Baruch Spinoza/Primo capitolo

Indice del libro


La vita di Spinoza come ricerca della terra promessa

Gli ebrei di Amsterdam

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Un'antica mappa del 1570, raffigurante l'Olanda del nord, con Amsterdam in basso a sinistra

L'Olanda (la più importante delle sette Province Unite coalizzatesi nel 1581 contro il dominio spagnolo e divenute indipendenti solo nel 1648, dopo la pace di Westfalia) si configurava, a metà del Seicento, come il paese europeo più florido e tollerante dell'epoca. Si chiede infatti Huizinga:

« Chi può ricordare un altro popolo che, appena nato, abbia raggiunto il vertice del suo sviluppo civile?[1] »

Proprio in Olanda erano riparati, tra il Cinquecento e il Seicento, una porzione degli ebrei espulsi a partire dal 1492 dalla cattolica monarchia di Spagna. Molti altri vi erano giunti quando anche il Portogallo, annesso alla Spagna nel 1580, si era affrettato ad espellere i suoi ebrei fuori dai confini. Alcuni di questi sefarditi (cioè ebrei di provenienza iberica) venivano con spregio definiti marrani (letteralmente "maiali") dal momento che, per non cadere tra le grinfie dell'Inquisizione spagnola, avevano provveduto a convertirsi formalmente al cattolicesimo, pur senza in realtà rinnegare, in cuor loro, l'antica fede ebraica a cui il loro popolo, nonostante le persecuzioni e le dispersioni, era legato da millenni in un patto di alleanza con Dio. Nella mercantile città di Amsterdam, alcune famiglie di sefarditi poterono ritrovare una dimora sulle rive del fiume Amstel, dando vita a una comunità prospera e ben organizzata, che, presso la vecchia sinagoga, tornò a professare apertamente il proprio culto rabbinico.[2]
La comunità di Amsterdam era sorretta al suo interno da rigide regole, per non rischiare di perdere la libertà di culto che le era stata concessa, se fosse apparsa poco disciplinata o potenzialmente sovversiva. Il quartiere ebraico non si configurò tuttavia come un ghetto, ben integrandosi anzi con il resto della città, poiché molti non-ebrei circolavano e lavoravano in quelle stesse strade:[2]

« Dal popolo e dalle autorità [gli ebrei] erano considerati imbroglioni e spesso malfattori, e soffrivano per il disprezzo che da tempo immemorabile si nutriva verso Israele. Ma con misura. Non erano perseguitati, e non erano segregati dal resto della popolazione.[3] »
 
La chiesa di Mosè e Aronne ad Amsterdam, nei pressi della quale Spinoza nacque e crebbe

Si venne così a formare un tessuto sociale variegato e cosmopolita, che conferì alla città il soprannome di "Gerusalemme olandese" o "Gerusalemme del Nord". Ma gli ebrei di Amsterdam, mentre godevano della sicurezza del presente, sapevano che era pur meglio stare all'erta, perché l'Olanda del Seicento era attraversata da una incessante lotta politica tra la fazione liberale (che dal '53 governava la nazione secondo princìpi repubblicani) e quella orangista (che voleva riaccentrare il potere nella figura quasi monarchica dello Stadholder), ed era chiaro che — se l'attuale bilancia fosse mutata — la sorte dei figli d'Israele avrebbe potuto tornare a farsi precaria. Occorreva quindi, per la comunità ebraica, mantenersi non soltanto rigida e disciplinata, ma anche mostrarsi in affinità con gli umori dell'intransigente clero calvinista, che in futuro avrebbe potuto favorire un ritorno della monarchia e dell'intolleranza religiosa. I calvinisti erano profondamente ancorati, per la loro visione politica e morale, alla lettera dell'Antico Testamento, tanto da vedere di buon occhio la presenza ad Amsterdam di una congrega discendente dal sangue di Abramo, perciò è comprensibile che gli ebrei intendessero tener viva tale simpatia punendo severamente chiunque, all'interno della loro comunità, avesse spezzato questa utile sinergia agitando le acque della controversia religiosa, magari mettendo addirittura in discussione alcuni dogmi che accomunavano la tradizione rabbinica al calvinismo, quali l'immortalità dell'anima o la paternità divina di tutte le leggi contenute nell'Antico Testamento.[4]
Se la "Gerusalemme del Nord" era un ambiente relativamente aperto per la mentalità europea del Seicento, si possono quindi immaginare quali sarebbero state le regole del buonsenso religioso e politico (religione e politica risultano inscindibili, in questo contesto storico) a cui sarebbe stato educato a conformarsi un giovane ebreo appassionato di teologia e filosofia. Ma cosa sarebbe successo se un giovanotto di questo tipo, dalle doti critiche più sviluppate rispetto ai suoi coetanei, avesse osato lanciare la propria mente oltre la siepe di un ebraismo istituzionalizzato e convenzionato, alla ricerca dell'infinito soffio del Dio vivente, vagliando non più la lettera, ma lo spirito appassionato che pervade il testo della Torah? A questa suggestiva domanda rispose la vita di Spinoza.

Un fanciullo perspicace

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Baruch Spinoza (o, alla portoghese, Bento d'Espinoza) nacque il 24 novembre del 1632 ad Amsterdam dall'unione fra suo padre Michail e la seconda moglie Hanna Deborah. La famiglia, di origine ebraico-portoghese, si dedicava al commercio di prodotti (specialmente frutta secca ed esotica) di provenienza iberica, quindi il giovane Spinoza fu educato, come ogni rispettabile figlio di mercanti, a guardarsi sempre alle spalle dagli inganni altrui e a fare di ciò una filosofia di vita, che, sulle orme del padre, gli permettesse di sopravvivere nella giungla degli affari. A tal proposito ci è pervenuto un aneddoto che racconta di quando Baruch, all'età di soli dieci anni, fu mandato dal babbo a riscuotere del denaro presso un'anziana signora, con la raccomandazione di tenere gli occhi ben aperti e di non lasciarsi sviare dalle apparenze.

 
Ritratto di una vecchia donna (Rembrandt, 1655)
« Poiché entrò in casa sua mentre stava leggendo la Bibbia, ella gli fece cenno di attendere che avesse terminato la preghiera. Quando ebbe finito, il ragazzo la informò del motivo della sua visita e la buona vecchia, dopo aver contato il denaro, "Ecco, disse indicandoglielo sulla tavola, ciò che devo a tuo padre. Possa tu essere tanto galantuomo quanto lui, che non si è mai allontanato dalla Legge di Mosè e il cielo ti benedirà solo se seguirai le sue norme".[5] »

Una scena davvero commovente, che però al giovane Spinoza non la diede a bere. Egli volle — memore delle avvisaglie paterne — ricontare il denaro dalla prima all'ultima moneta, nonostante l'indignazione e l'opposizione della vecchietta, la quale si ritenne offesa per tanto inaspettato scrupolo, soprattutto da parte di un bambino. Ma la verifica, dal canto suo, non si rivelò affatto inutile:

« mancavano due monete d'argento, che la pia vecchia aveva fatto cadere in un cassetto attraverso una fessura fatta apposta sotto il tavolo.[5] »

Fu un vero successo: quando Baruch tornò a casa col denaro e raccontò ai suoi la vicenda, lo accolsero l'approvazione e i complimenti del padre, che lo invitò a fare tesoro per il futuro di quella esperienza. Difatti il suo furbo figliolo

« prese a osservare con più attenzione di prima questa sorta di gente, di cui si prendeva gioco così sottilmente da destare la meraviglia di tutti.[5] »

Le osservazioni che raccoglieva sulle vere intenzioni nascoste dalle persone — soprattutto da quelle più "religiose" — dietro il velo delle apparenze, non erano del resto destinate a fargli seguire le orme paterne né tantomeno a renderlo un ricco mercante. Nonostante la città di Amsterdam si configurasse, alla metà del Seicento, come il centro del commercio mondiale e la capitale di un vasto impero coloniale che estendeva le proprie rotte fino all'Estremo Oriente, Spinoza non subì il fascino degli affari, ma trovò presto la sua naturale inclinazione negli studi.

Uno studente dubbioso

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Un rotolo della Torah. La Torah (cioè la "Legge" ebraica, contenuta nella Bibbia sotto il nome di Pentateuco) è quel nucleo dell'Antico Testamento la cui stesura è tradizionalmente attribuita a Mosè e i cui valori etici di amore per Dio e per il prossimo possono considerarsi alla base dell'ebraismo, e, di conseguenza, del cristianesimo.

Spinoza imparò ad esercitare sui libri e sui discorsi altrui le proprie spiccate doti critiche, distinguendosi da subito per piglio critico e per capacità dialettiche fuori dal comune:

« Dal momento che non leggeva che la Bibbia, fu ben presto in grado di far a meno dell'interprete: e vi faceva delle riflessioni così appropriate che i rabbini rispondevano ad esse al modo degli ignoranti i quali, avendo esaurito i loro argomenti, accusano quelli che li incalzano di avere opinioni poco conformi alla religione. [...] Morteira però, uomo celebre tra i giudei e che era il meno ignorante fra i rabbini del suo tempo, ammirava la condotta e il genio del suo discepolo.[6] »

Tuttavia, col passare degli anni, fu Morteira[7] stesso ad accusare il discepolo — ormai ventenne — di "avere opinioni poco conformi alla religione". L'anziano rabbino, infatti, era celebre anche per le sue vedute alquanto intransigenti, che già lo avevano messo in disputa con un altro rabbino più giovane di nome Aboab, il quale aveva osato sperare senza riserve nella misericordia infinita di Dio, finendo, di conseguenza, per dubitare dell'eternità dell'inferno.[8] Questo a Morteira non poteva andar giù, perché, per lui, il fatto che altri uomini fossero destinati a patire pene eterne dopo la morte era una piacevole certezza da non mettere in discussione; difatti durante i suoi sermoni amava ripetere frasi come:

 
Saul Levi Morteira
« I malvagi che commettono peccati gravi e muoiono senza pentirsi incorrono nel castigo eterno.[9] »

Simili prediche avevano peraltro sollevato la contestazione di alcuni giovani studenti, che si erano permessi di interrompere in pubblico le invettive del vecchio mèntore.[10] Quindi Morteira era divenuto diffidente verso la tendenza dei giovani all'anticonformismo e la sua indulgenza verso Baruch si esaurì presto, soprattutto quando all'orecchio gli giunse la segnalazione di due "falsi amici" di Spinoza, che, avendogli chiesto un'opinione personale sopra alcuni passaggi biblici, si erano sentiti rispondere in termini che, più che semplicemente personali, erano apparsi loro decisamente eterodossi:

« I suoi falsi amici [...] dichiararono [...] che l'avevano udito farsi beffe dei giudei come di gente superstiziosa [...] la Legge, poi, era stata istituita da un uomo in verità più avveduto di loro in materia politica ma che non era più sapiente né in fisica né in teologia [...] Queste cose, insieme a quelle che aveva detto su Dio, sugli angeli e sull'anima, che i suoi accusatori non omisero di sottolineare, scossero gli spiriti.[11] »

Spinoza aveva notato che, in alcuni passaggi della Torah, Dio viene descritto con le caratteristiche di un essere umano, oppure si parla di miracoli o eventi eccezionali che sono in realtà riconducibili alle leggi della fisica, o ancora di teorie politiche alquanto discutibili, quindi il presunto autore della Torah (Mosè) non era esente da carenze culturali, tanto più che, secondo Spinoza, la Torah era troppo disomogenea per ritenere che essa fosse stata davvero scritta da un'unica persona. Ma soprattutto, i "falsi amici" riferirono che, per Spinoza, nella Torah non si fa alcun chiaro accenno in sostegno della credenza rabbinica nell'immortalità dell'anima. Le parole di Spinoza sarebbero state:

« Riguardo all'anima, ovunque la Scrittura ne discorra, usa questa parola solo per esprimere la vita o tutto ciò che è vivente: sarebbe inutile cercare argomenti sui quali fondare la sua immortalità. Si possono invece facilmente trovare in centinaia di luoghi prove contrarie ad essa.[12] »

Nelle Scritture il termine nefesh viene infatti utilizzato per indicare indifferentemente sia l'anima che la vita corporea, mostrando come il dualismo metafisico tra mente e corpo — affermatosi nell'ebraismo successivo e contestato da Spinoza — non fosse presente nella Torah.[13] Eppure l'immortalità dell'anima era fatto passare dai rabbini come un dogma centrale, perché legato a una concezione di Dio quale demiurgo di un mondo ultraterreno, nel quale avrebbero scontato pene terribili tutti coloro che in vita fossero stati indisciplinati. La teoria dell'immortalità dell'anima — a cui si legava quella dell'inferno — era utilissima, per i rabbini, onde tenere a bada i credenti, instillando in loro la paura verso pene ultraterrene, e, di conseguenza, suscitare il rispetto nei confronti delle autorità politiche e religiose, anche perché, se si fa passare Dio come una sorta di tiranno delle anime, dal carattere crudele e vendicativo, il popolo penserà che è legittimo se pure i governanti di questa terra si arrogano il diritto di esercitare soprusi e vessazioni. Ma Spinoza, leggendo il testo ebraico delle Scritture con la mente sgombra dalle interpretazioni tradizionali, doveva essersi reso conto dell'enorme distanza intercorrente fra la profonda morale di libertà contenuta in quelle pagine e le interpretazioni che finivano col ridurre la Torah a un idolo d'oro, strumento dei potenti.
A sostenere Spinoza nel suo sforzo critico furono in primo luogo le conoscenze da lui acquisite intorno al pensiero dei filosofi ebrei Maimonide e Gersonide (di cui parleremo nel secondo capitolo) e in secondo luogo le conoscenze da lui acquisite attorno alla filosofia di Cartesio:

 
René Descartes (incisione di Balthasar Moncornot, XVII sec.)
« Allorquando Spinoza si volse allo studio della filosofia, ben presto si sentì insoddisfatto dei sistemi filosofici tradizionali, mentre si trovò perfettamente a suo agio nella filosofia di Descartes.[14] »

Anche su Cartesio dovremo tornare nel secondo capitolo.
Per inciso, si ricordi che Cartesio era giunto nel 1628 in Olanda, in cerca di libertà di pensiero, ma poi aveva preferito emigrare in Svezia, dopo che nel 1643 i docenti calvinisti dell'Università di Utrecht avevano espresso una severa condanna nei riguardi della filosofia cartesiana. Quindi, all'epoca di cui stiamo parlando, chiunque si rifacesse a Cartesio non era certo ben visto dall'élite calvinista. Eppure Spinoza — in sberleffo alla minaccia di attirarsi le ire dei calvinisti, e ancor più i furori dei rabbini — non desiderava più accettare alcun dogma teologico unicamente sulla scorta dell'autorità e della tradizione, ma riteneva che si dovesse avere il coraggio di sottoporre qualsiasi presunta verità di fede al vaglio della ragione razionale. Fu così che Spinoza scelse di abbandonare la barca del suo carontico maestro Morteira, per lasciarsi d'ora in avanti pienamente guidare, come Cartesio, dal lume del proprio spirito critico:

« si rese conto che le tesi e gli oziosi insegnamenti dei rabbini non gli servivano a nulla poiché si fondavano solo sulla loro autorità e sulla pretesa ispirazione divina piuttosto che su solide fondamenta e ragioni.[15] »

Quello che lo avrebbe allontanato dall'ortodossia rabbinica per avvicinarlo alla filosofia, sarebbe stato per Spinoza un cammino tormentato e pellegrino, carico di rischi ma ricco di soddisfazioni interiori, seppure segnato — come ora vedremo meglio — dal clamoroso e doloroso strappo dalla sua comunità d'origine.

Maledetto dagli uomini

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Il testo della scomunica di Spinoza (dagli archivi della comunità ebraica di Amsterdam)

Spinoza, gettando una maschera che gli stava stretta, non ritenne fosse il caso di nascondere al mondo lo scetticismo che aveva maturato, perché in lui era troppo forte il desiderio di verità:

« Poiché era un uomo che non tollerava la costrizione della coscienza ed era grande nemico della simulazione, manifestò chiaramente i suoi dubbi.[16] »

Dieci anni più tardi, costretto sempre più alla solitudine, Spinoza avrebbe imparato a frenare la foga di voler comunicare le proprie idee, tanto da scrivere a un suo intimo:

« ormai lascio vivere ciascuno come vuole [...] purché a me sia concesso di vivere per la verità.[17] »

Ma, nella primavera della sua vita, Spinoza sperimentava ora il suo primo amore per la libertà di pensiero, e la trepidazione non gli permetteva di mantenere segrete le nuove idee balenategli alla mente, tanto da mostrarsi mentalmente irrefrenabile, senza che, neppure con le buone, riuscissero a tenerlo quieto. Giunsero infatti a proporgli in cambio del denaro, purché, almeno esteriormente, rientrasse nei ranghi e ponesse fine allo scandalo:

« gli ebrei gli offersero la loro tolleranza, purché volesse conciliare il suo comportamento esteriore con il loro cerimoniale, promettendogli anzi una pensione annua.[16] »

Ma egli, sdegnato, dichiarò che non avrebbe accettato tale condizione neppure per una somma dieci volte superiore, dal momento che aveva di mira soltanto la verità e non l'apparenza.[18]
Di fronte a una simile pervicacia — potremmo dire a una simile "vocazione" — l'atto repressivo della scomunica (27 luglio 1656) apparve inevitabile agli occhi dei rabbini. All'interno della sinagoga, alla presenza di tutta la comunità — pur non essendo presente Spinoza, al quale il testo integrale dovette essere inviato per posta[19] — venne intonata con voce lugubre una lunga e pomposa sequela di maledizioni che incominciava così:

« In conformità della decisione del consiglio degli Angeli e del pronunciamento dei Santi, bandiamo, rinneghiamo, scacciamo, rigettiamo, insultiamo e malediciamo secondo la volontà di Dio e della sua assemblea in forza di questo Libro della Legge con le sue 613 prescrizioni, con quel bando, mediante il quale Joshua bandì la città di Gerico, con quella maledizione mediante la quale Elisa maledisse i giovani [...][20] »

...e terminava con un amen furioso, pronunciato all'unisono da tutti i presenti, che in quella circostanza avrebbero creduto di fare un'opera gradita a Dio se, uscendo dalla sinagoga, fosse loro capitata l'occasione di linciare lo scomunicato.[21]
Rintracciando i passi biblici citati nella formula, risulta in effetti chiaro quanto insaziabile odio vi si volesse esprimere. Il bando con cui Josha (Giosuè) aveva votato Gerico al completo sterminio è narrato nei testi sacri giudaici come segue:

 
Il profeta Eliseo in un'incisione del 1553
« Votarono allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino [...] In quella circostanza Giosuè fece giurare: "Maledetto davanti al Signore l'uomo che si alzerà e ricostruirà questa città di Gerico!"[22] »

La maledizione di Eliša (Eliseo) è poi — se possibile — ancora più crudele, visto che non era stata lanciata contro un popolo nemico, bensì contro alcuni giovani israeliti che avevano commesso la semplice leggerezza di rivolgere una battuta di spirito al profeta di passaggio:

« Eliseo andò a Betel. Mentre egli camminava per strada, uscirono dalla città alcuni ragazzetti che si burlarono di lui dicendo: "Vieni su, pelato! Vieni su, calvo!" Egli si voltò, li guardò e li maledisse nel nome del Signore. Allora uscirono dalla foresta due orse, che sbranarono quarantadue di quei fanciulli.[23] »

Allo stesso modo, veniva ora lanciata una maledizione terribile contro il "ragazzetto" Spinoza (quando la scomunica lo colpì aveva appena ventitré anni) per essersi permesso di contestare la presunta santità e la presunta infallibilità che i capi della congregazione attribuivano a se stessi e a un'interpretazione della Torah che faceva loro comodo.

