Taumaturgia messianica/Appendice C: differenze tra le versioni

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Nel pensiero greco il termine ''lógos'' (da ''léghein'': dire, raccontare, ma anche enumerare, scegliere, raccogliere) assumeva significati diversi. Vi si riconosce l'idea di ragione, calcolo (lat. ''ratio''), ma anche quella di discorso, parola (lat. ''oratio''). Il primo a sviluppare una certa filosofia del ''Logos'' fu [[w:Eraclito|Eraclito]] (550 ca.-480 ca. p.e.v.). Egli ne parla come di una ragione universale, responsabile dell'armonia e dell'ordine del mondo, una ragione che permea ogni cosa ma che i più ignorano o non comprendono; una ragione talvolta assimilata ai concetti di vita e di fuoco, e comunque investita di un carattere divino. [[w:Platone|Platone]] (427-347 p.e.v.) lo utilizza prevalentemente secondo i significati di "discorso" e di “ragione”, designandovi però qualcosa di trascendente, sia nel suo aspetto definitorio (rendere ragione di qualcosa enumerandone gli elementi), sia dichiarativo (la sua concordanza con la verità). Il ''Logos'' platonico appartiene al mondo delle idee, quel mondo al quale il Demiurgo-Artefice deve guardare al momento di plasmare e di ordinare il cosmo secondo le armonie ed i rapporti numerici. Nell’''[[w:Organon|Organon]]'' di [[w:Aristotele|Aristotele]] (384-322 p.e.v.) il ''Logos'' darà origine all'ambito della logica, intesa come analisi del discorso razionale mediante il quale organizzare le conclusioni relative ad ogni conoscenza. Nonostante le diverse accezioni, il ''Logos'' fa riferimento soprattutto all'intelligibilità del cosmo, alla possibilità di conoscere ed esporre i princìpi razionali che lo reggono.
 
Tuttavia, a partire dai filosofi Stoici (dal III ap.Ce.v. in avanti) si comincerà ad elaborare una più sofisticata dottrina sul ''Logos'' la quale, riprendendo le intuizioni di Eraclito, confluirà poi all'interno delle varie correnti neoplatoniche, divenendo così un elemento portante della filosofia greco-romana. Questo ambito di pensiero sussisterà ancora quando verranno messi per iscritto i libri del NT ed i [[w:Padri della Chiesa|Padri della Chiesa]] cominceranno la loro catechesi al mondo pagano. Nel libro degli [[w:Atti degli Apostoli|Atti degli Apostoli]], s.[[w:Luca (evangelista)|Luca]] riferirà della presenza di filosofi [[w:stoicismo|stoici]] ed [[w:epicureismo|epicurei]] ai discorsi che s.[[w:Paolo di Tarso|Paolo]] teneva sulla piazza di [[w:Atene|Atene]], prima di essere condotto all'Areòpago[[w:Areopago|Areopago]] (cfr. At{{passo biblico2|Atti|17,:18}}). Nella filosofia greca del tempo, il ''Logos'' rivestirà progressivamente i caratteri di un principio divino, spirituale, che va accomodandosi al rapporto già concettualizzato fra forma e materia, sebbene assuma tanto le proprietà della forma platonica come di quella aristotelica. Ad esso viene riservato l'aggettivo «"divino»" e talvolta anche il nome «"Dio»". Tuttavia, se nel pensiero di Platone tale principio di intelligibilità restava necessariamente trascendente ed ideale, secondo la dottrina degli stoici esso è ora totalmente immanente alla materia. Si va così consolidando un uso del termine ''lógos'' che indichi in logica le regole del discorso, nel suo duplice aspetto interiore di dialettica (''lógos endiáthetos'') ed esteriore di retorica (''lógos prophorikós''); in fisica, il principio attivo divino presente nelle cose, una ragione seminale dalla forza creatrice che si mescola in tutti gli elementi sotto forma di semi potenziali (''spermatikoì lógoi''; lat. ''rationes seminales''); in etica, la legge cui accordare il proprio vivere per comportarsi secondo natura. ''Logos'', Artefice della creazione ed Anima del mondo divengono sinonimi per indicare Dio.
 
