Cambiamento e transizione nell'Impero Romano/Capitolo III: differenze tra le versioni

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[[w:Tertulliano|Tertulliano]], da buon avvocato, capiva molto bene le intenzioni di Traiano e affermò che la ragione per proibire associazioni (''collegia'') era quella di salvaguardare l'ordine pubblico, nel timore che lo stato potesse esser diviso in fazioni — che potevano facilmente disturbare elezioni, riunioni, senato, assemblee e giochi. Neanche Plutarco dimostrò indulgenza verso le masse popolari: avevano portato la Grecia alla decadenza e alla sua sottomissione a Roma. Ora, nelle città, dissensi e lotte intestine devono cessare, dice Plutarco, e bisogna obbedire al governo romano, continuando a fare il proprio dovere riguardo al proprio paese natale, armonia deve essere la parola d'ordine del nuovo futuro, sia tra le varie classi, sia tra le varie città, come anche nell'impero romano, che governa tutto. ''Homonoia'' era la parola d'ordine di un altro "ideologo", [[w:Dione Crisostomo|Dione di Prusa]];<ref>Il discorso (XXXIV) di Dione è dedicato all'"armonia" (''perì homonoias''), parlando ai Tarsi.</ref> e forse nessun'altra testimonianza è così degna di nota come alcuni dei suoi discorsi nell'interpretare il paternalismo conservatore che ispirò la politica delle classi dirigenti romane in merito al problema sociale. Dione si proclama d'essera dalla parte dei poveri.<ref>Dione, ''Or.'', XLIII, 7; L, 3.</ref> Il suo atteggiamento è moralista e riformista: la divisione tra ricchi e poveri è naturale e quindi permanente. Propone che i "poveri rispettabili" siano spostati dalla città a causa della disoccupazione (σπάντια τά εν τοῖς πόλεσιν ἓργα).<ref>Dione, ''Or.'', VII, 105.</ref> La soluzione è ingenua, sebbene Diono debbe avere il merito di aver riconosciuto che la disoccupazione era un malessere sociale fondamentale. Considera inopportuno che i poveri debbano lavorare su articolipregiati, o gestire bordelli, o vendere alle aste, o aver a che fare con leggi e Servizio pubblico. [[:en:w:Barry Baldwin|Baldwin]] asserisce che tutto ciò è indice di di quanto Dione ed altri pensatori avessero ben capito che il ruolo della burocrazia di Stato rappresentava uno strumento di oppressione delle classi.<ref>Baldwin, ''CQ'', 1961, p. 204.</ref> I suoi discorsi [[w:Bitinia|bitinici]], come anche i due discorsi ai Tarsi, sono sorprendentemente ricchi di riferimenti alle tensioni sociali presenti nelle città che, di per se stesse, non erano in declino. Tuttavia, sul piano sociale è forse più interessante un brano dal Discorso XXXII agli Alessandrini, in cui l'insolenza della [[w:plebei|plebe]] alessandrina incitata dai [[w:Cinismo|cinici]] viene stigmatizzata da Dione.<ref>Dione, ''Or.'' XXXII, 9.</ref>
 
