Cambiamento e transizione nell'Impero Romano/Capitolo I: differenze tra le versioni

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Le tensioni sociali, tuttavia, continueranno clandestinamente, crescendo in forza e più disintegrative dove meno sentite o meno propagate ideologicamente. Il divario tra le varie classi aumenterà, e non guarderanno alla struttura statale come potere capace di mediare i loro interessi ed agire a beneficio della collettività; la classe dirigente e la classe sfruttata comunicheranno solo nella misura in cui la prima necessita della seconda; e lo stato, per quest'ultima, sarà rappresentato dall'oppressione della prima, un'oppressione da cui cercherà di sfuggire o per reazione o per inazione. Lo stato sopravviverà mentre prevaglono le forze coesive su queste tendenze centrifughe; ma, a lungo termine, il processo si concluderà nella dissoluzione dell'organismo statale in formazioni autonome, o nell'arrendersi a forze esterne. In quest'ultimo caso, tali forze otterranno una vittoria molto semplificata, in quanto possono trarne profitto da tali tendenze centrifughe.
 
Concretamente, nell'ambito della struttura di tale fenomenologia uno può includere le dinamiche socio-economiche di ''Spätantike'' e la dissoluzione politica dell'Impero Romano Occidentale.<ref>E, nell'ambito di un'altra area di ricerca, le dinamiche socio-economiche della società agraria nel XVIII secolo, studiato da P. Vilar con metodi analitici marxisti nel suo ''La Catalogne dans l'Espagne moderne'', Parigi, 1962.</ref> Che la Tarda Antichità sia un'epoca di "rimarchevole" mobilità sociale, come crede A. H. M. Jones,<ref>A. H. M. Jones, ''The Later Roman Empire'', I-III, 1964 (cfr. I, VII; II, pp. 105 segg.)</ref> e la legislazione "coercitiva" degli imperatori interpretata come un tentativo di ostacolarla,<ref>Jones, ''Lat. Rom. Emp.'', pp. 1049-1053; sul problema cfr. anche R. MacMullen, "Social mobility and the Theodosian Code", ''JRS'', 1964, pp. 49-53; M.H. Hopkins, "Social Mobility in the Lat. Rom. Emp.: The Evidence of Ausonius", ''CQ'', 1961, pp. 239-248; "Elite mobility in the Roman Empire", ''Past & Present'', 1965, pp.12-26.</ref> o che sia ''tout court'' un'"epoca di rivoluzione sociale" come sostiene W. Seyfarth,<ref>W. Seyfarth, "Um die Problematik der Spätantike", ''F & F'', 1966, pp. 177-180; "Der Begriff ‘Epoche sozialer Revolution’ und die Spätantike", ''Klio'', 1967, pp. 271-284. In contrasto, cfr. A. Alföldi, ''A Conflict of Ideas in the Later Roman Empire'', Oxford, 1952, p. 28, che mantiene l'interpretazione tradizionale che il mondo romano fu "una società collassata... nelle morse di ferro della caste separate tra di loro da barriere che non potevano essere sormontate". Si veda anche F. Lot, ''La fin du monde antique'', cap. 6; S.L. Utčenko, ''Krisis i padienie rimskoii respubliki'', Mosckau, 1965, pp. 17-28 (trad. ital, Roma, 1976).</ref> ciononostante è un'epoca in cui le forze centrifughe e le tensioni sociali – più forti inquantoin quanto più represse – riuscirono in primo luogo a opporre le classi sfruttate alla classe dirigente, culture "nazionali" a quelle "classiche", religioni salvifiche – e il cristianesimo soprattutto – al politeismo "politico" della religiosità greco-romana e la religione imperiale ufficiale; e, in secondo luogo, riuscirono a dissolvere l'organismo statale dell'Impero consegnando un cadavere ai "barbari". Bisogna enfatizzare che ciò non fu un processo "naturale", un processo "predeterminato" da chissaà quale Provvidenza immanente o trascendentale; al contrario, è tutto alquanto verificabile, senza riserve, su un piano storico. Il compito dello studioso nell'analizzare questa "morte", questa "fine", sta nel chiarire e stabilire le precise responsabilità delle classi in lotta e le rispettive ideologie antagoniste. Prima di tutto, iniziò a frantumarsi il guscio della cultura "classica" greco-romana, e la sua struttura di supporto, le città e l'economia cittadina (o piuttosto, l'egemonia della città sulla campagna rurale). Questa fu la fase iniziale di quel processo che portò alla ''Spätantike'': e questo è, credo, il significato storico del III secolo, di questa "epoca bifronte", che guarda due mondi, il mondo classico e quello Tardo Antico. Un'epoca di rottura, quindi, che inizia la ''Spätantike'' e pertanto ha tutte le contraddizioni e ambiguità delle epoche transizionali, epoche di trasformazione — qui la forma classica svanisce e l'antichità rimane in strutture pseudomorfiche. G. Rodenwaldt, quando affermò che "spirito e forma della Tarda Antichità sono rimaste antiche, piuttosto che classiche"<ref>G. Rodenwaldt, "Zur Begrenzung und Gliederung der Spätantike", ''JDAI'', 1944-45, p. 87.</ref> era certamente nel giusto, a parte la sua proposta datazione; tuttavia, il compito che spetta allo storico del terzo secolo, se desidera comprenderne la sua storia "reale", è quello di investigare e determinare il momento in cui avvenne la frattura di ''Geist'' e ''Gestalt'' classici, i modi in cui avvenne e, specialmente, le forze che vi agirono.
 
La trasformazione è evidente in tutti i settori della vita culturale. I profondi cambiamenti dei valori stabiliti affiorano nel comportamento religioso e filosofico, nella produzione letteraria, nell'espressione artistica. La natura di questa trasformazione deve essere chiarita. Alcuni studiosi l'hanno vista come risultato di un'evoluzione lineare di vita spirituale nel mondo classico; altri, tuttavia, hanno preferito applicare il ''deus ex machina'' dell'antica (tardo-antica) spiritualità, l'"orientalizzazione". In realtà, anche se nella ricerca concreta uno possa anche muoversi lungo queste linee interpretative, d'altra parte è nel "riorientamento" sostanziale del quadro culturale, nel capovolgimento del sistema di riferimenti ideologici del III secolo, che uno deve valutare la natura e le implicazioni di tale trasformazione.