Incipit:[1]

Thomas Bernhard

GELO

Giovanni Domenico Cerrini: "Lo studio del pittore"
Giovanni Domenico Cerrini: "Lo studio del pittore"


«Che cosa dice di me la gente? – domandò lui.
– Mi chiamano l’idiota? Che cosa dice la gente?»
Primo giorno

La pratica d’ospedale non sta solo nell’assistere a complicate operazioni intestinali, nell’incidere peritonei, nel pinzare lobi polmonari, nell’amputar piedi, non sta davvero soltanto nel chiuder gli occhi ai morti o nel tirar fuori bambini per farli venire al mondo. La pratica d’ospedale non è soltanto questo: buttare con noncuranza nel secchio smaltato gambe e braccia intere o tagliate a metà. Non sta nel continuare a correr dietro come un cretino al primario e all’assistente e all’assistente dell’assistente, far parte del codazzo durante le visite. Né può consistere solo nel nascondere la verità ai pazienti e nemmeno nel dire: «Il pus naturalmente si scioglierà nel sangue e Lei sarà completamente guarito». O in centinaia d’altre simili fandonie. Nel dire: «Andrà tutto bene!» – quando non c’è piú nulla che possa andar bene. La pratica d’ospedale non serve soltanto a imparare a incidere e a ricucire, a far fasciature e a tener duro. La pratica d’ospedale deve anche fare i conti con realtà e possibilità extracorporee. Il compito che mi è stato affidato di osservare il pittore Strauch mi costringe a occuparmi di questo tipo di realtà e di possibilità. A esplorare qualcosa d’inesplorabile. A scoprirlo sino a un certo sorprendente grado di possibilità. Come si scopre un complotto. E può darsi che l’extracorporeo – e con questo non intendo l’anima – che cioè quel che è extracorporeo senza essere l’anima della quale non so proprio se esista, anche se mi aspetto che esista, può darsi che a questa ipotesi millenaria corrisponda una millenaria verità; può benissimo darsi che l’extracorporeo, vale a dire quel che è senza cellule, sia proprio ciò da cui trae la sua esistenza il tutto e non viceversa, e che non sia semplicemente l’uno conseguenza dell’altro.

Secondo giorno

Ho preso il primo treno, quello delle quattro e mezzo. Viaggiavo tra pareti di roccia. A sinistra e a destra tutto era nero. Quando salii sul treno battevo i denti. Poi lentamente mi scaldai. C’erano anche le voci di operai e di operaie che tornavano a casa dopo il turno di notte. A loro andò subito la mia simpatia. Uomini e donne, giovani e vecchi, ma tutti dello stesso umore, e tutti esausti – dalla testa ai piedi, compresi seni e testicoli – per la notte passata in bianco. Gli uomini con i berretti grigi, le donne coi fazzoletti rossi in testa. Le gambe avvolte in panni di loden, unica arma per combattere il freddo. Capii subito che si trattava di un gruppo di spalatori saliti sul treno a Salzau. Faceva caldo come dentro al ventre di una mucca: come se l’aria, sotto la spinta di potenti muscoli cardiaci si autoaspirasse continuamente da quei corpi umani per poi ripomparsi di nuovo negli stessi corpi. Meglio non starci a pensare! Mi misi con la schiena appiccicata alla parete del vagone. Poiché non avevo dormito tutta la notte, mi appisolai. Quando mi svegliai rividi la traccia di sangue che scorreva piuttosto irregolare sul pavimento bagnato del vagone, come un fiume su una carta geografica continuamente deviato da massicci montuosi, e terminava tra la finestra e la sua cornice, sotto al freno di sicurezza; la traccia era partita da un uccello schiacciato, che la finestra, salita all’improvviso, aveva spezzato in due. Forse già molti giorni prima. S’era richiusa con tale violenza che non entrava piú nemmeno un filo d’aria. Il controllore che passava di lí esercitando il suo squallido mestiere, finse di non accorgersi dell’uccello morto. Ma doveva averlo visto. Quest’era la mia impressione. A un tratto udii la storia di un guardalinee rimasto soffocato nella tormenta, che finiva cosí: «A quello non gli importava niente di niente!» Che fosse il mio aspetto esteriore oppure quello interiore che si esprimeva sul mio volto, o l’emanazione dei miei pensieri, del mio incarico – al quale mi stavo preparando con tutte le mie energie – sta di fatto che accanto a me non venne a sedersi nessuno, benché ogni posto col tempo fosse diventato prezioso.

Il treno attraversava sferragliando la valle dove scorre il fiume. Col pensiero tornai brevemente a casa una volta. Poi andai lontanissimo, in qualche grande città dove un giorno ero stato di passaggio. Poi notai delle particelle di polvere sulla mia manica sinistra e tentai di strofinarle via col braccio destro. Gli operai tirarono fuori dei coltelli e si misero a tagliare il pane. Trangugiavano grossi pezzi di pane e insieme mangiavano fette di carne e di salame, certi bocconi che uno non mangerebbe mai stando seduto a tavola. Soltanto col pranzo sulle ginocchia. Tutti bevevano birra gelata ed erano evidentemente troppo deboli per riuscire a ridere di sé, benché si trovassero ridicoli. La loro stanchezza era tale che non ci pensavano nemmeno a chiuder la bottega dei pantaloni o a pulirsi gli angoli della bocca. Pensavo: appena scesi dal treno quelli cascano subito nel letto. E alle cinque di sera, quando gli altri smettono di lavorare, loro ricominciano. Il treno correva rumoroso e scendeva a precipizio come il fiume al suo fianco. Si faceva sempre piú buio.

