Thomas Bernhard/Perturbamento
Incipit:[1]
espaces infinis m’effraie.
(PASCAL, Pensée 206)
Il ventisei mio padre già alle due del mattino prese la
macchina e andò a Salla, da un maestro che trovò morente e
lasciò morto, e ripartì subito dopo per Hullberg per curarvi un
bambino che in primavera era caduto in un mastello per maiali
pieno di acqua bollente e che ora, dimesso dall'ospedale, già da
parecchie settimane era di nuovo in casa dei suoi genitori.
Andava volentieri da quel bambino e non perdeva occasione
di fargli una visita. I genitori erano persone semplici, il padre
minatore a Koflach, la madre domestica nella casa di un
macellaio a Voitsberg, il bambino però non veniva lasciato solo
tutto il giorno, gli badava una sorella della madre. Quel giorno
mio padre descrisse con più precisione del solito quel bambino
e disse che temeva che gli restasse ancora poco tempo da
vivere. Con sicurezza poteva dire che non avrebbe passato
l'inverno, e lui adesso sarebbe andato a trovarlo il più spesso
possibile. Mi accorsi che parlava di quel bambino come di una
persona cara, con molta pacatezza e senza soppesare le parole;
non nascose un'evidente simpatia per il bambino quando
accennò all'ambiente in cui il bambino era cresciuto ed era
stato più sorvegliato che educato dai genitori, completando e
spiegando le sue idee a proposito dei genitori e del loro
rapporto con il bambino in base alla conoscenza che aveva del
mondo in cui vivevano le persone descritte. Intanto andava su e
giù per la sua stanza e ben presto non sentì più il minimo
bisogno di tornare a letto. Adesso lui era l'unico medico in una
zona relativamente grande e per giunta «difficile», da quando
l'altro medico aveva accettato una chiamata all'Università di
Graz e si era trasferito nel capoluogo della regione. C'erano
scarse probabilità, disse, che ne arrivasse uno nuovo. Aprire un
ambulatorio qui era un'impresa che rasentava la follia. Ma lui
era abituato, ormai, a essere vittima di una popolazione malata
fino al midollo, portata alla violenza e anche alla pazzia. Se io
venivo a casa per il fine settimana, questo gli dava un senso di
tranquillità che sempre più, disse, gli era necessario. Aveva
l'aspetto stanco. Ma quando l'Ache ci abbagliò, dopo che ebbi
aperto le finestre, egli disse che avrebbe fatto una passeggiata.
« Vieni con me, » disse « andiamo ». Parlava, mentre io mi
vestivo, di un « prodigio della natura », di un castagno che
adesso, a fine settembre, era in fiore e che lui aveva scoperto
fuori dell'abitato, sulle rive della Ache. Probabilmente coglierà
l'occasione, pensai, per parlare finalmente con me di questioni
riguardanti i miei studi a Leoben, i miei studi di scienze
minerarie. Adesso aveva tempo, poi, per tutta la giornata,
sarebbe stato occupato nelle visite ai suoi malati. « Sai, » disse
« spesso tutto mi è di troppo ».
Non volevamo svegliare mia sorella e facendo meno rumore
possibile scendemmo nell'ingresso, dove erano appesi i nostri
cappotti. Quando però, vestiti, stavamo per uscire di casa, il
campanello suonò e davanti alla porta si presentò un uomo a
me sconosciuto, un oste, come poi si capì, di Gradenberg, che
chiese a mio padre di andare subito con lui.
E così partimmo con la macchina dell'oste verso
Gradenberg, invece di passeggiare e conversare sulle rive della
Ache, e del castagno in fiore non si fece più parola, e udimmo
cose assai preoccupanti sulla moglie dell'oste.