Incontriamo una dottrina del ''Logos'' anche in [[w:Filone di Alessandria|Filone di Alessandria]] (20 ap.Ce.v.-50 e.v.), filosofo di fede ebraica ma appartenente ad ambiente ellenico. In essa confluiscono elementi teologici desunti dall'Antico Testamento (= AT), in modo particolare la personificazione della sapienza di Dio, come descritta dal [[w:Libro della Sapienza|Libro della Sapienza]] e dal [[w:Libro dei Proverbi|Libro dei Proverbi]], ed elementi della filosofia neoplatonica. Il ''Logos'' di Filone si identifica in buona parte con la Sapienza di JahvèYHWH, già indicata nel testo sacro come ''Logos'' (parola) di Dio (cfr. Sap{{passo biblico2|Sapienza|9,:1; 16,:12; 18,:14}}). La Sapienza interviene nella formazione di un mondo che non crea, ma del quale è mediatrice; ha il compito di condurre gli uomini a Dio e di rivelarne i piani di salvezza; è la prima delle potenze emanate da Dio, qualcosa di divino che non è Dio. Il ''Logos''-Sapienza di Filone cerca di mediare fra l'intelligibilità trascendente del Demiurgo platonico (tratta dal mondo delle idee) e l'intelligibilità immanente del ''logos'' stoico (inerente nelle cose). In esso confluiscono però anche alcuni caratteri del Demiurgo-Artefice, immagine dell'ordine e della bontà dell'Uno, poiché è per mezzo del ''Logos'' che il Dio dell'AT realizza la sua creazione. Filone cerca in fondo una prima sintesi fra dottrina biblica e pensiero greco, coniando delle categorie destinate ad influire succesivamente anche in epoca cristiana. Se nella teologia cristiana occidentale il linguaggio su Dio e la creazione continuerà ad essere centrato attorno al ''Logos'', nella tradizione cristiana orientale si svilupperà preferibilmente attorno al ruolo della [[w:Sofia (sapienza)|''Sophía'' (Sapienza)]].
 
Astraendo per un momento da una o più filosofie del ''Logos'', il modo con cui il pensiero filosofico dell'antichità parlava di Dio o del divino si poggiava su un'acquisizione speculativa irrinunciabile, quella dell'universalità. La troviamo ben rappresentata, ad esempio, nel noto riferimento di Platone ad un «"Fattore e Padre di tutto»" (''[[w:Timeo (dialogo)|Timeo]]'', 28c). Non si può parlare di Dio se non in termini universali e lo si deve fare con un itinerario intellettuale il quale, privilegiando a volte un cammino deduttivo e a volte uno induttivo, confluisca necessariamente nel comune tentativo di “dare"dare ragione del cosmo”cosmo". Anche dove pare comparire una moltiplicazione di princìpi, essa rispetta sempre una logica globale, una filosofia dell'intero. L'appello al ''Logos'' non è altro che la prova di questo “voler"voler dare ragione (''ratio'') del tutto”tutto", cercando prevalentemente le cause dell'intelligibilità e dell'ordine.
 
Tale esigenza di universalità è ugualmente rintracciabile in un discorso su Dio che proceda lungo un itinerario metafisico, che ricerchi cioè anche le cause dell'essere delle cose, non solo quelle del loro ordine. A partire da Platone ed Aristotele — sviluppo originale di una tradizione di pensiero già presente in [[w:Parmenide|Parmenide]] ed [[w:Anassagora|Anassagora]] — la filosofia greca si era diretta, nella sua ricerca delle cause prime e fondanti dell'essere, verso un'idea del divino sempre più spirituale e più alta. Con [[w:Socrate|Socrate]] e Platone è la filosofia ad affermare la speranza di una vita ove si compirà la giustizia negata nella vita presente, fondata sull'idea di una divinità giusta e rimuneratrice, in opposizione alla volubilità ed immoralità delle divinità della mitologia popolare; così come è ancora la riflessione filosofica a suggerire la ragionevolezza dell'accesso ad una verità stabile ed universale, in polemica contro il relativismo e l'opportunismo politico dei sofisti. Il linguaggio su Dio e sull'Assoluto non è nei filosofi dell'antichità certamente univoco, e resta in buona parte di difficile interpretazione, come testimoniato ad esempio dalla presenza di riferimenti alla pluralità di dèi o dal fatto che si preferisca l'aggettivo sostantivato «"il divino»" (''tò theîon'') al sostantivo «"Dio»" (''o Theòs''). Ciononostante, è fuori dubbio che Platone si dirige verso una concezione ineffabile ed apofatica dell'Assoluto, colto come l'Uno ed il Bene sommo, capace di assumere connotazioni religiose, come religiosa era da lui vista l'attività della filosofia nel suo insieme. Il pensiero di Aristotele, sebbene manifesti una dimensione meno religiosa e più razionale, si dirige in modo ancor più chiaro verso una sorta di monoteismo filosofico ove, come nel noto Libro XII della [[w:Metafisica (Aristotele)|Metafisica]], l'Assoluto viene colto come pensiero puro, come sostanza e vita supreme. Come vedremo più avanti (cfr. infra,''[[Modifica n.di 3Taumaturgia messianica/Appendice C#L'opzione del cristianesimo per il Logos e sue conseguenze culturali|infra]]''), sarà questo l'ambito linguistico e concettuale sul ''Logos'' e sull'Assoluto, che il messaggio cristiano sceglierà come punto di appoggio per il suo lógos su Dio.
 