La mia camera è piccola e poco confortevole come la mia stanzetta di praticante a Schwarzach. Se laggiú era insopportabile il rumore del fiume che scorreva vicino, qui è insopportabile il silenzio. Su mio desiderio la moglie dell’oste ha staccato le tende. (È sempre la stessa storia: non mi piacciono le tende in stanze che m’incutono paura). La moglie dell’oste mi ripugna. È la stessa ripugnanza che da bambino mi faceva vomitare davanti alle porte spalancate dei mattatoi. Se lei fosse morta – oggi – non mi ripugnerebbe, i cadaveri da sezionare non mi fanno mai pensare a dei corpi vivi – ma lei vive, e vive in mezzo a un odore putrido e stantio di vecchia cucina d’osteria. A quanto pare devo esserle piaciuto, visto che mi ha portato su la valigia e si è dimostrata pronta a servirmi la colazione in camera contrariamente al suo principio che è quello di ignorare che cosa sia una colazione servita in camera. «Il signor pittore è un’eccezione», disse lei. Anche lui era un cliente fisso e i clienti fissi godono di certi privilegi. E sono «piú uno svantaggio che un vantaggio» per gli osti. Come avevo scoperto la sua locanda? «Per caso», dissi io. Volevo rimettermi in salute al piú presto e ritornare a casa dove mi aspettava una montagna di lavoro arretrato. Lei si mostrò comprensiva. Le dissi il mio nome e le diedi il mio passaporto.

Fino a questo momento non ho ancora visto nessuno all’infuori della moglie dell’oste, benché nel frattempo un giorno alla locanda si fosse sentito un gran baccano. Durante l’ora del pranzo, mentre mi trovavo in camera mia. Domandai alla moglie dell’oste dove fosse il pittoree lei mi disse che era nel bosco. «È quasi sempre nel bosco», disse lei. Non sarebbe tornato prima dell’ora di cena. Se conoscevo il signor pittore, mi domandò. «No», dissi io. In silenzio, mentr’era ancora nel vano della porta, parve chiedermi una cosa che solo una donna può chiedere a un uomo in modo cosí fulmineo. Rimasi sconcertato. Non potevo essermi sbagliato. Respinsi la sua offerta senza dire una parola e non senza un’improvvisa sensazione di disgusto.

Weng è il paese piú malinconico che io abbia mai visto. Molto piú malinconico della descrizione che ne aveva fatto l’assistente. Il dottor Strauch vi aveva accennato come si accenna a un tratto di strada pericolosa che un amico debba percorrere. Tutto ciò che l’assistente aveva detto erano accenni. I lacci invisibili con cui di secondo in secondo lui mi legava sempre piú stretto all’incarico che m’aveva affidato, erano diventati causa di una tensione quasi intollerabile tra lui e me, poiché gli argomenti che lui m’imprimeva nella mente senza il minimo riguardo mi facevano l’effetto di chiodi conficcati a forza nel cervello. Riuscí però a evitare d’irritarmi. Si limitava a mettermi a parte dei punti ai quali avrei dovuto scrupolosamente attenermi. Effettivamente questa regione m’incuteva spavento e me ne incuteva ancora di piú il paese popolato di uomini piccolissimi che si possono tranquillamente chiamare idioti. Non piú alti di un metro e quaranta in media, questi uomini camminano barcollando tra muri pieni di crepe e cunicoli, concepiti nell’ubriachezza. Pare che siano tipici di questa vallata.

Weng è un paese situato molto in alto, eppure è come se si trovasse sul fondo di una gola. È impossibile valicare quelle pareti di roccia. Solola ferrovia laggiú riesce ad aggirarle. È un paesaggio che per via della sua bruttezza estrema ha piú carattere dei paesaggi belli che non hanno carattere. Qui tutti hanno voci da ubriachi, voci infantili e stridule che arrivano sino al do acuto, voci che a udirle da vicino ci trapassano da parte a parte. Ci trafiggono. Voci che ci trafiggono emesse da ombre, devo dire, perché in realtà sinora ho visto solo ombre d’uomini, ombre umane in miseria e in preda a una sensualità convulsa e tremante. E queste voci che ci trafiggono, emesse da queste ombre, sulle prime m’avevano confuso e fatto scappar via di corsa. Queste osservazioni tuttavia io le facevo a mente piuttosto serena, non ne restavo sconvolto. A dire il vero tutto m’infastidiva soltanto perché era terribilmente scomodo. Per giunta mi toccava anche portare la mia valigia di cartone in cui gli oggetti in gran confusione sbatacchiavano da tutte le parti. La strada che dalla stazione laggiú, dove è la fabbrica e stanno costruendo la centrale elettrica, arriva fin lassú a Weng, può essere percorsa solo a piedi. Cinque chilometri che non si possono abbreviare, ad ogni modo non in questa stagione. Dappertutto cani che abbaiano e che latrano. Non stento a credere che a lungo andare la gente diventi pazza a forza di fare osservazioni come quelle che avevo continuato a fare io sia sulla strada che conduce a Weng sia a Weng, se non si distrae col lavoro o coi divertimenti o con altre attività simili come andare a puttane pregare o ubriacarsi, oppure con tutte queste attività simultaneamente. Che cosa può attirare un uomo come il pittore Strauch in una regione come questa, proprio di questa stagione in una regione come questa, che dev’essere come un pugno in faccia in ogni istante?

