Agape: la nozione di "amore" nel cristianesimo: differenze tra le versioni

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===Utilizzo del termine ''agápē'' e il suo valore nel Nuovo Testamento===
 
{{nota|larghezza = 350px|contenuto=[[File:P52 recto.jpg|center|100px]]<div style="text-align:center">'''Il perdono: termine e nozione nella cultura classica, biblica e neotestamentaria'''</div><br> La nozione di "perdono" è presente nell'età classica e nella letteratura latina si riscontra, ad esempio, nei termini di ''clementia'', ''lenitas'', ''mansuetudo'' e ''misericordia''. Nel ''De Clementia'' di Seneca questa viene appellata come la virtù più "umana" in assoluto<ref>I, 3, 2 «Nullam ex omnibus virtutibus homini magis convenire, cum sit nulla humanior, constet necesse est».</ref>. D'altronde, nota Seneca, nessuno è esente da colpa, tanto meno coloro che giudicano, eppure colui che invoca il "perdono" difficilmente è in grado di riconoscerlo agli altri<ref>I, 6,2-4 «Quotus quisque ex quaesitoribus est, qui non ex ipsa ea lege teneatur, qua quaerit? quotus quisque accusator vacat culpa? Et nescio, an nemo ad dandam veniam difficilior sit, quam qui illam petere saepius meruit. Peccavimus omnes, alii gravia, alii leviora, alii ex destinata, alii forte impulsi aut aliena nequitia ablati; alii in bonis consiliis parum fortiter stetimus et innocentiam inviti ac retinentes perdidimus; nec deliquimus tantum, sed usque ad extremum aevi delinquemus. Etiam si quis tam bene iam purgavit animum, ut nihil obturbare eum amplius possit ac fallere, ad innocentiam tamen peccando pervenit.»</ref>. Inserendo la nozione della "clemenza" all'interno della scuola stoica, Seneca la differenzia dalle nozioni di "misericordia" e "perdono" in quanto sentimenti propri di chi non guardando il contesto dei fatti si limita a vivere il dolore degli sfortunati, perdendo in questo modo la tranquillità della mente e non restituendo a costoro una pari dignità umana<ref>«Adice, quod sapiens et providet et in expedito consilium habet; numquam autem liquidum socerumque ex turbido venit. Tristitia inhabilis est ad dispiciendas res, utilia excogitanda, periculosa vitanda, aequa aestimanda; ergo non miseretur, quia id sine miseria animi non fit. Cetera omnia, quae, qui miserentur, volo facere, libens et altus animo faciet; succurret alienis lacrimis, non accedet; dabit manum naufrago, exuli hospitium, egenti stipem, non hanc contumeliosam, quam pars maior horum, qui misericordes videri volunt, abicit et fastidit, quos adiuvat, contingique ab iis timet, sed ut homo homini ex communi dabit; donabit lacrimis maternis filium et catenas solvi iubebit et ludo eximet et cadaver etiam noxium sepeliet, sed faciet ista tranquilla mente, vultu suo. Ergo non miserebitur sapiens, sed succurret, sed proderit, in commune auxilium natus ac bonum publicum, ex quo dabit cuique partem. Etiam ad calamitosos pro portione improbandosque et emendandos bonitatem suam permittet; adflictis vero et forte laborantibus multo libentius subveniet. Quotiens poterit, fortunae intercedet; ubi enim opibus potius utetur aut viribus, quam ad restituenda, quae casus impulit? Vultum quidem non deiciet nec animum ob erus alicuius aridum aut pannosam maciem et innixam baculo senectutem; ceterum omnibus dignis proderit et deorum more calamitosos propitius respiciet.» (Seneca De Clementia, II, 6, 1-3).</ref>:{{q|<small>Aggiungi che il sapiente vede in anticipo la soluzione ed ha prontezza nel decidere. Quel che è trasparente e puro, d'altra parte, non viene mai da quel che è intorbidato: la tristezza è inadatta a discernere bene le cose, a trovare quelle utili, a evitare quelle pericolose, a valutare quelle equivalenti. Il sapiente non prova quindi compassione, poiché ciò non avviene senza infelicità. Egli compirà di buon grado e con animo elevato tutte le azioni che coloro che provano compassione intendono compiere: verrà in soccorso al pianto altrui, senza aderirvi; offrirà la mano al naufrago, all'esiliato il ricovero, al bisognoso l'elemosina, non quella insultante, buttata dalla maggioranza di coloro che vorrebbero sembrare pietosi, provando disgusto per quelli che aiutano e temendo il loro contatto, ma l'offrirà da uomo a uomo, dal patrimonio condiviso in comune; grazierà un figlio in virtù del pianto di sua madre, intimerà di slegare le catene, sottrarrà alla condanna dei giochi