché infiamma, fra gli uomini, covoni di violenza e discordia difficilmente domabili:
La speranza — similmente al timore — viene catalogata da Spinoza come uno di quegli affetti che possono inibire la libertà umana, perché spinge a coltivare una visione non obiettiva della realtà e, di conseguenza, può favorire la superstizione.[55] Riguardo invece all'ira con cui la superstizione viene difesa, basti ricordare che, mentre Spinoza redigeva il Trattato teologico-politico, il suo amico Koerbagh perdeva la vita proprio a causa della violenza con cui i dogmi del calvinismo venivano imposti e difesi dal clero di Amsterdam.
La libera repubblica
modificaAncor prima di scrivere il Trattato teologico-politico, Spinoza aveva dovuto far l'abitudine a vivere in un paese costantemente in guerra, in cui non solo la vita dei filosofi, ma quella di ogni privato cittadino, era in pericolo. Scriveva nel 1665 all'amico Heinrich Oldenburg:
Spinoza osserva che, se fosse vivo Democrito (che amava ridere della stoltezza degli uomini), starebbe morendo dalle risate.[57] Ma Spinoza preferisce non ridere (né piangere, come avrebbe fatto Eraclito), bensì cercare di capire le ragioni dell'agire umano e pensare a delle soluzioni per curare l'insania umana:
Il Trattato teologico-politico nasce così dall'esigenza pratica di proporre dei rimedi ai mali sociali del tempo. Dopo aver rinvenuto nella paura l'origine della superstizione, Spinoza volge quindi lo sguardo alla società del suo tempo, assumendosi il compito di mostrare gli inganni di cui sono vittime gli uomini riguardo alla concezione della religione e all'esercizio della politica:
Dietro la parvenza della religione istituzionale Spinoza individua gli interessi di personaggi che in realtà hanno a cuore soltanto la propria posizione di potere, e che si servono della paura delle masse per poterle placidamente addomesticare, dando ad esse in pasto presunte verità di fede, in maniera da renderle pedine pronte a sacrificare la vita in guerra per loro. Questo sistema di assoggettamento avviene di norma negli ordinamenti monarchici, ma laddove la costituzione si fonda su princìpi repubblicani le cose dovrebbero procedere diversamente:
Spinoza si dichiara orgoglioso di essere cittadino della repubblica olandese, manifestando la convinzione che la libera circolazione delle idee non solo non sia pericolosa per la pace dello stato, ma che, al contrario, per il mantenimento di tale pace la libertà d'opinione sia indispensabile. Nella misura in cui quest'ultima viene a mancare, il rischio di sedizioni e rivolte si accresce sempre più, dal momento che non si può pensare di fondare uno stato solido e coeso per mezzo del terrore e delle vessazioni:
L'obiettivo del Trattato teologico-politico è proprio questo: dimostrare come un governo si possa reggere perfettamente senza raggirare i propri cittadini, senza sfruttare le loro paure e la loro tendenza alla superstizione, ma stimolandoli anzi a sviluppare idee libere e policrome. Uno stato siffatto, in cui le menti non vengano soffocate, bensì insufflate di aria fresca, avrà vita rigogliosa e non potrà che prosperare. Esso sarà inoltre una vera repubblica: una società in cui i cittadini non sono sottomessi a un potere oppressivo, ma piuttosto contribuiscono attivamente alla vita dello stato, coltivando ciascuno il proprio ingegno e le proprie idee.[58]
Chi, del resto, può stabilire se un'idea sia utile o dannosa, fin tanto che non ne siano stati osservati gli effetti? Se la maniera più immediata per capire ciò che una persona è, consiste anzitutto nel basarsi sul modo in cui vive, e non sulle idee che esprime a parole,[59] la maniera più immediata per capire ciò che una religione (o una filosofia) produce, consisterà anzitutto nel basarsi non sulle parole dei suoi seguaci, ma sulle loro opere, lasciando a tutti la più ampia libertà d'opinione:
I tiranni si servono di una apparenza di religione per tenere in soggezione gli animi, ma la vera religione svolge invece il ruolo di emancipare gli uomini da ogni genere di servitù, instillando fra loro rispetto e concordia, in nome del precetto fondamentale contenuto nella Scrittura:[60]
Per Spinoza, avere "fede" significa non già credere alla lettera a tutto ciò che è contenuto nella Scrittura, oppure argomentarvi pedantemente sopra, ma significa mostrare con le proprie opere di condividerne il messaggio etico di fondo:
Il Trattato teologico-politico guarda all'ideale di una religione di concordia, la cui fede consista solo in ciò che aiuta a favorire la tolleranza e la concordia stessa, mettendo da parte qualsiasi controversia dogmatica:
Quale sogno incantevole rappresentava per Spinoza — lui che visse nel Seicento, il secolo in cui infuriarono per l'Europa le sanguinose guerre tra cattolici, luterani e calvinisti — l'immaginare che un giorno potesse finalmente sorgere una religione di pace! Non più il culto idolatrico che si serve della violenza per tenere a freno le menti — impersonato nella Torah dal faraone egizio — bensì il culto del Dio Vivente: quella libertà dell'animo che solleva da ogni paura e che nella Torah assume la forma della terra promessa, una terra promessa puramente spirituale che per la filosofia di Spinoza è beatitudine dell'intelletto.
Ad un conoscente che gli chiedeva cosa ne pensasse della possibilità, per gli ebrei, di ritornare nella terra promessa di Palestina,[63] Spinoza non rispose (o, almeno, tale risposta non è giunta a noi). Per Spinoza, evidentemente, la terra promessa non era un luogo geografico da raggiungere, ma una mèta spirituale da conquistare dentro di sé.
Scandalo e delicatezza
modificaSpinoza volle mettere sull'avviso che nel Trattato teologico-politico venivano espresse idee che avrebbero potuto offendere gli animi più ancorati alle superstizioni e alle tradizioni, sicché a costoro era da sconsigliarsi la lettura:
Si può notare in questo avvertimento un tratto elitario del pensiero di Spinoza, che avrebbe indirizzato la propria opera alla specifica attenzione della classe politica dirigente, e non alla masse,[64] ma anche, soprattutto, l'esigenza di mettere le mani avanti per cautelarsi dalle accuse di ateismo e di sovversivismo, oltre che, fattore da non trascurare, la delicatezza d'animo di chi non vuole utilizzare la propria filosofia semplicemente per suscitare scandalo, ma piuttosto per cercare il più possibile la comprensione, evitando di arrecare offese inutili.
Quando Spinoza aveva composto i Principi della filosofia di Cartesio (un riassunto del pensiero cartesiano, richiestogli da un gruppo di conoscenti), aveva pregato Meyer (a cui era stato affidato il compito di scrivere la prefazione) di non inserire assolutamente frasi polemiche.[65] Per Spinoza era importante che in quella prefazione venisse spiegato che egli non condivideva più le teorie di Cartesio che aveva esposto nell'opera, ma desiderava che non emergesse alcun accento polemico né verso Cartesio né verso alcun altro.[66] Osserva a questo proposito Mignini:
Spinoza sapeva bene che, per conquistare la salvezza propria e altrui, non bisogna agire con protervia e saccenza, ma occorre piuttosto mostrarsi rispettosi delle opinioni avversarie, per quanto non le si condivida. L'educazione era una qualità ben radicata in Spinoza, che però mancava ai primi seguaci dello spinozismo, come indica il sottotitolo al Breve trattato, aggiunto da uno di essi per le Opere postume del maestro:
Spinoza non avrebbe approvato un simile tono, e avrebbe preferito rivolgere ai propri avversari gli argomenti della ragione, anziché colpirli con frasi volgari e denigratorie, anche se la diffamazione era un'arma che certi ebrei e certi cristiani non si facevano scrupolo di utilizzare contro di lui. Ma non era il caso di mettersi al loro stesso livello, poiché la causa della verità non ne avrebbe tratto giovamento. Il pensiero di Spinoza, seppure nelle intenzioni dell'autore intendesse rivolgersi a tutti ed aiutare ogni uomo a conquistare la beatitudine, affrontava di petto pregiudizi così radicati nel pensiero comune da porsi come pietra di scandalo, generando incomprensione, sconcerto, odio e persecuzione. Era una prova difficile ma entusiasmante, per Spinoza, riuscire al tempo stesso a rivolgersi al maggior numero possibile di persone, mantenersi coerente con le proprie idee, non rischiare la vita, conservare la calma e cercare di non sdegnare nessuno. Nel prossimo paragrafo vedremo come Spinoza s'impegnò, fra tutte queste difficoltà, ad affrontare e demistificare uno degli zoccoli più duri della religione tradizionale: la credenza nei miracoli.