Rimasta a servire, disse il marito, alcuni minatori fino alle
due di notte i quali, ubriachi da ore e ore, si erano divisi in due
gruppi rivali, all'improvviso e senza alcun motivo era stata
colpita alla testa da uno di loro e subito era caduta per terra
svenuta davanti ai minatori. I minatori atterriti l'avevano
portata subito su nella camera da letto che si trovava al primo
piano dell'osteria e, salendo le scale, la testa della donna aveva
battuto più volte contro la ringhiera. Avevano steso la donna
sul letto e al marito che, quando i minatori avevano aperto la
porta con una spinta, si era svegliato e alzatosi stordito era stato
messo al corrente del fatto dai minatori diventati improvvisamente
sobri, questi, i minatori, avevano consigliato di
denunciare subito alla gendarmeria, quella notte stessa, Grossi,
un bruto che tutti conoscevano, sia pure solo di sfuggita. I
gendarmi, anche quello di servizio, dormivano tutti, disse
l'oste, ma lui tirando sassi contro le finestre della gendarmeria,
alla fine era riuscito a farsi sentire e a entrare nel posto di
guardia. Dapprima i gendarmi gli avevano consigliato di ritornare
in mattinata per fare una dichiarazione a verbale, ma lui
aveva insistito per un'immediata verbalizzazione chiedendo che
almeno uno dei gendarmi andasse con lui all'osteria: lì c'era sua
moglie svenuta e lì stavano aspettando i minatori che, secondo
lui, avrebbero dovuto fare subito le loro deposizioni. Ma era
ormai troppo tardi quando lui tornò all'osteria, tutti i minatori
eccetto uno se ne erano andati quando i gendarmi entrarono
con lui nella camera da letto. Subito aveva pensato che mai
avrebbe dovuto lasciare sola sua moglie, neanche un minuto,
appena si trovò davanti a lei, colto all'improvviso dalle più orrende
ipotesi e congetture, vicino al minatore Kolig che era
stato accanto a lei per tutto quel tempo, un uomo che lui non
conosceva bene, ma solo perché veniva qualche volta
all'osteria, e non era considerato uno del posto nel senso di un
uomo fidato, e inoltre parlava un dialetto sgradevolmente
diverso da quello stiriano che si parlava nella zona.
Benché Kolig, che era rimasto accanto alla moglie dell'oste,
fosse tanto ubriaco da poter sì stare in piedi, ma da non essere
capace di dire neanche una frase brevissima, il più giovane dei
gendarmi, dopo avergli ordinato di sedersi sulla sedia che stava
lì in un angolo, lo aveva immediatamente interrogato, mentre il
più anziano dei due scattava fotografie della donna svenuta sul
letto come se si trattasse di una morta. Quello che Kolig,
interrogato, fece mettere a verbale, erano dichiarazioni che non
servivano a niente, e quando, non riuscendo più a stare seduto,
fu lì lì per cadere con la testa in avanti, il gendarme, scontento
di lui, lo prese e lo trascinò via spingendolo fuori nel corridoio.
Il latitante Grossi era uno di quei tipi, disse l'oste, che in
ogni osteria dove mette piede, ci rimane fino a quando,
infallibilmente, non si mette in urto con la legge. Non era
difficile scovarlo, dissero i gendarmi, e, considerando i
precedenti penali di Grossi, avevano parlato di una pena
detentiva di parecchi anni, visto che il reato di grave lesione
personale era provato dal pugno di Grossi sulla testa della
moglie dell'oste e dallo svenimento di lei. Appena il gendarme
più anziano aveva parlato di grave lesione personale, a tutti era
venuto in mente che bisognava avvertire un medico. « Nel
frattempo sono passate un paio d'ore » disse l'oste.
Erano già le quattro e mezzo quando noi, arrivati a
Gradenberg, fummo condotti immediatamente dall'oste nella
camera da letto dove si trovavano i due gendarmi. Mio padre
disse che tutti gli uomini dovevano uscire nel corridoio. Mentre
lui là dentro visitava la donna, che, per quell'attimo in cui la
vidi, mi fece l'impressione di essere già morta, nel corridoio i
due gendarmi si espressero molto sfavorevolmente sul conto di
Kolig che giaceva lì sul pavimento, definendolo ottuso e
totalmente irresponsabile verso la sua famiglia di sei persone.
Non sapevano cosa fare di lui; quando mio padre uscì dalla
camera da letto, stavano giusto trascinando via dalla scala
Kolig che con le sue gambe la ostruiva a metà, tirandolo per le
spalle della giacca, e poi di lui non si curarono più. La donna
era davvero ferita gravemente e bisognava portarla subito
all'ospedale di Koflach, disse mio padre, i gendarmi dovevano
portarla giù con precauzione e stenderla nel furgone.
Umida, con una tappezzeria verde e marrone, piena zeppa di
mobili dozzinali di legno dolce, la stanza da cui i gendarmi
portarono fuori la moglie dell'oste era buia anche in pieno
giorno. Mio padre, passandomi accanto mentre scendeva le
scale dietro i gendarmi che portavano giù con precauzione la
donna, mi lanciò un'occhiata, e io pensai che quello era un
segno gravissimo per la moglie dell'oste.