=== L'originalità del ''Logos'' cristiano ===
Il prologo del IV Vangelo (Gv{{passo biblico2|Giovanni|1,:1-18}}) presenta la figura del Verbo (''Logos'') come colui che «"era in principio»", che «"era presso Dio»" ed «"era Dio»" (Gv{{passo biblico2|Giovanni|1,:1}}). Pur distinto dal Dio che lo ha generato (''pròs tòn Theón'', con l'articolo), egli è ugualmente Dio (''Theós''). Il ruolo svolto dal ''Logos'' nella creazione del mondo è affermato esplicitamente: «"Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste. […] il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe»" (vv. 3 e10e 10). Soggetto degli attributi divini della vita, della santità e della luce, il Verbo è stato inviato nel mondo, perché “questo”"questo" ''Logos'' «"si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»" (v. 14). Il ''Logos'' giovanneo è una persona reale, non risponde solo alla logica della ''ratio'', ma anche a quella del ''verbum''. In lui converge tutta l'insondabilità della trascendenza divina, mostrata dal suo «"essere in principio (''arché'')»" quale artefice della creazione (da vedere in parallelo con l'inizio della Genesi e con il ruolo della parola di Dio nella creazione dei sei giorni), dal suo essere nel seno del Padre (v. 18), dalla sua pienezza di grazia, di verità e di gloria (vv. 14, 16); ma vi converge anche tutta la concretezza della visibilità e della passibilità della “carne”"carne". Lo stesso s. Giovanni lo presenterà ancora come il ''Logos'' accessibile, che i suoi occhi hanno visto e le sue mani hanno toccato (cfr. 1Gv{{passo biblico2|1Giovanni|1,:1}}), e come il ''Logos'' celeste, giudice escatologico nella visione apocalittica del combattimento finale (cfr. Ap{{passo biblico2|Apocalisse|19,:13}}).
 
Oltre al ''corpus'' giovanneo, anche altri luoghi del NT, specie quelli legati alla teologia di s. Paolo (cfr. Ef{{passo biblico2|Efesini|1, :3-10}}; Col{{passo biblico2|Colossesi|1, :15-20}}; Eb{{passo biblico2|Ebrei|1,:1-3}}; ma anche Rm{{passo biblico2|Romani|16,:25-26}}; 1Cor{{passo biblico2|1Corinzi|8,:6}}), affermeranno che la rivelazione del piano divino sulla creazione, la ricapitolazione/ordinamento a Dio-Padre di ogni cosa, e la riconciliazione del creato col suo Creatore, assumono in Gesù Cristo una portata assolutamente “cosmica”"cosmica". L'annuncio del messaggio cristiano si presenterà pertanto, fin dall'inizio, con i caratteri dell'universalità e del necessario riferimento alla creazione. Il Dio che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti è lo stesso Dio che ha fatto il cielo e la terra (cfr. At{{passo biblico2|Atti|14,:15-16 e ;17,:24-31}}), un Dio invisibile che si è rivelato visibilmente nel suo Verbo fatto uomo, alle cui mani ha affidato non solo il destino di un popolo, ma quello dell'intero universo (cfr. Gv{{passo biblico2|Giovanni|3,:35}}; Ef{{passo biblico2|Efesini|1,:10}}; Col{{passo biblico2|Colossesi|1,:20}}). La predicazione cristiana non riproduce però i canoni delle gnosi pagane. La capitalità di Cristo sulla creazione e l'universalità della salvezza che in lui si annuncia non si muovono solo su un piano astratto, ma coinvolgono soprattutto il piano personale ed esistenziale. In Gesù Cristo sussistono le ragioni della verità e quelle della vita, il piano generale di Dio sull'intera creazione e la vocazione personale di ogni singolo essere umano, creato, eletto e redento nel suo Figlio.
 