L'inganno dei miracoli
modificaMentre a partorire le superstizioni è la paura, potremmo dire che il compito della levatrice spetta all'ignoranza. Ce lo suggerisce il capitolo del Trattato teologico-politico dedicato ai miracoli.[69] Gli uomini chiamarono sempre con questo nome quei fenomeni fuori dall'ordinario dei quali non sapevano fornire alcuna spiegazione, restandone talvolta affascinati, talvolta atterriti. Col progredire delle conoscenze umane, parecchi avvenimenti di cui non si riusciva a render conto divennero però perfettamente comprensibili:
Spinoza prende come esempio il noto episodio biblico ove si narra di come Dio, accorrendo alla preghiera del suo profeta Giosué, fece fermare il sole in mezzo al cielo, affinché gli ebrei avessero il tempo di passare a fil di spada tutti gli amorrei, poiché altrimenti, col calare della notte, parte dei nemici sarebbero potuti fuggire e lo sterminio non sarebbe stato completo:
Secondo Spinoza, le scienze moderne sono in grado di formulare varie ipotesi per spiegare come mai quel giorno la luce abbia perdurato oltre il solito: può esser dipeso ad esempio dalla rifrazione dei raggi solari o dalla retrogradazione del sole. Ma una cosa appare chiara, nota egli: probabilmente fu la terra a fermarsi, visto che la teoria copernicana ha dimostrato essere la terra a ruotare attorno al sole, e non viceversa.[72]
L'ingenuità che commette il volgo è di attribuire ad una azione diretta di Dio gli eventi insoliti e inaspettati, credendo che essi esulino dalle leggi di natura soltanto perché esulano dalle leggi di natura finora conosciute:
Coloro che si studiano di comprendere ogni fenomeno della natura finiscono così per essere accusati di miscredenza, in quanto gran parte della fede popolare è legata proprio allo stupore che suscitano i prodigi, togliendo i quali la religione sembrerebbe perdere una buona dose del suo fascino e della sua attrattiva:
Vi sono leggende in cui si favoleggia di eventi prodigiosi che avrebbero spinto spietati peccatori alla conversione. Gli uomini trovano piacevole credere in miracoli di questo genere perché, così facendo, hanno l'impressione che la natura possa deviare il suo corso apposta per loro, e che tutte le componenti della natura siano un mero mezzo in funzione degli utili umani:
Alla visione antropocentrica, che è propria della mentalità popolare, si associa la visione antropomorfizzata di Dio, che il volgo ricalca a immagine di se stesso. Spinoza, che sin da bambino aveva letto e meditato i più oscuri passaggi della Scrittura, non aveva potuto evitare d'incappare in alcuni racconti dove Dio si trova descritto in tutto e per tutto come un essere umano, dotato di piedi ed orecchie. Si pensi al passaggio della Genesi dove si narra di come Dio — prima di accorgersi che Adamo ed Eva avevano mangiato la mela offertagli dal serpente — stesse "passeggiando" nel suo giardino:
Per Spinoza, la Scrittura si esprime talora in questi termini perché i patriarchi che la composero non erano dei filosofi, ma erano semplicemente dei capipopolo intenzionati, in buona fede, a fornire insegnamenti moralmente edificanti e accessibili al volgo:
Sulla critica di Spinoza alla visione antropocentrica, all'antropomorfizzazione di Dio e al pregiudizio finalistico, torneremo nei prossimi paragrafi, dedicati all'Etica, l'opera in cui egli si cimentò in una compiuta elaborazione di questi temi. Per il momento riteniamo importante sottolineare come Spinoza abbia insistito, nel Trattato teologico-politico, a ribadire più volte, a proposito dei dogmi e dei miracoli, ciò che per lui era l'unica discriminante per distinguere la vera dalla falsa religione: non la credenza nei dogmi o nei miracoli, appunto, ma soltanto la razionalità dell'agire. Egli cita un passo del Deuteronomio molto significativo a questo proposito, in cui Dio avverte il popolo di Mosè:
Se volessimo ammettere l'esistenza dei miracoli, la Scrittura mette comunque in guardia dal fatto che essi possono essere operati anche dai falsi profeti. Dunque non è sui miracoli, né tantomeno su presunte autorità profetiche, che può fondarsi la vera religione, ma soltanto sul comandamento fondamentale dell'amore per Dio e per il prossimo, ribadito in ogni luogo della Scrittura e confermatoci dalle esigenze del nostro sentire e della nostra ragione.[76]
Una fede anticlericale
modificaLa superstizione, come abbiamo visto, si insinua nelle menti paurose e ignoranti del volgo o, peggio, viene deliberatamente instillata in esse da governanti famelici di potere che, per autolegittimarsi, si richiamano all'autorità di utili dogmi, a presunti eventi miracolosi e a misteriose potenze sovrannaturali. La superstizione si configura quindi come la forma più bassa, inautentica e inconsapevole della vita religiosa.[77]
La fede — rendendo le persone libere di interpretare a proprio piacimento i contenuti delle Scritture, purché seguano nella pratica il comandamento di amore verso Dio e verso il prossimo — è ben al di sopra della superstizione, ma, come sottolineato da Spinoza, resta ben al di sotto della filosofia, in quanto, avendo come scopo l'obbedienza e non la verità, non può offrire una comprensione razionale del reale:
La fede ha come scopo la concordia sociale, ed è patrimonio di chiunque, per quanto ignorante, sappia vivere in pace con se stesso e con gli altri, qualunque siano — e per quanto erronee possano essere — le sue convinzioni interiori. In questa prospettiva, eretico non è chi professa il falso — o chi semplicemente "sceglie", come suggerisce l'etimologia della parola — ma chi semina la perniciosa zizzania delle controversie e delle rivalità:
Spinoza parla di una fede soggettiva e personale — il cui contenuto fondamentale è la carità — in aperta polemica con le istituzioni ecclesiastiche che, fautrici di una religione dogmatica, hanno di mira soltanto i propri privilegi e vessano il popolo anziché pascerlo.
Secondo Piero Martinetti il clero è, per Spinoza, il vero nemico della religione.[79] Come ha notato Amedeo Vigorelli, Martinetti individua in Spinoza un ideale spirituale moderno che, tra i contemporanei, ritrova vitalità nel cristianesimo anarchico e anticlericale di Lev Tolstoj.[80] Tolstoj ritiene che gli organi ecclesiastici abbiano sovvertito e capovolto l'originario messaggio di uguaglianza fra tutti gli uomini caratteristico della predicazione di Gesù, trasformando il cristianesimo — da buona novella di libertà qual era — in strumento di oppressione, d'ineguaglianza e di oscurantismo:
Il truc di cui si sono serviti i preti è stato da essi giustificato sulla base di una loro furbesca interpretazione delle Scritture, atta a mettere in risalto quei passaggi in cui poteva sembrare che Gesù volesse conferire a Pietro e agli apostoli un potere illimitato sulle coscienze e i corpi dei fedeli. Ma come poteva Gesù, che proprio si era ribellato ai sacerdoti del suo tempo, desiderare la formazione di una nuova istituzione che — surrettiziamente fregiandosi della propria finalità religiosa — operasse una ancora più violenta forma di coercizione e obnubilamento delle coscienze? Era stato proprio Gesù — nota Tolstoj[82] — ad avvertire:
Eppure ecco che i preti si fanno chiamare "padri" e pretendono di essere maestri degli uomini mantenendoli nella paura verso presunte potenze sovrannaturali e inculcando in loro egoistici princìpi di divisione anziché precetti di libera concordia. Tolstoj è costernato nel constatare — dal suo punto di vista — come i cosiddetti ministri della Chiesa abbiano saputo così tanto sovvertire il messaggio d'amore e di libertà in nome del quale Gesù ha sacrificato la vita:
Il Santo Sinodo, in risposta agli scritti di Tolstoj, lo scomunicò nel 1901. Tolstoj continuò, dal canto suo, a promuovere con energia il proprio pensiero, che trovò fervida espressione nella favola La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione,[85] dove la Chiesa è descritta come un'invenzione dei diavoli, i quali — ritrovatisi senza casa dopo che Gesù, col suo luminoso messaggio di fratellanza, aveva liberato tutti gli uomini dall'inferno — riescono a far tornare l'inferno pieno grazie al diabolico operato della Chiesa, vanto e onore di Belzebù:
Ritornando a Spinoza, vedremo ora come — al di là di una fede anticlericale ma vincolata all'obbedienza, e quindi all'adesione non razionale, del precetto dell'amore — egli prospettasse come possibile anche una forma di religione più adulta e completa, in sintonia con le esigenze di verità della filosofia.
Verso una religione razionale
modificaMartinetti sottolinea come Spinoza riservi un posto privilegiato all'esperienza religiosa di Gesù Cristo,[87] inteso non quale entità divina, bensì quale essere umano dotato di eccezionali capacità razionali. Se i profeti prima di Cristo avevano ricevuto una rivelazione solamente per via immaginativa (cioè secondo quel genere fallace di conoscenza descritto da Spinoza nel TEI, nel BT e poi nell'Etica), Cristo apprese la verità per via intuitiva (cioè secondo il più alto genere di conoscenza), comunicando con Dio direttamente:
E, se Mosè aveva goduto del privilegio di poter guardare di sfuggita il volto di Dio, Cristo seppe addirittura specchiarsi nella mente stessa di Dio:
Le verità apprese da Cristo divennero così patrimonio dell'intera umanità, poiché egli, seminando nel mondo le proprie idee, portò alla salvezza — cioè condusse all'illuminazione intellettuale — tante altre persone:
Cristo riuscì a comunicare sia con il popolo (al quale rivolgeva i propri discorsi in forma di parabola) sia con i dotti (ai quali espresse con chiarezza i suoi princìpi morali), liberando così molti uomini dalla servitù della legge — ossia da una fede fatta di pura obbedienza — e aprendo le loro menti ad una adesione viva e consapevole del comandamento dell'amore:
Sulle orme di Cristo, fu così aperta la strada alla possibilità di una religione razionale, che squarciasse con la propria luce il buio della superstizione e liberasse la fede dal suo carattere di mera obbedienza, confermando e riportando a nuova vita l'antico messaggio di amore fra le genti.
