Thomas Bernhard/Appendice I

Thomas Bernhard o della caustica visione: la scrittura al vetriolo che seppellirà il mondo

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Thomas Bernhard

(Stralcio da un articolo di Antonella Pierangeli, 2013)[1]
Aspro, misantropo, pessimista. Un solitario arroccato sulle montagne, metaforiche e non. Austriaco ma nato in Olanda. Capace di odiare a tal punto il proprio paese da proibire dopo la sua morte, avvenuta per tubercolosi nel 1989, la pubblicazione in Austria dei suoi romanzi e la rappresentazione dei suoi drammi. Il più scostante degli scrittori di lingua tedesca. Al tempo stesso, ne sa qualcosa la povera Gerda Maleta,[2] per quasi vent’anni compagna di viaggio e di taverne, autrice di un bellissimo libro di ricordi a lui dedicato (le sue note del viaggio con Bernhard, mai tradotte in Italia, edite da Bibliothek der Provinz, sono uscite in Austria nel ’92 col titolo Seteais – Tage mit Thomas Bernhard), un uomo alto e dinoccolato con una passione sfrenata per le scarpe – ne possedeva più di cento paia – pronto a inseguire il sole, patito del Mediterraneo e delle notti senza umidità in cui si può dire quasi tutto "senza correre il rischio di morire dal ridere".
Thomas Bernhard e l'incomunicabilità della scrittura: fino a qualche tempo fa messo all’indice perché difficile, maldigerito per i suoi chilometrici monologhi, giudicato, con le sue prospettive oscure e semanticamente suicide, ponderoso e insostenibile, si è sempre salvato dalla soccombenza.[3] Ma chi è Thomas Bernhard veramente? Un simbolo della cultura impegnata per palati speciali e, mi si consenta, un poco snob? Un grande scrittore allo stesso livello di Kafka o Beckett o semplicemente l'epigono di certi titanismi del Romanticismo, cioè un efficace, talentuoso, crudele scienziato della negatività cui solo il suicidio sembra soluzione accettabile da opporre agli orrori del mondo? In realtà la risposta è sicuramente un'altra: senza cadere nell’autobiografismo compiaciuto o nell’ovvietà, Bernhard, che scrive innanzitutto sempre se stesso, sia per la scena che per la pagina, ha nel suo luogo mentale un elemento di forza sicura. Scrive infatti "per avversione" e, armato di un fraseggio che, livoroso, si aggrega e si sgretola nell'invettiva, egli trova nella scrittura quello che definisce "un piacere che si unisce al fastidio". Tutto allora si compie nell’ottica caustica e beffarda della narrazione: la sua avversione per le due città austriache in cui trascorse la giovinezza, salvo fuggirne poi esasperato; la Vienna dei grandi palazzi, la Salisburgo aristocratica, vescovile, musicale ma anche oppressa da un hinterland senza identità che ne sconfessa la folata artistica. Scrive dell’Austria di destra, arrampicata su rocce inverdite dai boschi di conifere dove s'annida la protervia ariana, consapevole o inconscia, che genera oscure infermità, passioni sconce, follia. Scrive del fragore dei torrenti che scendono a valle, i rifugi inviolabili, i castelli in disuso, le casupole, le fumose osterie. Lui ostinato abitatore di un eremo montano, scrive dei rapporti perversi che le famiglie chiuse in se stesse partoriscono e crescono fra le vette. Tutto alla luce di una lingua ricercata, impeccabile, segnata dalla ripetizione ossessiva, la Ricorrenza, scelta come elemento caratterizzante e metronomo delle lucide ossessioni e dello humour che di Bernhard sono un tratto distintivo e allucinato; come dice Emilio Garroni – in Un esempio di interpretazione testuale: "Korrectur" di Thomas Bernhard, in L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, 2003 – "a proposito di Bernhard Ricorrenza, dunque, non è solo 'ripetizione materiale', che potrebbe anche essere accorto mascheramento testuale del vero tema, è piuttosto capacità della ricorrenza di far risaltare in un’interpretazione una ossessione letteraria”.
Se è vero infatti che le sue maledizioni nei confronti dell’Austria conservatrice e borghese, sorda alla stessa bellezza rivoluzionaria dei propri talenti, da Mozart a Schubert, sono tazze di puro veleno, se è vero che mette in campo dei personaggi tremendi, impegnati a coniugare i verbi della disgregazione tanto cari a Bernhard, lo spirito generale di quella sua tremenda scrittura spesso si risolve, al contrario, in una rarefatta, ironica, comicità. Il famoso ghigno di Bernhard, crasso e tagliente, in un certo senso motiva le contraddizioni: da una parte monaco intransigente, rabbioso oppositore delle patrie istituzioni (dichiarò fra l'altro nel 1984: "In Austria ci sono più nazisti oggi che nel ’38: il cancelliere è uno speculatore di Borsa, il primo ministro un bugiardo, i socialisti i becchini dello Stato"), dall’altra ridanciano compagno di Gerda alla quale, durante i suoi viaggi al Sud, regalava bei vestiti e lunghe partite a carte.
Monolito a due facce insomma. È proprio questa sua ambivalenza a tinte forti, rivestita dalla parola scelta e resa tragica, che offre alla letteratura l’arma fortemente ambigua del pessimismo divertente: un passepartout che il Novecento non può non cogliere al volo, per esprimere, a bocca digrignata, il proprio disagio e la propria disperazione.