Il mio incarico è assolutamente segreto e volutamente, calcolatamente, mi è stato affidato di sorpresa, da un giorno all’altro. All’assistente doveva certo essere già venuta da tempo l’idea di affidare a me l’incarico di osservare suo fratello. Perché proprio a me, perché non a uno di quegli altri, anche loro praticanti come me? Forse perché io spesso gli facevo certe domande difficili e gli altri no? Mi raccomandò di non fare mai in nessun caso sorgere nel pittore Strauch il sospetto che tra me e lui, il chirurgo Strauch, ci fosse un qualsiasi rapporto. Per questo se me lo domanderanno dirò che studio legge perché siano completamente distolti dal pensiero della medicina. L’assistente si accollò le mie spese di viaggio e di soggiorno. Mi diede una somma di denaro che gli sembrò sufficiente. Mi chiese di osservare suo fratello con attenzione, niente altro. Vuole che gli descriva i suoi vari modi di comportarsi, come passa le sue giornate; che lo informi sulle sue opinioni, intenzioni, dichiarazioni, sui suoi giudizi. Vuole che gli faccia una relazione su come cammina, sul suo modo di gesticolare, di arrabbiarsi, di «difendersi dagli uomini». Su come maneggia il suo bastone. «Osservi la funzione del bastone che mio fratello tiene in mano, la osservi nel modo piú preciso».

Il chirurgo non vede il pittore da vent’anni. Da dodici anni fanno a meno di scriversi. Il pittore questo loro rapporto lo chiama apertamente inimicizia. «Tuttavia come medico voglio fare un tentativo», disse l’assistente. A tale scopo aveva bisogno del mio aiuto. Le mie osservazioni gli sarebbero state piú utili di tutto ciò che aveva scoperto fino allora. «Miofratello, – aveva detto, – è uno scapolo come me. È, come si suol dire, un pensatore. Ma gravemente disturbato. Perseguitato da vizi, vergogne timori reverenziali, rimproveri e autorità, mio fratello è un tipo che ama le passeggiate, è quindi un uomo che ha paura. È iracondo. Un misantropo».

Questo incarico è un’iniziativa personale dell’assistente efa parte della mia pratica d’ospedale a Schwarzach. È la prima volta che considero l’osservazione come un lavoro.

Avevo intenzione di portarmi dietro il libro di Kolz sulle malattie del cervello, che si suddivide in «attività potenziate» (fenomeni di eccitazione) e in «prestazioni ridotte» (paralisi) del cervello e invece l’ho lasciato a casa. In compenso mi son portato dietro un libro di Henry James con cui mi ero già distratto a Schwarzach.

Alle quattro lasciai la locanda. In quell’improvviso, ruvido silenzio una agitazione spaventosa s’impadroní di me, e non soltanto del mio corpo. La sensazione di aver indossato la mia camera come una camicia di forza e che ora me la dovessi togliere mi fece fare le scale a precipizio. Entrai nella sala. Poiché nessuno rispondeva ai miei ripetuti richiami, uscii fuori all’aperto. Inciampai in un cumulo di ghiaccio, ma subito mi rimisi in piedi e mi prefissi una meta: un ceppo a una ventina di metri di distanza. Mi fermai davanti al ceppo. Ora vedevo spuntare dalla neve tanti ceppi simili che parevano squarciati da proiettili, a decine e decine. In quel momento mi venne in mente che avevo dormito per oltre due ore seduto sul letto. Il viaggio e la novità dell’ambiente erano le cause della mia spossatezza. Il föhn, pensavo. Quand’ecco che dal tratto di bosco, a non piú di cento metri da me, vidi spuntare un uomo che camminava a fatica, senza dubbio il pittore Strauch. Ne vedevo spuntare solo il busto, perché le gambe erano nascoste da immensi mucchi di neve. Notai il suo gran cappello nero. Controvoglia, cosí mi parve, il pittore si spostava da un ceppo all’altro. S’appoggiava al suo bastone col quale poi si spronava, come se fosse – a un tempo – mandriano bastone e bestia da macello. Ma questa impressione sparí e restò il problema di come avvicinarmi a lui al piú presto e nel migliore dei modi. Come mi presento a lui? pensai. Mi avvicino e gli domando qualcosa, adotto quindi il metodo sicuro anche se sciocco di quello che vuol sapere l’ora e il luogo? Sí? No? Sí? Non sapevo decidermi. Sí. Decisi di tagliargli la strada.