L'originalità ''filosofica'' della Rivelazione cristiana sta proprio nella simultanea proposizione della trascendenza ed immanenza del Verbo, riflesso delle sue due nature, umana e divina, possedute dall'unica persona increata del Figlio di Dio, generato come Dio dal Padre prima del tempo e nato come uomo da una donna nella pienezza dei tempi. Una simile teologia del ''Logos'' sarà presto riconosciuta dalle professioni di fede dei primi secoli come espressione autentica del messaggio contenuto nella Rivelazione biblica. Il [[w:Concilio di Nicea I|Concilio di Nicea]] (325) confessa Gesù Cristo come «"Dio vero da Dio vero, generato non creato, consostanziale al Padre, per mezzo del quale tutte le cose furono originate, quelle nel cielo e quelle nella terra»" (DH 125). Il [[w:Concilio di Calcedonia|Concilio di Calcedonia]] (451) parlerà di «"uno e medesimo Cristo Signore unigenito, da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi. […] Un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, Verbo (''lógos'') e Signore Gesù Cristo»" (DH 302; cfr. anche DH 553-558; DH 290-295).
 
La «consostanzialità»"consustanzialità" del Verbo-Figlio con il Padre costituisce un elemento determinante di specificità perché il ''Logos'' greco, nelle sue varie accezioni più o meno personificate, restava sempre una creatura, divina ma inferiore a Dio. La sua azione creatrice era limitata, da una parte dall'esistenza della materia presistente, dall'altra da una razionalità che andava letta nel mondo delle idee. La sua personalità non pienamente distinta dall'Uno di cui era in fondo un'emanazione. La sua azione nei confronti del mondo puramente ordinatrice, dal ''cháos'' al ''kósmos'', perché il mondo materiale era la sua ragion d'essere. Il Verbo-''Logos'' cristiano è un soggetto distinto da Dio-Padre, ma Dio come il Padre. La sua azione è pienamente creatrice, perché ha di fronte il nulla da cui il Dio trinitario chiamerà all'essere ogni cosa. Distinto dalla materia come lo è Dio e capace di farsene carico fino ad incarnarsi. Sull'originalità con cui la rivelazione biblica unisce l'umano ed il divino nell'unica persona del Verbo, rispetto a quanto fino ad allora proposto dalla filosofia o dalla religione, torneremo più avanti (vedi infra''[[Taumaturgia messianica/Appendice C#Il mistero di Gesù-Cristo, IVVerbo incarnato, principio di comprensione dei rapporti fra Dio e il mondo|infra]]''). Tale originalità può vedersi anche nello specifico ruolo che la logica dell'Incarnazione tributa all'importanza della storia.
 
=== L'opzione del cristianesimo per il ''Logos'' e sue conseguenze culturali ===
La rivelazione neotestamentaria circa la portata cosmica del ''Logos'' cristiano e la simultanea presenza in lui della trascendenza divina e della appartenenza alla storia umana, implicava delle precise scelte filosofiche e culturali nei confronti del mondo greco-romano. Erano infatti due le diverse concezioni della divinità che coesistevano in quel mondo, l'una legata all'analisi razionale della filosofia, l'altra legata alla religiosità popolare politeista ed alle narrazioni mitologiche. Le due concezioni si erano imposte in due ambiti diversi e separati: quella filosofica dominava la ragione, il pensiero riflesso, la ricerca delle cause dell'essere e dei princìpi del retto operare umano; quella religiosa dominava invece la vita vissuta, fatta di sentimenti, di storia, dei problemi concreti dell'esistenza come la guerra e la pace, l'arte e la bellezza, la giustizia e la vendetta, la sofferenza e l'amore... Questo secondo ambito trovava la sua rappresentazione più solenne nelle opere teatrali dei grandi tragici greci. Sebbene ambedue le concezioni parlassero del divino ed i loro termini attingessero in parte, specie prima di Aristotele, al comune linguaggio del mito, esse furono in aperto contrasto fra loro, come mostra ad esempio la critica alla mitologia politeista operata da [[w:Senofane|Senofane]] e da Platone. La frattura fra filosofia e religione era presente anche nel pensiero romano antico. [[w:Marco Terenzio Varrone|Terenzio Varrone]] (116 ap.Ce.v.-27 ap.e.Cv.) parlerà ad esempio della divisione esistente fra una ''theologia naturalis'' dei filosofi, le cui conclusioni non erano normative per la vita sociale, ed una ''theologia civilis'', che rappresentava la religione in senso stretto e che regolava la vita dell'Urbe. La classicità era dunque in qualche modo dominata dalla difficoltà a coniugare un'idea filosofica-impersonale ed un'idea esistenziale-personale di Dio.
 