« Cosi parlò Thomas: I critici? Una muta di bestie. Gli scrittori? Opportunisti da pollaio»

I personaggi dei suoi libri sono senza speranza, anche se Thomas Bernhard non aveva niente a che vedere con loro, se così fosse stato, si sarebbe dovuto uccidere cento volte: "Dovrei essere un prodigio di perversità, dalle 5 del mattino alle 10 di sera". Aveva fatto questa dichiarazione a Werner Wogerbauer, una mattina di luglio del 1986, seduto al caffè Braunerhof di Vienna, in una giornata in cui dichiarava di essere ben disposto perché "aveva sorriso". Negando poi immediatamente di star rilasciando un’intervista (pubblicata dopo la sua morte, dal mensile Leggere, agosto-settembre 1989; ne concedeva poche, infatti), spiegò che quando si vuole trasformare in intervista una semplice conversazione, ogni cosa diventa immonda: "Si parla del tempo, si schiaffa tutto dentro un frullatore, si preme il pulsante a turno e ne esce un’infame sbobba puzzolente".
Alcuni giorni prima di morire confessò che aveva sempre desiderato suicidarsi, poiché non l’aveva fatto "la vita doveva valere di più di qualsiasi altra cosa".
Il mondo, affermava, è popolato di imbecilli. Nessuno s'impegna e tutto deperisce e muore se non si utilizza: "Siccome la gente si serve solo della propria bocca, non del proprio cervello, ha strozza e mascelle ipertrofiche, ma nel suo cervello non c’è niente".
L'umanità è sempre vissuta con delle idee stupide in testa "e la stupidità è inguaribile". Bernhard aggiungeva poi che i farabutti sono più numerosi delle persone decenti, poi "ognuno fa solo quello che può tornargli utile e gli permette di restare a galla. Così almeno crede".
Gli editori che conosceva, denunciò a Wogerbauer, erano "degli strapazza manoscritti" e i critici "delle marionette volgari e rozze... Una muta di bestie dannose".
Non amava neanche gli scrittori "quasi tutti degli opportunisti, si buttano indifferentemente a destra e a sinistra, uno sfrutta la propria malattia, un altro si agita per la pace ma in fondo è un tipo ignobile e stupido". Una malattia è sempre un capitale, sottolineava e "ogni malattia superata è sempre un affare d’oro. Soltanto non bisogna specularci sopra, altrimenti un giorno puoi fare cilecca".
I suoi testi avevano il senso della musica "perché scrivere prosa ha sempre un rapporto con la musicalità" ma rifiutava di indagare sui contenuti "Non devi mai pensare al tragitto percorso, altrimenti non arriverai mai a qualcosa d'interessante". E non seguiva il destino dei suoi libri, tantomeno all’estero: "Una traduzione non ha nulla a che fare con l'originale".
Affermò che l'Austria non riconosceva alcun valore alla letteratura, perciò gli austriaci lo leggevano meno che in altri Paesi: "In Austria si fa del cabaret con tutto ciò che è serio e così lo si svuota del suo potenziale pericoloso". Tendeva alla perfezione Bernhard, come disse ancora a Wogerbauer, perché il fascino di ogni arte è "la capacità di suonare sempre meglio lo strumento che si è scelto". Anche se tutto finisce al cimitero: "Qualunque cosa si faccia, la morte porta via tutto".
Così parlò Bernhard, l’obscure.