«Cerco la locanda», dissi io. E tutto era andato bene. Mi squadrò, poiché la mia improvvisa apparizione era piú inquietante che rassicurante – e mi prese con sé. Lui era un cliente fisso della locanda, disse. Non poteva che trattarsi di una stravaganza o di un errore se uno voleva trattenersi a Weng. Venire a Weng per rimettersi in salute. «In quella locanda là?» Non si può essere abbastanza giovani per non capire subito che è una cosa assurda. «In questa regione?» Un’idea cosí balorda poteva venire solo a un cretino. «Oppure a un aspirante suicida». Domandò chi fossi e che cosa studiassi, poiché certamente stavo ancora studiando «qualcosa», e io, come se dicessi la cosa piú ovvia del mondo risposi: «Legge». Gli bastò. «Cammini pure davanti a me. Io sono un vecchio», disse. Per alcuni attimi rimasi cosí spaventato dal suo aspetto che mi rinchiusi completamente in me stesso quando lo vidi per la prima volta cosí indifeso.

«Se Lei continua a camminare nella direzione che Le sto indicando col bastone giungerà in una valle che potrà percorrere per ore e ore in lungo e in largo senza il minimo timore, – disse. – Non deve aver timore di venir scoperto. Non potrà succederLe nulla: tutto è completamente senza vita. Né ricchezze nel sottosuolo, né coltivazioni, nulla. Numerose tracce di questa o quell’epoca, pietre, frammenti di muro, segni, di che cosa nessuno lo sa. Una chiesa in rovina. Scheletri. Orme di animali selvatici passati di lí. Quattro, cinque giorni di solitudine, di silenzio, – disse. – Una natura completamente indisturbata dagli uomini. Qua e là una cascata. È come attraversare un millennio di un’epoca preumana».
La sera qui scende improvvisa come un colpo di tuono. Come se a comando venisse fatto calare un enorme sipario di ferro che separa una metà del mondo dall’altra con un taglio netto. Ad ogni modo: la notte cala nel tempo di fare un passo. Si spengono i tristi opachi colori. Tutto si spegne. Nonvi è transizione. È a causa del föhn che il freddo nelle tenebre non diventa piú intenso. Un clima che a dir poco indebolisce i muscoli cardiaci quando non li blocca del tutto. Gli ospedali la sanno lunga su quest’aria: pazienti che sembravano guariti a forza d’imbottirli d’arte medica sino all’inverosimile, sino a ritrovare la speranza, cadono in deliquio e non possono piú essere riportati alla vita da nessuna teoria umana per quanto abilmente applicata. Influenze atmosferiche che favoriscono gli emboli. Misteriose formazioni di nuvole molto lontano, da qualche parte. I cani corrono come impazziti attraverso vicoli e cortili e aggrediscono anche le persone. I fiumi esalano un odore putrido lungo tutto il loro corso. Le montagne hanno la forma di strutture cerebrali contro cui si può andare a sbattere e sono nitidissime di giorno, assolutamente invisibili di notte. Estranei si rivolgono la parola improvvisamente a un crocicchio, fanno domande e dànno risposte che non gli sono mai state richieste. Come se fosse un momento di fratellanza totale: la bruttezza osa avvicinarsi alla bellezza, la brutalità alla debolezza. Rintocchi d’orologi cadono come gocce sul cimitero e sugli spioventi dei tetti. La morte si fa abilmente strada in mezzo alla vita. Tutt’a un tratto anche i bambini cadono in uno stato di prostrazione. Non gridano, ma si buttano sotto a un treno accelerato. Nelle osterie e alle stazioni, vicino alle cascate, s’intrecciano rapporti che non durano piú di un secondo. Si stringono amicizie che non fanno neanche in tempo a sbocciare; il tu viene esaltato come una tortura sino all’intenzione omicida e poi rapidamente soffocato in una piccola malvagità.

Weng si trova in una fossa, scavata durante milioni di anni da enormi blocchi di ghiaccio. Il ciglio dei sentieri invita alla lussuria.

Terzo giorno

«Io non sono un pittore, – ha detto oggi, – tutt’al piú sono stato un imbianchino».