Spinoza tiene a chiarire, con cautela mista a ironia, di non rifarsi a quanto detto su Cristo dalle istituzioni religiose (che avrebbero anzi ribaltato il senso dell'annuncio evangelico), ma di fondarsi unicamente su quanto, a tale riguardo, è limpidamente attingibile dalle Scritture:
Se Spinoza non si rifaceva ai dogmi ecclesiastici, né — come abbiamo visto — dava credito a miracoli e profezie, egli però esaltava Cristo come "bocca di Dio" semplicemente sulla base della eccezionale conoscenza razionale ammirabile negli insegnamenti morali che, nelle pagine dei quattro vangeli, sono a Cristo attribuiti: insegnamenti morali di benevolenza e fratellanza affini a quelli che troveremo nell'Etica, e affini anche a quelli che già abbiamo trovato rispecchiati nell'esistenza di Spinoza.
La stessa resurrezione di Cristo — considerata dai fedeli più ortodossi come un dogma senza il quale il cristianesimo non avrebbe neppure senso — viene colta da Spinoza nel suo significato spirituale e non materiale. Cristo non è risorto fisicamente (pure questa credenza sarebbe una superstizione miracolistica) ma è il suo messaggio di amore che, trasmettendosi all'umanità, è spiritualmente risorto:
Considerando questa spinoziana rivalutazione filosofica della figura di Cristo, Martinetti individua nel Trattato teologico-politico una strada di riconciliazione tra religione e filosofia, consistente nel proporre una religione razionale che — reputando irreligiosa l'adesione a qualsiasi precetto che la ragione ritenga falso — qualifichi come unico vero male l'ignoranza spirituale e come solo vero bene la perfezione dell'intelletto, una perfezione che coincide con l'adesione razionale a quegli stessi precetti di amore e di libertà inconsapevolmente oggetto dalla fede e finalmente rischiarati dalla luce della filosofia:[91]
Dio, una volta colto intellettualmente, viene amato per se stesso, non più per speranza o timore, ma solo per il godimento della sua conoscenza, la mancanza della quale è l'unica vera infelicità e l'unico vero castigo. Nell'amore per Dio, e nella beatitudine che ne deriva, consiste l'autentica libertà.[93]
Spinoza appare così, agli occhi di Martinetti, un "mistico della ragione"[80], il cui pensiero è accostabile, per tragitto di ricerca, a quello di altri grandi spiriti dell'umanità che, come Lev Tolstoj e Albert Schweitzer, seppero far rinascere la religione nel grembo della ragione. Per inciso, si noti come la personale visione filosofica di Martinetti — tendente all'ideale di una "chiesa invisibile" in cui si compendiassero i valori moralmente più elevati di tutte le culture religiose, dando vita a una società universale fraternamente unita — mirasse a quello stesso sogno di pace a cui tendeva Spinoza; e le vicende personali della vita di Martinetti — dalla perdita della cattedra sotto il regime fascista alla condanna dei suoi scritti operata dal clero cattolico — non mancarono di testimoniare un cammino esistenziale affine a quello di Spinoza.
Il pregiudizio dei fini e la norma delle cause
modificaAlla critica delle superstizioni elaborata nel Trattato teologico-politico, Spinoza fa seguire, nell'Etica, una sistematica critica dei pregiudizi, individuando, nell'appendice alla prima parte dell'opera, un pregiudizio estremamente diffuso e radicato nelle menti, che ne porta con sé molti altri:
Gli individui, pur essendo consapevoli dei propri desideri, non conoscono le cause che li determinano, sicché nasce in loro l'illusione della libertà:
Siccome le azioni che essi compiono sono dettate dai loro desideri, gli uomini fanno tutto in vista dei fini che appetiscono, e in questo si abituano a considerare ogni cosa come un mezzo:
Quel che è utile viene perciò considerato buono, così come quel che dà sensazioni visive piacevoli viene considerato bello. Le persone attribuiscono questi parametri alla natura, ma in realtà le qualità del buono o del bello appartengono soltanto alla mente umana, e non agli oggetti della natura. Ad esempio, la mano di una giovane ragazza apparirà bella se osservata a occhio nudo, ma deforme se indagata al microscopio; trattandosi della stessa mano, ciò che fa differenza è la soggettività umana.[95] Gli uomini, senza accorgersene, hanno formato delle nozioni universali per spiegare le qualità che loro stessi attribuivano agli oggetti:
Una volta considerate le componenti della natura come mezzi, gli uomini finiscono col chiedersi come mai questo insieme di mezzi sia stato predisposto per loro:
Nasce così l'idea di un Dio dotato della stessa libertà che gli uomini attribuiscono a se stessi, all'arbitrario intervento del quale essi fanno risalire i vantaggi o gli svantaggi che la natura offre loro, talvolta credendo che i vantaggi siano riservati ai santi, mentre gli svantaggi (terremoti, epidemie etc.) ai peccatori. Difatti, ritenendosi liberi, gli uomini elaborano le nozioni di merito e peccato, supponendo che Dio, avendo facoltà di manipolare la natura, possa basarsi su tali nozioni per colpirli con castighi o rallegrarli con ricompense.
Il pregiudizio finalistico genera dunque un ampio e variegato spettro di concetti, col tempo consolidatisi nel pensiero umano, tanto da non essere più messi in discussione, ma che Spinoza sottopone ad aspra critica:
L'Etica, seguendo il metodo geometrico, si impegna a dimostrare come in natura non vi sia nulla di imperfetto, poiché tutto è retto da cause e avviene quindi per necessità. In altre parole, nulla dipende dal caso, perché tutto è inserito in una catena causale.[51] Grazie alle scienze matematiche, possiamo evadere dai pregiudizi comuni, acquisendo la vera conoscenza delle cose, che procede a partire non dai fini ma dalle cause:
La norma indicata dalla matematica permette di considerare le essenze e le proprietà delle figure senza lasciarsi distrarre da valutazioni finalistiche, ma descrivendo e deducendo solamente quel che risulta dalla natura stessa delle figure.[96] Seguendo tale norma, Spinoza ridefinisce il significato di parole quali Dio, bellezza, libertà, virtù etc., tessendo un nuovo insieme di concetti.
Un'altra idea di libertà
modificaNella prefazione alla terza parte dell'Etica, Spinoza descrive quel pregiudizio per cui gli uomini, gloriandosi della libera volontà che ingenuamente attribuiscono a se stessi, si credono immuni rispetto alle leggi che governano le cose della natura:
Qui Spinoza fa riferimento non soltanto al volgo, ma anche ad alcuni fra i maggiori filosofi della sua epoca — in primis Cartesio — che, pur ammettendo l'ordine meccanicistico e causalistico della natura, sull'assunto del quale si fondano le scienze sperimentali (Cartesio era infatti, prima ancora che un filosofo, uno scienziato), non intendevano assolutamente rinunciare alla concezione classica del libero arbitrio, tolta la quale sarebbe parsa crollare ogni etica e ogni morale.
Spinoza non ha invece paura di passare sotto indagine le azioni e le passioni umane alla stregua di linee o superfici geometriche, perché ritiene che il compito di uno studioso sia sempre quello di comprendere, e non di detestare:
Nella natura — uomo compreso — non c'è nulla che le si possa attribuire a vizio: Spinoza era tanto persuaso della perfezione della natura da non avere remore ad identificarla con Dio, non però quel Dio creato dagli uomini sulla falsa immagine di se stessi — al quale viene attribuita una libera e onnipotente volontà, oggetto di interminabili disquisizioni teologiche — ma un Dio Vivente la cui potenza e la cui vita sono la potenza e la vita stesse della natura, e la cui dimora non risiede in cieli lontani ma dentro il cuore e l'animo dell'uomo.[98] Scriveva Spinoza a Oldenburg, mentre portava a compimento l'Etica:
Spinoza intende riavvicinare Dio all'uomo, e l'uomo alle leggi di natura. Se Martinetti parlava, a proposito di Spinoza, di misticismo della ragione, Giorgio Colli, analogamente, individua nell'Etica un esito che è insieme mistico e razionale:
Per l'individuo non c'è danno, sottolinea Colli, perché far rientrare l'essere umano nelle leggi di natura non significa abolire ogni etica, ma al contrario — come indica il titolo stesso dell'opera spinoziana — fondarne una nuova e rigorosa. Un'etica non più incentrata sulla repressione dei propri appetiti terreni, dove viene intimato di rinunciare a piaceri che potrebbero essere a portata di mano in questo effimero mondo, per evitare castighi eterni in un regno dell'aldilà che nessuno ha mai visto, ma un'etica che — intendendo l'essere umano come parte integrante della natura — ne ricerca la felicità a partire proprio dall'indagine dei suoi affetti e delle sue passioni, per aiutarlo a districarsi nella complessità dei desideri che lo travolgono, onde fargli raggiungere quella felicità e quella serenità dell'animo che sono già tanto difficili da trovare in questa vita.