nel circo e farà seppellire un cadavere, anche se di un reo, ma compirà questi gesti con mente tranquilla, mantenendo in viso l'espressione che gli compete. Il sapiente non proverà compassione, quindi, ma verrà in soccorso e porterà giovamento, nato com'è per un'assistenza aperta a tutti e per il bene pubblico, dal quale offrirà a ciascuno la sua parte. Anche ai soggetti a rischio e riprovevoli, ma insieme meritevoli di correzione, egli dispenserà in proporzione la sua bontà; egli soccorrerà però molto di buon grado i disgraziati e quelli che per qualche caso si trovano in difficoltà. Tutte le volte che potrà farlo, emetterà un veto contro la fortuna: quando, infatti, farà uso delle proprie sostanze o delle proprie forze meglio che per risollevare ciò che le circostanza hanno fatto precipitare? Non distoglierà certo lo sguardo e neppure l'animo di fronte alla gamba rinsecchita di qualcuno o a una magrezza cenciosa e una vecchiaia appoggiata al bastone; egli porterà giovamento a tutti quelli che ne sono degni e alla maniera degli dèi si volgerà a guardare i soggetti a rischio con occhio più favorevole.</small>|Seneca ''De Clementia'', II, 6, 1-3; traduzione di Ermanno Malaspina}}
Nella Bibbia ebraica i termini relativi al perdonare sono ''sālaḫ''<ref>Ad es. Lv 4,20; 1 Re 8,34; Sal 86,5.</ref> nel significato di "perdonare"; ''nāsā''<ref>Ad es. Gn 18, 24-26; Nm 14, 18 e sgg.; Is 53,12.</ref>, nel significato di "eliminare, sottrarre"; e ''kippœr''<ref>Ad es. Lv. 4,20 e sgg.</ref> questo inerente soprattutto ai riti penitenziali e ai sacrifici riparatori. Questi termini ebraici sono resi, nella versione greca della Septuaginta, per lo più con i termini greci di ''aphienai'' (ἀφιέναι), ''aphesis'' (ἄφεσις). Tale ambito ebraico inerisce essenzialmente alla volontà di Dio di essere misericordioso con gli uomini<ref>Cfr. ad es. Os. 11,8</ref> anche se non manca un diretto riferimento all'"amore" che copre ogni "colpa":{{q|<small>L'odio suscita litigi, l'amore ricopre ogni colpa.</small>|''Proverbi'', 10,12; |<small>נאה תעורר מדנים ועל כל־פשעים תכסה אהבה׃</small>|lingua=he}}
Nelle scritture cristiane il tema dell'amore nei confronti del prossimo, e quindi del perdono dell'offesa, diviene centrale nel messaggio religioso: solo perdonando, persino l'offesa del nemico, l'uomo può sperare nel perdono di Dio e quindi nella salvezza:
{{q|<small>Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.</small> |''Vangelo di Matteo'' 6, 14-15|<small>Ἐὰν γὰρ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, ἀφήσει καὶ ὑμῖν ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος·ὰν δὲ μὴ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, οὐδὲ ὁ πατὴρ ὑμῶν ἀφήσει τὰ παραπτώματα ὑμῶν.</small>|lingua=grc}}}}
Il Nuovo Testamento, scritto anch'esso in greco antico, continua la lezione della Septuaginta, ma escludendo del tutto il gruppo afferente ὲράω (''erao'', da cui ''eros'', "amore passionale") e utilizzando di rado quello relativo a φιλέω (''philéo'', "affetto amicale"), anche se con profondità teologica. Il gruppo afferente al lemma ἀγάπάω (''agapao'', da cui ''agápē'') è attestato nel Nuovo Testamento con ben 320 evenienze.
 
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4 caritas patiens est benigna est caritas non aemulatur non agit perperam non inflatur 5 non est ambitiosa non quaerit quae sua sunt non inritatur non cogitat malum 6 non gaudet super iniquitatem congaudet autem veritati 7 omnia suffert omnia credit omnia sperat omnia sustinet
8 caritas numquam excidit sive prophetiae evacuabuntur sive linguae cessabunt sive scientia destruetur 9 ex parte enim cognoscimus et ex parte prophetamus 10 cum autem venerit quod perfectum est evacuabitur quod ex parte est 11 cum essem parvulus loquebar ut parvulus sapiebam ut parvulus cogitabam ut parvulus quando factus sum vir evacuavi quae erant parvuli 12 videmus nunc per speculum in enigmate tunc autem facie ad faciem nunc cognosco ex parte tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum 13 nunc autem manet fides spes caritas tria haec maior autem his est caritas.»</ref>, considerato dagli esegeti il punto più alto dell'interpretazione paolina dell<nowiki>'</nowiki>''agape'' neotestamentaria, una specie di "cristologia velata" in quanto sarebbe stato proprio il Cristo, per Paolo, a fondare questo ideale di ἀγάπη/amore/caritas<ref>Rota Scalabrini 166</ref>.