Dovendo appoggiare la loro evangelizzazione sulla comprensione di una qualche idea di Dio, i primi cristiani ed i Padri della Chiesa formularono una precisa scelta in favore del linguaggio utilizzato dai filosofi al parlare della divinità, rifiutando il linguaggio ed il contesto proprio della religiosità politeista. Si suole spesso indicare questa scelta come un'opzione in favore del ''Logos'' ed un rifiuto della favola mitologica (''mythos''). Con il termine «"mito»" non ci riferiamo qui a quel veicolo di trasmissione di verità arcaiche sull'uomo e sul mondo, cariche di conseguenze filosofiche, operante all'interno di ogni cultura (MITO, IV), ma più semplicemente alla mitologia intesa come “racconti"racconti sugli dèi”dèi", narrazioni proprie del politeismo dalle presunte implicazioni per la vita vissuta, così come esse vengono riprovate dal NT attribuendovi il significato di “favola”"favola" (cfr. 1Tm{{passo biblico2|1Tm|1,:4 e ;4,:7}}; 2Tm{{passo biblico2|2Tm|4,:4}}; {{passo biblico2|2Pt |1,:16}}).
 
Fin dall'inizio venne espresso un giudizio globalmente positivo nei confronti della tradizione filosofica pagana. Già nel II secolo verranno poste le basi di una sintesi culturale che raccoglierà i suoi frutti migliori a partire dalla fine del IV secolo. S.[[w:Giustino (filosofo)|Giustino]] (100-165 ca.) e [[w:Clemente Alessandrino|Clemente Alessandrino]] (150-215 ca.) furono i primi a realizzare questa coraggiosa operazione intellettuale, percorrendo una strada che era stata già aperta da Giovanni e da Paolo. Giustino vedrà nell'esortazione di Socrate a cercare la verità l'invito ad avvicinarsi con la ragione al vero Dio che gli uomini ancora ignoravano (cfr. ''Apologia'', II, X, 6). In Clemente, l'apprezzamento per la vera filosofia ed il suo collegamento col Vangelo sarà esplicito e inequivoco: «"Ora io chiamo filosofia non lo stoicismo o il platonismo o l'epicureismo, o l'aristotelismo, ma tutto ciò che è detto di buono da ciascuna scuola ed insegna la giustizia con sapienza: tutto questo io chiamo filosofia»". E ancora: «"La filosofia ha per compito l'indagine sulla verità e sulla natura del reale, essendo questa verità quella di cui il Signore stesso ha detto: Io sono la Verità»" (''Stromata'', I, 6, 37, 6 e I, 5, 32, 4).
 