L'essere umano, quando si trova sviato dal pregiudizio finalistico, crede di scegliere i propri desideri perché non ne conosce le cause, senza accorgersi che, in realtà, egli può essere consapevole dei desideri che avverte, ma non crearli da sé. Del resto, se sviluppasse di questi desideri una adeguata conoscenza, potrebbe imparare a dominarli, acquisendo così una libertà interiore che altrimenti lascia il posto a una schiavitù delle passioni. Il concetto teologico di "libero arbitrio" — inteso come capacità di scegliere il bene e di rifiutare male — viene chiaramente rifiutato dalla filosofia di Spinoza, in quanto essa liquida come pregiudizi sia la credenza nella libera volontà, sia l'oggettività dei concetti di bene e male. Semmai possiamo dire, adottando un'interpretazione martinettiana, che l'unico vero bene è la conoscenza, e che l'unico (illusorio) male è l'ignoranza:
L'essere umano distingue tra bene e male perché non ha una conoscenza univoca della realtà, altrimenti conoscerebbe solo il bene e per lui il male non esisterebbe. L'episodio di Adamo ed Eva vuol significare, per Spinoza, che il peccato originale dell'essere umano consiste proprio nell'ignoranza, che gli impedisce di avere una comprensione adeguata della realtà.[102] Commenta Martinetti:
La libertà consiste quindi nell'avere conoscenza dei propri affetti e nel saperli, di conseguenza, dominare. L'Etica mostra il percorso che può condurre dalla schiavitù delle passioni a una siffatta libertà dell'animo.
Sergio Levi ha notato come il filosofo contemporaneo Donald Davidson, partendo dalla negazione spinoziana della libera volontà, abbia descritto la libertà mentale come "libertà d'agire".[104] La libertà d'agire davidsoniana è un potere causale della mente, perché le condizioni per esercitare un'azione sono sempre interne alla mente dell'agente, e determinate da quella che Davidson definisce "coppia credenza-desiderio": credenze e desideri determinano le condizioni in base alle quali un'azione può essere esercitata.[105] Davidson — citando il passo dell'Etica[106] in cui si distingue tra azioni esercitate necessariamente e passioni subite necessariamente — constata che, per Spinoza, un evento deve essere considerato azione o passione a seconda che le sue cause generanti siano interne o esterne a noi.[107] La libertà spinoziana è quindi definibile, da un punto di vista mentale, come autocomprensione della mente che, pur non potendo attuare una signoria assoluta e volontaristica su se stessa, ha la possibilità di esercitare una signoria della ragione nel gestire la concatenazione di cause che la compongono.
Le parti IV e V dell'Etica vogliono farci emancipare dalla schiavitù degli affetti grazie alla forza dell'intelletto, cioè vogliono renderci consapevoli della struttura dei nostri desideri, affinché possiamo essere capaci di gestirli e la nostra vita diventi così più piacevole. Infatti, chi acquisisce il dominio di sé e della propria esistenza, abbracciando in tal modo la felicità, costui può realmente dirsi libero. Non perché sia al di fuori delle leggi di natura, ma perché vi trova agio come un bambino nel seno della madre: è questa per Spinoza la vera libertà.
Un'altra idea di virtù
modificaSpinoza è convinto che la ragione non prescriva nulla contro natura, ma che i dettami della ragione indichino anzi all'uomo la via più adeguata per seguire le leggi di natura:
L'agire secondo ragione — la virtù — non ha perciò a che vedere con il sacrificio di sé, né con la rinuncia ai piaceri della vita. Solo chi detesti il genere umano può immaginare che ne siano virtù le lacrime e le penitenze, come stranamente predicano i fanatici dell'austerità religiosa:
Spinoza non trova niente di male nel riso e in tutto ciò a cui la gente ricorre per scacciare la malinconia.[110] C'è quindi da credere che egli deplorasse il celebre versetto dell'Ecclesiaste:
Siccome la virtù non può consistere nel volere il proprio danno, essa risiede allora nel perseguire il proprio utile.[112] Quel che bisogna sfatare è l'antico pregiudizio secondo cui perseguire l'utile personale significhi immancabilmente danneggiare gli altri. Al contrario, data la fragilità degli esseri umani, nessuno può pensare di condurre un'esistenza felice senza mantenere, con i suoi simili, continui rapporti reciproci di solidarietà ed aiuto. Ai fini dell'utile di ognuno, la cooperazione sociale è indispensabile:
Non è forse la regola d'oro prescritta dal vangelo, quella stessa in cui si riassumono l'insegnamento della Torah e dei profeti?
Ma — si badi bene — per Spinoza la regola d'oro non riserva alcun contraccambio nell'aldilà, bensì ha come unico scopo la felicità degli uomini su questa terra.
In primo luogo — lo abbiamo visto — perché senza assistenza reciproca la vita umana è aspra e difficile, quindi dobbiamo tutti cooperare perché si possa confidare l'uno nell'altro, allo scopo di poterne ricavare ciascuno un utile.
In secondo luogo — e questo fattore ha un valore decisamente più incisivo del primo — perché, chi rende la regola d'oro la propria regola di vita, gode, nel momento stesso in cui fa del bene, di una piena beatitudine, venisse anche in seguito tradito o maltrattato dalle persone a cui ha rivolto i suoi favori. La beatitudine gli deriva dalla consapevolezza di star agendo al servizio di Dio, cioè di star perfettamente seguendo le leggi di natura:
In tale libertà, si possiede una felicità che non è soltanto al riparo dai brutti tiri che possono riservarci le persone in cui abbiamo riposto fiducia, ma che è al riparo anche da tutti quegli avvenimenti, legati alle vicende della sorte, che rischiano di colpirci quando meno ce lo aspettiamo. Difatti, nell'ordine della natura, è inevitabile che possano toccare alcuni svantaggi ai singoli, per un maggior vantaggio della natura nel suo complesso.
La virtù ha quindi già in se stessa la sua ricompensa, perché l'ha nel compiacimento. E non è una ricompensa da poco: se ripensiamo alla vita di Spinoza, comprendiamo come egli sia riuscito a sopportare molte avversità proprio grazie a questa segreta sorgente interiore di energia.
In verità, nulla di spiacevole accade all'uomo a causa dell'agire di Dio, ma soltanto a causa delle passioni umane. Il problema della teodicea — tanto caro alla speculazione di Leibniz — cessa così di aver senso agli occhi di Spinoza, facendo posto ad una più pratica riflessione di "antropodicea"[116], mirante a cogliere, attraverso lo studio delle passioni terrene, i motivi per cui gli uomini si rendono infelici e si fanno guerra fra loro. La teoria spinoziana della virtù propone una ricetta per liberare l'animo dai conflitti, e per far sì che gli uomini possano trovarsi finalmente sereni e coesi.
La misericordia dei virtuosi e la falsa virtù degli invidiosi
modificaChi vive sotto la guida della ragione, oltre ad essere disponibile e sollecito verso tutti, non prova odio verso nessuno, ma anzi si sforza di ricambiare con l'amore l'odio altrui.[117] Anche qui la radicalità dell'etica di Spinoza appare paragonabile a quella del Gesù del Discorso della montagna:
Come ogni comportamento suggerito dalla ragione, esso non manca di offrire — al di là del compiacimento che lo accompagna — una non disprezzabile dose di utilità pratica, dato che rispondere all'odio con altro odio non fa che aumentare l'odio reciproco, mentre rispondere all'odio con l'amore annulla l'odio che ci era stato mosso contro e lo fa trapassare a sua volta in amore:
Tra parentesi, si noti che questa teoria — che insegna a non distruggere l'avversario, ma a condurlo con la bontà dalla propria parte — è la stessa ch'è alla base del pacifismo del XX secolo. Le storiche parole del Mahatma Gandhi, che istruirono gli indiani ad ottenere un'indipendenza morale prima ancora che politica, esprimono proprio i medesimi concetti, indicando nell'amore la più potente forza redentrice di cui l'umanità possa disporre:
E non stupisce che Tolstoj — che, com'è noto, fu per Gandhi un maestro — citi espressamente Spinoza tra i filosofi che più lo influenzarono nell'aderire alla dottrina evangelica dell'amore universale, che — secondo la testimonianza autobiografica del grande narratore russo — aveva risposto con efficacia all'interrogativo esistenziale della sua travagliata vita:
Ritornando a Spinoza, egli si avvide che, se il frutto della virtù è una inesauribile misericordia (la quale rende l'uomo simile al Dio-Padre descritto dal Gesù del Discorso della montagna, un Dio in fondo non lontano dal Dio-Natura descritto da Spinoza nell'Etica), coloro che giacciono nella melma delle passioni sono per contro costantemente soggetti all'invidia, che della misericordia è l'esatto opposto:
L'invidia genera fra gli uomini uno stuolo di pregiudizi, dovuti al desiderio di ciascun individuo di credersi e apparire superiore agli altri, dal momento che essa cammina sempre di pari passo con la superbia, essendo più facile godere dell'altrui male quando si immagina che la propria fortuna e il proprio prestigio non abbiano eguali:
È interessante notare che spesso la maggior carica di invidia la si trova proprio tra i moralisti, cioè fra coloro che denigrano i piaceri di cui altri si dilettano, alla luce dei fatti soltanto perché, non potendosene anch'essi dilettare, vogliono per invidia che nessuno al mondo se ne diletti:
Chi è potente d'animo, cioè vive secondo ragione, modererà la sua condotta adeguandola a quelle azioni che reputa buone e concentrando le proprie riflessioni unicamente su di esse. Provare piacere nel contemplare i vizi altrui è invece caratteristica di quegli animi superbi e invidiosi che, ben lungi dal desiderare onestamente la virtù, non hanno di meglio a cui pensare:
Se si ritiene che talune azioni siano contrarie alla virtù, non si ha motivo di invidiare chi le compie, dato che la vera virtù — lo ripetiamo — non ha a che vedere con il sacrifici e le penitenze, ma è anzi ciò con cui definiamo il più alto piacere ottenibile in questa vita. La virtù perciò non implica rinunce, a meno che non siano un male minore per un bene maggiore, caso nel quale non si tratta in verità di rinunce, poiché il male che si dice minore è a conti fatti un bene.[126] Di conseguenza, per Spinoza, chiunque prova invidia — o, in genere, odio e risentimento — verso qualcuno, non dimostra nient'altro che di esserne meno virtuoso.