I sette sospiri di Thomas Bernhard

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Thomas Bernhard

(Stralcio da un articolo di Isabella Bossi Fedrigotti, s.d.)[4]
Thomas Bernhard, il piu' aspro, intransigente e scostante degli scrittori di lingua tedesca, capace di maledire tutto e tutti, in primo luogo la natia Austria e la sua gente (tanto che, quando mori' di tubercolosi sette anni fa, lasciò scritto che nessuna delle sue opere doveva più essere pubblicata o messa in scena nel suo Paese), era in realtà un uomo di grande humour, capace di passare ore a ridere, tra battute, imitazioni, giochi di carte e di parole, e vino rosso. Un uomo pieno di fantasia, di attenzioni, di sarcasmi e tenerezze, un compagno di chiacchiere, di gite, di osteria, in grado, come uno studente, di far la valigia e decidere di partire in ventiquattr' ore, dalla casa di campagna dove viveva, per la Sicilia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo, mete assolate sempre, per via della malattia che negli inverni del nord gli tagliava il respiro. Uno scrittore che, pur avendo in tutti i modi espresso il suo disprezzo per ogni tipo di apparato, militare, politico o ecclesiastico (basti pensare alla sua ultima piece Piazza degli eroi, nella quale con violenza butta dal piedistallo tutti i grandi e meno grandi austriaci), non solo fu amico fraterno di un vescovo italiano, ma compose anche alcuni salmi e una volta fu fortemente tentato di interrompere un itinerario portoghese per deviare in direzione Fatima. Il volto privato, umano dell'inavvicinabile e perennemente corrucciato Bernhard è rievocato da una sua amica di lunga data, Gerda Maleta, più o meno coetanea dello scrittore, sua vicina di campagna, confidente, accompagnatrice. Non compagna. Partner di innumerevoli conversazioni, viaggi, escursioni culturali, serate teatrali, pranzi e cene; ma anche punchingball pronta ad assorbire i suoi sbalzi di umore, le sue invettive, i silenzi, rare volte perfino le lacrime. Mamma e figlia doveva essere Gerda (moglie e ora vedova di un anziano ex politico socialista), amica e segretaria, infermiera e giullare, presenza evanescente e tuttavia tenace. Non amante. C'era già Hede, sua compagna per quarant'anni, bizzarramente, forse perché più anziana, da lui soprannominata "zia". Donna però sì: nel senso che egli si seccò molto quando la trovò per scherzo abbracciata a un quasi sconosciuto e si scandalizzò la volta che, durante un viaggio, la sorprese in camera in sottoveste, convinto che si trattasse di una rozza avance, mentre in realtà ella stava solo aggiustandosi la gonna. Ma donna, femmina anzi, anche per il modo in cui le si rivolgeva: "Lei ha 40 grammi di comprendonio e 3 chili di sesso", le disse una volta infuriato per qualche sua irragionevolezza pensando ovviamente di offenderla, mentre Gerda, che aveva già passato i cinquanta, si sentì ringalluzzita dal complimento. Senza parlare del fatto che spesso e volentieri l'accompagnava in qualche boutique e per lei sceglieva un gran numero di abiti. Per tutti i diciassette anni che durò la loro amicizia, pur confidenti e a volte estremamente intimi, sempre si diedero rigidamente del lei. È soltanto nel libro di ricordi che Gerda Maleta gli ha dedicato sotto forma di lunga e affettuosa lettera che infine gli dà del tu. Seteais: giorni con Thomas Bernhard s'intitola il volume, pubblicato qualche tempo fa da un piccolo editore austriaco, "Bibliothek der Provinz", e passato quasi inosservato probabilmente proprio perché Bernhard ha fatto di tutto per non farsi amare in patria, pur soffrendo atrocemente di questo disamore. Il misterioso "Seteais" del titolo è il nome di una palazzo portoghese visitato assieme, che significa "sette sospiri": sospiri di infelicità, di disperazione o di gioia, sempre rievocati dai due amici viaggiatori come parola magica da usare. Tra loro. Come un misterioso e felice codice privato. Ma non vi sono solo amenità nel libro della Maleta, come la passione di Bernhard per le scarpe belle e costose, come gli appellativi dolci o gli epiteti offensivi che egli inventava per lei a seconda se era fortunato o sfortunato a carte ("Bambina d' oro", "Pulcina", "Prugnetta mia" o "Puzzona", "Bestiaccia"), come la sua esasperazione di fronte all'entusiastica esternazione di un maresciallo dei carabinieri incontrato sulle pendici dell'Etna il quale, nell'apprendere che aveva a che fare con degli austriaci, non aveva cessato di invocare a gran voce l'imperatore Cecco Beppe; oppure la sua comica perplessità quando, sempre in Sicilia, comprò una macchina da scrivere realizzando solo al momento di mettersi a tavolino per lavorare che la tastiera era italiana e non prevedeva dittonghi e dieresi. Ci sono la malattia di Thomas Bernhard, la sua infelicità, la terribile solitudine, la sapienza, la grazia, la vulnerabilità. Ci sono, soprattutto, le sue parole lasciate come un' eredità: "Non si lasci influenzare da niente e da nessuno, non pensi né allo stile né alla forma, scriva nella lingua del suo io che non è ripetibile, che è sincero e ha la sua propria forza d'espressione". Ci vorrebbe per tutti. Vien da pensare con invidia. Un amico che sia scrittore.

