Shoah e identità ebraica/Appendice: differenze tra le versioni

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Di morti, dentro mi brucia il cuore.<br/>
 
Questa traduzione<ref>La mia traduzione è invece al [[Shoah e identità ebraica/Haftling A-7713|Capitolo 6.1]].</ref> è di [[w:Storia della letteratura italiana/Beppe Fenoglio|Beppe Fenoglio]] che appassionatamente colto, com’è noto, della letteratura anglosassone, tradusse ''[[w:La ballata del vecchio marinaio|The Rime of the Ancient Mariner]]'' di [[w:Samuel Taylor Coleridge|Coleridge]] nel 1955. Primo Levi intitolò con l’emistichio tratto dal primo verso qui citato e da lui tradotto «ad ora incerta» della lirica «Il superstite», la sua raccolta di poesie apparsa da Garzanti nel 1984. Non solo: come epitaffio alla sua ultima opera del 1986 ''[[w:I sommersi e i salvati|I sommersi e i salvati]]'' egli premise l’intera quartina qui riportata. Se nella vita e nell’opera di un uomo qualcosa si afferma con un rilievo diverso e prepotente quasi a imporsi come segno di un destino, in Primo Levi questo segno, insieme esistenziale e letterario, è il persistere tenace di una inconsueta simbiosi tra la razionalità costante e la grazia rara, e casuale, della poesia. Evidentemente nello scienziato e nel tecnico che usava per il suo lavoro la scienza che dischiude i misteri della natura ma si chinava anche su di lei con animo puro e cuore commosso, interrogandola al di là di ogni sapere scientifico per trarne risposte alle eterne domande che accomunano gli uomini semplici ai geni, Socrate al marinaio ieri come oggi, in Primo Levi dunque, chimico e scrittore, razionalmente e costantemente memore, intermittentemente poeta, questo miscuglio è segno di destino. Non si spiegherebbe altrimenti la suggestione che il poemetto di Coleridge esercitò con tanta insistenza su di lui, tanto da tornarci in momenti diversi: c’è infatti nel racconto del vecchio marinaio il fascino che deriva dall’incontro del reale e del soprannaturale, la storia raccontata colorandosi via via della carica realistica di una vicenda vissuta e insieme addensandosi di senso dell’eterno. E che altro è l’esistenza se non un mescolarsi di casi ripetuti nella quotidianità e di altri scaraventati nell’insopportabile e nell’assurdo da occasioni drammatiche generate dallo
stesso operare umano volto al progresso, quella che Levi definisce le «brutture senza rimedio che oscurano il nostro avvenire», e dalle follie del potere registrate dalla storia, «il sogno demente di grandezza dei nostri padroni»?
Può la ragione, per chi è laico dare risposte sufficienti là dove la fede si arrende nelle braccia di un Dio Padre? Certamente: al di là di ogni pagina scritta in prosa e in un destino che la letteratura poteva salvare esorcizzandolo dalla disperazione, ma che restava comunque, svanita la luce della poesia «ad ora incerta», come un regno d’ombre dolorose continuamente indagato da una logica ferrea sollecitata da una memoria senza pace.