Benedetto da Dio

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Spinoza si ritrovò completamente sradicato dal mondo in cui aveva vissuto sino ad allora. Il bando subìto non si limitava infatti ad emarginarlo dai rituali e dalle attività religiose della comunità, ma lo tagliava fuori anche da quei legami meramente sociali che avrebbero ancora potuto tenerlo in contatto con la cerchia degli ebrei osservanti. E questo perché ogni buon ebreo veniva esortato ad assumere un atteggiamento di totale non-collaborazione nei confronti di chi fosse stato scomunicato, con la seguente ammonizione:

« Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun trattato composto o scritto da lui.[24] »

Va da sé che, chi trasgrediva al divieto di tenersi a debita distanza dallo scomunicato, rischiava di essere a sua volta scomunicato:

« La scomunica ha una tale importanza tra i giudei che i migliori amici dello scomunicato non oserebbero fargli il più piccolo favore, né parlargli senza essere colpiti dalla stessa pena.[25] »

Spinoza, se avesse voluto, sarebbe forse stato ancora in tempo per tornare sui suoi passi. La scomunica veniva utilizzata dai capi della congregazione allo scopo di preservare la disciplina all'interno della comunità, e applicata quando determinate norme — che potevano essere non solo di carattere dottrinale, ma anche di carattere etico e sociale — venivano infrante. Spinoza, che era incappato nella scomunica per non aver voluto ritrattare le eresie attribuitegli quand'era chiamato in causa di fronte ai giudici della sinagoga, avrebbe potuto forse ancora rimediare con una ritrattazione in pubblico, oppure sottoponendosi ad una flagellazione penitenziale,[26] il che però non fece mai. Anzi, di lì a poco avrebbe latinizzato il suo nome Baruch, tanto infangato dalle maledizioni, in quello, dal suono più innocente, di "Benedictus". Se pure era stato maledetto dagli uomini, poteva sentirsi benedetto da Dio.
Siccome nessuno aveva preso le sue difese, Spinoza pensò di difendersi da sé, mostrando, con l'argomentazione, la bontà delle proprie idee. Compose così una Apologia (purtroppo andata perduta) nella speranza di placare l'ondata di livore che gli era montata contro.[27]
Ma probabilmente Spinoza intuiva che le ragioni valevano a poco, se bisognava difendersi da una gogna imbastita sull'accusa di empietà; era un'esperienza in cui si era già trovato Socrate duemila anni prima, e il vecchio ateniese — nell'apologia attribuitagli, capostipite del genere ripreso da Spinoza — aveva previsto che simili episodi, causati soprattutto dall'invidia degli uomini, non avrebbero mai cessato di ripetersi:

 
Un busto di Socrate
« Quello che mi infligge condanna, se pure ci sarà condanna, non sono né Meleto né Anito, bensì la calunnia e l'invidia dei più. E queste cose hanno inflitto condanna a molti altri uomini valenti e credo che ne infliggeranno anche in futuro.[28] »

Per fortuna ci è giunta — attraverso un altro scritto di Spinoza, il Trattato sull'emendazione dell'intelletto, che egli iniziò a comporre l'anno stesso della scomunica — una testimonianza autobiografica del vissuto interiore che il nostro filosofo stava attraversando in quel periodo:

« Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili [...] decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un vero bene [...] anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.[29] »

Ne deduciamo che — lungi dall'essersi allontanato dalla ricerca di Dio (l'unico bene supremo) — Spinoza era piuttosto entrato in rotta con i rabbini perché questi si erano ancorati a un'idea della vita religiosa che, per lui, era troppo arida e lontana dall'ideale biblico del Dio elargitore di gioia ed amore. Questo pensiero ci è confermato da quel che Spinoza scrive qualche riga più avanti, spiegando chiaramente che ciò da cui egli voleva emanciparsi non erano tanto le solide virtù etiche raccomandate dalle Scritture, bensì le vanità mondane della gente comune:

« Le cose che si incontrano per lo più nella vita e sono considerate dagli uomini come bene supremo [...] si riducono a queste tre: ricchezza, onore e piacere. Queste cose disorientano a tal punto la mente da renderla del tutto incapace di pensare a qualche altro bene.[30] »
 
Mosè porta l'acqua presa dalla roccia (Jacopo da Ponte, XVI sec.)

Parleremo della filosofia del Trattato sull'emendazione dell'intelletto nel secondo capitolo. Per ora, basti sottolineare come la ricchezza e l'onore fossero quelle stesse vanità che — dal punto di vista di Spinoza — avevano disorientato la mente dei rabbini di Talmud-Torah (come allora veniva chiamata la congregazione ebraica di Amsterdam), se i loro pensieri erano divenuti così tronfi e chiusi in se stessi da perdere ogni slancio di ricerca critica e ogni sentimento di benevolenza e di tolleranza verso le idee altrui.

L'esodo

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Nonostante le spaventose maledizioni in essa contenute, il buon Spinoza accolse la scomunica senza spavento, anzi con sollievo:

« Alla buon'ora, — disse a colui che gli recò la notizia — non mi si costringe a nulla che non avrei fatto da me stesso.[31] »

Pare che — ancor prima che la sentenza venisse pronunciata — Spinoza già si preparasse col cuore in pace ad intraprendere l'esilio di propria iniziativa, come una missione da compiere:

« Intraprendo con gioia la via che mi si è aperta, con la consolazione che il mio esodo sarà più innocente di quello dei primi ebrei dall'Egitto, benché il mio sostentamento non sia più assicurato del loro: non ho mai rubato niente a nessuno, e qualsiasi ingiustizia mi si faccia, posso vantarmi di non aver nulla da rimproverarmi.[32] »

Anche Spinoza — al pari dei suoi accusatori — cita dunque i testi sacri, ma da un punto di vista del tutto diverso. Non per maledire, ma per cercare umilmente un personale cammino di libertà. Egli non si identifica con i profeti onniscienti e onnipotenti che compirono nei tempi prosperi d'Israele numerosi e terribili prodigi, bensì con il dimesso popolo israelita che ai tempi della schiavitù egizia, oppresso da un'iniqua tirannia, si apprestava ad attraversare prima il mare e poi il deserto alla ricerca di una terra promessa e di un sogno di libertà.
Per Spinoza la religione dei rabbini si è resa simile a quella dell'impero egiziano: arida e falsa, istituita con l'unica funzione di giustificare le ingiustizie tramite l'esercizio della forza e della vessazione. Spinoza ha sete di verità e — come l'antico popolo israelita — intraprende con gioia il cammino che ad essa conduce, nonostante tale cammino gli crei non pochi nemici.
Egli nota, con tranquilla autoironia, che il suo esodo sarà ancora più innocente di quello dei primi ebrei dall'Egitto, poiché Dio non invia in suo favore nessuna delle dieci piaghe contro coloro che lo opprimono, né prima della fuga gli dà occasione di rubare oggetti d'oro e d'argento da portare con sé nella terra promessa.
Nonostante il suo desiderio di compiere un lungo viaggio — e nonostante i rischi che correva trattenendosi nei pressi della città — in un primo tempo Spinoza non si spostò di molto e rimase sulle rive dell'Amstel, lungo la via per il villaggio di Ouwerkerk:

 
Il cimitero ebraico di Ouwerkerk
« Spinoza, che aveva trovato un asilo dove si credeva al riparo dagli insulti dei giudei, non pensava che a progredire nelle scienze umane.[33] »

Quel riparo — dove Spinoza ricominciò subito i suoi studi — era proprio vicino al cimitero ebraico dove riposavano suo padre e sua madre.[34] Sappiamo che Spinoza aveva dovuto abituarsi sin dall'infanzia a badare a se stesso, poiché la madre gli era morta all'età di sei anni e, poco prima della scomunica, gli era morto anche il padre, lasciando in eredità sulle sue spalle nient'altro che una montagna di debiti. Spinoza, oltre che la solitudine, doveva quindi patire anche la povertà.
Morteira, dal canto suo, non era ancora pago di vendetta e si sentiva ossessionato dal ricordo dell'ex-discepolo, perciò si rivolse ai magistrati di Amsterdam insistendo affinché Spinoza fosse ufficialmente bandito dal territorio cittadino:

« Si fece accompagnare da un rabbino della sua stessa tempra dai magistrati, ai quali fece presente che aveva scomunicato Spinoza non per ordinarie ragioni ma per esacrabili bestemmie contro Mosè e contro Dio. Condì l'impostura con tutte le ragioni che un santo odio ispira a un cuore irriconoscibile e chiese infine che l'accusato fosse bandito da Amsterdam.[35] »
 
La casa di Spinoza a Rijnsburg, successivamente trasformata in un museo a lui dedicato

Spinoza dovette così salutare per l'ultima volta le tombe dei suoi genitori ed emigrare verso lidi più solitari e tranquilli, trovando sistemazione nel 1660 vicino Leida, presso un paesino campagnolo di nome Rijnsburg.[36] Nel medesimo anno Morteira morì e fu sepolto in quello stesso cimitero che Spinoza non poteva più visitare.[37] Ancora oggi — sulla facciata della casa di Rijnsburg in cui andò ad abitare Spinoza — è leggibile un'epigrafe datata proprio al 1660, che fu forse fatta scrivere dal nostro filosofo al suo arrivo nella nuova dimora:

« Ah! Se tutti gli uomini fossero saggi
e se, inoltre, volessero il bene
la terra sarebbe per loro un paradiso
mentre ora essa è per lo più un inferno.[38] »

Si trattava di una citazione dalle Rime esemplari del poeta D.R. Kamphuijsen. Spinoza sapeva bene che il paradiso, prima ancora che in cielo, va cercato su questa terra costruendo la pace e la libertà per tutti gli uomini, e può essere trovato da ciascun individuo dentro di sé, se si mettono da parte gli odi e i sentimenti violenti. Era il progetto a cui Spinoza intendeva dedicare la propria vita.

La terra promessa

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Ora che il suo esodo l'aveva condotto a Rijnsburg, Spinoza fu costretto ad abbandonare del tutto l'attività mercantile a cui suo padre si era un tempo dedicato, trovando per sé un lavoro più tranquillo. Quand'era ad Amsterdam, aveva forse coltivato il sogno di fare l'attore, visto che sappiamo di alcune sue comparsate a teatro in ruoli terenziani[39], ma, adesso che era finito in campagna, gli occorreva guadagnarsi da vivere nella maniera più onesta. Spinoza si specializzò quindi nel mestiere di levigare le lenti:

 
L'apostolo con gli occhiali (Conrad von Soest, 1403)
« Si ritirò in campagna ove poteva meditare con tutta tranquillità, dedicandosi a microscopi e a telescopi.[40] »

In fatto di lenti, Spinoza instaurò una proficua corrispondenza con Johannes Hudde (un celebre ottico)[41] e con Jarig Jelles (un cristiano mennonita che si interessava un po' di tutto e che dopo la morte di Spinoza scrisse una prefazione alle sue Opere postume)[42]. Spinoza, che scambiò opinioni di diottrica anche con Gottfried Wilhelm Leibniz[43], acquisì nel mestiere, oltre a una profonda competenza teorica, anche una notevole perizia manuale, diventando tanto abile che lo stesso Leibniz lo definì:

« un ottico di livello notevole, creatore di famosi microscopi.[44] »

Da autodidatta apprese inoltre l'arte del ritratto con inchiostro e carboncino, con cui si ingegnò di ritrarre personalità famose di cui condivideva gli ideali di libertà, come è riferito da Colerus, che ebbe modo di sfogliare un suo quaderno di schizzi e di restarne sorpreso:

« Ebbi tra mano un intero libretto di queste sue opere [...] Tra gli altri vi trovai al quarto foglio un pescatore ritratto in camicia con una rete sulla spalla destra: proprio come compare nell'iconografia il famigerato capo degli insorti napoletani Masaniello. [...] Tacerò, non senza ragione, di altre personalità ivi ritratte.[45] »

A Spinoza il lavoro manuale serviva per mantenersi, ma la necessità di darsi da fare nel molare lenti faceva anche parte di un ideale morale — trasmessogli dai vecchi maestri della sinagoga, dei cui insegnamenti aveva trattenuto il meglio — secondo il quale non può esserci un proficuo studio della filosofia che non sia accompagnato da un mestiere, altrimenti mente e corpo finiscono col cadere insieme nella melma dell'infiacchimento:

« Spinoza, quale dotto giudeo, sapeva bene che secondo la Legge e il consiglio dei vecchi maestri giudei, oltre a studiare, si doveva apprendere un mestiere o un'arte meccanica per mantenersi.[46] »

E ovviamente, oltre ad esercitare un'arte meccanica, Spinoza non smise di esercitare sempre più il proprio intelletto (di questi anni sono il Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene e i Principi della filosofia di Cartesio), anche di notte:

« Non pensava altro che a studiare, e studiando passava la migliore parte della notte.[47] »

Le notti insonni, ricche di riflessioni, permisero a Spinoza di scoprire falle ed errori in quegli scritti di Cartesio che lo avevano dapprima appassionato, tanto che ciò causò sconcerto e arrabbiature fra i seguaci del filosofo francese:

« I suoi amici, la più parte dei quali erano cartesiani, gli sottoposero delle difficoltà che essi ritenevano risolvibili solo mediante i principi del loro maestro. Spinoza li liberò da quest'errore [...] accontentandoli mediante ragioni del tutto opposte [...] Costoro, tornati a casa, mancò poco che si facessero ammazzare per aver detto in giro che Descartes non era il solo filosofo che meritasse considerazione.[48] »

Spinoza continuò a trascorrere ogni giorno della sua vita alternandosi fra lavoro intellettuale e manuale, pur quando si sistemò in un villaggio più grande chiamato Voorburg (nel 1663) e poi ancora quando, trasferitosi all'Aja (nel 1670), poté riabituarsi alla vita cittadina, passando così gli ultimi anni della propria esistenza. Può darsi che alla sua morte prematura (nel 1677, a soli quarantaquattro anni) abbiano contribuito proprio le polveri di vetro che era costretto a respirare durante il lavoro, esacerbando i problemi di respirazione di cui soffriva fin da giovane.[49] Del resto, già la madre aveva sofferto di tisi e forse Spinoza contrasse proprio da lei, sin da bambino, questa malattia estenuante e dal lento decorso:[50]

« Poiché durante la sua vita non aveva mai goduto di ottima salute, aveva imparato a soffrire fin dalla più tenera età: mai nessuno conobbe meglio di lui questa scienza.[51] »

È commovente pensare a quante avversità dovette sopportare, nella sua breve vita, questo ometto di esile corporatura e di bassa statura[52], istruendosi alla "scienza" del dolore. Eppure, chi ebbe la fortuna di conoscerlo ne parlò come di una persona costantemente ottimista e solare:

« In ogni momento, egli era sempre dello stesso gradevole umore. [...] Per ciò che concerne lo spirito, l'aveva grande e penetrante ed era di carattere assolutamente cortese. Sapeva motteggiare così bene che le persone più raffinate e più austere vi trovavano un fascino del tutto particolare.[53] »

Forse è una caratteristica di chi soffre molto in tenera età, quella di riuscire, una volta adulto, ad apprezzare con gusto le gioie della vita e a dischiudere le porte a una filosofia che abbia come proprio perno l'esaltazione della vita stessa e la ricerca concreta della felicità.[54]
Spinoza certo non disprezzava, né per sé né per gli altri, tutto ciò che la natura ha da offrire, ma sapeva anzi coniugare perfettamente i piaceri dello spirito con quelli del corpo:

« Il fine di tutte le sue azioni era la virtù. Ma, dal momento che non ne aveva un'idea spaventevole come gli stoici, non era nemico dei piaceri onesti.[55] »

Tra i piaceri onesti, Spinoza amava l'eleganza del vestire, distinguendosi in ciò da quei filosofi antichi che pensavano di far risaltare le proprie qualità interiori ostentando una trasandatezza esteriore. Al contrario, Spinoza era persuaso che la scelta di abbrutirsi fosse anch'essa una vanità ben distante dalla sapienza:

« Egli aveva un qualità in tanto più apprezzabile in quanto raramente si trova in un filosofo, ossia d'essere estremamente elegante: non usciva mai di casa senza indossare i suoi abiti [...] Non è, diceva, l'aria sciatta e trascurata che ci rende sapienti. Al contrario, aggiungeva, la negligenza affettata è segno di un animo basso.[56] »

Del resto, capitò un giorno che Spinoza ricevesse una visita mentre indossava una modesta veste da camera, e che l'avventore lo rimproverasse per questo. Spinoza rispose con un motto di spirito, osservando che, se il vestito è importante, esso certo non può trasformare la sostanza dell'uomo che vi è contenuto:

« Una volta, perché in casa indossava una sciatta veste da camera, fu biasimato da un importante consigliere, il quale gliene offrì una nuova. Al che rispose: "Diventerò così un altro uomo? È assurdo che il contenitore della carne sia migliore di ciò che in esso si trova".[57] »

In effetti, ciò che colpivano in Spinoza erano soprattutto la mitezza e il senso della misura: qualità che non ci si sarebbe mai aspettati di trovare in un individuo accusato di empietà e di ateismo:

« È quasi incredibile come abbia vissuto sobriamente [...] Sapeva meravigliosamente temperare le passioni. [...] Era in grado di padroneggiare piuttosto bene la sua collera e la sua contrarietà o di tenersele dentro lasciandole trasparire solo mediante un segno o poche brevi parole oppure, per timore che le passioni potessero avere la meglio, si alzava e se ne andava.[58] »

Paradossalmente, anche chi reputava atee le sue idee testimoniava che era impossibile sentir pronunciare in pubblico dalle sue labbra qualche parola irriverente verso la religione:

« Se si eccettuano i discorsi che egli faceva in confidenza ai suoi intimi amici che volevano anche essere suoi discepoli, in conversazione gli non diceva mai nulla che non fosse edificante. Non giurava mai, non parlava mai irriverentemente della maestà divina.[47] »

La sua capacità di essere felice con poco lo rendeva estremamente generoso e disponibile verso gli altri, ai quali riteneva giusto fare del bene senza aspettarsi nulla in cambio:

« Prestava di quel poco che aveva [...] con tanta generosità quanta ne avrebbe avuta nell'opulenza. Avendo appreso che un uomo che gli doveva duecento fiorini aveva fatto bancarotta, ben lungi dall'esserne turbato, "bisognerà, disse sorridendo, limitare le spese correnti per porre rimedio a questa piccola perdita. È a questo prezzo, aggiunse, che si acquista la fermezza".[59] »

Si può dire che le avversità che dovette sopportare in vita — se da un lato lo resero capace di accontentarsi e di essere felice anche nella ristrettezza — dall'altro lo resero più sensibile al dolore altrui e quindi sollecito verso chi gli chiedeva un aiuto. Mentre la maggior parte delle persone prova indifferenza o addirittura gioia per le sventure altrui, è infatti qualità di un animo elevato il rattristarsi per le sofferenze degli estranei così come se fossero le proprie, cercando in ogni modo di essere loro di aiuto nelle difficoltà:

 
Il buon pastore (Murillo, 1650 ca.)
« se era sensibile a qualche dolore, era al dolore altrui. "Reputare il male meno forte quando l'abbiamo in comune con molte altre persone è, diceva, un grande segno di ignoranza e significa mostrare tanto poco buon senso quanto annoverare tra le consolazioni le afflizioni patite in comune".[60] »

Quanto amore per il prossimo mostrava proprio lui che era così odiato! Può assalire la tentazione (in cui incapparono, tra gli altri, J.G. Herder e F.D.E. Schleiermacher)[61] di accostare la vita di Spinoza a quella di Cristo, che, di fronte all'odio, espresse le più alte parole di amore:

« se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.[62] »

Spinoza, come Cristo, non risparmiava amore neppure nei confronti di coloro che lo odiavano:

« non lo si udì mai esprimere risentimento verso coloro che lo attaccavano.[63] »

D'altra parte, il fatto che Spinoza vivesse seguendo delle regole etiche simili a quelle di Cristo non implica che egli avesse motivo di compiere un atto formale di adesione al cristianesimo. Spinoza, allontanatosi dalla comunità ebraica, frequentò alcuni appartenenti a congreghe cristiane di tipo liberale e anticlericale — come i mennoniti o i collegianti, per i quali era centrale il precetto dell'amore e del rispetto verso il prossimo — e ne restò ben impressionato.[64] Ma dal suo punto di vista le regole etiche raccomandate da Cristo erano le medesime già raccomandate dalla Torah, nonché le stesse che ogni filosofia onesta, nella ricerca di un'etica razionale, giungeva a raccomandare. Per Spinoza, il Dio dell'autentica religione (fosse ebrea o cristiana) e il Dio dell'autentica filosofia coincidevano. Proprio questa affinità aconfessionale tra la vita di Spinoza e quella di Cristo (così come fra i loro insegnamenti) veniva sottolineata da Jelles nella prefazione alle Opere postume dell'amico:

« Le cose più importanti che, secondo la dimostrazione del nostro autore, la ragione o l'intelletto prescrivono intorno alla regola del ben vivere [...] se ora si confrontano con quelle che, sullo stesso argomento, vengono mostrate e insegnate da Cristo [...] si constaterà assai chiaramente che vi è tra esse una somiglianza molto grande [...] Dato che tutti gli insegnamenti di Cristo [...] sono compresi in un unico principio: che si deve amare Dio sopra tutto e il nostro prossimo come noi stessi.[65] »

L'aspetto religioso del pensiero di Spinoza sarà argomento del secondo capitolo. Per ora basti considerare che, forse, fu nella meravigliosa serenità d'animo sopra descritta — cercata e poi trovata al termine dell'esodo dalla comunità dove aveva trascorso la giovinezza, in cui si era sentito soffocare tra paure e vessazioni — fu proprio raggiungendo questa libertà d'animo che Spinoza trovò la sua tanto agognata terra promessa.

