Israele – La scelta di un popolo/Capitolo 6: differenze tra le versioni

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Il defunto studioso rabbinico israeliano [[:en:w:Ephraim Urbach|Ephraim Urbach]] acutamente individuò due diverse visioni rabbiniche dell'elezione di Israele. Il primo punto di vista lo chiamò "cosmico-eterno (''nitsheet'')" definendolo come uno che insegna che "l'elezione di Israele fu concepita insieme alla creazione del mondo", rendendolo così "qualcosa di assoluto (''le-muhletet'') e non contingente su qualsiasi clausola (''be-tena’im'') di sorta." Il secondo punto di vista lo chiamò "storico-relativo (''yahaseet'')" definendolo come quello che insegna che l'elezione è "collegata a stipulazioni e condizioni (''u-ve-nesivot''), e in cui il popolo svolge un ruolo attivo in cui è anche l'elettore (''ha-boher'')."<ref>''Hazal'' (Gerusalemme, 1971), 468-469. Cfr. anche Solomon Schechter, ''Some Aspects of Rabbinic Theology'' (New York, 1936), 59-60.</ref> Questo secondo punto di vista, rispetto al primo indubbiamente costituisce un precedente molto più forte per la comprensione della visione rabbinica dell'elezione e delle sue conseguenze pratiche, come stata proposta nel Capitolo precedente. Ma che dire del primo punto? È uno da cui l'argomentazione teologica finora proposta in questo libro deve voltare le spalle? Oppure, è uno che non implica davvero un'ontologia dell'eternità come sembrano pensare alcuni studiosi?
 
[[File:Akiva.png|240px|thumb|right|Rappresentazione di [[w:Rabbi Akiva|Rabbi Akiva]] sull’''[[w:Haggadah|Haggadah]]'' di [[w:Mantova|Mantova]] (1568)]]
La visione cosmica-eterna dell'elezione di Israele è attribuita da Urbach all'insegnamento del saggio '''[[w:Rabbi Akiva|Rabbi Akiva]]''' del II secolo e.v. Egli vede il ''locus classicus'' di questo insegnamento nel famoso detto di R. Akiva: "Amato è Israele che sono chiamati figli di Dio ... Amato è Israele perché il vaso attraverso il quale è stato creato il mondo fu dato loro".<ref>M. Avot 3.14. "Israele" è usato come plurale, ad includere appunto tutti i "figli di Dio".</ref> Ciò esprime il punto di vista, a sua volta coi precedenti nella prima teologia ebraica ellenistica, che sia Israele che la Torah sono entità primordiali.<ref>Cfr. Urbach, ''Hazal'', 469, citando IV Esdra 6:56-59. Per la questione della preesistenza in generale e della Torah in particolare, si veda H. A. Wolfson, ''Philo'' (2 voll., Cambridge, Mass., 1947), 1:182 segg.; anche, Louis Ginzberg, ''The Legends of the Jews'' (7 voll., Philadelphia, 1909-1938), 6:30, n. 177.</ref> Da questo tipo di affermazione, è facile dedurre, per chiunque abbia studiato filosofia classica, che Israele e la Torah sono essenzialmente eterne e non temporali in verità.
 
Questa inferenza, tuttavia, comporta seri problemi teologici e filosofici. Cosa fare con i numerosi passi della Torah, sia narrativi che legali, che sono chiaramente storici? E cosa fare con l'ovvia contraddizione tra eternità e libera scelta?<ref>Per il problema teologico, cfr. [[Maimonide]], ''[[Mishneh Torah]]'': Teshuvah, 5.5. Cfr. R. Hayyim ibn Attar, ''Or Ha-Hayyim'' su {{passo biblico2|Genesi|6:5}}.</ref> Praticamente tutte le narrazioni e comandamenti della Torah non presuppongono che ci sia una responsabilità umana? Ma può esistere responsabilità umana senza libera scelta, che, come abbiamo appena visto, presuppone essa stessa la temporalità?
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Ciononostante, c'è una possibile soluzione a questi problemi, problemi che sono assai centrali per il recupero filosofico della dottrina dell'elezione, e questa soluzione può essere derivata dalla stessa tradizione rabbinica senza l'aggiunta di presupposti metafisici che sembrano incoerenti con la dottrina biblica-rabbinica.
 
La soluzione deriva dall'apprezzamento della nozione rabbinica di retroattività (''bereira''). In questa nozione, qualcosa che è stipulato in un certo momento dopo che è stato successivamente realizzato, è considerato tale in anticipo. In altre parole, è retroattivamente proiettato nel passato ''come se'' fosse ''sempre'' stato così.<ref>Cfr. ''Encyclopedia Talmudit'' (22 voll., Gerusalemme, 1946-1993), 4:217ff.</ref> Il ''locus classicus'' di questa nozione si trova in questo passaggio della [[w:Mishnah|Mishnah]] circa il modo in cui si può stipulare il domicilio limitato che si deve stabilire prima dello Shabbat per lo Shabbat che sta arrivando. "Si può stipulare (''matneh'') il suo domicilio sabbatico (''eruvo'') e dichiarare ... se un saggio è venuto a oriente, il mio domicilio sabbatico sia a oriente; se da occidente, che sia a occidente."<ref>M. Eruvin 3.5.</ref> Poiché si può camminare solo all'interno dei recinti (= circoscrizioni) di una città e in un raggio circostante di duemila cubiti (''tehum''), e si può avere solo un vero domicilio, senza questa clausola si potrebbe non essere in grado di camminare abbastanza per andar a sentire un particolare saggio predicare lo Shabbat in arrivo.<ref>Cfr. TB Eruvin 51a rif. {{passo biblico2|Esodo|16:29}}.</ref> Quindi, se uno stabilisce il suo possibile domicilio sia a duemila cubiti a est della città sia parimenti a duemila cubiti a ovest della città, può allora scegliere qual è il suo vero domicilio quando lo scopre proprio in quello stesso Shabbat dove il saggio che vuole udire sta in realtà predicando. Dopo aver fatto questa scoperta, è come se in origine avesse fatto da solo questa stipulazione desiderata, ed è come se non avesse mai fatto la stipulazione indesiderata. Chiaro? Che il lettore non si preoccupi:... anche Rabbi Akiva sembra crucciato!... ma il ragionamento diventa chiaro rileggendo i riferimenti citati.
 