Tra me e lui ora c’è una tensione che crea un rapporto tra noi, al di sotto e al di sopra di noi. Eravamo nel bosco. Muti. Solo la neve bagnata, gravando con i suoi chili di peso sui nostri piedi, sussurrava parole incomprensibili, ma continue. Rompeva il silenzio. S’insinuava tra le parole inudibili, solo pensate, che c’erano e non c’erano. Lui continua a esigere che io lo preceda. Ha paura di me. Dalle storie che si raccontano e per esperienza diretta sa che i giovani rapinatori aggrediscono alle spalle. La fisionomia spesso c’inganna e non vediamo l’arma in mano all’assassino o al rapinatore. L’anima, se cosí si vuol chiamare questa «pellegrina tra le leggi», semplicemente perché si crede che esista, allunga il passo, ma quell’insieme di diffidenza paura e sospetto che è la ragione, rimane indietro e sventa ogni tranello. Benché io dica che non conosco la strada, lui mi fa camminare davanti. Di tanto in tanto un ordine come «sinistra» o «destra» mi toglie dalla convinzione che lui se ne sia andato troppo lontano, assorto nei propri pensieri. Brancolando nel buio totale e con impazienza eseguo questi ordini. Il fatto curioso era che non vedevo alcuna luce secondo cui potermi orientare. Era come remare nel buio – anche per lo spirito e in quei momenti l’equilibrio è ovunque e da nessuna parte. Come farei se ora fossi solo? Questo era uno dei tanti pensieri che sorgevano improvvisi. Il pittore camminava dietro di me come un carico tremendo per il mio sistema nervoso: come se lui dietro alla mia schiena non facesse altro che trinciar giudizi e sputar sentenze. Poi cominciò ad ansimare e mi chiese di fermarmi. «Io faccio questa strada ogni giorno, – disse, – sono decenni che la faccio. Potrei farla nel sonno». Cercai di sapere qualcosa di piú sul perché lui ora si trovasse a Weng. «La mia malattia e tutti gli altri motivi messi assieme», disse lui. Non m’aspettavo chiarimenti piú espliciti. Gli descrissi la mia vita come meglio potevo con poche frasi da epigrafe nelle quali infilai qualche sprazzo di luce e anche una nota di tristezza, come la mia vita – a mio parere – m’avesse fatto diventare quel che sono ora – senza rivelare chi in questo momento io sia veramente – con una sincerità che sorprese anche me stesso. Il mio racconto non lo interessò affatto. Gli importava soltanto di sé.

«Se Lei sapesse qual è la mia età anagrafica, ne sarebbe spaventato, – disse lui. – Lei certo immagina che io sono un vecchio, è una cosa che i giovani fan presto a pensare. Lei però ne resterebbe sbalordito». La disperazione sul suo volto parve ancora incupirsi di qualche grado. «La natura è crudele, – disse, – ma il trattamento piú crudele lo riserva ai suoi talenti piú belli, piú straordinari, a quelli da lei prescelti. Li calpesta senza batter ciglio».

Il pittore non stima molto sua madre, ancora meno suo padre. Per i suoi fratelli dopo tanti anni nutre la stessa indifferenza che loro – cosí crede lui – hanno sempre nutrito nei suoi confronti, ma dal modo in cui lo dice risulta chiaro quanto abbia amato sua madre e suo padre e i suoi fratelli. Quanto sia loro rimasto affezionato! «Tutto per me è sempre stato triste», disse. Gli feci percorrere un tratto della mia infanzia. Lui commentò: «Tutte le infanzie sono eguali. Solo che una appare in una luce ordinaria, l’altra in una luce soave, l’altra ancora in una luce diabolica».

Alla locanda mi pare che lo trattino col dovuto rispetto, ma dietro alle sue spalle gli fanno tanti versacci.

«I loro eccessi sono ben noti. La loro mania sessuale si respira nell’aria. Si indovinano i loro pensieri, le loro intenzioni, si sente che in loro si nasconde qualcosa di proibito. I loro letti si trovano sotto alla finestra e dietro alla porta e a volte non si tratta neppure di letti: in quei giacigli passano da una turpitudine all’altra... Gli uomini trattano le donne come carne ben battuta e, viceversa, queste trattano quelli come dei subalterni idioti. Tutti questi potrebbero venir loro imputati come gravi delitti. La primitività è la loro prerogativa comune. Alcuni per reagire hanno bisogno di mettersi d’accordo, altri si può dire che sappiano tutto per natura... i pantaloni troppo stretti, le giacche, risvegliano in loro istinti bestiali. Le sere non passano mai: non se ne può piú! Si fanno due passi, si entra in qualche posto, si torna fuori, si va di qua e di là per non morir di freddo... le bocche rimangono chiuse, ma il resto si scatena... il mattino passa sui loro volti e mette tutto a soqquadro. È la mania sessuale che distrugge tutto. La mania sessuale, la malattia che annienta per sua natura. Presto o tardi rovina anche l’interiorità piú profonda... trasforma una cosa nell’altra, il bene nel male, l’alto nel basso. Senza Dio, perché prima di tutto sopraggiunge la rovina... allora la moralità diventa immoralità, modello di ogni tramonto. Ambiguità della natura, si potrebbe dire. Gli operai che si vedono in giro da queste parti, – disse lui, – vivono solo di sesso come la maggior parte delle persone, come tutte le persone... Vivono implicati in un processo continuo e selvaggio – che si protrae sino alla loro morte – contro il pudore e contro il tempo e viceversa: è la rovina. Il tempo infligge loro duri colpi e dopo la loro strada è tutta lastricata di lussuria. Gli uni la tengono a freno, la mascherano meglio, gli altri meno abilmente. Quelli abili si scoprono solo quando ormai non c’è piú rimedio. Tutti vivono una vita sessuale, non una vita».