La coerenza del filosofo

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Gottfried Wilhelm von Leibniz (ritratto conservato presso la Biblioteca di Hannover)

Secondo Spinoza la vita di una persona è lo specchio di ciò che ella realmente pensa e desidera. Ad un critico che lo accusò di essere un ateo, infatti non rispose citando i propri scritti, ma il proprio modo di vivere:

« Egli dice che poco gli importa di sapere a quale gente io appartenga o quale regola di vita segua; ma se l'avesse saputo, non si sarebbe così facilmente convinto che io insegni l'ateismo. Infatti gli atei cercano oltre misura gli onori e le ricchezze, che io ho sempre disprezzato, come sanno tutti quelli che mi conoscono.[66] »

La maniera più immediata per capire ciò che una persona è, consiste anzitutto nel basarsi sul modo in cui vive, non sulle idee che esprime a parole. Prima di permettere che l'Etica fosse fatta leggere a Leibniz, Spinoza dunque non si preoccupò di quali fossero le idee di costui, ma di quali ne fossero le abitudini quotidiane e i costumi.[67] Egli sapeva di correre un grosso pericolo se la sua opera principale (pubblicata poi soltanto postuma, nel 1677, da parte dei più fidi conoscenti) fosse finita nelle mani di un uomo che, seppure versato in tutte le scienze, si fosse rivelato ambizioso e opportunista, così come in effetti era Leibniz. Spinoza, ponderata la situazione, raccomandò all'amico Tschirnhaus di non mostrare il manoscritto a Leibniz, sicché Tschirnhaus si limitò a riferire a questi alcune informazioni sui pensieri contenuti nell'Etica. Leibniz non risparmiò critiche alla filosofia spinoziana, ma mantenne un buona opinione di Spinoza come persona (e una volta lo andò persino a trovare, cenando con lui) non capacitandosi di come questi potesse, pur avendo un animo così fine e cortese, professare credenze tanto eterodosse su Dio.[68]

La conclusione di Leibniz fu di ritenere Spinoza un individuo la cui vita era incoerente con le idee, non però alla stregua di quei filosofi che predicano bene e razzolano male (cosa molto comune), ma al contrario di quegli altri che predicano male e razzolano bene:

« quanti giungono con la speculazione a farsi idee sbagliate sono, non soltanto meno inclini della gente ordinaria al vizio, ma ci tengono anche a tenere alto il nome della setta di cui sono, per così dire, i capi. Epicuro e Spinoza, ad esempio, possiamo ben dire che hanno condotto vite esemplari.[69] »

Così, mentre Leibniz trascorreva l'esistenza girando l'Europa da una corte all'altra, scrivendo su commissione e facendo la bella vita con l'ingraziarsi i favori dei potenti, Spinoza continuava a lavorare onestamente in povertà, senza mai scrivere una parola di cui realmente non fosse convinto, e soltanto una volta gli venne offerta l'occasione per salire alla ribalta. Nel 1673 ricevette infatti, per conto di Karl Ludwig — Elettore Palatino alla guida di uno degli stati tedeschi — la lusinghiera proposta di insegnare, potendo godere di tutti i correlati privilegi, presso l'Università di Heidelberg, tra le più grandi d'Europa. Nella lettera non si mancava di garantirgli un ottimo stipendio e

 
Sigillo dell'Università di Heidelberg
« la più ampia libertà di filosofare, della quale [l'Elettore Palatino] confida non abuserete allo scopo di perturbare la religione pubblicamente confessata.[70] »

Spinoza ci rifletté sopra un intero mese, finché impugnò la penna e rispose di essere costretto a rifiutare. In primo luogo perché, se avesse dovuto dedicarsi all'educazione dei giovani studenti, gli sarebbe stato impossibile proseguire con la medesima dedizione alla stesura delle sue opere filosofiche. Spinoza, del resto, era fatto così:

« Aveva per la ricerca della verità una passione così forte da rinunciare, in una certa misura, al mondo, per meglio attendere ad essa.[71] »

Ma in secondo luogo — fattore ancora più determinante — Spinoza rispedì al mittente l'offerta perché, per amor di coerenza, non avrebbe mai saputo dissimulare le proprie idee in favore di altre maggiormente in linea con la "religione pubblicamente confessata":

« Io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella libertà di filosofare, perché io non sembri voler perturbare la religione pubblicamente costituita.[72] »

Nessun compromesso, quindi, alla libertà di filosofare. Se ad essa venivano posti dei limiti, non era terreno per Spinoza.
Non c'era bene di questo mondo in cambio del quale Spinoza avrebbe potuto rinunciare alla propria chiarezza interiore. E se la verità, che tanto gli stava a cuore, non poteva esprimerla agli altri in tutto il suo splendore, preferiva stare zitto, piuttosto che mascherarla con parole ipocrite e gradite al delicato stomaco dei bigotti. Non gli interessavano né il denaro né la gloria, ma soltanto la verità, quella verità che, se anche per assurdo un giorno si fosse rivelata falsa, certo non mancava di garantirgli la serenità per il presente:

« Se anche il frutto che ho già ricavato dall'intelletto naturale dovesse un giorno risultarmi falso, basterebbe a rendermi felice il fatto che ne godo e che mi studio di trascorrere la vita non nella tristezza e nel lamento, ma in tranquillità e serena letizia.[73] »

Il prezzo della verità

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Un'illustrazione del 1784, che mostra un individuo deciso a pugnalare Spinoza

Spinoza conservò per tutta la vita tra i suoi vecchi abiti una giacchetta lacerata, che risaliva ai tempi in cui ancora alloggiava ad Amsterdam. Ogni tanto, rivolgendo lo sguardo al passato, raccontava ai suoi conoscenti il motivo per cui era affezionato a quello straccio:

« Mentre una sera usciva dalla vecchia sinagoga portoghese, fu aggredito con un pugnale: accorgendosene si girò e così il colpo cadde sui suoi abiti.[74] »

Ad attentare alla sua vita può darsi fosse stato uno zelante seguace di Morteira, desideroso di annegare nel sangue le idee di libertà a causa delle quali Spinoza già era stato scomunicato e maledetto. Secondo un'altra testimonianza, lo spiacevole avvenimento non accadde fuori dalla sinagoga, ma all'uscita da teatro, e fu anche in seguito a questo spavento che il nostro pacifico e cauto filosofo si affrettò a partire per Rijnsburg:

« Si allontanò soltanto a poco a poco dalla sinagoga, e forse avrebbe conservato più a lungo qualche contatto con loro, se, un giorno, uscendo da teatro, non fosse stato assalito a tradimento da un ebreo, che gli assestò un colpo di pugnale. La ferita era leggera, ma egli ritenne che l'intenzione del criminale fosse di ucciderlo.[16] »

Spinoza, in seguito, dovette continuare a guardarsi le spalle non soltanto dalle pugnalate dei nemici, ma persino da quelle degli "amici". Nonostante accogliesse con affetto chiunque lo venisse a trovare, la maggior parte delle volte, purtroppo, tali rapporti gli arrecavano delle inaspettate delusioni e il suo animo sensibile ne restava ferito:

« Tra tutti coloro che lo frequentavano non vi era chi non gli testimoniasse una particolare amicizia. Tuttavia, poiché non vi è nulla di così segreto come il cuore umano, si vide poi che la maggior parte di quelle amicizie erano finte [...] Quei falsi amici che in apparenza lo adoravano, di nascosto lo straziavano sia per rendersi graditi ai potenti [...] sia per acquistare fama disputando con lui.[75] »

Una brutta delusione colpì Spinoza quando gli arrivò la lettera di un vecchio "amico" che non sentiva da anni, Albert Burgh. Questi gli scriveva per informarlo di essersi convertito al cattolicesimo e lo invitava a fare altrettanto, utilizzando un argomento che a Spinoza non dovette sembrar nuovo, vale a dire la minaccia dell'inferno:

« Se non ascolti Dio che ti chiama, la sua ira si accenderà contro di te e c'è pericolo che tu sia abbandonato dalla sua infinita misericordia e finisca misera vittima del giudizio divino, che tutto consuma nell'ira.[76] »

Il voltafaccia fu un atteggiamento che Spinoza dovette abituarsi a subire, lasciando in sospeso ogni desiderio di possedere degli amici fedeli. Ciò in cui egli non smise mai di nutrire fiducia fu invece la verità:

 
I corpi dei fratelli de Witt (dipinto attribuito a Jan de Baen, fine XVII – inizio XVIII sec.)
« Un giorno, avendo appreso che uno dei suoi più grandi ammiratori cercava di aizzargli contro il popolo e i magistrati, egli disse senza emozione: "non è da oggi che la verità costa cara: non sarà la maldicenza che me la farà abbandonare".[77] »

Proprio a causa del suo amore per la verità, Spinoza rischiò ancora di essere linciato. Nel 1672, all'Aja, i predicatori calvinisti aizzarono la folla contro il "Pensionario degli Stati d'Olanda" (cioè l'autorità politica allora in capo alla repubblica) Johan De Witt, definito da Steven Nadler

« forse il più grande (e senz'altro il più astuto) statista della storia d'Olanda.[78] »

Johan si stava recando a visitare suo fratello Cornelis, rinchiuso in carcere come traditore, dopo che una sommossa popolare aveva acclamato Guglielmo III d'Orange come Stadholder, affinché difendesse l'indipendenza olandese dalle mire espansionistiche del re di Francia Luigi XIV e vendicasse le umiliazioni subite nelle guerre contro l'Inghilterra. La folla, in breve tempo, si lanciò su Johan e Cornelis, li fece a pezzi e ne appese i resti. Spinoza, che stimava i De Witt per i loro princìpi repubblicani e diplomatici, ne rimase terribilmente scosso, nonostante per lui non fosse una novità la barbarie di cui gli uomini sanno rendersi artefici:

« Sebbene sapesse meglio di chiunque altro di che cosa gli uomini sono capaci, non si trattenne dal fremere di fronte a tale crudele e raccapricciante spettacolo.[79] »

Spinoza pensò, quella stessa notte, di recarsi sul luogo del massacro a compiere un plateale gesto di dissenso contro la folla; cosa che però il suo padrone di casa gli impedì di fare, chiudendo la porta a chiave, perché non voleva che il suo affittuario andasse incontro alla medesima sorte dei De Witt:

« Il giorno del massacro dei De Witt voleva uscire di notte per andare a riporre una lapide sul luogo del massacro, con sopra scritto Ultimi barbarorum. Ma il suo padrone di casa era poi riuscito a impedirglielo.[80] »

Tale coraggio si spiega perché Spinoza era stato legato con Johan De Witt da un personale rapporto di amicizia:

« Spinoza ebbe il privilegio di conoscere il signor pensionario De Witt, che volle apprendere da lui le matematiche e che gli fece sovente l'onore di consultarlo su importanti materie.[81] »

Inoltre, Johan gli aveva garantito una rendita di duecento fiorini, su cui Spinoza fondava buona parte del proprio sostentamento, visto che la salute gli permetteva sempre meno di dedicarsi al lavoro manuale. Dopo gli episodi avvenuti all'Aja, Spinoza chiese agli eredi del suo defunto mecenate se potevano mantenergli la rendita, ma

« dato che mostrarono qualche difficoltà a mantenergliela, la restituì con tanta tranquillità quanta ne avrebbe avuta se avesse goduto di altri cespiti. Essi poi, fatti rientrare in sé da queste maniere disinteressate, gli concessero con gioia ciò che gli avevano appena rifiutato.[81] »
 
Luigi II di Borbone nel dipinto Louis, Grand Condé di Justus van Egmont

Grazie a questa concessione, Spinoza poté concludere dignitosamente i propri giorni, ma non prima di aver corso un altro grave rischio. Nel 1673, egli fu invitato a Utrecht dal principe di Condé Luigi II di Borbone, che stava guidando alla vittoria l'esercito francese di Luigi XIV nella guerra d'Olanda.