Cinici e [[w:Cinismo|cinismo]] significavano, nelle città ellenistico-romane dei primi due secoli, un'opposizione popolare a Roma, specialmente sul piano sociale — Rostovtzeff sottolinea fortemente questo punto.<ref>26Rostovtzeff, ''SEHRE'', pp. 132ff. (ediz. ital.).</ref> Se forse un concetto di cinismo come filosofia del "proletariato" sembri esagerato, per converso troppo eccessive sono le riserve profferite da alcuni studiosi circa il ruolo socio-politico tenuto da questi filosofi.<ref>27Dudley, ''A History of Cynicism'', Introduzione.</ref> Nel secondo secolo i cinici erano sparsi per Siria, Asia Minore, Alessandria, Grecia continentale, Atene, Corinto, Epiro, Tracia.<ref>Dudley, ''A History of Cynicism'', Introduz., p. 11.</ref> Le loro orazioni influenzarono molto uno dei pochi scrittori dell'età imperiale sinceramente interessati nel problema sociale, vale a dire [[w:Luciano di Samosata|Luciano di Samosata]].<ref>B. Baldwin, ''CQ'', 1961, pp. 204-205.</ref> Sebbene esagerando, A. Peretti disse alcune cose giuste sull'interesse sociale di Luciano, sulla sua simpatia per i problemi delle classi inferiori nel mondo ellenistico-romano.<ref>A. Peretti, ''Luciano. Un intellettuale greco contro Roma'', Bari, 1945, pp. 41ff., 53ff.</ref> Sebbene ''[[w:Nigrino|Nigrino]]'' non fosse stato scritto – ma sarebbe stato possibile – in opposizione diretta a Εἰς Ῥώμην di [[w:Publio Elio Aristide|Elio Aristide]], rimane comunque evidente che in Luciano l'"opposizione intellettuale" a Roma, l'anti-romanismo, fosse strettamente connesso con la realtà sociale dei tempi, coi contrasti sociali che stavano lacerando la sociatà ellenistico-romana. La sua posizione antiromana in effetti lo poneva dalla parte delle classi inferiori. L'atteggiamento di Luciano rispetto alle masse popolari è alquanto differente da quello degli scrittori del mondo greco, perfettamente "integrati" nella struttura sociale dell'impero e particolarmente ansiosi di evitare e reprimere quasiasi perturbazione o cambiamento in questa struttura. Luciano non sembra ignorare i problemi sociali del suo tempo, e conosce le vere difficoltà che opprimevano le classi inferiori in una società dove le differenze sociali sonose mpre più stratificate e i contrasti in aumento: idealmente, si sente vicino agli sfruttati che odiano Roma e la classe dirigente a quel punto totalmente romanizzata.
 
La mancanza di un'ideologia rivoluzionaria definita ha portato molti storici a sottovalutare la durezza della lotta sociale svoltasi nella città romane. Per quanto espressa in forme "pre-politiche", sicuramente ebbe un carattere di classe: persino in quegli episodi di carattere più o meno anarchico o utilitarista, di puro disordine; fu polarizzato nel contrasto tra ricchi e poveri, tra i privilegiati dll'ordine sociale mantenuto dall'impero, e gli sfruttati che servivano quale base della civiltà materiale e spirituale di queste minoranze privilegiate. Forse gli storici sono stati troppo rigidi nel negare fermamente un carattere sociale, e spesso una prospettiva sociale, all'azione a volte disordinata e irrazionale di queste "foules révolutionnaire" urbane. Nel caso in questione, è di notevole aiuto sul piano operativo, il concetto di "classe" presentato da [[w:Edward Palmer Thompson|E. P. Thompson]] nel suo libro ''The Making of the English Working Class'':<ref>E.P. Thompson, ''The Making of the English Working Class'', Londra, 1963.</ref>
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In generale, tuttavia, le attività delle masse, quali che fossero i bersagli ufficiali e dichiarati, avevano una sottofondo sociale, evidente specialmente in occasioni importanti. La proprietà dei ricchi, i loro possedimenti e in generale la loro stessa esistenza rappresentava l'obiettivo contro cui prima o poi erano diretti gli exploit del proletariato urbano mobilitato. Pertanto, ad Antiochia, l'introduzione di una nuova tassa provocò una dimostrazione popolare nel 387; ma ciò che veramente ne soffrì furono i possedimenti e le case dei ricchi, e in particolare quelli di un cittadino importante<ref>Theod., ''HE'', V, 19; Zos., IV, 41; cfr. Browining, ''JRS'', 1952, p. 15.</ref> – in un'altra sommossa del 353, di nuovo la casa di un ricco cittadino, Eubulus, venne incendiata da una folla inferocita<ref>Amm. Marc., XIV, 7, 6.</ref> – la distruzione di pannelli di legno su cui era stata dipinta l'immagine dell'imperatore, e della statue di bronzo della sua famiglia, servì da sfogo. La rivolta della folla spesso si concludeva con incendi e distruzioni di case appartenenti a personaggi impopolari: potevano essere oppositori religiosi, o più semplicemente alcuni notabili, la cui colpa principale era quelle di essere ad un livello sociale superiore e molti ricchi.<ref>Jul., ''Misopogon'', 370 C.; Amm. Marc., XIV, 7, 6.</ref> La furia popolare poteva anche sfogarsi contro i rappresentanti del potere centrale ritenuti, non senza ragione, troppo spesso dalla parte dei ricchi; in effetti, durante la rivoluzione dei [[w:Gordiano I|Gordiani]], la folla romana, in un impeto di legittimismo senatorio, massacrò i giudici e gli ufficiali "che erano stati lo strumento della tirannia."<ref>Herod., VII, 7, 3.</ref> La rabbia poteva anche essere diretta contro singoli individui, odiati a causa della loro disonestà personale o dei loro atteggiamenti particolari contrari alle ideologie legittimiste della massa e dei suoi sentimenti monarchici a volte più monarchici dei monarchi stessi: poteva sfogarsi contro l'odiato Seiano,<ref>Giov., X, 58-87.</ref> o contro le figlie di Agrippa.<ref>Flavio Gius., ''A.I.'', XIX, 9, 9, 357ff.</ref> Comprensibilmente, uno dei respingenti della folla era il ''[[w:Praefectus urbi|Praefectus urbi]]'', come nel caso di [[w:Artemio (dux Aegypti)|Artemio]] "cuius administratio" – dice [[w:Ammiano Marcellino|Ammiano]] – "seditione perpessa est turbulentas".<ref>Amm. Marc., XVII, 11, 5.</ref>
 