Mi domandò quanto tempo mi sarei trattenuto a Weng. Gli dissi che dovevo preparare degli esami per la primavera. «Studiando giurisprudenza, – disse lui, – non Le sarà difficile un giorno trovare un impiego. I giuristi trovano impiego sempre e dappertutto. Avevo un nipote che era giurista, solo che è impazzito sopra montagne di documenti e ha dovuto liquidare la propria attività. È finito a Steinhof. Lei sa che cos’è?» Dissi che il manicomio di Steinhof mi era ben noto. «Allora saprà anche com’è finito mio nipote», disse lui.

Ero preparato a un caso difficile, non a un caso disperato. «Forza di carattere che conduce alla morte», questa frase di un libro letto quand’ero molto giovane mi tornò in mente ed evocò i pensieri che ebbi nel pomeriggio sulla persona del pittore: come mai pensa solo al suicidio? È possibile che per qualcuno il suicidio sia una specie di segreta voluttà, che possa dominare una persona cosí completamente? Ma il suicidio che cos’è? Cancellare se stesso. Con o senza il diritto di farlo. Con quale diritto? Perché no? Cercai di concentrare tutti i miei pensieri su un unico punto, quello in cui si trova la risposta alla domanda: è lecito il suicidio? Non trovai una risposta. In nessun luogo. Poiché gli uomini non sono una risposta, non possono esserla, nulla di ciò che vive e nemmeno i morti. Suicidandomi io anniento una cosa della quale non ho colpa. Una cosa che mi è stata affidata? Affidata da chi? Quando? Ero consapevole allora che questo stava accadendo? No. Ma una voce che è impossibile non udire mi dice che il suicidio è peccato. Un peccato? Un semplice peccato? Un peccato mortale? Un semplice peccato mortale? La voce mi dice che è una cosa che fa precipitar tutto. Tutto? Che cos’è «tutto»? La sua parola d’ordine, sia da sveglio che da addormentato: suicidio. Lui dentro a questa parola ci soffoca. Sta murando una finestra dopo l’altra. Tra poco si sarà murato vivo. Allora, quando non vedrà piú nulla, perché non riuscirà piú a respirare, diventerà convincente: perché sarà morto. Ho l’impressione di trovarmi all’ombra di un processo mentale che mi è affine, il suo: di essere all’ombra del suo suicidio.

«Il cervello ha la struttura di uno stato, – disse il pittore. – Improvvisamente regna l’anarchia». Rimasi ad aspettarlo finché ebbe finito di mettersi le scarpe. I grandi aggressori e i piccoli aggressori, nel mondo delle idee come in quello degli uomini, spesso stringono alleanze per poi romperle da un’ora all’altra. E poi «l’essere capiti e il voler essere capiti sono un inganno, un inganno che si basa su tutti gli errori dei due sessi». I contrasti, come una notte eterna, dominano il giorno che agisce solo in apparenza. «I colori, sa, sono tutto. Dunque le ombre sono tutto. I contrasti hanno un grande valore cromatico». In molte cose succede come coi vestiti che si comprano e s’indossano un paio di volte e poi si levano e non s’indossano mai piú, nel migliore dei casi si rivendono – non si regalano – o si lasciano invecchiare in un armadio. Finiscono in soffitta o in cantina. «Dalla sera si vede il mattino, – disse lui, – il mattino tuttavia è poi sempre ancora una sorpresa». Non esiste esperienza, a rigor di termini: «ecco perché non esiste l’uomo equilibrato!» A dire il vero esistono però delle possibilità che ci consentono di non essere piú alla mercé di tutto, di non essere completamente perduti. «Ma queste possibilità io non le ho mai avute». In un momento tutto ciò che conta nella vita perde ogni valore. «Lo sforzo s’arrampica su per il monte della delusione», disse lui. Mentre la perdita avviene facilmente, lo sforzo è invece un processo brutale, ancora piú brutale di prima. «Chi arriva in cima scopre in ogni caso che la cima non esiste. Quand’ero giovane come Lei, già da tempo mi tranquillizzava sapere che nulla merita uno sforzo. E mi inquietava. Oggi mi spaventa di nuovo: in questo terrore ho perso il senso dell’orientamento». Lui chiamava il proprio stato «spedizioni nelle giungle della solitudine. Come se io dovessi attraversare dei millenni perché un paio di attimi mi rincorrono col bastone», disse lui. Non gli era mai mancata l’occasione di sacrificarsi e non si era mai sottratto né avrebbe potuto sottrarsi allo sfruttamento da parte degli altri. «Io continuavo a investire negli uomini anche quando sapevo già da tempo che mi raggiravano, che avevano deciso di ammazzarmi». In seguito s’era aggrappato soltanto a se stesso «come ci si aggrappa a un albero già morto, ma che è pur sempre un albero», la ragione e il cuore se n’erano andati da lui, scacciati e relegati lontano.