Il diritto alla gioia
modificaAbbiamo visto che, quando ci formiamo un'idea chiara e distinta delle nostre passioni, possiamo dominarle e trasformare il carattere della nostra vita affettiva da passivo in attivo (cioè libero). È quanto ben sintetizza la V parte dell'Etica:
Ma occorre tener presente un distinguo operato in precedenza da Spinoza, volto a mettere in guardia da quegli affetti che, per loro natura, non hanno nulla a che spartire con la letizia e col perfezionamento dell'animo:
La tristezza — o le altre passioni che si richiamano ad essa — non consistono in altro se non nell'involuzione da una maggiore a una minore perfezione, quindi acquistarne una chiara conoscenza significa semplicemente sradicarle, dato che la conoscenza adeguata risulta incompatibile con la passività.[129] Cristofolini ritiene che sia qui da cogliere, nella sua pienezza, il carattere gioioso della virtù spinoziana:
L'Etica propone un percorso individuale per raggiungere la libertà nella gioia, lontano dalla schiavitù della tristezza, poiché la tristezza non è altro che passività dell'animo e diminuzione della potenza d'agire. Come abbiamo visto, lo stesso percorso era stato indicato, come proposta di rivoluzione sociale, nel Trattato teologico-politico, in cui Spinoza aveva biasimato la repressione delle idee attuata dai governi in nome di una falsa morale incentrata sulla paura e sul soffocamento di ogni libero slancio vitale. Nelle due opere, Spinoza ha come analogo obiettivo polemico le religioni fanatiche e superstiziose, che sostengono un'idea capovolta di virtù, identificando il bene nella tristezza anziché nella letizia:
E un popolo educato alla tristezza, come potrà sviluppare in maniera libera e sana la propria personalità? A tale proposito, Cristofolini nota quanto proprio il cuore dell'Etica batta su questo tasto:
L'etica del sacrificio non è un'etica, ma una superstizione che permette al clero di esercitare il proprio potere politico e la propria crudeltà sfruttando i sensi di colpa del volgo senza che esso se ne accorga, ed anzi facendogli credere di far bene ad attenersi alle severe direttive morali indicategli dai ministri del culto. Come osserverà Bertrand Russell,[133] la nozione stessa di "peccato", attribuito dal clero alle debolezze della moltitudine, può considerarsi una subdola invenzione delle élite religiose per giustificare i soprusi fisici e morali esercitati sul popolo, nel quale vengono proiettati ed instillati i sensi di colpa che dovrebbero essere invece conseguenza dell'agire crudele del clero:
La superstizione uccide nelle coscienze l'amore per la vita attraverso lo zelo moralistico di coloro che, da posizioni di egemonia politica, propagano l'odio e l'invidia di cui sono essi stessi vittime inconsapevoli e impotenti, seminando così sempre più germi di violenza e di infelicità in una società che avrebbe invece bisogno di respirare aria fresca a pieni polmoni. Spinoza, contro questo anti-modello di società, rivendica il "diritto alla gioia" a cui ogni essere umano aspira,[135] un diritto altrettanto universale e fondamentale quanto quello alla libertà; un diritto alla gioia che è anche un diritto all'amore, dal momento che l'amore, quello vero, è la gioia per eccellenza.[136]
Una filosofia non della morte ma della vita
modificaTutti gli uomini mirano alla virtù, ossia a conservare se stessi e a godere della propria esistenza il più possibile: ciò vale sia per chi vive secondo i dettami della ragione, sia per chi è soggetto alle passioni. La differenza fra i primi e i secondi consiste nell'efficacia con cui riescono a perseguire il proprio scopo: esso viene meglio perseguito dai primi, i quali riescono a mettere armonia tra quella congerie di affetti che è il loro animo umano, ottenendo così una felicità e una serenità stabili. Commenta a questo proposito Pierre François Moreau:
E poiché le passioni sono ciò che impedisce di godere pienamente della vita, il gradino più basso a cui un individuo può essere spinto da esse è il suicidio, cioè il desiderare la morte come liberazione da un'esistenza divenuta del tutto ingestibile:
Seneca fu costretto a suicidarsi dietro ordine dei centurioni inviati da Nerone, altrimenti sarebbero stati i centurioni stessi a porre termine alla sua vita.[139] Si trattò quindi di una scelta obbligata, anche se, probabilmente, per quelle che erano le sue opinioni, Seneca si sarebbe suicidato per molto meno:
Seneca nelle sue opere scrive spesso riguardo al suicidio, ritenendolo non una eventualità estrema da evitare finché sia possibile, ma quasi un gesto tra i più nobili che possa compiere un essere umano, diffondendosi nelle descrizioni dei suicidi di personaggi famosi e uscendosene ammirato con frasi del tipo:
La meditazione sul suicidio si inserisce in Seneca in una più ampia riflessione sulla morte. Difatti egli reputa che la morte sia parte integrante di ogni attimo della nostra vita, e che il saggio debba continuamente ricordarsene, al fine di regolare ogni azione della propria esistenza in relazione a tale consapevolezza:
La filosofia risulta così una meditazione sulla morte, e il vivere bene una preparazione al morire bene. Seneca non aveva inventato nulla di nuovo, ma riprendeva una concezione già consolidatasi secoli prima con Platone, che, nel Fedone, dipingeva l'esistenza terrena come una lunga sofferenza che il filosofo deve sopportare pazientemente. Platone, a differenza di Seneca, sconsigliava però il suicidio, asserendo che non è cosa santa ammazzarsi di propria mano, poiché è meglio accettare di soffrire finché il "beneficio" della morte giunga per mano della provvidenza "benefattrice":
Questa platonica filosofia della morte ebbe poi larga fortuna per tutto l'arco del Medioevo grazie all'incontro con la morale cristiana più austera, rimanendo in auge fino all'epoca di Spinoza, il quale, da parte sua, vi si oppone decisamente, scrivendo nell'Etica:
Non c'è per Spinoza pregiudizio più assurdo di chi ritenga la morte un auspicabile beneficio a cui dedicare ogni proprio pensiero, perché nessuna virtù può essere concepita al di fuori del desiderio di mantenere se stessi in vita.[145] E alla domanda socratica:
...Spinoza non avrebbe risposto con uno sprezzante no, come fa Simmia nel Fedone, dato che le sue idee al riguardo erano più misurate:
La prospettiva della morte
modificaPur intendendo la filosofia come riflessione sulla vita e non sulla morte, Spinoza non trascurò di trattare nell'Etica anche la morte, specificando di averne una concezione differente — e diremmo più amena — rispetto a quella tradizionale:
Perciò la morte del corpo non coincide unicamente con il suo tramutarsi in cadavere, ma avviene ogni qual volta il corpo patisce dei mutamenti che ci possano far dire che esso non è più lo stesso.[149] Spinoza, per spiegarsi, accenna alla curiosa vicenda del poeta Góngora y Argote:
Così come accade a un bambino che, divenuto adulto, non si riconosca più in quel che era stato un tempo, così ugualmente accade di adulti che ritornino bambini, o che cambino personalità: ogni analoga alterazione cerebrale è un po' come una morte, perché le parti del corpo vedono acquistare tra loro un diverso rapporto.[149]
Se rivolgiamo l'attenzione alla seconda parte dell'Etica, notiamo che Spinoza — pur affermando l'impossibilità di qualsiasi interazione fra l'attributo del pensiero e quello dell'estensione — descrive la mente umana come un'idea del corpo umano e tende a radicare l'attività della mente nella realtà del corpo, cioè tende a porre il grado di attività e di capacità della mente in relazione e in dipendenza rispetto a quello del corpo:[150]
Non per niente, tutto ciò che percepiamo, lo percepiamo attraverso il corpo:
Poiché l'esistenza della mente è legata a quella del corpo, la corruttibilità dell'uno implica la corruttibilità dell'altra. Di conseguenza, una volta cessata l'attività del corpo, la mente non può continuare a immaginare o ricordare alcunché:
Eppure, per quanto lontano dalla tradizionale credenza nell'immortalità dell'anima, Spinoza parla di un "qualcosa di eterno" che, relativamente alla mente, perdura anche dopo la morte del corpo:
La consapevolezza dell'eternità della nostra mente non deve certo essere considerata il motivo per comportarsi virtuosamente in vita, perché, come sappiamo, la virtù ha in se stessa la propria ricompensa e va quindi seguita senza pensare al domani:
Spinoza ribadisce che il timore e la speranza sono debolezze dell'animo appartenenti al volgo superstizioso, il quale, fraintendendo la natura del vero bene, è portato a identificarlo col piacere sensibile e, quando obbedisce alle regole di moderazione della religione, lo fa solo perché atterrito dalla minaccia dell'inferno o perché lusingato dalle promesse di ricompense ultraterrene. Del resto, se le persone ignoranti non fossero imbevute di tali credenze, si darebbero all'istante a una pazza sregolatezza e rigetterebbero ogni forma di virtù, proprio come non esiterebbero a fare se venisse realizzata la speranza che essi nutrono di una beatitudine ultraterrena dai tratti licenziosi:
Paradossalmente, da un lato il volgo è spinto dall'ignoranza a ricercare la libertà nella schiavitù delle passioni, e dall'altro a reputare schiavitù la libertà della vera virtù, che non conosce affatto. Chi abbia invece conoscenza del vero bene, non ha bisogno di nutrire timori o speranze verso l'aldilà, ma trova virtù, beatitudine e libertà dalle passioni, nell'aldiquà:
Abbiamo accennato nel primo capitolo alla formazione "umanistica" di Spinoza.[157] Ebbene, la concezione di una virtù che ha in se stessa la propria ricompensa — e che libera dalle inquietudini legate al timore e alla speranza — ricorda le teorie del Trattato sull'immortalità dell'anima di Pietro Pomponazzi:
Per Pomponazzi, non ci sono prove certe dell'immortalità dell'anima, ma questa credenza è stata instillata dai legislatori nel volgo poiché esso, non essendo in grado di comprendere la natura della vera virtù, commetterebbe ogni delitto se non fosse addomesticato dai sentimenti di timore e di speranza verso l'aldilà:
Ma i filosofi, che trovano godimento nell'esercizio stesso della virtù, non hanno bisogno di credere in favolistiche ricompense o in punizioni ultraterrene. È questo il pensiero, oltre che di Pomponazzi, anche dell'Etica di Spinoza. Ma allora che bisogno aveva Spinoza di introdurre, proprio al termine dell'Etica, una teoria dell'eternità della mente? È uno dei misteri più discussi del pensiero spinoziano. Vediamo quali possono essere state le fonti che hanno ispirato questa piega inaspettata della filosofia di Spinoza.
