Introduzione allo Zohar/Capitolo II: differenze tra le versioni
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I cabalisti fecero grande uso della tradizione midrashica/aggadica, assorbendone i metodi di interpretazione e i suoi contenuti. Le ipotesi ermeneutiche del Midrash, inclusa la legittimità di giustapporre versetti presi qua e là dalla Scrittura senza preoccupazioni di date o contesti, il riordino di parole o finanche la sostituzione occasionale di lettere, l'uso di numerologia e abbreviazione per ottenere significato, la continua glorificazione degli eroi biblici e la condanna dei cattivi — tutto ciò e altro ancora fu trasportato dal Midrash alla Cabala. In effetti, molti di questi furono utilizzati anche da altri tipi di predicatori medievali. Ma il contenuto della visione universale aggadica — con la sua raffigurazione mitica di Dio come Creatore e Sovrano divino che vede dappertutto, onnipresente; che agisce nella storia; che risponde alla preghiera e alla virtù umana, sospendendo persino le leggi della Natura per salvare le Sue amate creature; che piange insieme a Israele la distruzione del Tempio e soffre con Israele il dolore dell'esilio — anche tutto questo venne fedelmente riportato nell'immaginazione cabalistica. Infatti i cabalisti furono parziali verso le versioni più altamente antropomorfiche e mitiche della tradizione rabbinica, come quelle contenute nella raccolta dell'ottavo secolo ''[[w:Pirke de-Rabbi Eliezer|Pirqei de-Rabbi Eli’ezer]]'' (פרקי דרבי אליעזר). E qui stavano in forte contrasto con la precedente tendenza intellettuale del Medioevo: la [[w:filosofia ebraica|filosofia ebraica]], che esercitava un certo grado di scetticismo critico riguardo alle affermazioni più fantastiche dell’''aggadah'' e si concentravano, quando possibile, su quelle prospettive più modeste e naturalistiche presentate da certi rabbini antichi.<ref>Ho spesso controllato interpretazioni e letture in altre fonti, tra cui: Menaḥem Recanati, ''Peirush al ha-Torah''; Joseph Angelino, ''Livnat ha-Sappir''; Abraham Galante, in ''Or ha-Ḥammah''; Shim’on Lavi, ''Ketem Paz''; Abraham Azulai, ''Or ha-Levanah''; Joseph Ḥamiẓ, cur., ''Derek Emet'' (lista di emendamenti all'edizione di Mantova); Shalom Buzaglo, ''Miqdash Melekh''; Yehuda Ashlag, ''Peirush ha-Sullam''; infine ''Gershom Scholem’s Annotated Zohar''. Si veda comunque la "[[Introduzione allo Zohar/Bibliografia|Bibliografia]]", soprattutto per l'edizione di Cremona.</ref>
Il secondo dei cinque
Un terzo elemento del lascito rabbinico è la tradizione liturgica. Mentre la prassi liturgica era codificata entro la ''halakhah'' e quindi in certi modi ne è un sottoinsieme, i testi recitati nel culto – incluso un vasto ''corpus'' di poesia liturgica, o ''[[w:piyyut|piyyut]]'' – costituiscono un [[infinità e generi|genere letterario]] a se stante. Scrittori medievali, tra cui i mistici sia della Spagna che di [[:en:w:Ashkenaz|Ashchenaz]], si preoccuparono molto di stabilire un testo appropriato e preciso per ogni preghiera. Il testo del libro di preghiere ebraico era stato in gran parte fissato da ''compendia'' risalenti al decimo secolo; nel Medioevo, tuttavia, divenne oggetto di commentari, molti dei quali cercavano di trovare le teologie proprie dei loro autori riflesse in questi testi venerati e diffusi largamente, scritti da antichi rabbini. Ciò è particolarmente vero con riferimento ai cabalisti, che dedicarono molta attenzione alla ''[[w:Principi di fede ebraica|kavvanah]]'', o significato interiore, della preghiera liturgica.
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