Inoltre, la stessa logica è applicata più teologicamente nel caso del matrimonio. Da un lato, è un insegnamento rabbinico coerente che i matrimoni sono "fatti in cielo", cioè, in un modo o nell'altro sono preordinati da Dio. Ma che dire della libera scelta degli stessi coniugi che è un prerequisito legale per un valido patto matrimoniale? E che dire di quei matrimoni che non durano ma finiscono con il divorzio? La spiegazione usuale di questo paradosso è che quando il matrimonio dura per le giuste ragioni, allora è ''come se'' fosse stato preordinato da sempre (''le-mafre’a''), anche prima che i coniugi stessi venissero al mondo.<ref>Cfr. per es., TB Sotah 2a; ''Bemidbar Rabbah'' 3.4. Per una comprensiva discussione di questo probema, si veda D. Novak, ''Law and Theology in Judaism'' (2 voll., New York, 1974, 1976), 1:7segg. Inoltre, si possono considerare i miracoli nello stesso senso retroattivo. Cfr. per es., M. Avot 5.6; TB Pesahim 54a.</ref>
 
Il punto qui è che una volta che una decisione significativa è stata presa ed è stata sostenuta, è quasi impossibile concepire come sarebbe il mondo se la decisione non fosse stata presa in tal modo.<ref>Questa logica ha somiglianze con la logica aristotelica dell'atto di potenza, cioè ciò che esiste realmente nel presente indica retroattivamente quale fosse la sua potenzialità nel passato (cfr. ''Fisica'' 201a15). Ma vedere la potenzialità nel presente è solo vedere una possibilità, e non prevede con certezza anche se si realizzerà in futuro (cfr. ''[[w:Metafisica (Aristotele)|Metafisica]]'' 1050b10).</ref> Quando si tratta dell'elezione di Israele da parte di Dio e il dono della Torah, che sono eventi di tale significato cosmico (soprattutto come abbiamo visto nel [[Israele – La scelta di un popolo/Capitolo 4|Capitolo 4]]), è comprensibile come R. Akiva e la sua scuola fossero inclini a usare un linguaggio di questo tipo. Infatti, nella continuazione della sua affermazione sul carattere primordiale di Israele e della Torah, R. Akiva fa l'enigmatica affermazione: "tutto è previsto (''tsafui''), ma la scelta (''reskut'') vien data".<ref>M. Avot 3.15.</ref> L'interpretazione di questa affermazione potrebbe ben essere che, anche se tutto è stato pianificato da Dio in anticipo, nel senso che i suoi propositi sono davanti a Lui, tali propositi richiedono la scelta umana dell'alleato pattizio Israele che cooperi alla loro realizzazione. Solo dopo si può parlare di ciò che era '''''pre'''''visto". E in questo senso, l'esegeta e teologo spagnolo del XV secolo R. Jacob ibn Habib notò — nel discutere la nozione della Torah come primordiale che sembra contraddire la dottrina della ''creatio ex nihilo'' — che questa nozione può essere interpretata nel senso che il dare della Torah (e l'elezione di Israele come sua correlata) riflette lo scopo (''sibah takhliteet'') la cui piena realizzazione Dio aveva già in mente originariamente quando creò il mondo.<ref>''Ein Ya’aqov'' (3 voll., New York, 1953), intro.</ref>
 
Se questa interpretazione è corretta (o, almeno, plausibile), allora le due visioni rabbiniche delineate da Urbach dopo tutto possono essere riconciliate. L'elezione di Israele è un evento storico, condizionato da fattori temporali, come abbiamo visto; tuttavia, senza l'enfasi del suo ''status'' primordiale, l'elezione potrebbe essere vista come un evento meramente locale, avente solo un significato delimitato. Invece, il suo pieno significato deve essere correlato al rapporto di Dio con la Sua intera creazione, con il mondo nel suo insieme. In quanto tale, deve essere connesso all'inizio stesso della creazione. E senza questa enfasi cosmica, la dimensione escatologica dell'alleanza, la redenzione finale, diventa poco più che un evento politico unidimensionale.
 
Tuttavia, è anche plausibile che l'insegnamento di R. Akiva e della sua scuola sull'elezione e la natura della Torah sia compatibile con l'idea filosofica dell'eternità, un'idea che divenne molto attraente per una varietà di teologi ebrei successivi che avevano studiato filosofia platonica e aristotelica. È il presupposto di questa compatibilità che sta alla base degli accordi generici tra Ha-Levi e Maimonide nell'ontologia che essi proponevano nelle rispettive costituzioni teologiche delle dottrine tradizionali dell'elezione e della Torah, nonostante le notevoli differenze nella loro specifica interpretazione di queste dottrine correlate.
 
=== Volontà e scelta in Ha-Levi ===