Come già detto, le città dell'impero erano disturbate internamente da profonde tensioni sociali; anche, e forse specialmente, nei primi secoli – il terzo sicuramente – piuttosto che durante i secoli successivi. A [[:en:w:Smyrna|Smyrna]] "gli uomini della città superiore erano contro quelli del mare"; simili situazioni tese tra differenti gruppi cittadini sono citati dalle fonti per almeno una dozzina di città.<ref>52Filostr., ''V. Soph.'', I, 25, 531, 603.</ref> La politica economica e sociale del governo centrale, politica di ''laissez-faire/laissez-passer'', non poteva far altro che creare profonde divisioni nel corpo sociale urbano, ed acutizzare i contrasti sociali. Divisioni di natura geografica-amministrativa, come quelle tra la gente che viveva entro le mura cittadine e la gente che stava fuori della giurisizione delle autorità municipali, presto mutarono in discriminazioni di natura socioeconomica. Un ideologo – tra l'altro, in buona fede – come Dione di Prusa, raccomandava agli abitanti di Tarso di mantere la pace sociale in città, facendo amicizia coi ''collegia'' dei manovali e abolendo quei regolamenti che escludevano dalle assemblee chiunque avesse possedimenti sotto un livello prestabilito.<ref>53Dione, ''Or.'', XXXIV, 23 e ''passim''; cfr. T.R.S. Broughton, ''ESAR'', IV, 1938, p. 811, e Magie, ''Rom. Rule'', I, p. 640; II, p. 1503, nota 26.</ref> A [[w:Bursa|Prusa]] stessa, tensioni di origine e natura sconosciute turbarono così tanto le assemblee pubbliche che dovettero essere sospese dal governatore onde poter garantire la sicurezza pubblica.<ref>54Dione, ''Or.'', XLVIII, 1-2ff.</ref> Infatti, una considerazione realistica di queste divisioni, dissenti, tensioni sociali nel contesto di città elleniche potrebbero indurci a pensare, insieme a C. S. Walton,<ref>55C.S. Walton, "Oriental Senators in the Service of Rome", ''JRS'', 1929, pp. 38; p. 42.</ref> che il loro accrescimento di prosperità da Augusto in poi, non avrebbe fatto altro che beneficiare le classi possidenti, aumentando quindi il contrasto tra povertà e ricchezza. Pertanto una seria situazione avrebbe potuto generarsi, sotto l'incitamento di qualche leader abile e focoso, se il governo imperiale non avesse provveduto all'inserimento nell'ambito del sistema, degli elementi più rappresentativi dell'aristocrazia locale, vincolandoli quindi al proprio interesse tramite una cauta estensione del rango senatorio ai membri più facoltosi ed efficienti di tale aristocrazia, allo stesso tempo prevenendo una qualsiasi fonte di disordine con un controllo accurato delle finanze e dei servizi delle città; senza peraltro cambiare il sistema.<ref>56C.S. Walton, ''loc. cit.''</ref>
 