« Il signor principe di Condé, che era quasi altrettanto colto che coraggioso e non disprezzava la conversazione con le persone spregiudicate, ebbe voglia di vedere Spinoza e gli procurò il lasciacondotto per il viaggio a Utrecht.[82] »

Il principe, collezionista di libri oltre che di armi, aveva sentito parlare della filosofia di Spinoza e, restatone affascinato, desiderava conoscerlo di persona col proposito di offrirgli una pensione annua se avesse dedicato uno dei suoi scritti al re di Francia. Spinoza, lusingato dall'invito, intraprese l'arduo viaggio e attraversò le linee nemiche, senza però riuscire ad incontrare il principe, al quale del resto si premurò di far sapere che non aveva l'intenzione di dedicare nessuno dei propri scritti al re di Francia. Eppure, tornato all'Aja,

« il volgo gli diede addosso dandogli della spia e insinuando che avesse contatti con i francesi concernenti gli affari degli stati e della religione.[83] »

Siccome qualcuno avrebbe potuto entrare con violenza alla ricerca di Spinoza, il padrone di casa era inquieto e temeva per la propria famiglia. Al che Spinoza si sentì in dovere di tranquillizzarlo:

« Nessuna preoccupazione per questo. Sono innocente e ci sono molte persone importanti che sanno bene perché mi sono recato a Utrecht. Così non appena sente un rumore dietro la porta, uscirò al cospetto di quegli uomini, anche se avessero intenzione di trattarmi come i buoni signori De Witt. Sono un retto repubblicano e il meglio per la repubblica è il mio fine.[83] »

C'è da credere che egli avesse più a cuore la corretta informazione del popolo riguardo agli affari dello stato, che non la propria incolumità personale!

Rose selvatiche

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Era una rosa selvatica, accostata alla parola "caute", l'emblema scelto da Spinoza come sigillo da imprimere sulle lettere destinate alla corrispondenza: egli sapeva che, per non sciupare quel fiore delicato che era la sua vita spregiudicata, gli occorreva muoversi in tutte le azioni con ponderata prudenza.[84] Del resto, come abbiamo visto, il suo carattere lo spingeva ad agire nelle situazioni decisive con la più inflessibile coerenza e il più indomito coraggio, correndo rischi notevoli. Vi furono personaggi del suo stesso temperamento che quei rischi non ebbero la fortuna di scamparli, andando incontro a una fine peggiore.
Nel 1640, quando Spinoza era ancora un fanciullo di otto anni, la comunità ebraica di Amsterdam venne scossa dal suicidio di uno tra i suoi membri più discussi: il libero pensatore Uriel De Costa. Egli, nato da una famiglia cristiana portoghese, si era convertito all'ebraismo dopo aver studiato da autodidatta la Torah, nella quale aveva scoperto una spiritualità libera e profonda di cui si era innamorato. Giungendo ad Amsterdam col desiderio di condividere la sua nuova fede assieme ad altri giudei, restò inorridito da quanto l'interpretazione rabbinica storpiasse e inaridisse — secondo il suo modo di vedere — l'originario sentimento religioso della Legge Mosaica, tanto che si sentì in dovere di far sentire subito la sua voce:

« basando i miei argomenti sulla legge stessa, mostrerò esplicitamente la vanità delle tradizioni e delle osservanze dei Farisei, così come la discrepanza tra le loro tradizioni e istituzioni da una parte, e la Legge Mosaica dall'altra.[85] »

De Costa pubblicò le sue opinioni in un libro, incorrendo così non soltanto nelle ire dei rabbini (che lo scomunicarono), ma anche in quelle dei cristiani, che lo fecero multare e arrestare, mal sopportando il fatto che egli negasse l'immortalità dell'anima. Infatti De Costa sosteneva che non vi fosse traccia nella Torah di accenni a un mondo ultraterreno, e che su tale argomento si sbagliassero sia le tradizioni ebraiche successive, raccolte nel Talmud, sia il Nuovo Testamento cristiano.
Egli, uscito di prigione, ritrattò pubblicamente le proprie tesi, perché, trovandosi in guai finanziari, aveva urgente bisogno di essere riammesso nella comunità ebraica. Ma i sussulti della coscienza lo fecero in seguito tornare ad esprimere con sincerità i propri dubbi spirituali, il che gli causò una seconda scomunica. Nella sua autobiografia, intitolata Un modello di vita umana[86], De Costa avrebbe riferito il rituale a cui dovette sottoporsi affinché anche il secondo bando venisse annullato:

 
L'interno della Sinagoga portoghese di Amsterdam (Emanuel de Witte, 1680 ca.)
« Entrai nella sinagoga. Era piena di uomini e donne riunitisi per lo spettacolo [...] la guardia mi disse di spogliarmi [...] si avvicinò il cantore, prese la frusta e mi rifilò trentanove scudisciate [...] Quando tutto fu finito, mi ritrovai seduto a terra, un cantore o chachamim si avvicinò a me e mi liberò dalla scomunica [...] tutti coloro che uscivano dalla sinagoga mi passarono sopra, camminando sulle parti basse del mio corpo. [...] Quando la cerimonia era finita, e non era rimasto più nessuno, mi alzai. Coloro che mi erano a fianco mi tolsero di dosso la sporcizia. E me ne tornai a casa.[87] »

L'umiliazione fu troppo grande. Terminate di scrivere le proprie memorie, si sparò un colpo di pistola alla testa.[88]
Se De Costa può aver avuto su Spinoza soltanto un'influenza indiretta, vi fu un altro libero pensatore che Spinoza conobbe invece personalmente e che fu per lui un maestro nel vero senso della parola: Franciscus Van den Enden. Costui non era ebreo, ma aveva studiato per diventare sacerdote gesuita, venendo però cacciato dall'ordine a causa del suo irreprensibile amore per le donne e delle sue opinioni poco ortodosse in materia di fede.[89] Negli anni cinquanta del Seicento, Van den Enden viveva ad Amsterdam tenendo lezioni di lettere classiche, filosofia[90] e scienze moderne. Spinoza, oltre a seguire con interesse queste lezioni — apprendendo così la lingua latina che avrebbe poi utilizzato per stilare le sue opere — recitava nelle rappresentazioni teatrali allestite da Van den Enden, in cui venivano messi in scena Terenzio (specie le commedie Eunuchus e Andria) e i classici greci.[91]
Ma Van den Enden era appassionato soprattutto di tematiche politiche, ammirando i princìpi repubblicani a cui l'Olanda si ispirava, seppure li ritenesse ancora imperfetti. Il suo sogno era quello di una autentica democrazia, in cui vi fosse uguaglianza di diritti fra tutti i cittadini, specialmente nel poter manifestare le proprie idee religiose o filosofiche. Quindi più nessuna autorità clericale che detta regole di fede, poiché anzi per Van den Enden la vera fede non ha a che vedere con le regole esteriori, bensì soltanto con quella disposizione interiore e soggettiva che spinge l'individuo ad un amore disinteressato verso Dio e il prossimo. Egli citava il passo evangelico in cui Gesù dice:

« "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente." Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: "Amerai il prossimo tuo come te stesso." Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.[92] »

Van den Enden elabora l'idea — che verrà ripresa da Spinoza nel Trattato teologico-politico — secondo cui non solo le libertà concesse ai cittadini non sono dannose per la sicurezza e la concordia dello stato, ma anzi sono proprio tali libertà a rendere lo stato vivibile e sicuro.[93] Desideroso di contribuire di persona — oltre che con gli scritti e le parole — alla realizzazione di una società pienamente liberale, egli rimase coinvolto in un complotto ai danni della corona di Francia. Arrestato come cospiratore, venne impiccato alla Bastiglia nel 1674.[94]
Ideali democratici nutrì anche Adriaan Koerbagh, medico e avvocato, che fu tra i pochi amici onesti di Spinoza e che già prima di Van den Enden andò incontro a una pessima fine. Koerbagh conobbe Spinoza negli anni sessanta, condividendo con lui opinioni simili intorno alla religione e alla politica, ricevendo così l'onore di essere tra i primi a leggere il manoscritto ancora incompiuto del Trattato teologico-politico. Proprio quest'opera lo rinsaldò nella sua convinzione che le religioni istituzionalizzate non fossero altro che accozzaglie di superstizioni, costruite sull'ignoranza delle masse da parte di persone interessate al potere, e che la vera religione consistesse invece unicamente nell'amore per il prossimo.
Nel 1668 Koerbagh pubblicò un libro dal titolo Un giardino di fiori di ogni sorta di bellezza, in cui — oltre a criticare quelle componenti della religione istituzionalizzata contrarie alla ragione e di conseguenza alla vera religione, quali i rituali, la credenza nei miracoli e la fede in dogmi come la Trinità e la verginità di Maria — egli difendeva il valore della laicità dello stato, lamentandosi del fatto che in una moderna repubblica come l'Olanda vi fossero continue ingerenze da parte delle autorità religiose nelle decisioni politiche.
E proprio tali ingerenze misero presto a tacere Koerbagh, il quale, dietro sollecitazione del clero calvinista, fu condannato dai magistrati di Amsterdam a dieci anni di prigione ai lavori forzati, da trascorrere nelle carceri riservate ai criminali violenti. In condizioni del genere Koerbagh non resistette più di un anno, spegnendosi per malattia nel 1669.
La sua morte diede a Spinoza lo sprone per terminare e pubblicare nel 1670 il Trattato teologico-politico, in cui gli ideali religiosi e civili per cui Koerbagh aveva sacrificato l'esistenza trovarono nuova voce. Spinoza prese d'altro canto ogni precauzione possibile, pubblicando l'opera con il nome di un falso editore e senza far figurare il proprio nome di autore.[95] Piccoli atti di prudenza che non si può dire abbiano compromesso la leggendaria coerenza di Spinoza, il quale forse in tale circostanza pensò davvero che non fosse il caso di sciupare anzitempo quel fiore delicato che era la sua vita spregiudicata.