In terra e all'inferno

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Thomas Bernhard

Si riportano qui di seguito alcune poesie di Thomas Bernhard, estratte dalla sua prima raccolta intitolata Auf der Erde und in der Hölle (In terra e all’inferno) e pubblicata nel 1957. Le liriche vengono proposte nell’originale in tedesco e in libera traduzione italiana. Evidente l'influenza del molto ammirato poeta Georg Trakl.

Der Tag der Gesichter

Morgen ist der Tag der Gesichter. Sie werden
sich erheben wie Staub
und in Gelächter ausbrechen.
Morgen ist der Tag der Gesichter, die in
die Kartoffelerde gefallen sind. Ich kann
nicht leugnen, daß ich
an diesem Sterben der Triebe schuldig bin.
Ich bin schuldig!
Morgen ist der Tag der Gesichter, die meine Qual
auf der Stirn tragen,
die mein Tagwerk besitzen.
Morgen ist der Tag der Gesichter, die wie Fleisch
auf der Kirchhosfmauer tanzen
und mir die Hölle zeigen.
Warum muß ich die Hölle sehen? Gibt es keinen anderen Weg
zu Gott?
Eine Stimme: Es gibt keinen anderen Weg! Und dieser Weg
führt uber den Tag der Gesichter,
er führt durch die Hölle.

Il giorno dei volti

Domani è il giorno dei volti. Si
solleveranno come polvere
e scoppieranno a ridere.
Domani è il giorno dei volti, caduti
nella terra delle patate. Non posso
negare di essere
colpevole di questa morte delle pulsioni.
Sono colpevole!
Domani è il giorno dei volti, che portano
il mio tormento sulla fronte,
che possiedono il mio lavoro quotidiano.
Domani è il giorno dei volti, che ballano
come carne sul muro del cimitero
e mi mostrano l’inferno.
Perché devo vedere l’inferno? Non c’è altra via
a Dio?
Una voce: Non c’è un’altra via! E questa via
passa per il giorno dei volti,
passa per l’inferno.