Ma naturalmente il proletariato, sia urbano che rurale, si sollevò per difendere il suo diritto di esistere, durante quei periodi in cui il costo della vita diventò proibitivo. Con mentalità e procedure "pre-politiche", iniziò la sua battaglia contro gli alti costi, contro l'aumento dei prezzi, nell'area dei prodotti di prima necessità — come il pane, che rappresentava la base principale di alimentazione del proletariato. Infatti, data la semplice economia di sussistenza entro cui si muoveva gran parte della popolazione dell'impero, anche durante tempi normali, un aumento di prezzi nei prodotti primari e un aumento della disoccupazione – prezzi da fame e disoccupazione, come è stato ampiamente dimostrato, tendevano a coincidere in epoca pre-industriale<ref>57</ref> – bastavano a far precipitare le classi inferiori, il proletariato di città e campagna, nella catastrofe. Pertanto, sommosse cittadine, brigantaggio nelle campagne, abbandono dei campi, rivolte dei contadini, costituivano una reazione naturale e disperata a tali congiunture, in cui il governo centrale poteva solo intervenire in minima parte. Per fare un paragone con altre situazioni storiche, anch'esse particolarmente importanti, nella Parigi del XVIII secolo, per esempio, il rapporto prezzo-produzione del grano era, come ha indicato Labousse, un baromentro infallibile di sommosse popolari.<ref>C. E. Labousse, ''Esquisse du mouvement des prix et des revenues en France au XVIII<sup>e</sup> siècle'', I-II, Parigi, 1933; ''Id''., ''La crise de l'économie française à la veille de la Révolution'', Parigi, 1944.</ref> Roma, Antiochia e Alessandria non erano certo Parigi — in verità, stavano meglio, dal punto di vista delle forniture alimentari; tuttavia, nell'ambito di un'economia precapitalista, la situazione di fondo rimane abbastanza equiparabile. Si potrebbe dire che le tensioni sociali fossero inevitabili, nel III secolo; in pratica, una delle spiegazioni è che situazioni variabili localmente sul piano produttivo erano collegate con una congiuntura inflazionistica costante, soggetta ad alterazioni subitanee.<ref>59Il valore reale delle paghe diminuì drammaticamente durante il terzo secolo: cfr. spec. L. Cracco Ruggini, ''Economia e società nell'Italia Annonaria'', Milano, 1961, Parte I, pp. 35ff.; 84ff.; 112ff.; 152ff.; Parte II, da p. 207 in poi.</ref>
 
Turbolenze interne, difficoltà di forniture alimentari, sommosse di un proletariato urbano gradualmente impoveritosi e sempre più sedizioso, dimostrazioni...<ref>60In materia cfr. W.H. Buckler, ''Anat. St. pres. to Sir W.M. Ramsay'', 1923, pp. 35ff; R. MacMullen, "A note on Roman strikes", ''CJ'' 1963, pp. 269-271.</ref> La vita sociale delle città imperiali, esaminata da vicino e non sotto la confortevole prospettiva di una ''Pax Romana'' generale, appare, anche durante l'"età d'oro degli Antonini" ma specialmente dal regno di [[w:Marco Aurelio|Marco Aurelio]], molto più dura e più problematica che certi facili ''clichés'' storiografici vorrebbero farci credere. È vero che, come tutti i luoghi comuni, c'era qualcosa di valido nel concetto di un'epoca "umanistica" dell'impero, basata sul consenso delle classi dirigenti nei confronti del ''Princeps'', e sui doveri che tali classi sentirono necessario assumersi in relazione alle classi inferiori. L'etica dello "Stoicismo Romano" aveva indubbiamente per un certo periodo permeato l'atteggiamento delle classi superiori dell'impero; ma era stato un momento particolare e. soprattutto, il risultato di un equilibrio precario, condannato a spezzarsi appena le contraddizioni "organiche" relative alla struttura socioeconomica imperiale fossero maturate.
 