Una morte mai chiamata

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Spinoza invitava le persone a non pensare alla propria fine, ma a riflettere unicamente su quel che si può fare di buono finché si può godere della vita.[96] E siccome Spinoza non l'aveva mai chiamata, la morte, quando giunse la sua ora, lo visitò con cortesia, senza imporgli lunghe agonie o sofferte riflessioni: non fu affatto la morte tribolata che si addice a un peccatore pentito, come per lui avrebbero desiderato coloro che lo ritenevano un ateo.
Era il 21 febbraio 1677, una tranquilla domenica. La mattina egli scese a chiacchierare del più e del meno con il padrone di casa Van der Spyk, che si stava recando a messa con la moglie. Da Amsterdam era arrivato nel frattempo un medico amico di Spinoza: Lodewijk Meyer, il quale gli aveva consigliato di bere del brodo per riacquistare un po' di energie. Quando a mezzogiorno Van der Spyk e la moglie rincasarono, trovarono Spinoza che stava bevendo il brodo con gran gusto,[97] e probabilmente egli chiese loro cosa avesse detto di interessante il predicatore:

« Sovente domandava ai casigliani che tornavano dall'assemblea che cosa avessero ritenuto della predica a loro edificazione.[98] »

In questa curiosità non c'era del sarcasmo, poiché Spinoza non ignorava quanto vi fosse di buono nella devozione popolare, quand'anche ricca di superstizioni:

« Lasciava a ciascuno la libertà dei suoi pregiudizi, benché pensasse che la più parte di essi fossero un ostacolo alla verità.[99] »

Una volta la padrona di casa gli aveva chiesto se seguendo la religione cristiana avrebbe davvero potuto salvarsi, e la risposta di Spinoza fu:

« La sua religione va bene: non ha bisogno di cercarne un'altra per salvarsi purché si applichi a una vita tranquilla ed improntata alla pietà.[100] »

Ogni tanto Spinoza stesso si recava con Van der Spyk ad ascoltare i sermoni, poiché nutriva stima per alcuni tra i pastori luterani dell'Aja[101]:

« Non soltanto presenziava egli stesso alle riunioni dei riformati e dei luterani, ma usava ripetutamente esortare gli altri a frequentare le chiese, ed ai suoi amici raccomandava anche caldamente di ascoltare taluni predicatori dalla parola divina.[102] »

Quando, dopo pranzo, Van der Spyk tornò in chiesa con la moglie, Spinoza preferì restare ancora a riposo, rimanendo solo con Meyer. I due nutrivano un comune sentimento filosofico: era stato proprio Meyer a suggerire a Spinoza di pubblicare anonimamente il Trattato teologico-politico, e fu ancora lui, dopo la morte dell'amico, a premere affinché venissero pubblicati postumi l'Etica e il Trattato politico (scritto negli ultimi anni di vita e rimasto incompiuto).[103]
Spinoza si spense intorno alle tre del pomeriggio, alla presenza di Meyer, il quale ritornò ad Amsterdam quella sera stessa, dopo essersi impossessato, a titolo di compenso, di una cassetta contenente alcuni beni di Spinoza, come riferito con sconcerto da Colerus:

« Questo dottore [...] ripartì la sera stessa [...] non prendendosi più nessuna cura del defunto, dopo aver preso con sé del denaro, ossia un ducatone e alcuni spiccioli, e un coltello con il manico d'argento, che Spinoza aveva lasciato sul tavolo: e se n'era andato con ciò.[104] »

In realtà, si può credere che Meyer avesse ricevuto da Spinoza la missione di portare in salvo i suoi ultimi manoscritti, senza farli cadere nelle mani delle autorità (che li avrebbero bruciati, trattandosi di scritti ritenuti sovversivi); l'incomprensione di Colerus mostra che Meyer riuscì a portare a termine la missione sviando i sospetti.[105]
Sugli ultimi istanti della vita di Spinoza fioccarono curiose dicerie, che rendono bene l'idea di ciò che pensava la gente riguardo al carattere di Spinoza. Egli sarebbe stato capace di scherzare anche in punto di morte:

« Avrebbe sovente sospirato: "Oh Dio!" e, avendogli domandato gli astanti se dunque allora riconosceva l'esistenza di Dio, del quale dopo la sua morte doveva aver timore come di un giudice, avrebbe risposto che era stata l'abitudine a fargli scappare di bocca il nome di Dio.[106] »

La sua fermezza era assai nota, ed era affascinante immaginare che egli avesse potuto trincerarsi in camera, onde evitare l'assalto di qualche zelante sacerdote presso il suo capezzale:

« Avrebbe provveduto affinché nessuno fosse lasciato presso di lui all'approssimarsi della sua fine, come anche che, sentendo che il suo ultimo momento era venuto, avrebbe fatto venire presso di sé la padrona di casa pregandola di impedire che qualche pastore gli recasse visita in quello stato poiché voleva morire senza alterchi verbali.[107] »

Spinoza avrebbe inoltre raccomandato — non più per ragioni di cautela, ma per semplice umiltà — che il suo nome non fosse stampato per intero sul frontespizio delle Opere postume:

« Il nome del nostro autore è stampato sul frontespizio e altrove unicamente con le iniziali, per la sola ragione che egli, poco prima di morire, lo chiese espressamente, senza spiegare il perché [...] Il che, secondo il nostro giudizio, è avvenuto esclusivamente perché non voleva che la sua scienza fosse chiamata con il suo nome.[108] »

Egli certo non avrebbe mai immaginato quanto il suo nome sarebbe stato scritto e pronunciato nei secoli a venire, diventando segno di contraddizione — secondo l'espressione di Filippo Mignini, ripresa dal Vangelo[109] — fra la sempre crescente mole di studiosi che lo avrebbero letto, discusso, apprezzato o criticato.

Una biblioteca all'asta

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Lo studio di Spinoza a Rijnsburg

Trascorsi alcuni mesi dalla morte di Spinoza — e ormai asciugatesi le lacrime dal volto del suo vecchio padrone di casa — apparve affisso lungo le strade dell'Aja un ameno avviso, che dovette far gola a molti:

« Presso la casa del signor Van der Spyck [...] il prossimo giovedì 4 novembre, alle ore 9 del mattino, saranno venduti al miglior offerente mediante asta pubblica tutti i beni lasciati dal defunto Benedictus de Spinoza: libri, manoscritti, telescopi, lenti d'ingrandimento, lenti già molate...[110] »

La biblioteca di Spinoza poteva fruttare un buon gruzzolo per la quantità di testi scientifici, religiosi, filosofici e letterari in essa contenuti. Erano presenti opere di matematica, astronomia, fisica, ottica, anatomia e medicina, classici latini e greci (da Omero a Seneca), dizionari e grammatiche di lingue antiche e moderne, romanzi di Cervantes e poesie di autori spagnoli, ma soprattutto, com'è immaginabile, tanti e tanti testi filosofici. Spiccavano Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, oltre a quelle di Port Royal, di Ugo Grozio, Tommaso Moro, Francesco Bacone, Thomas Hobbes, e poi ben sette edizioni di Cartesio.[111] Come ha efficacemente sintetizzato Toni Negri, la biblioteca di Spinoza

« non è la biblioteca specialistica alla maniera dell'accademico seicentesco: è piuttosto la biblioteca del mercante colto, dove i classici latini e i politici italiani (Machiavelli vi troneggia), i poeti spagnoli e la filosofia umanistica e contemporanea si mischiano — una biblioteca di consultazione, di stimolo.[112] »

La biblioteca di Spinoza — continua Negri — è di stile rinascimentale, ma non è barocca, perché non sono presenti i libri di alchimia e di mnemotecnica (caratteristici del background culturale di un Giordano Bruno) ma soltanto quelli delle nuove scienze umanistiche.[113] Spinoza possedeva sì alcune opere cabalistiche[114], ma, come egli stesso affermava nel Trattato teologico-politico, non aveva attinto alcun giovamento dalla sedicente sapienza esoterica di queste opere:

« Lessi, anche, e, per di più, personalmente conobbi alcuni fantasiosi cabalisti, e confesso che la pazzia di costoro va al di là di ogni meraviglia.[115] »

La vita di Spinoza si era svolta in continuo avvicendamento tra la biblioteca (luogo del lavoro intellettuale) e la bottega (luogo del lavoro manuale), sicché i testi di filosofia si mescolavano con quelli di ottica e la biblioteca non poteva fare a meno di mescolarsi con la bottega. Nella società olandese del Seicento non c'era quella rigida divisione borghese del lavoro sviluppatasi nel frattempo nella Francia della crisi e della ricostruzione assolutistica;[116] così, anche i conoscenti e i corrispondenti di Spinoza, come mostra l'Epistolario, applicavano le proprie conoscenze teoriche alla pratica, coltivando interessi al tempo stesso tecnici e intellettuali, inseriti in quella compenetrazione fra scienza, mercato, tecnologia e politica, che la cultura olandese viveva allora al suo dinamico apogeo:

« Lo studio delle leggi della riflessione fa parte del lavoro degli ottici, costruttori di lenti, Jelles e Spinoza; Schuller, Meyer, Bouwmeester e Ostens sono medici, intenti a quell'emendatio del corpo che deve investire anche la mente; De Vries fa parte di una famiglia di mercanti ed esercita la mercatura ai più alti livelli, Bresser è un birraio, Blyenberg un biadaio; Hudde è un matematico che applica il suo studio ai tassi di interesse sulle rendite e con l'amicizia di De Witt raggiunge la carica di borgomastro di Amsterdam. E così entriamo nell'ultimo e più alto strato del circolo spinoziano: quello che vede i membri dell'oligarchia partecipi dello sviluppo filosofico, dal De Witt, a Burgh, a Van Velthuysen fino agli Huygens e Oldenburg, ormai attratti nell'orbita della cultura cosmopolita.[117] »

Spinoza, appassionato di ogni dibattito scientifico e filosofico, era un lettore vorace, persino di opere scritte contro di lui. Un giorno adocchiò a una vetrina il trattato Adversus anonymum Theologico-politicum, composto da un cartesiano al quale, come a tanti altri, le teorie del Trattato teologico-politico erano apparse empie e pericolose. Spinoza raccontò a Jelles la vicenda:

« Ho visto nella vetrina di un libraio il libro che il professore di Ultrecht ha scritto contro il mio e che è uscito dopo la sua morte: dal poco che vi lessi giudicai che non era degno di essere letto e ancor meno di una risposta. Lasciai perciò che il libro stesse là e che l'autore restasse quello che era.[118] »

Al proposito di non acquistare il libro, Spinoza accompagnò il pensiero compiaciuto che non fosse necessario informarsi su ogni critica mossagli dai denigratori, le cui opere di basso profilo venivano esposte in vetrina dai librai per venire incontro al gusto delle masse:

« Sorridendo tra di me, pensavo come gli ignoranti siano sempre i più audaci e i più pronti a scrivere. Mi sembra che [i librai] espongano la loro merce alla maniera dei rigattieri, che mostrano le cose peggiori sempre per prime. Dicono che il diavolo sia astutissimo, ma a me sembra che la mente di costoro lo superi di molto in scaltrezza.[118] »

Ma nella biblioteca di Spinoza fu trovato infine anche il trattato Adversus anonymum Theologico-politicum.[119] Dunque possiamo supporre che il nostro filosofo fu presto o tardi vinto dalla curiosità e non resistette alla tentazione di tornare da quel libraio a fare compere.
Spinoza, a coronamento della sua collezione libraria, possedeva cinque diverse edizioni della Bibbia. A questo proposito, correva voce che egli fosse solito tenere su uno stesso scaffale il Corano, il Talmud e la Bibbia.[111]