Nel villaggio c’è gente che non è mai uscita dalla valle. La portatrice di pane per esempio, che ha incominciato a portare pane all’età di quattro anni e non ha mai smesso fino a oggi che ne ha settanta. Il lattaio. Tutti e due finora hanno visto il treno solo da fuori. E la sorella della portatrice di pane e il sagrestano. Il distretto di Pon per loro è come per gli altri l’Africa nera. Il calzolaio. Rimangono là dove si guadagnano il pane e il resto non li interessa. Oppure hanno paura di metter piede fuori casa. «È stato un amico a darmi l’indirizzo della locanda», dissi io. Come ho fatto a dire questa bugia? Nel modo piú naturale, come se nulla fosse piú facile che mentire. «Dato che mi piace visitare luoghi e paesaggi che non conosco, – dissi io, – non ho esitato». «L’aria ha una composizione terribile, – disse il pittore. – Di colpo le condizioni atmosferiche cominciano a limitare la Sua libertà di movimento». Voleva sapere perché come alloggio non mi fossi scelto una locanda migliore, visto che ci sono tante locande e persino delle pensioni. «Anche laggiú nella valle. Ma quelle vanno bene per i viaggiatori di passaggio, soltanto per trascorrervi una notte». Mentii dicendo che tutto era stata un’idea di un amico. Cosí, provvisto di qualche indirizzo, ero partito per venire qui. «E il suo viaggio s’è svolto senza incidenti?» mi domandò. Non riuscivo a ricordare nessun incidente durante il viaggio. «Sa, – disse lui, – quando viaggio io, mi capita sempre qualche incidente». Ritornando al villaggio e alla locanda disse: «Bisogna portarsi dietro qualche libro oppure un lavoro. Lei non s’è portato niente?» «Un libro di Henry James», dissi io. «Henry James?» domandò lui. «Io, – disse lui, – l’ho fatto apposta a lasciare a casa i libri. A dire il vero ho qui con me qualche scritto minore. Ma in realtà nient’altro che il mio Pascal». Non mi guardò mai in faccia per tutto quel tempo, camminava completamente curvo. «Perché io ho chiuso, – disse, – ho chiuso come si chiude un negozio dopo che è uscito l’ultimo cliente». E poi: «Qui Lei può fare un mucchio di osservazioni che si trasformano tutte in gelo, in antipatia verso se stessi. Se vuol dirla cosí: dove c’è gente si ha la possibilità di osservare. Soprattutto di osservare ciò che la gente non fa, che è poi ciò che in realtà la uccide». Qui non esiste un sola cosa «davanti alla quale ci si potrebbe levare il cappello». Non c’è limite alla bruttezza e al prezzo che si paga per ogni cosa. «Mi fa piacere che a Lei non piaccia la moglie dell’oste, – disse lui. – Non poteva essere altrimenti». Non disse nulla di piú preciso. Non avere pietà, ma limitarsi a lasciar lavorare la repulsione e lasciarle raggiungere il suo scopo, questo in molti casi è un vanto assoluto della ragione. «Quella donna è un mostro, – disse lui, – qui Lei incontrerà tutta una serie di mostri. Soprattutto alla locanda». Chissà se avevo la capacità di valutare un carattere mettendolo in relazione con un altro, una capacità «che non richiede nessuna intelligenza, ma che solo poche persone posseggono?» Costruire un terzo carattere intermedio fra i due e cosí via... un esercizio che gli faceva passare il tempo. «C’è la possibilità, – disse lui, – che Lei si svegli durante la notte. Non abbia paura. Si tratta di un compagno di letto della moglie dell’oste che se la sta filando e che non è pratico della casa, oppure è lo scuoiatore di cui si dice che sia completamente cieco di notte. Fratture e slogature di ogni genere non gli hanno sinora impedito d’infilarsi nel letto della moglie dell’oste». La moglie dell’oste secondo il pittore favorisce tutti eccetto lui. Per esempio ogni quattro o cinque giorni cambia le lenzuola in tutte le camere salvo che nella sua. Non gli riempie mai bene il bicchiere e se qualcuno le chiede informazioni sul suo conto, lei s’inventa le bugie piú sfacciate. Ma prove lui non ne ha, perciò non può chiederle delle spiegazioni. Dissi che non credevo che la moglie dell’oste raccontasse cattiverie sul suo conto. «E invece sí, – disse lui, – parla di me come se fossi un cane. Dice persino che faccio la pipí a letto. Dietro alle mie spalle si picchia l’indice in testa per far capire che sono pazzo. Dimentica che esistono gli specchi. La maggior parte della gente se ne dimentica». Lei gli allungava il latte con l’acqua. «E non è solo il mio latte che allunga». Senza contare che – secondo lui – cucinava carne di cane e di cavallo. «Alle sue figlie tanti anni fa ha detto che io sono un orco. Da quel giorno le bambine mi evitano». Secondo lui lei aveva sempre letto le sue cartoline e persino aperto le sue lettere tenendole sopra il vapore di una pentola e ingurgitandone il contenuto. «Era sempre informata su cose che io non le avevo mai raccontato».Ora lui non riceveva piú posta. «È finita per sempre». Disse: «Senza considerare che mi fa pagar tutto due o tre volte di piú perché crede che io sia un uomo ricco. Tutti qui lo credono. Persino il parroco vive in questa illusione e mi assilla con continue richieste di elemosine. Ho l’aria di avere dei soldi? Sembro un possidente?» «Per i contadini, – dissi io, – chiunque venga dalla città ha del denaro che gli si può tirar fuori dalle tasche. Soprattutto si crede che le persone colte abbiano del denaro». «Ho l’aria di una persona colta? – domandò lui, – la moglie dell’oste mi mette in conto delle cose che non ho mai ricevuto. E viene a supplicarmi perché paghi i pasti consumati da qualche disoccupato durante la settimana. Naturalmente io non dico di no. Ma dovrei dire di no. Perché non dico di no? Lei imposta tutto sull’inganno. Inganna tutti. Persino le sue figlie». L’inganno può essere un pungolo per certe persone. «E anche un impulso ad agire», disse il pittore.