La realtà socioeconomica è più forte della volontà e delle ideologie dell'uomo; queste contraddizioni esplosero. Le contraddizioni sono l'innesco delle trasformazioni; la trasformazione dell'immensa base produttiva si sviluppò in una direzione antagonistica rispetto alle strutture – o, meglio, le sovrastrutture – di natura giuridica, politica e culturale con cui era articolata la società ellenistico-romana, quella società "classica" fondata sulla ''polis''. Le oligarchie municipali, che fino ad allora avevano supportato le città e costituito il nerbo della società ellenistico-romana, dovettero confrontarsi con una battaglia che poteva avere un solo risultato. Questa classe resistette con tutte le sue forze alla pressione che proveniva dal basso; ma il prezzo fu la sua trasformazione. Al suo interno, le distinzioni di potere "reale", cioè potere economico, furono accentuate e definite; perse il suo ''esprit de corps'' e abbandonò la sua ideologia di "servizio pubblico" rispetto alla collettività. Questa classe capì – o piuttosto lo capirono i suoi rappresentanti più abili e più potenti economicamente – quali fossero le cose per cui si doveva combattere e quali da salvare, e quelle che potevano esser lasciate al loro fato. Di conseguenza scelse i suoi alleati: vale a dire, nonostante ciò che credeva Rostovtzeff, un forte potere centrale e un forte esercito che lo proteggesse. L'assolutismo, o per usare un termine ormai tradizionale, il [[w:Dominato|Dominato]] – autocrazia militare, quindi – emerse come forma politica necessaria e desiderabile.
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== L'inflazione ==
Generalmente, l'inflazione rappresenta la sottile linea rossa che interseca questa disintegrazione delle strutture socioeconomiche del Primo Impero; ma sulle strutture municipali, costituiva un tipo di solvente che divise le componenti sociali con cui erano formate. Come sempre, l'inflazione esasperò i contrasti sociali; il suo impatto sulle paghe dei lavoratori riuscì a ridurre a più della metà il potere d'acquisto effettivo. Scioperi e sommosse, carestia e rabbia accompagnò il corso inflazionistico: religioni della salvezza, sebbene la loro vittoria non dipese esclusivamente da questo, trovarono comunque un ''humus'' molto fertileper la loro diffusione e propagazione, essendo in grad di trasporre su un piano soprannaturale le aspettative salvifiche delle masse frustrate nelle loro aspirazioni basilari. Inoltre, l'inflazione agì anche ad un livello più elevato, sulle strutture amministrative della ''polis'' classica e su quella classe che normalmente le gestiva. I comuni cambiarono ruolo, trasformandosi gradualmente in ''curiae'' della Tarda Antichità; quando in effetti, per parafrassare un passo di uno storico moderno, l'imperatore, considerando il diritto di proprietà come l'esercizio di una funzione pubblica, rese sistematico l'obbligo dei proprietari di garantire allo Stato le risorse necessarie per il successo della propria missione. I [[w:decurione|decurioni]], una volta esecutori del mandato a loro dato dai propri cittadini, ora furono comunemente considerati agenti dello Stato. Finanze, ripartizione fiscale e riscossione delle tasse, stazioni di posta, reclutamento militare — tutti richiedevano personale numeroso e permanente. La ''curia'' e il ''consortium curiae'' avrebbe fornito allo Stato il personale necessario di questo settore amministrativo; infatti, lo Stato avrebbe reso i ''curiales'' una sorta di aristocrazia fiscale che obbediva alle sue proprie leggi.<ref>61R. Ganghoffer, ''L'évolution des institutions municipales en Occident et en Orient au Bas-Empire'', Parigi, 1963, p. 50.</ref>
 
Avvenimenti come quelli succitati rappresentano un po' il canto del cigno, l’''epicedium'' della ''polis'' classica, dei comuni del Primo Impero, e significano anche, da questo punto di vista, l'inizio di una nuova funzione per loro, in un contesto sociale così differente come quello della Tarda Antichità. In effetti, avendo considerato il carattere e le funzioni della ''polis'' classica,<ref>62Cfr. spec. A.H.M. Jones, ''The Greek City from Alexander to Justinian'', Oxford, 1940; anche A. Momigliano, "La città antica" ''cit.'', pp. 81ff.</ref> forse nessun altro fenomeno come questo cambiamento di ruolo dei comuni rivela l'importanza ed il senso di disintegrazione della società ellenistico-romana e la sua trasformazione in strutture della ''Spätantike''. Una crisi come quella delle strutture principali dell'organizzazione socioeconomica del mondo classico – la ''polis'' – coinvolgeva trasformazioni irreversibili.
 