Alla base dell'opzione in favore del ''Logos'' vi era in fondo la convinzione che quell'Assoluto che la filosofia greca aveva intravisto come fondamento dell'Essere, proprio perché cercato a partire dalla realtà del mondo e nel rigore concettuale dell'universalità della ragione, doveva entrare certamente in rapporto con qualcosa che si potesse predicare anche del Dio di Israele. Il «"Dio che ha fatto il cielo e la terra»" non poteva identificarsi con nessuno degli dèi del [[w:Pantheon|Pantheon]], neanche col maggiore di essi; a ciascuno di questi dèi il mito aveva assegnato un'essenza determinata, un ruolo specifico e definito, capace di calmare quelle ansie esistenziali soggettive (un dio per la pace e uno per la guerra, uno per casa e uno per il viaggio, uno per la sicurezza e uno per la paura, uno per la vita e uno per la morte...) il cui desiderio di dominio portava appunto a moltiplicarne numero e funzioni. Il Dio di Israele, che pur restando invisibile era stato rivelato dall'alto con l'invio visibile del suo Figlio, si raccordava più facilmente con quell'intuizione filosofica di un Assoluto trascendente, più difficile da determinare — e per questo più vero — ma capace di condurre l'uomo dal basso fino alle porte del mistero, senza però obbligarlo ad entrarvi (cfr. Ratzinger, 1971, pp. 99-100). È questo il motivo per cui s. Paolo, cercando un punto d'avvio per il suo discorso all'AreòpagoAreopago di Atene, rifiuterà di associare al suo Dio qualcuno degli dèi che avevano già un nome, preferendo invece come unico spunto possibile quello offertogli dal «"dio ignoto»" (cfr. {{passo biblico2|At |17,:22-25}}). Sebbene la predicazione paolina sfocerà nell'inaudita conclusione dello scandalo della croce e della novità della resurrezione, paradossi che non potranno non scandalizzare la sapienza dei greci (cfr. {{passo biblico2|At |17,:31-32}}; {{passo biblico2|1Cor |1,:22-25}}), nel suo avvio essa non disdegna, anzi ricerca, un riferimento di universalità nel cosmo e nella ragione.
 
Sullo sfondo linguistico e concettuale del pensiero greco, l'evangelizzazione cristiana rivela senza compromessi il vero volto di Dio nascosto nel ''Logos'' dei filosofi. In esso si uniscono adesso ragione e sentimento, filosofia e religione, verità e vita, sanando così quella frattura che la cultura greca non era stata in grado di comporre. L'Assoluto cessava di restare il puro Essere di Parmenide, la pura intelligenza di Anassagora, la pura bontà o l'Uno dei platonici, la somma vita o l'essere capace di pensare se stesso degli aristotelici, per diventare un essere personale, qualcuno che poteva nominarsi senza dissolversi o risolversi: questo ''Logos'', infatti, è diventato carne ed ha un volto preciso, quello di Gesù di NazaretNazareth, i cui tratti umani sono quelli del Verbo di Dio fatto uomo, Parola viva di un Dio personale che si rivolge a ciascuna persona umana. Le deboli determinazioni dell'Essere intraviste dalla filosofia continuano a sussistere perché semi di verità che partono dall'analisi del reale, ma sono ora riconosciute dai primi autori cristiani come attributi dell'Essere di Dio. Essi coesistono in Dio senza esaurirne l'immagine trascendente, né dissolverne il mistero: «
{{q|Se vogliamo designare Dio e lo facciamo impropriamente chiamandolo Uno, o il Bene, o l'Intelletto, o l'Essere stesso, o Padre, o Dio, o Demiurgo, o Signore, non lo facciamo come proferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio prendiamo come appoggio queste designazioni […]. Ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell'Onnipotente» (.|''[[w:Stromateis|Stromata]]'', V, 12, 82).}}
 
Nell'incontro fra messaggio evangelico e pensiero greco, rappresentato principalmente dall'ambiente filosofico neoplatonico, si opera così un recupero di ciò che in quel pensiero era adeguato ad un ''lógos'' cristiano su Dio: «Così appare la filosofia greca nella prospettiva cristiana. Vi è una certa conoscenza di Dio, innata in ogni uomo, che è la sua manifestazione attraverso la sua opera. La filosofia, per astrazione, purifica questa idea di Dio dai suoi antropomorfismi, e giunge perciò alla teologia negativa, a questa “ricerca invisibile”, all'affermazione che Dio non è nulla di ciò che è, ma non può procedere oltre. Soltanto il Figlio, che possiede la conoscenza del Padre, può introdurre ad essa. La novità cristiana è dunque essenzialmente la rivelazione del Figlio, ad un tempo con la conoscenza dell'esistenza di questo, e per il fatto che costui soltanto può introdurre alla gnosi dell'inconoscibile» (Danielou, 1975, p. 404). L'appello alla ragione e alla sua tensione verso la ricerca della verità svolge pertanto un ruolo determinante nella prima diffusione della fede cristiana, ma inseparabilmente dall'annuncio che tale verità è stata rivelata in pienezza nella persona del Cristo e nel suo mistero pasquale: «"Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato»" (Gv{{passo biblico2|Gv|1,:18}}).
 
== La mediazione del Verbo nella creazione, rivelazione del progetto di Dio sull'uomo e sul mondo ==