Nel furgone io avevo preso posto accanto all'oste che
guidava, mentre mio padre stava seduto dietro di noi, accanto
alla donna distesa sulla panchetta.
Per tutto il tragitto, che abbreviammo passando per
Krennhof, l'oste ed io non scambiammo una sola parola.
Viaggiavamo di mattina presto, la guida fu dunque facile e
veloce. Non ero stato da quelle parti da molto tempo, pensai, e
dovevo andare indietro con la memoria fino alla primissima
infanzia per vedermi qua e là sulle rive del Gradnerbach. Mi
venne in mente quante poche volte mio padre mi avesse portato
con sé nei suoi viaggi e che, dalla morte di mia madre, avevo
sempre dovuto arrangiarmi da solo. Mia sorella, trovandosi in
una situazione non diversa dalla mia, la viveva di sicuro in
maniera ancora più dolorosa.
Evidentemente, data l'atmosfera, l'oste che prima, durante il
viaggio per Gradenberg aveva parlato in continuazione, durante
il viaggio per Koflach non apri bocca. Anche a me sarebbe
sembrato assurdo rivolgergli la parola. Mi sembrava chiaro, se
avevo ben capito mio padre, che la donna non sarebbe arrivata
viva a Koflach; invece, quando gli infermieri la trassero fuori
dalla macchina non era morta, e morì però mentre noi eravamo
ancora in ospedale. Prima ancora di entrare nell'unica stanza
operatoria, non si può certo chiamarla sala operatoria, esistente
nell'ospedale, lei era morta e suo marito lo aveva intuito, e
mentre gli infermieri la spingevano attraverso il corridoio, lui
le aveva tenuto la mano e aveva pianto. Non gli permisero di
stare accanto alla moglie morta, ma lo condussero giù nel
cortile, dove, completamente abbandonato a se stesso, dovette
stare ad aspettare mio padre per mezz'ora. Io lo lasciai solo e lo
osservai in modo che lui non vedesse che lo stavo osservando.
Poi arrivò mio padre e si mise a camminare con lui nel cortile
cercando di calmarlo. Gli parlò delle cose indispensabili da fare
subito, di questioni attinenti alla sepoltura, dell'inchiesta
giudiziaria, della denuncia contro Grossi per omicidio. Per
l'oste adesso era meglio, disse mio padre, che restasse fra la
gente e non si isolasse nella sua sofferenza, dentro la sua
sofferenza, lui, mio padre, avrebbe svolto in sua vece varie
formalità previste dalla legge, come quella di andare in
tribunale, e in altre incombenze, come quella innanzitutto di
raggiungere sua moglie all'obitorio, l'avrebbe accompagnato
consolando il suo dolore. Aveva constatato sulla defunta, disse
ancora mio padre, un'emorragia cerebrale sicuramente letale e
già nelle prime ore della mattinata avrebbe ricevuto l'esatto
referto dal medico del tribunale distrettuale. Che lui, mio padre,
fosse stato chiamato dall'oste solo tre ore dopo il pugno
mortale, non aveva alcuna importanza. Comunque non avrebbe
potuto salvarla. La defunta era nel suo trentaduesimo anno di
età e mio padre la conosceva da molto tempo. A lui era
sembrato sempre un segno di mostruosa brutalità da parte degli
osti il fatto che, mentre loro, stanchi morti dopo aver
sfacchinato tutto il giorno a macellare, a commerciare
bestiame, a lavorare nei campi, hanno l'abitudine di andare a
letto presto la sera, costringono le mogli, dato che non pensano
ad altro che agli affari, a rimanere nelle osterie aperte fino
all'alba, abbandonate a se stesse e a un mondo di uomini i
quali, man mano che passano le ore e aumenta il consumo di
bevande alcooliche, sempre meno, avvicinandosi il mattino,
vanno per il sottile nella scelta dei mezzi per manifestare la
loro brutalità; mio padre disse queste cose quando per un
momento ci staccammo dall'uomo che camminava con noi e
che, a quanto sembrava, era fuori di sé. « Le notti protratte
troppo a lungo all'osteria finiscono tutte male, » disse mio
padre « e spesso in questa zona anche con la morte di qualcuno
». Obbligata dal marito in modi estremamente odiosi a
rimanere per mezze o intere nottate nell'osteria insieme agli
ubriachi, con l'unico scopo di spillar loro del denaro senza
badare ai mezzi, cacciando nelle loro docili budella
dell'acquavite di pessima qualità, spesso la vittima è proprio
lei, la vittima è la moglie dell'oste, che si rivela inerme
nonostante i suoi modi ordinari. All'oste, quando lo
raggiungemmo di nuovo, mio padre disse che sarebbe stato
facile trovare Grossi. La gendarmeria era avvertita e in
qualsiasi posto Grossi si fosse nascosto, non gli sarebbe servito
a nulla. Ma quanto più mio padre cercava di convincere
quell'uomo, il quale, abituato com'era al bestiame che
commerciava e al mondo degli osti che era il suo mondo,
impersonava tipicamente la brutalità che regna in tutta la zona
del Bundscheck, sicché le sue lacrime e il suo totale sgomento
erano addirittura commoventi, quanto più mio padre gli
parlava, dunque, tanto più si rendeva conto che i suoi sforzi
erano insensati; così gli diede soltanto le istruzioni indispensabili
in una forma che a me parve semplice e comprensibile e
poi lo lasciammo di nuovo solo con se stesso.