Se uno considera le richieste che lo Stato faceva ai suoi sudditi, si nota che essere erano in gran parte mediate tramite le città. Le principali richieste si riferivano a tributi e tasse indirette, la manutenzione della posta imperiale e la rete di comunicazioni che collegava i centri principali dell'impero (''cursus publicus''); le vettovaglie e l'alloggio delle truppe e dei funzionari; la fornitura di lavoro forzato, specialmente per la costruzione di strade; e il reclutamento dell'esercito. Lo svolgimento di questi compiti, nel corso della recessione che affliggeva l'impero dai tempi di Marco Aurelio, rivelava le basi economiche troppo fragili su cui si fondavano le strutture della città, e divenne un peso troppo oneroso per le aristocrazie municipali e il loro ''esprit de corps'', l'ideologia "umanistica" che le aveva stimolate nei primi due secoli dell'impero.
 
L'inflazione monetaria del terzo secolo praticamente eliminò il significato delle tasse indirette — la ''centesima rerum venalium'', imposta da Augusto, e quella del 4% sulla vendita degli schiavi, cioè la ''vicesima libertatis'', che subì alterne fortune a partire dal primo decennio del III secolo;<ref>63Cfr. F. Millar, ''The Roman Empire and Its Neighbours'', Londra, 1967, p. 101 (ediz. ital.)</ref> la tassa del 5% sulle eredità che seguì n corso simile nel terzo secolo e appare nel 240 per l'ultima volta;<ref>64Cfr. ''FIRA'', III, nota 50; ''P. Oxy.'' 1114 (di 237).</ref> queste tasse insieme al ''portorium'',<ref>65</ref> un'accisa sulle merci in transito, venivano pagate in contanti e naturalmente vennero annullate dalla crisi monetaria del III secolo. Anche la documentazione che riguarda il ''portorium'' cessò verso il terzo secolo, e riapparve nel quarto.<ref>66</ref> Sarebbe però ingiustificato sostenere che scomparve nel III secolo: la più semplice spiegazione credo sia che il suo carattere regionale venne sconvolto da invasioni e guerre del III secolo. La riscossione di queste tasse indirette passò, verso gli ultimi anni del secondo secolo, da aziende private in subappalto alla giurisdizione di procuratori imperiali;<ref>67Per una dissertazione generale, si veda S, de Laet, ''Portorium, Etude sur l'organisation douanière èche les Romans surtout à l'Epoque de Haut-Empire'', Bruges, 1949.</ref> ed è significativo che, tra tutti i tipi di relazioni dello Stato coi propri sudditi, solo queste tasse non avessero una mediazione cittadina;<ref>68F. Millar, ''The Roman Empire, p. 103. Millar asserisce che questo fenomeno non è facile da spiegare; io credo che la spiegazione si debbe trovare nelle teorie pubblicistiche dei giuristi severiani in merito ai ''munera publica''.</ref> i comuni sopportarono incarichi più vincolanti e gravosi.
 