L'eternità della mente
modificaHarry Wolfson ha per primo rintracciato le influenze di filosofi ebrei — soprattutto Mosè Maimonide e Levi Ben Gersonide — sul pensiero di Spinoza, specialmente per quanto riguarda la teoria dell'eternità della mente. Tale teoria, per Wolfson, dimostrerebbe l'adesione di Spinoza alla tradizionale credenza nell'immortalità individuale dell'anima, la stessa adottata dalla religione rabbinica a cui Spinoza era stato educato da ragazzo.[160] Steven Nadler, aggiornando gli studi di Wolfson, ha operato un'analoga ricostruzione dell'influenza dei filosofi ebrei sul pensiero di Spinoza, giungendo però a una conclusione radicalmente opposta, a partire dal dato (da noi già ripreso nel primo capitolo) che proprio la negazione dell'immortalità dell'anima, da parte di Spinoza, era stato il motivo determinante per la sua scomunica. Secondo Nadler:
Nadler cita lo storico dell'antichità giudaica Flavio Giuseppe (che Spinoza menziona più volte nel Trattato teologico-politico) secondo il quale nel I secolo d.C. la dottrina dell'immortalità dell'anima fu sostenuta dai farisei, in contrapposizione ai sadducei (che la negavano), finché i primi ebbero la meglio sui secondi e l'immortalità dell'anima divenne una credenza irrinunciabile del rabbinismo.[162] A quanto pare Spinoza (in sintonia con una lettura sine glossa della Torah, a cui erano un tempo rimasti fedeli i sadducei, in contrapposizione alle interpretazioni interessate dei farisei) rifiutò da giovane la credenza nell'immortalità dell'anima, così causando la propria scomunica. Spinoza, riprendendo e radicalizzando Maimonide, sviluppò via via sull'argomento un pensiero alternativo a quello della tradizionale credenza nell'immortalità dell'anima, un pensiero che prese la forma, nell'Etica, della teoria dell'eternità della mente. L'eternità della mente, infatti, non è l'immortalità dell'anima. Ricostruiamo ora meglio questo percorso.
Maimonide (la cui Guida dei perplessi apparteneva alla biblioteca di Spinoza)[163] fu uno dei maggiori interpreti medievali di Alfarabi e di Averroé, adeguandone le teorie al pensiero talmudico.[164] Averroè, commentando il De anima di Aristotele, elaborò una concezione dell'intelletto che, attraverso Maimonide, giunse fino a Spinoza; possiamo così supporre che idee come queste abbiano influenzato la visione dell'Etica (specie per quanto riguarda la parte V):
Secondo Augusto Illuminati, Spinoza può a buon diritto essere considerato "l'unico erede legittimo" di Averroé, data l'analogia fra l'unità dell'intelletto potenziale averroista e l'unicità della sostanza spinoziana. E il fatto che Spinoza non citi mai Avveroé nei propri scritti appare a Illuminati "inspiegabile".
Maimonide, nel suo commento alla Mishnah, distingue sulla scia di Averroé due componenti all'interno dell'anima: neshamah (che cessa di esistere alla morte del corpo) e nefesh o ruach (che prosegue lo svolgimento delle sue attività anche dopo la morte). Per Maimonide esiste una nefesh — cioè una parte intellettiva dell'anima — in ogni essere umano, e ogni nefesh riceve nel mondo a venire la sua ricompensa o il suo castigo. Al di là dell'aspetto retributivo della vita ultraterrena, è interessante in Maimonide la concezione intellettiva di quella parte che, nell'uomo, rimane dopo la morte. Per Maimonide, ciò che rimane sono infatti le conoscenze, o meglio, le conoscenze vere. Chi non abbia acquisito in vita conoscenze vere è destinato a un castigo ultraterreno consistente nell'annullamento, mentre chi ha sviluppato il proprio intelletto potrà ricongiungersi a Dio. Il bene e la parte immortale dell'anima consistono quindi, per Maimonide, nelle conoscenze vere. E sembra che, come in Averroé, l'immortalità dell'anima non sia da concepire in maniera personale e individuale, dato che a sopravvivere — e a riunirsi nell'unico intelletto — sono le conoscenze delle persone e non le persone dotate di conoscenze. Ma Maimonide — forse per opportunismo — ribadì sempre il carattere individuale dell'immortalità da lui intesa, garantendone l'affinità con il pensiero della tradizione rabbinica.[166]
Nell'opera minacciosamente intitolata Le guerre del Signore, Gersonide — prendendo a sua volta opportunisticamente le distanze da Averroé — mostra una concezione dell'anima simile a quella di Maimonide, distinguendo tra intelletto materiale (che muore col corpo) e intelletto acquisito (che permane dopo la morte). Per Gersonide, le conoscenze vere diventano patrimonio dell'intelletto acquisito attraverso l'illuminazione dell'Intelletto Agente. L'intelletto acquisito è la somma delle conoscenze vere raccolte da un individuo durante la propria esistenza, quindi l'immortalità, anche per Gersonide, consiste nella sopravvivenza ultraterrena delle conoscenze vere acquisite in vita. L'espressione "eternità della mente" è utilizzata proprio da Gersonide per riferirsi a questa permanenza delle idee vere dopo la morte del corpo.[167]
Spinoza, leggendo Maimonide e probabilmente anche Gersonide, volle portare alle legittime conseguenze il loro pensiero sulla permanenza extracorporea delle conoscenze vere, ed elaborò una concezione grazie alla quale, consapevolmente o inconsapevolmente, venivano ricondotte a nuova vita le teorie di Averroé. Per Averroé l'intelletto materiale è la manifestazione, in un determinato individuo, dell'Intelletto Agente; la porzione immortale di un individuo non è quindi altro che lo stesso Intelletto Agente, a cui ogni anima si riunisce, dopo la morte, perdendo la sua singolarità in favore dell'unità con l'Intelletto Agente di cui fa parte. L'immortalità non ha quindi carattere individuale, ma concerne unicamente le conoscenze vere — spersonalizzate e ricondotte all'unicità dell'Intelletto — di ogni persona, che così cessa appunto di essere persona riunendosi con l'Uno.[168] Allo stesso modo, l'Etica di Spinoza sostiene la permanenza, dopo la morte, delle conoscenze adeguate (cioè vere):
E viene sottolineato come ogni mente, in quanto intende, faccia parte dell'intelletto di Dio:
L'immortalità non concerne dunque gli individui, ma le conoscenze vere ed eterne tesaurizzate dalle menti degli individui, la cui memoria — giova ricordarlo — perisce con la morte del corpo. La teoria spinoziana dell'eternità della mente è perciò ben distante dalla tradizionale credenza religiosa nell'immortalità dell'anima; gli uomini sono consapevoli della prima ma la confondono con la seconda:
Spinoza specifica poi che la morte risulterà meno dannosa, per ogni individuo, quanto maggiori saranno le conoscenze vere da lui acquisite:
Tralasciando — e anzi rimandando al terzo capitolo — di chiederci se in tale affermazione dell'Etica resti echeggiato qualche rimasuglio del timore e della speranza caratteristici delle dottrine religiose sull'aldilà, desideriamo concludere questo capitolo soffermandoci sulla concezione spinoziana della relazione tra l'amore e Dio.