Mio padre andò all'obitorio e si consultò con il collega del
tribunale, mentre io, osservando nel contempo anche l'oste che
andava a sedersi sull'unica panchina di tutto il cortile
dell'ospedale, immaginavo il cadavere di sua moglie dentro il
carretto a due ruote che un giovane infermiere stava spingendo
passandomi accanto. La vista del carretto dell'obitorio non fu
una novità per me, dato che spesso, nel passare davanti
all'ospedale quando andavo a scuola, mi ero fermato nel punto
in cui, fra due cespugli di sambuco, si può intravedere
l'obitorio; mi fermavo per guardare il carretto che, quando non
viene utilizzato, rimane giorno e notte accanto all'ingresso
dell'obitorio, in una rimessa aperta da un lato, il che mi
permetteva di scorgerlo. Sempre questo carretto dell'obitorio
fatto di lamiera ha esercitato su di me un fascino terrificante, e
nei miei sogni infantili è spesso comparso sulla scena come un
orribile fondamentale elemento. Il giovane infermiere, appena
diplomato, spingeva il carretto verso l'ingresso dell'obitorio e di
lì sentii arrivare mio padre. Mio padre, pensai, quando
uscimmo dal cortile dell'ospedale camminando in fretta e
rasentando i muri per evitare di essere visti dal povero oste che
continuava a star seduto sulla panchina, non agisce mai, come
spesso sono accusati di fare i medici, là dove si seri te a casa
sua, cioè con i malati e negli ospedali, come se avesse a che
fare con un'enorme e impenetrabile azienda, ma piuttosto,
pensai quel giorno, come se avesse a che fare con una scienza
assolutamente trasparente. Certo, pensai, molti medici, come
ho potuto constatare tante volte, pur avendo ricevuto una
formazione intellettuale schiettamente scientifica, non sono
altro che uomini d'affari che agiscono e parlano come uomini
d'affari; mio padre però non è come loro.
Disse che per me era una tristezza continua, quando lo
accompagnavo, e che per questo motivo il più delle volte lui
esitava a portarmi con sé nelle sue visite agli ammalati, perché
sempre e infallibilmente risultava che tutto quello che lui
doveva visitare, toccare e curare era malato e triste; di
qualunque cosa si trattasse, lui si muoveva continuamente in un
mondo malato, fra persone e individui malati; anche se questo
mondo pretendeva o fingeva di essere sano, era pur sempre un
mondo malato e gli uomini, gli individui, anche quelli
cosiddetti sani, erano malati. Lui ci era abituato, ma io forse
potevo esserne turbato e indotto a riflessioni per me dannose;
tanto più che io, secondo lui, ero sempre stato incline a farmi
turbare da tutto e da tutti, a elucubrare su tutto e su tutti in un
modo per me dannoso. E mia sorella in misura assai più
pericolosa di me. Era un errore, tuttavia, osservò, chiudere gli
occhi di fronte al fatto che tutto è malato e triste, disse
effettivamente malato e triste, e per questo motivo, a intervalli
più o meno lunghi, era sempre di nuovo « tentato » di portare
me o mia sorella con sé nelle sue visite ai malati. « È sempre
un rischio » disse. Temeva soprattutto che uno di noi, mia
sorella o io, vedendo da vicino un malato e la sua malattia, ne
potesse riportare un danno per tutta la vita, mentre quello a cui
lui mirava per noi era l'esatto contrario.