Ancor più degno di nota riguardo all'atteggiamento dell'amministrazione centrale verso i comuni, è lo sviluppo di quella tassa speciale chiamata ''aurum coronarium''. Originalmente, rappresentava un omaggio di una corona d'oro da parte delle comunità soggiogate ai conquistatori e monarchi.<ref>69Gell., ''N.A.'', V, 6, 5 e ''passim''.</ref> Veniva pagata, durante l'età repubblicana, ai generali vittoriosi; ma sotto l'impero era privilegio esclusivo dell'imperatore, all'inizio come offerta volontaria, e poi come imposizione alla sua ascesa al trono, durante i trionfi, e in occasione di altri eventi particolarmente significativi. Settemila corone d'oro dalla Terraconensis e novemila dalle province galliche, furono offerte a Claudio dopo la conquista della Britannia nel 43 e.v.<ref>70Plinio, ''NH'', XXXIII, 16, 54; ''P. Lond.'' riporta la risposta di Claudio ad un legato dell'associazione atletica di Sardi, che gli aveva portato una corona d'oro.</ref> Tale contributo poteva essere annullato, mediante un atto di benevolenza sovrana; ma in sostanza era un mezzo usato dagli imperatori per procurarsi denaro especialmente metalli preziosi, in momenti di necessità o capriccio. Infine, come dimostrano i papiri egizi, già alla fine del II secolo, l’''aurum coronarium'' divenne una tassa regolare a cui erano aggiunte corone d'oro in occasioni particolari.<ref>71Cfr., ''int. al.'', N. Lewis, ''Life in Egypt under Roman Rule'', Oxford, 1983, ''s.v.'' "Taxation" e pp. 156-184.</ref> E, come ''munus'', pesava sulle spalle dei consigli municipali (nel IV secolo era di competenza del Decurionato e veniva riscosso da tutti i ''possessores'' non-senatoriali);<ref>72Cfr. ''CTH.'', XII, 13, 2 (364); sull’''aurum oblaticium'' continuazione dell’''aurum coronarium'', si veda anche ''CTH'', VI, 2, 11 (395) e ''passim''.</ref> un papiro dei tempi di [[w:Aureliano|Aureliano]] ci mostra la ''[[w:papiri di Ossirinco|Oxyrhynchus]] [[w:boulé|boulé]]'' indaffarata a dibattere sulla coniatura di una di queste corone da parte di artigiani e destinata all'imperatore illirico.<ref>''P. Oxy., 1413; cfr. S.L. Wallace, ''Taxation in Egypt from Augustus to Diocletian'', Princeton, 1938, p. 283 (e 472, nota 25).</ref>
 
Il succitato papiro ossirinco testimonia la responsabilità del senato cittadino nella riscossione della tassa locale. Come giustamente osserva Wallace, l'elevata quantità di somme raccolte indica che l’''aurum coronarium'' (lo ''stephanikon'', per usare un termine amministrativo locale) deve aver rappresentato un onere considerevole sulle classi urbane abbienti; e il ricorrere di tale tassa ad intervalli troppo frequenti risultò praticamente nella confisca di gran parte del loro capitale.<ref>S.L. Wallace, ''Taxation in Egypt, cit.'', p. 283.</ref> In realtà, sebbene oneroso, costituiva solo una delle ''munera'' che affliggevano i comuni, specialmente i magistrati municipali che gestivano gli uffici fiscali e tributari. Fu il punto culminante di una singola evoluzione subita dalle strutture dell'impero romano in merito ai problemi dell'amministrazione provinciale e dei rispettivi organi. Il governo imperiale da una parte aveva lasciato una qualche autonomia amministrativa politica alle città; dall'altra, aveva abbandonato, riguardo ai collegamenti tributari con l'amministrazione centrale, il vecchio sistema di contrattori (''publicani'') che ricevevano una decima sui prodotti quale pagamento in natura:<ref>75</ref> i ''publicani'', a parte alcune eccezioni,<ref>76Millar, ''The Roman Empire'', p. 104.</ref> erano scomparsi e le città dovevano pagare le tasse ai funzionari provinciali.
 
La formazione di personale burocratico specializzato fu uno dei grandi problemi dell'impero — come lo è sempre stato per qualsiasi altra formazione preternazionale o altro organismo statale di vaste proporzioni. Le circostanze relative alla riscossione dei due tributi principali (il ''tributum soli'' sui prodotti della terra, e il ''tributum capitis'', cioè la [[w:capitazione|tassa di capitazione]]) rivelano in tutti i loro aspetti, positivi e negativi, il pragmatismo empirico che controllava la classe dirigente romana. L'operazione era preceduta dal un censimento generale — che a volte sollevava risentimento e resistenza tra le popolazioni provinciali;<ref>77Ciò accadde sotto Augusto per le Gallie. In generale, cfr. W. Schwahn, "Tributum", ''RE'' VI A, p. 64ff.</ref> si sviluppava secondo una procedura alquanto accurata, almeno secondo quello che veniamo a conoscere sul III secolo da [[w:Ulpiano|Ulpiano]].<ref>78Ulp., D, 50, 15, 4.</ref> Tuttavia, sembra che i funzionari cittadini fossero quelli che furono incaricati progressivamente dello svolgimento delle operazioni materiali della registrazione; in effetti, le iscrizioni parlano solo di una "recezione dei censimenti" rispetto ai senatori (o governatori provinciali, se ce n'erano), di ufficiali equestri e, dopo, di [[w:liberto|liberti]] imperiali.<ref>79F. Millar, ''The Roman Empire'', p. 104.</ref> Questo è ciò che traspare da un editto della città tracia di [[w:Nesebăr|Mesembria]], secondo cui i funzionari locali convocarono tutti i contadini in città per partecipare al censimento.<ref>80Editto di Mesembria: cfr. Mihilov, ''IGBulg'' I, 1956, nota 317.</ref> Pertanto, le operazioni di censimento erano uno dei compiti imposti ai funzionari locali, che gradualmente furono costretti ad assumersi anche il compito di riscuotere in contanti le tasse fisse e rimetterle alle autorità romane. La riscossione delle tasse divenne quindi una della funzioni abituali delle autorità locali; funzione spesso veramente difficoltosa, se non impossibile, data la forza giuridica e i poteri che essi detenevano.
 