Quando sono venuto a Weng per la prima volta lei non aveva ancora sedici anni. So che sta a origliare dietro alle porte. Se aprissi una porta di colpo, andrei a sbattere contro la sua testa. Io però mi guardo bene dal farlo. È una pessima guardarobiera. Nei fazzoletti piegati da lei si trovano macchie d’insetti e anche gli insetti stessi, anzi persino dei vermi. Nella notte tra il venerdí e il sabato mette in for-no una enorme torta lievitata, il cosiddetto «Schlögel», nell’intervallo tra due uomini che lei strapazza senza pietà. Lo scuoiatore ignora l’esistenza di un ospite al piano di sotto che lei schiaccia con i suoi seni in modo altrettanto turpe. Le sue ricette corrono di bocca in bocca. È tanto brava a cucinare quanto è pericolosa, quant’è depravata. Nel suo ripostiglio di provviste in cantina e in soffitta, tra sacchi di zucchero e farina, trecce di cipolle, pagnotte, mucchi di patate e di mele, ci sono le prove del reato, i cimeli della sua abiezione, come mutande maschili imputridite e rosicchiate dai topi. «Un’interessante collezione di questi sudici cimeli si trova gettata alla rinfusa laggiú e lassú. Per lei è una soddisfazione particolare, in tempi di scarsità d’uomini, ritornare di tanto in tanto a contare questi cimeli e ricordarsi dei loro proprietari. Sono due anni ormai che lei non si leva mai di dosso le chiavi che le permettono di accedere a questi preziosi oggetti in soffitta e in cantina, e nessuno all’infuori di me immagina che cosa mai con quelle chiavi lei sia in grado d’aprire».

Come i vecchi la saliva, cosí il pittore Strauch sputava le sue frasi. Lo rividi solo per cena. Nel frattempo mi ero seduto in sala e osservavo il gran trambusto del pranzo. Il pittore arrivò troppo tardi per la moglie dell’oste, alle otto passate: a quell’ora i posti rimasti occupati erano soltanto quelli dei bevitori abituali. Nella sala ristagnava un tanfo – ormai denso – di sudore birra e stoffa di tute da lavoro. Il pittore apparve nel vano della porta, allungò il collo per cercare un posto e non appena mi vide, si diresse verso di me e mi si sedette di fronte. Disse alla moglie dell’oste che non voleva mangiare la cena riscaldata. Di portargli del pasticcio di fegato e delle patate arrosto. Rinunciava alla minestra. Per molti giorni aveva sofferto d’inappetenza, oggi invece aveva fame. «Difatti gelavo. Non faceva freddo, al contrario,ma il föhn, sa. Era dentro, capisce, che gelavo. È dentro che si gela».

Non mangia come una bestia né come un operaio e nemmeno come uno capitato lí da un mondo primitivo. È come se ogni boccone si facesse beffe di lui. Il pasticcio di fegato sul suo piatto era «un pezzo di cadavere», disse lui. Nel dire questa frase mi guardò. Ma io non mostrai la ripugnanza che lui s’era aspettata da me. Io con la carne di cadavere ci lavoro sempre e cosí non c’è piú nulla che mi ripugni. «Tutto quel che mangiano gli uomini son parti di cadavere», Disse lui. Vidi quant’era deluso. Una delusione infantile lasciò sul suo volto una traccia di dolorosa insicurezza. Poi parlò del valore e della mancanza di valore degli uomini. «L’elemento bestiale, – disse, – che è sempre in agguato nell’uomo e che ci fa pensare alle zampe dei predatori, pronti – a un solo cenno – a spiccare un balzo e a conficcar gli artigli, è quello stesso elemento bestiale che percepiamo attraversando la strada come centinaia di altre persone assieme a noi, capisce?» Masticava e diceva: «Non ricordo quel che stavo per dire, solo che era una malignità. Questo lo so. Spesso di tutto quel che si sta per dire non ci resta che questa sensazione, che si stava per dire una malignità»...


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  • Frost - Traduzione di Magda Olivetti, Giulio Einaudi editore, 1986.
  1. La struttura originale del testo è stata rispettata.
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