Ich weiß, daß in den Büschen die Seelen sind

Ich weiß, daß in den Büschen die Seelen sind
von meinen Vätern,
im Korn
ist der Schmerz meines Vaters
und im großen schwarzen Wald.
Ich weiß, daß ihre Leben, die ausgelöscht sind
vor unseren Augen,
in den Ähren eine Zuflucht haben,
in der blauen Stirn des Junihimmels.
Ich weiß, daß die Toten
die Bäume sind und die Winde,
das Moos und’die Nacht,
die ihre Schatten
auf meinen Grabhügel legt.

So che nei cespugli ci sono le anime

So che nei cespugli ci sono le anime
dei miei padri
nel grano
c’è il dolore di mio padre
e nel grande bosco nero.
So che le loro vite, che sono estinte
ai nostri occhi,
hanno un rifugio nelle spighe
nella fronte azzurra del cielo di giugno.
So che i morti
sono gli alberi e i venti,
il muschio e la notte
che le sue ombre
posa sul mio tumulo.

In einen Teppich aus Wasser

In einen Teppich aus Wasser
sticke ich meine Tage,
meine Götter und meine Krankheiten.
In einen Teppich aus Grün
sticke ich meine roten Leiden,
meine blauen Morgen,
meine gelben Dörfer und Honigbrote.
In einen Teppich aus Erde
sticke ich meine Vergängnis.
Ich sticke meine Nacht hinein
und meinen Hunger,
meine Trauer
und das Kriegsschiff meiner Verzweiflungen,
das hinübergleitet in tausend Gewässer,
in die Gewässer der Unruhe,
in die Gewässer der Unsterblichkeit.

In un tappeto d’acqua

In un tappeto d’acqua
ricamo i miei giorni,
i miei dei e i miei malanni.
In un tappeto di verde
ricamo i miei dolori rossi,
i miei mattini azzurri,
i miei borghi in giallo e le mie fette di pane e miele.
In un tappeto di terra
ricamo la mia caducità.
Ci ricamo dentro la mia notte
e la mia fame,
il mio cordoglio
e la nave da guerra delle mie afflizioni
che scivola in mille acque,
nelle acque dell’inquietudine,
nelle acque dell’immortalità.

Vor dem Dorf

Die Gesichter, die aus dem Feld tauchen, fragen
mich nach der Rückkunft.
Mein Schrei stört nicht die Schwalbe,
die auf dem zerbrochenen Ast hockt. Finster
ist meine Seele, die der Wind treibt
ans Meer, zu riechen das Salz der Erde.
Meine Legende ist sterblich.
Unter dem Baum, der meinem Bruder ähnlich ist,
zähl ich die Sterne der Schiffer.

Davanti al borgo

I volti che emergono dal campo mi chiedono
del ritorno.
Il mio grido non turba la rondine
acquattata sul ramo spezzato. Cupa
è la mia anima, che il vento spinge
al mare, a fiutare il sale della terra.
La mia leggenda è mortale.
Sotto l’albero, che assomiglia a mio fratello,
conto gli astri dei barcaioli.

Im Garten der Mutter

Im Garten der Mutter
sammelt mein Rechen die Sterne,
die herabgefallen sind, während ich fort war.
Die Nacht ist warm und meine Glieder
strömen die grüne Herkunft aus,
Blumen und Blätter,
den Amselruf und das Klatschen des Webstuhls.
Im Garten der Mutter
trete ich barfuß auf die Schlangenköpfe,
die durch das rostige Tor hereinschaun
mit feurigen Zungen.

Nel giardino della madre

Nel giardino della madre
il mio rastrello ammucchia gli astri
caduti mentre ero via.
Calda è la notte, e le mie membra
sprigionano l’origine verde,
fiori e foglie,
il grido del merlo e il battito del telaio.
Nel giardino della madre
schiaccio a piedi nudi le teste dei serpenti
che fanno capolino dal cancello arrugginito
con lingue di fuoco.


  1. Fonte di pubblico dominio, publ. da Critica Impura, 2013 (in estratto libero da copyright).
  2. Cfr. (DE) "Das Gerda Maleta Archiv", su amaleta.com
  3. Leggendo il suo Soccombente, si prova proprio questa sensazione di pesante insostenibilità che rasenta l'autodistruzione. (N.d.r.)
  4. Fonte di pubblico dominio online (in estratto libero da copyright).