{{nota|larghezza = 350px|contenuto=[[File:P52 recto.jpg|center|100px]]<div style="text-align:center">'''Il perdono: termine e nozione nella cultura classica, biblica e neotestamentaria'''</div><br> La nozione di "perdono" è presente nell'età classica e nella letteratura latina si riscontra, ad esempio, nei termini di ''clementia'', ''lenitas'', ''mansuetudo'' e ''misericordia''. Nel ''De Clementia'' di Seneca questa viene appellata come la virtù più "umana" in assoluto<ref>I, 3, 2 «Nullam ex omnibus virtutibus homini magis convenire, cum sit nulla humanior, constet necesse est».</ref>. D'altronde, nota Seneca, nessuno è esente da colpa, tanto meno coloro che giudicano, eppure colui che invoca il "perdono" difficilmente è in grado di riconoscerlo agli altri<ref>I, 6,2-4 «Quotus quisque ex quaesitoribus est, qui non ex ipsa ea lege teneatur, qua quaerit? quotus quisque accusator vacat culpa? Et nescio, an nemo ad dandam veniam difficilior sit, quam qui illam petere saepius meruit. Peccavimus omnes, alii gravia, alii leviora, alii ex destinata, alii forte impulsi aut aliena nequitia ablati; alii in bonis consiliis parum fortiter stetimus et innocentiam inviti ac retinentes perdidimus; nec deliquimus tantum, sed usque ad extremum aevi delinquemus. Etiam si quis tam bene iam purgavit animum, ut nihil obturbare eum amplius possit ac fallere, ad innocentiam tamen peccando pervenit.»</ref>. Inserendo la nozione della "clemenza" all'interno della scuola stoica, Seneca la differenzia dalle nozioni di "misericordia" e "perdono" in quanto sentimenti propri di chi non guardando il contesto dei fatti si limita a vivere il dolore degli sfortunati, perdendo in questo modo la tranquillità della mente e non restituendo a costoro una pari dignità umana<ref>«Adice, quod sapiens et providet et in expedito consilium habet; numquam autem liquidum socerumque ex turbido venit. Tristitia inhabilis est ad dispiciendas res, utilia excogitanda, periculosa vitanda, aequa aestimanda; ergo non miseretur, quia id sine miseria animi non fit. Cetera omnia, quae, qui miserentur, volo facere, libens et altus animo faciet; succurret alienis lacrimis, non accedet; dabit manum naufrago, exuli hospitium, egenti stipem, non hanc contumeliosam, quam pars maior horum, qui misericordes videri volunt, abicit et fastidit, quos adiuvat, contingique ab iis timet, sed ut homo homini ex communi dabit; donabit lacrimis maternis filium et catenas solvi iubebit et ludo eximet et cadaver etiam noxium sepeliet, sed faciet ista tranquilla mente, vultu suo. Ergo non miserebitur sapiens, sed succurret, sed proderit, in commune auxilium natus ac bonum publicum, ex quo dabit cuique partem. Etiam ad calamitosos pro portione improbandosque et emendandos bonitatem suam permittet; adflictis vero et forte laborantibus multo libentius subveniet. Quotiens poterit, fortunae intercedet; ubi enim opibus potius utetur aut viribus, quam ad restituenda, quae casus impulit? Vultum quidem non deiciet nec animum ob erus alicuius aridum aut pannosam maciem et innixam baculo senectutem; ceterum omnibus dignis proderit et deorum more calamitosos propitius respiciet.» (Seneca De Clementia, II, 6, 1-3).</ref>:{{q|<small>Aggiungi che il sapiente vede in anticipo la soluzione ed ha prontezza nel decidere. Quel che è trasparente e puro, d'altra parte, non viene mai da quel che è intorbidato: la tristezza è inadatta a discernere bene le cose, a trovare quelle utili, a evitare quelle pericolose, a valutare quelle equivalenti. Il sapiente non prova quindi compassione, poiché ciò non avviene senza infelicità. Egli compirà di buon grado e con animo elevato tutte le azioni che coloro che provano compassione intendono compiere: verrà in soccorso al pianto altrui, senza aderirvi; offrirà la mano al naufrago, all'esiliato il ricovero, al bisognoso l'elemosina, non quella insultante, buttata dalla