Dio e l'amore
modificaDi un concetto — come l'amore — dibattuto e sviscerato per millenni dai sapienti dell'umanità, Spinoza dà una definizione semplicissima:
ove per letizia si intende
La definizione spinoziana dell'amore — causticamente commentata da Schopenhauer come rasserenante, esuberante e ingenua[175] — colpisce nella sua semplicità, ricordandoci, per la sua associazione alla letizia, il sentimento d'amore di un San Francesco d'Assisi. Questo amore-letizia appare un affetto tipicamente umano, ma Spinoza lo attribuisce — nella versione di un amore intellettuale, che non è più passività ma potenza dell'intelletto — anche a Dio:
E siccome l'amore intellettuale che la mente umana prova per Dio (quando lo conosce secondo verità) è parte dell'infinito amore con cui Dio ama se stesso,[176] ne consegue che Dio, amando se stesso, ama anche gli uomini:
Questo circolo d'amore tra Dio e l'essere umano — che per l'uomo rappresenta la salvezza, la beatitudine e la libertà — è quella apoteosi che, come osserva Spinoza, viene dalla Bibbia definita "gloria":
È la stessa gloria che apparve fra le nubi sulla cima del monte Sinai, assumendo la forma di un fuoco divorante, per infondere nel cuore di Mosè le leggi dei dieci comandamenti;[179] è la stessa gloria di Dio che secondo Isaia riempie tutta la terra;[180] la stessa gloria con cui Dio, secondo il canto dei salmi, non abbandona mai l'uomo ma lo corona d'onore, esaltandolo al di sopra di tutte le altre creature;[181] la stessa gloria di cui Cristo si sentiva partecipe, pregando Dio che tutti gli uomini ne potessero diventare altrettanto partecipi:
La gloria di cui parla Spinoza rende l'essere umano tanto vicino a Dio da far persino pensare a un tratto personale del Dio spinoziano,[183] ma, anche senza ammettere questo, certo cogliamo nella V parte dell'Etica un elevarsi della ragione verso vette così alte che rompono ormai gli schemi. Come scriverà il teologo svizzero Hans Küng, l'autentico Dio ebraico-cristiano non può ridursi a persona né a qualsiasi altra categoria umana, perché penetra e avvolge tutto l'esistente:
Il Dio di Spinoza è così onnipenetrante da aver fatto parlare ad Hegel di "acosmismo", in antitesi all'accusa di ateismo tradizionalmente rivolta alla filosofia di Spinoza. Semmai, nota Hegel, in Spinoza c'è fin "troppo" Dio:
Ma, comunque si intenda il Dio di Spinoza, è nell'amore per questo Dio che Spinoza indica la via che conduce alla beatitudine. Non che questa via sia semplice da percorrere, anzi è estremamente difficoltosa. La conclusione dell'Etica, come a mostrare le ombre, sembra ammettere di aver soltanto intravisto la verità, e che la ricerca non è forse terminata. Ci consola il fatto che, se la verità si presenta difficile e rara da trovare, nella sua eccellenza sta la ricompensa di tante fatiche:
Note
modifica- ↑ Trattato sull'emendazione dell'intelletto e sulla via per dirigerlo nel modo migliore alla vera conoscenza delle cose, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 25, 1. Per il commento, ci avvaliamo dell'introduzione e delle note di Filippo Mignini presenti in questa edizione. D'ora in avanti TEI.
- ↑ TEI, 2.
- ↑ TEI, 3.
- ↑ Seneca, Lettera 84,11. L'edizione a cui facciamo riferimento è: Lucio Anneo Seneca, Tutte le opere, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000.
- ↑ TEI, 4.
- ↑ TEI, 5.
- ↑ TEI, 10.
- ↑ TEI, 9.
- ↑ TEI, 8.
- ↑ TEI, 12.
- ↑ Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, Bibliopolis, Napoli 1995, p. 63.
- ↑ Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, op. cit., p. 85
- ↑ TEI, 14-15.
- ↑ Cfr. Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, op. cit., pp. 127-128.
- ↑ TEI, 14.
- ↑ 16,0 16,1 TEI, 15.
- ↑ Cfr. TEI, 15.
- ↑ TEI, 16.
- ↑ Cfr. Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, in: Averroé e l'intelletto pubblico, antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, introduzione e cura di Augusto Illuminati, ManifestoLibri, Roma 1996, pp. 79-81.
- ↑ Dante Alighieri, Monarchia, I fine par.3 e II inizio par.4. Citato in: Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, op. cit., pp. 79-80.
- ↑ Cfr. TEI, 17.
- ↑ Cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, Mondadori, Milano 1993, parte terza, pp. 25-28.
- ↑ Marco Ravera, Invito al pensiero di Spinoza, Mursia, Milano 1987, p. 55.
- ↑ Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 192, II 26,6. Per il commento, ci avvaliamo dell'introduzione e delle note di Filippo Mignini presenti in questa edizione. D'ora in avanti BT.
- ↑ Gn 28,12-13.
- ↑ Cfr. BT II 26,9.
- ↑ BT II 26,8.
- ↑ Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 76.
- ↑ BT I 2,1.
- ↑ BT I 2,27
- ↑ Cfr. BT II, prefazione e cap. 19-20.
- ↑ Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 82.
- ↑ Cfr. Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 82.
- ↑ Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, traduzione di Luciano Tosti e Franco Bianco, Queriniana, Brescia 1970, pp. 106-107.
- ↑ Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, op. cit., p. 134.
- ↑ Cfr. Rosino Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1999, pp. 35-36.
- ↑ Cfr. Filippo Mignini, Note al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 1571.
- ↑ Cfr. BT II 25,1.
- ↑ BT II 25,2.
- ↑ Cfr. BT II 25,3.
- ↑ BT II 25,4.
- ↑ Cfr. Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, in Trattato dei tre impostori - La vita e lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, a cura di Silvia Berti, prefazione di Richard H.Popkin, Einaudi, Torino 1994, pp. 231-239. D'ora in avanti Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza.
- ↑ Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,III.
- ↑ Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,VII.
- ↑ 45,0 45,1 Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,V.
- ↑ Paolo Cristofolini, Spinoza per tutti, Feltrinelli, Milano 1993, p. 104.
- ↑ Epistola LI. Seguiamo la traduzione di Filippo Mignini.
- ↑ 48,0 48,1 Epistola LII.
- ↑ 49,0 49,1 Epistola LIII.
- ↑ 50,0 50,1 50,2 50,3 50,4 Epistola LIV.
- ↑ 51,0 51,1 Cfr. Epistola LVI.
- ↑ Cfr. Baruch Spinoza, Trattato Teologico-Politico, traduzione e note di Sante Casellato, Fabbri Editori, Milano 2001. D'ora in avanti TTP.
- ↑ 53,00 53,01 53,02 53,03 53,04 53,05 53,06 53,07 53,08 53,09 TTP, prefazione.
- ↑ Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, in: La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, Edizioni Ghibli, Milano 2002, p. 135.
- ↑ Contrariamente alla tradizione cristiana, che inserisce la speranza fra le tre virtù teologali, Spinoza ne dà una definizione negativa, così come dà una definizione negativa del timore. Cfr. Etica III, proposizione 18, scolio 2 (L'edizione dell'Etica a cui facciamo riferimento in questo lavoro è : Bento de Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, trad. it. di Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992): "La speranza non è niente altro che letizia incostante, sorta dall'immagine di una cosa futura o passata, del cui accadere dubitiamo. Il timore, per contro, è tristezza incostante, sorta del pari, dall'immagine di una cosa dubbia." Del resto, anche San Giovanni avvertiva che il timore non può coniugarsi con una religione di libertà e d'amore: "Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore" (1Gv 4,18)
- ↑ 56,0 56,1 Epistola XXX.
- ↑ Cfr. Epistola XXX.
- ↑ Cfr. TTP, cap. XX.
- ↑ Cfr. il paragrafo 8 del primo capitolo di questo lavoro: La coerenza del filosofo.
- ↑ Cfr. TTP, cap. XII-XIV
- ↑ TTP, cap. XII.
- ↑ 62,0 62,1 TTP, cap. XIV.
- ↑ Cfr. Epistola XXXIII.
- ↑ Cfr. Fulvio Papi, Un'interpretazione del Trattato teologico-politico, in: Spinoza. L'eresia della pace, Edizioni Ghibli, Milano 2004, pp. 56-57.
- ↑ Cfr. Epistola XV.
- ↑ Cfr. Filippo Mignini, Introduzione ai Principi della filosofia di Cartesio, in: Spinoza, Opere, op. cit., pp. 207-210.
- ↑ Filippo Mignini, Note, in: Spinoza, Opere, op. cit., pp. 1719-1720.
- ↑ BT, sottotitolo, p. 89.