  1. Johan Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, trad. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1967, p. 5.
  2. 2,0 2,1 Cfr. Steven Nadler, Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, trad. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2002, pp. 3-32. D'ora in avanti Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento.
  3. Johan Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, op. cit., p.50.
  4. Cfr. Steven Nadler, L'eresia di Spinoza. L'immortalità e lo spirito ebraico, Einaudi, Torino 2005, pp. 24-53. D'ora in avanti L'eresia di Spinoza.
  5. 5,0 5,1 5,2 Jean-Maximilien Lucas, La vita del signor Benedetto Spinoza (1719), in: Johannes Colerus, Jean-Maximilien Lucas, Le vite di Spinoza, seguite da alcuni frammenti dalla Prefazione di Jarig Jelles alle Opere Postume, a cura di Roberto Bordoli, Quodlibet, Macerata 1994, pp. 45-46. D'ora in avanti Lucas.
  6. Lucas, p. 23.
  7. Sono stati sollevati dei dubbi sul fatto che Morteira sia stato effettivamente maestro di Spinoza, ma egli fu certamente tra i rabbini che ne promossero la scomunica (Cfr. le note di Silvia Berti a: J.M. Lucas, La vita del signor Benedetto de Spinoza, in Trattato dei tre impostori, Einaudi, Torino 1994, p. 146).
  8. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 60-62.
  9. Citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 61.
  10. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 61.
  11. Lucas, p. 28.
  12. Lucas, p. 26.
  13. Cfr. L'eresia di Spinoza, p. 59.
  14. Pierre Bayle, Dizionario storico e critico: Spinoza, trad. di Piero Bertolucci, Boringhieri, Torino 1958, p. 13. D'ora in avanti Bayle.
  15. Johannes Colerus, Breve ma veridica vita di Benedetto Spinoza, tratta da fonti originali e testimonianze orali di persone ancora in vita, e scritta da Johannes Colerus, tedesco, pastore della comunità luterana de l'Aja (1705), in: Le vite di Spinoza, op. cit., p. 60. D'ora in avanti Colerus.
  16. 16,0 16,1 16,2 Bayle, p. 12.
  17. Epistola XXX (sottolineatura nostra). Seguiamo qui la traduzione di F.Mignini dell'Epistolario in: Spinoza, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini, Mondadori, Milano 2007, p. 1287.
  18. Cfr. Colerus, p. 61.
  19. Cfr. Colerus, pp. 71-72.
  20. Colerus, pp. 66-67.
  21. Cfr. Lucas, pp. 31-32.
  22. Gs 6,21-26. L'edizione della Bibbia a cui facciamo riferimento qui e in avanti è: La Bibbia di Gerusalemme, traduzione a cura della CEI, Centro editoriale dehoniano, Bologna 1985.
  23. 2 Re 2,23-24.
  24. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 133-141.
  25. Lucas, p. 32.
  26. Cfr. il caso di Uriel De Costa, su cui ci soffermeremo nel paragrafo 9 di questo capitolo.
    In Colerus, pp. 61-66 si parla non di un solo tipo di scomunica, ma di tre tipi diversi, di diversa gravità: niddui, cherem (che subì Spinoza) e schammatha; la questione di tale distinzione è però controversa (cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 133-138) e quindi seguo Lucas che parla genericamente di un solo tipo di scomunica chiamata herem (o cherem), il cui rituale cambiava di volta in volta a seconda del peccato che si voleva punire (cfr. Lucas, pp. 31-32).
  27. Cfr. Bayle, p. 12: "Egli compose in spagnolo un'apologia della sua uscita dalla sinagoga. Questo scritto non fu stampato".
  28. Apologia di Socrate, in: Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 34.
  29. Trattato sull'emendazione dell'intelletto e sulla via per dirigerlo nel modo migliore alla vera conoscenza delle cose, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 25. (La stesura di quest'opera iniziò alla fine del 1656 secondo la Cronologia di F.Mignini in: Spinoza, Opere, op. cit.) D'ora in avanti Trattato sull'emendazione dell'intelletto.
  30. Trattato sull'emendazione dell'intelletto, pp. 25-26.
  31. Lucas, p. 30.
  32. Lucas, p. 30. Il passo biblico a cui Spinoza fa riferimento è Es 12,35-36.
  33. Lucas, p. 32.
  34. Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 203-204.
  35. Lucas, p. 33.
  36. Cfr. Lucas, pp. 31-34.
  37. Cfr. L'eresia di Spinoza, p. 204.
  38. Citato in: Note e commenti, in: Le vite di Spinoza, op. cit., p. 128.
  39. Cfr. Filippo Mignini, Cronologia, in: Spinoza, Opere, op. cit., pp. LXXXVII e LXXXIX.
  40. Bayle, p. 13.
  41. Cfr. Carteggio Spinoza-Hudde, in: Spinoza, Opere, op. cit.
  42. Cfr. Carteggio Spinoza-Jelles, in: Spinoza, Opere, op. cit.
  43. Cfr. Carteggio Spinoza-Leibniz, in: Spinoza, Opere, op. cit.
  44. Citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 204.
  45. Colerus, p. 72-73. A proposito di pittura, può darsi che Spinoza, ad Amsterdam, avesse anche conosciuto Rembrandt (Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 84-88).
  46. Colerus, p. 72.
  47. 47,0 47,1 Bayle, p. 64.
  48. Lucas, p. 35.
  49. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 204.
  50. Cfr. Colerus, p. 102.
  51. Lucas, p. 43.
  52. Cfr. Lucas, p. 50.
  53. Lucas, pp. 48-50.
  54. Così anche Giordano Bruno: "La fanciullezza del Bruno non trascorse lieta e serena: per lui non giuochi, non divertimenti, non compagni e amici della sua età e condizione, ma i sospiri e le lagrime della madre per la lontananza del marito soldato, e forse a volte le ristrettezze domestiche. [...] Se non che [...] il Bruno ebbe l'animo dischiuso all'ottimismo, che fu poi peculiarità della sua filosofia, dallo spettacolo di mille bellezze naturali." (Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Gela Editrice, Roma 1921, pp. 58-59)
  55. Lucas, p. 46.
  56. Lucas, p. 41.
  57. Colerus, p. 75.
  58. Colerus, pp. 74-76.
  59. Lucas, p. 42.
  60. Lucas, pp. 43-44.
  61. Cfr. Filippi Mignini, Un segno di contraddizione, op.cit. pp. LIII-LV.
  62. Mt 5,39-42.
  63. Lucas, p. 38.
  64. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 154-156.
  65. Jarig Jelles, Prefazione alle Opere Postume di Spinoza (1677), in: Le vite di Spinoza, op. cit., p. 116.
  66. Epistola XLIII. L'edizione dell'epistolario a cui d'ora in poi faccio riferimento è: Baruch Spinoza, Epistolario, a cura di Antonio Droetto, Einaudi 1951
  67. Epistola LXXII.
  68. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 329-333.
  69. Gottfried Wilhelm Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, libro IV, cap. XVI, sez. 4; citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 333.
  70. Epistola XLVII.
  71. Bayle, p. 13.
  72. Epistola XLVIII.
  73. Epistola XXI.
  74. Colerus, p. 61
  75. Lucas, p. 48-49.
  76. Epistola LXVII
  77. Lucas, p. 49.
  78. L'eresia di Spinoza, op. cit., p. 25.
  79. L'eresia di Spinoza, op. cit., p. 44.
  80. L'episodio è riferito da Leibniz, che lo avrebbe udito da Spinoza (Citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 335-337).
  81. 81,0 81,1 Lucas, p. 39.
  82. Bayle, p. 59.
  83. 83,0 83,1 Colerus, p. 80.
  84. Cfr. la Prefazione di Filippo Mignini a Le vite di Spinoza, op. cit., pp. 10-11.
  85. Citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 78.
  86. È stata avanzata l'ipotesi che questo scritto non sia stato effettivamente redatto da De Costa: Cfr. Filippo Mignini in: Spinoza, Opere, op. cit., p. LXXIX.
  87. Citato in: Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 80.
  88. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 75-81.
  89. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 114-115.
  90. Probabilmente fu proprio frequentando Van den Enden che Spinoza sviluppò quelle conoscenze di cartesianesimo a cui si è accennato nel paragrafo 2 di questo capitolo. Cfr. Colerus, p. 60 e Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 123-125.
  91. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 121-122.
  92. Mt 22,37-40. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 119.
  93. Cfr. il paragrafo 7 del secondo capitolo di questo lavoro: La libera repubblica.
  94. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 116-119.
  95. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, p. 189 e pp. 293-298.
  96. Cfr. il paragrafo 17 del secondo capitolo di questo lavoro: Una filosofia non della morte ma della vita.
  97. Cfr. Colerus, pp. 102-105.
  98. Colerus, p. 76.
  99. Lucas, p. 44.
  100. Colerus, pp. 76-77.
  101. Cfr. Colerus, p. 76.
  102. Bayle, p. 66.
  103. Cfr. Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento, pp. 189-192.
  104. Colerus, pp. 76-77.
  105. Cfr. Marco Ravera, Invito al pensiero di Spinoza, Mursia, Milano 1987, p. 20: "Il bottino che Meyer portava con sé nella sua precipitosa trasferta era costituito da tutti gli inediti e i manoscritti di Spinoza, ch'egli non voleva potessero venir trafugati o manomessi e di cui, con altri amici del filosofo, curò la pubblicazione col già ricordato titolo di Opera posthuma."
  106. Colerus, p. 103.
  107. Colerus, p. 104.
  108. Jarig Jelles, Prefazione alle Opere Postume di Spinoza, op. cit., p. 115-116.
  109. Cfr. il già citato saggio Un segno di contraddizione di Filippo Mignini, in: Spinoza, Opere, op. cit.
  110. Citato in: Patrizia Pozzi, La biblioteca di Spinoza, in Le vite di Spinoza, op. cit., p. 150.
  111. 111,0 111,1 Cfr. Patrizia Pozzi, La biblioteca di Spinoza, op. cit., pp. 152-153.
  112. Antonio Negri, Spinoza: L'anomalia selvaggia, Spinoza sovversivo, Democrazia ed eternità in Spinoza, prefazioni di Gilles Deleuze, Pierre Macherey, Alexandre Matheron, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 37-38.
  113. Cfr. Antonio Negri, Spinoza, op. cit., p. 38.
  114. Cfr. Patrizia Pozzi, La biblioteca di Spinoza, op. cit., pp. 153.
  115. Baruch Spinoza, Trattato Teologico-Politico, trad. e note di Sante Casellato, Fabbri Editori, Milano 2001, cap. IX.
  116. Cfr. Antonio Negri, Spinoza, op. cit., p. 37.
  117. Antonio Negri, Spinoza, op. cit., p. 37.
  118. 118,0 118,1 Epistola L.
  119. Cfr. le note di Filippi Mignini all'Epistolario, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 1735.