maggioranza di coloro che vorrebbero sembrare pietosi, provando disgusto per quelli che aiutano e temendo il loro contatto, ma l'offrirà da uomo a uomo, dal patrimonio condiviso in comune; grazierà un figlio in virtù del pianto di sua madre, intimerà di slegare le catene, sottrarrà alla condanna dei giochi nel circo e farà seppellire un cadavere, anche se di un reo, ma compirà questi gesti con mente tranquilla, mantenendo in viso l'espressione che gli compete. Il sapiente non proverà compassione, quindi, ma verrà in soccorso e porterà giovamento, nato com'è per un'assistenza aperta a tutti e per il bene pubblico, dal quale offrirà a ciascuno la sua parte. Anche ai soggetti a rischio e riprovevoli, ma insieme meritevoli di correzione, egli dispenserà in proporzione la sua bontà; egli soccorrerà però molto di buon grado i disgraziati e quelli che per qualche caso si trovano in difficoltà. Tutte le volte che potrà farlo, emetterà un veto contro la fortuna: quando, infatti, farà uso delle proprie sostanze o delle proprie forze meglio che per risollevare ciò che le circostanza hanno fatto precipitare? Non distoglierà certo lo sguardo e neppure l'animo di fronte alla gamba rinsecchita di qualcuno o a una magrezza cenciosa e una vecchiaia appoggiata al bastone; egli porterà giovamento a tutti quelli che ne sono degni e alla maniera degli dèi si volgerà a guardare i soggetti a rischio con occhio più favorevole.</small>|Seneca ''De Clementia'', II, 6, 1-3; traduzione di Ermanno Malaspina}}
 
Nella Bibbia ebraica i termini relativi al perdonare sono ''sālaḫ''<ref>Ad es. Lv 4,20; 1 Re 8,34; Sal 86,5.</ref> nel significato di "perdonare"; ''nāsā''<ref>Ad es. Gn 18, 24-26; Nm 14, 18 e sgg.; Is 53,12.</ref>, nel significato di "eliminare, sottrarre"; e ''kippœr''<ref>Ad es. Lv. 4,20 e sgg.</ref> questo inerente soprattutto ai riti penitenziali e ai sacrifici riparatori. Questi termini ebraici sono resi, nella versione greca della Septuaginta, per lo più con i termini greci di ''aphienai'' (ἀφιέναι), ''aphesis'' (ἄφεσις). Tale ambito ebraico inerisce essenzialmente alla volontà di Dio di essere misericordioso con gli uomini<ref>Cfr. ad es. Os. 11,8</ref> anche se non manca un diretto riferimento all'"amore" che copre ogni "colpa":{{q|<small>L'odio suscita litigi, l'amore ricopre ogni colpa.</small>|''Proverbi'', 10,12; |<small>נאה תעורר מדנים ועל כל־פשעים תכסה אהבה׃</small>|lingua=he}}
Nelle scritture cristiane il tema dell'amore nei confronti del prossimo, e quindi del perdono dell'offesa, diviene centrale nel messaggio religioso: solo perdonando, persino l'offesa del nemico, l'uomo può sperare nel perdono di Dio e quindi nella salvezza:
{{q|<small>Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.</small> |''Vangelo di Matteo'' 6, 14-15|<small>Ἐὰν γὰρ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, ἀφήσει καὶ ὑμῖν ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος·ὰν δὲ μὴ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, οὐδὲ ὁ πατὴρ ὑμῶν ἀφήσει τὰ παραπτώματα ὑμῶν.</small>|lingua=grc}}}}
Per Paolo di Tarso, quindi, per quanto l'opera umana sia operativamente rilevante, l'"amore" è frutto dello "Spirito" di Dio<ref>Cfr. ''Galati'' 5,22: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé/Ὁ δὲ καρπὸς τοῦ πνεύματός ἐστιν ἀγάπη, χαρά, εἰρήνη, μακροθυμία, χρηστότης, ἀγαθωσύνη, πίστις».</ref>, in questo lo scrittore cristiano intende differenziare tale amore spirituale da quello carnale che invece ha come obiettivo la propria soddisfazione anche a scapito del prossimo, quindi l<nowiki>'</nowiki>''agape'' cristiano genera una umanità del tutto nuova resa tale dall'amore di Dio per mezzo del sacrificio del Cristo, inteso come fedeltà all'umanità e al piano divino per la sua salvezza<ref>Cfr. Rm, 5,8.</ref>, e che deve risultare visibile nella vita della chiesa cristiana<ref>Rota Scalabrini 166</ref>.