A Koflach entrammo in paese. Voleva andare alla banca e
alla posta, che però erano ancora chiuse, e così mi portò con sé
da un suo amico avvocato con il quale aveva fatto l'università a
Graz: l'amico era un legale molto affermato in questioni
immobiliari e io lo conoscevo già perché era venuto a trovarci
qualche volta durante l'estate. Mio padre sperava che il suo
amico ci avrebbe offerto la colazione.
Suonammo il campanello, ci aprirono ed entrammo in un
appartamento che per essere in una piccola città appariva
grandioso, anche se non di buon gusto in ogni dettaglio;
l'insieme comunque era intimo e accogliente e subito si
notavano i numerosi posti a sedere. Fummo accolti dalla
giovane moglie dell'avvocato e subito condotti nella sala da
pranzo. Dopo una breve attesa l'avvocato entrò nella sala. Mio
padre disse che non poteva trattenersi a lungo perché doveva
ritornare a casa con me. Durante la colazione, per cui eravamo
arrivati giusto in tempo e che fu tanto abbondante che non
ricordo di averne mai mangiata una simile, mentre io, dal posto
dove ero seduto, potevo guardare verso la strada e osservare
quello che succedeva laggiù, parlammo di Grossi che aveva
assassinato la moglie dell'oste di Gradenberg. È una cosa
orribile, sostenne mio padre, che degli uomini, quando perdono
il controllo di sé, soprattutto nelle osterie, si avventino l'uno
contro l'altro senza sapere perché, dato che anche il latitante
Grossi non sapeva perché aveva ammazzato la moglie dell'oste;
« può darsi » disse mio padre « che addirittura non sappia
ancora che l’ha ammazzata ». La gente di campagna, che
degenera prima nella brutalità e poi nella più totale impotenza
riguardo alla propria brutalità, che degenera in tutto, che deve
degenerare in tutto, oggi questa gente, disse mio padre,
rappresenta una spaventosa maggioranza.
In effetti, disse, ci sono più persone brutali e criminali in
campagna che non in città. In campagna la brutalità e la
violenza sono la base di tutto. La brutalità in città non è nulla in
confronto alla brutalità in campagna, e la violenza in città non è
nulla in confronto alla violenza in campagna. I delitti in città, i
delitti cittadini, non sono nulla in confronto ai delitti in
campagna, ai delitti campagnoli. I delitti di città sono ridicoli
in confronto ai delitti di. campagna. L'oste, aggiunse, è il tipico
uomo violento, il delinquente nato. Tutto di lui e in lui è
violento e delittuoso. In ogni momento e in tutte le situazioni
della sua vita egli resta quel commerciante di bestiame che è di
mestiere. « Anche se adesso piange disperatamente, » disse
mio padre « piange perché ha perduto un capo di bestiame. Per
un oste la moglie non è altro che un capo di bestiame ». Un
giorno lui la cattura tirandola fuori con un perverso
stratagemma dallo sterminato gregge delle donne non sposate e
la sottomette alla propria volontà. Un'osteria come quella, così
come ogni casa di macellai e di commercianti di bestiame,
come ogni cascina che si trovi nel Bundscheck, altro non è che
un brutale penitenziario per donne. Se si ascolta attentamente,
in qualunque momento e in qualunque posto si vada in
campagna, si sentono le donne bastonate dai loro mariti dentro
le case. Tutti i giorni dell'anno, disse mio padre, lui andava
quasi soltanto da gente ripugnante, entrando in quelle case
entrava dentro la brutalità, dentro la violenza, con la sua borsa
da medico si muoveva in fondo esclusivamente su e giù per un
mondo di delinquenti. E quelli che abitavano sotto l'alpe di
Glein e sotto l'alpe di Kor, nella valle di Kainach e in quella di
Grobnitz erano esempi tipici di una Stiria che da milioni e migliaia
di anni aveva eretto a regola di vita gli eccessi fisici più
grossolani. Gli venne però in mente la visita fatta di primo
mattino al bambino del minatore di Hullberg e descrisse con
quanta cordialità fosse stato accolto, come si fosse sentito
tranquillo per un buon quarto d'ora e come, con altrettanta
cordialità, lo avessero salutato al momento del suo congedo.
Ma sarebbe un errore, osservò, credere che quello che aveva
detto di gente come l'oste valesse soltanto per i benestanti;
questi genitori e il loro bambino erano un'eccezione, « i poveri
» disse « sono due volte più brutali, ignobili e criminali, e anzi,
date le loro possibilità, lo sono in misura ancora più spaventosa ».
- Verstörung - Traduzione a cura di Eugenio Bernardi, Adelphi Edizioni, 1981.
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