- ↑ Cfr. TTP, cap. VI.
- ↑ 70,0 70,1 70,2 70,3 TTP, cap. VI.
- ↑ Gs 10,12-13.
- ↑ Cfr. TTP, cap. II e cap. VI.
- ↑ Gn 3,8.
- ↑ TTP, cap. XIII
- ↑ Dt 13,2-4
- ↑ Cfr. TTP, cap. VI e cap. XII.
- ↑ Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 135-136.
- ↑ 78,0 78,1 TTP, cap. XV
- ↑ Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., p. 137.
- ↑ 80,0 80,1 Cfr. Amedeo Vigorelli, Spinoza mistico della ragione, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, op. cit., pp. 35-36.
- ↑ Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza? (1901), in: Il bastoncino verde: scritti sul cristianesimo, traduzione di V. Lebedev e G. Gazzeri, Sotto il Monte Servitium, 1998, pp. 98-99.
- ↑ Cfr. Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza?, op. cit., p. 98.
- ↑ Mt 23,8-9.
- ↑ Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza?, op. cit., p. 100.
- ↑ Cfr. Lev Tolstoj, La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione (1902-1903), in: Tolstoj, Tutti i racconti, volume secondo, I Meridiani, Mondadori, Milano 2006, pp. 748-770.
- ↑ Lev Tolstoj, La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione, op. cit., p. 752.
- ↑ Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., p. 154-155.
- ↑ 88,0 88,1 88,2 TTP, cap. I
- ↑ 89,0 89,1 TTP, cap. IV.
- ↑ Epistola LXXV.
- ↑ Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 144; 148-149; 160-161.
- ↑ Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 160-161.
- ↑ Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 160-161.
- ↑ 94,0 94,1 94,2 94,3 94,4 94,5 94,6 94,7 Etica I, appendice.
- ↑ Cfr. Epistola LIV.
- ↑ Cfr Piero Di Vona, Baruch Spinoza, Etica, Antologia, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 4.
- ↑ 97,0 97,1 Etica III, prefazione.
- ↑ Cfr. Pierre-François Moreau, Spinoza. La ragione pensante. Una guida alla lettura, trad. it. di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 37-49.
- ↑ Epistola LXXIII.
- ↑ Giorgio Colli, Presentazione, in: Bento de Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, op. cit.
- ↑ Amedeo Vigorelli, Spinoza mistico della ragione, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, op. cit., p. 29.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizione 68.
- ↑ Piero Martinetti, La dottrina della libertà in Spinoza, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, op. cit., p. 29.
- ↑ Cfr. Sergio Levi, Soggetti sottintesi, Guerini Studio, Milano 2001, p. 18.
- ↑ Cfr. Sergio Levi, Soggetti sottintesi, op. cit., p. 23.
- ↑ Etica III, proposizione 1.
- ↑ Cfr. Donald Davidson, La teoria causale degli affetti di Spinoza, in: Sergio Levi, Spinoza e il problema mente-corpo. In appendice saggi di Wartofsky e Davidson, Cuem, Milano 2003, pp. 117-118.
- ↑ 108,0 108,1 Etica IV, proposizione 18, scolio.
- ↑ Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
- ↑ Qo 7,4.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizione 20.
- ↑ Mt 7,12.
- ↑ Etica II, proposizione 49, scolio.
- ↑ Etica IV, capitolo 32.
- ↑ Cfr. Rosalba Maletta, Eresia filosofica come eresia poetica: Spinoza nell'opera di Celan, in: Spinoza. L'eresia della pace, Edizioni Ghibli, Milano 2004, pp. 134-139.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizione 46.
- ↑ Mt 5,43-44.
- ↑ Etica IV, proposizione 46, scolio.
- ↑ M.K. Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero, traduzione di Lucio Angelini, Newton, Roma 1992, pp. 452-453.
- ↑ Lev Tolstoj, Il vangelo spiegato ai giovani, a cura di Igor Sibaldi, Ugo Guanda Editore, Parma 1995, pp. 138-139.
- ↑ Etica III, definizione degli affetti n. 23.
- ↑ Etica IV, proposizione 57, scolio. Cfr. anche Etica III, proposizione 55, scolio.
- ↑ Mentre la superbia "consiste nel sentire di sé, per amore di sé, più del giusto" (Etica III, definizione degli affetti n. 28), la gloria è semplicemente "letizia accompagnata dall'idea di qualche nostra azione, che immaginiamo sia dagli altri lodata" (Etica III, definizione degli affetti n. 30), quindi in sé non è contraria alla virtù.
- ↑ 125,0 125,1 Etica V, proposizione 10, scolio.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizione 65, corollario.
- ↑ Etica V, proposizione 3.
- ↑ Etica III, proposizione 59.
- ↑ Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, Edizioni ETS, Pisa 2002, p. 67
- ↑ Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, Edizioni ETS, Pisa 2002, p. 67
- ↑ Etica IV, appendice, capitolo 31.
- ↑ Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., p. 67
- ↑ È celebre il giudizio di stima tributato da Russell a Spinoza: "Spinoza è il più nobile e il più degno di amore dei grandi filosofi. Se qualcun altro lo ha superato per intelletto, dal punto di vista etico è superiore a tutti.", in: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1967, terzo volume, p. 745.
- ↑ Bertrand Russell, Russell dice la sua, Longanesi, Milano 1968, pp. 82-83.
- ↑ Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., p. 68.
- ↑ Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., pp. 76-77.
- ↑ Pierre-François Moreau, Spinoza. La ragione pensante. Una guida alla lettura, op. cit., p. 69.
- ↑ Etica IV, proposizione 20, scolio.
- ↑ Cfr. Tacito, Annales, XV, 60-65.
- ↑ Seneca, Lettera 70,4-5.
- ↑ Seneca, Lettera 70,25.
- ↑ Seneca, Lettera 24,20.
- ↑ Platone, Fedone, 62 A. L'edizione a cui facciamo riferimento è: Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000.
- ↑ Etica IV, proposizione 67.
- ↑ Cfr. Etica IV, proposizioni 21 e 22.
- ↑ Platone, Fedone, 64 E.
- ↑ Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
- ↑ 148,0 148,1 Etica IV, proposizione 39, scolio.
- ↑ 149,0 149,1 Cfr. Etica IV, proposizione 39, scolio.
- ↑ Cfr. Steven Nadler, L'eresia di Spinoza. L'immortalità e lo spirito ebraico, Einaudi, Torino 2005, pp. 134-135. D'ora in avanti L'eresia di Spinoza.
- ↑ 151,0 151,1 Etica II, proposizione 14.
- ↑ Etica II, proposizione 16, corollario 2.
- ↑ Etica V, proposizione 21.
- ↑ Etica V, proposizione 41.
- ↑ Etica V, proposizione 41, scolio.
- ↑ Etica V, proposizione 42.
- ↑ Cfr. il paragrafo 12 del primo capitolo di questo lavoro: Una biblioteca all'asta.
- ↑ Pietro Pomponazzi, Trattato sull'immortalità dell'anima, a cura di V. Perrone Compagni, Olschki, Firenze 1999, pp. 96-97.
- ↑ Pietro Pomponazzi, Trattato sull'immortalità dell'anima, op. cit., pp. 95-96.
- ↑ Cfr. Harry Austryn Wolfson, The philosophy of Spinoza: unfolding the latent processes of his reasoning, Cambridge, Massachusetts; London : Harvard university press, 1934, II, pp.310-311.
- ↑ L'eresia di Spinoza, p. 141.
- ↑ Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 72-73.
- ↑ Cfr. Patrizia Pozzi, La biblioteca di Spinoza, op. cit., pp. 152-153.
- ↑ Cfr. Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, op. cit., pp. 43-44.
- ↑ Averroè, Scritti sull'anima, in: Averroé e l'intelletto pubblico, antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, op. cit. p. 168.
- ↑ Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 88-104.
- ↑ Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 104-115.
- ↑ Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 115-116
- ↑ Etica V, proposizione 38, dimostrazione.
- ↑ Etica V, proposizione 40, scolio.
- ↑ Etica V, proposizione 34, scolio.
- ↑ 172,0 172,1 Etica V, proposizione 38, scolio.
- ↑ Etica III, proposizione 13, scolio
- ↑ Etica III, proposizione 11, scolio.
- ↑ Cfr. Arthur Schopenhauer, L'arte di insultare, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2004, p. 128
- ↑ Cfr. Etica V, proposizione 36. E dato che l'amore della mente umana per Dio è una conseguenza della vera conoscenza di Dio, la mente non può odiare Dio, perché così facendo dimostrerebbe solo di non averne una conoscenza adeguata (cfr. Etica V, proposizione 18).
- ↑ Etica V, proposizione 36, corollario.
- ↑ Etica V, proposizione 36, scolio.
- ↑ Cfr. Es 24,16-17.
- ↑ Cfr. Is 6,3.
- ↑ Cfr. Sal 8,6-9.
- ↑ Gv, 17, 22-23.
- ↑ Cfr Piero Di Vona, Baruch Spinoza, Etica, Antologia, op. cit., p. 199.
- ↑ Hans Küng, Perché sono ancora cristiano, traduzione di Roberto Garaventa, Marietti, Genova 1988, p. 27.
- ↑ G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. III, 2, p. 137.
- ↑ Etica V, proposizione 42, scolio.