== ''Dekaprotia'' ==
In base a questa situazione si sviluppa l'istituzione del ''dekaprotia'',<ref>Si veda, per esempio, [https://www.researchgate.net/publication/293118876_The_introduction_of_decaproti_and_eicosaproti_in_the_cities_of_Asia_Minor_and_Greece C. Samitz, ''Decaproti and eicosaproti''].</ref> la cui evoluzione, sia sul piano teorico di relazione giuridica tra governo centrale e corpi locali – come iniziò a prender forma mediante l'opera di giuristi dell'epoca antonina e severiana – sia su quello pratico, di relazioni tra le comunità e lo Stato in materie fiscali, esprime pienamente le difficoltà delle oligarchie municipali, oppresse da un lato dalle sempre crescenti richieste del governo centrale – per mantenere in funzione la macchina burocratica-militare dell'impero – e dall'altro, prima dalla pressione, poi dell'indifferenza e ostilità delle classi inferiori, tenute gelosamente fuori della gestione della ''res publica''.
 
Non è questo il posto per tracciare un profilo analitico di tale istituzione. ''Dekaprotia'' appare già documentata dall'epigrafia del I secolo e.v.,<ref>82A Jerash: cfr. ''OGIS'' 621 ora in ''IGRR'' III 1376.</ref>, si diffonde velocemente durate il II secolo in Asia Minore e l'Egeo, acquisendo il rango di funzione pubblica con svariate competenze da città a città, tuttavia con un'importanza sempre accresciuta e durata pluriennale: a [[w:Palmira|Palmira]], nel rinomato diritto doganale, i ''dekaprotoi'' insieme agli [[w:arconte|arconti]] appaiono delegati ad aggiornare l'elenco di mercanzie soggette all'accisa di frontiera;<ref>83''OGIS'' 629 A 1. Su Palmira e le sue leggi doganali, cfr. Fevrier, ''Essai sur l'hist. polit. et écon. de Palmyre'', pp. 29-43.</ref> dal 153, ad [[w:Amorgo|Amorgo]], vengono assegnati a dirigere le assemblee popolari — compito che svolgeranno fino a metà del III secolo; parimenti, a [[w:Calcide (Eubea)|Calcide nell'Eubea]]. A prusia, durante l'età severiana, l'ufficio viene associato strettamente all'arcontato.<ref>84''IGGR'' III, 60.</ref> Questa diffusione notevolmente rapida di tale istituzione, adottata anche nelle colonie romane, è chiaramente spiegata dall'interesse delle autorità provinciali; in effetti, come ha osservato Grelle: "...i ''dekaprotoi'' sono gli interlocutori ideali degli organi governativi provinciali nei loro rapporti con le città":<ref>F. Grelle, ''Stipendium vel tributum'', Napoli, 1963, pp. 58-59.</ref> godono di una posizione preminente e di una continuità di funzioni che i magistrati annuali non potevano offrire, e quindi poterono assicurare una certa continuità alle direttive dell'amministrazione romana. Sempre più frequentemente vennero usati, cominciando dai tempi di Marco Aurelio, quali rappresentanti fiscali delle città, possibilmente in occasioni di contributi straordinari.<ref>86E. G. Turner, ''JEA'', 1936, p. 14; Jones, ''The Greek City'', p. 139.</ref>
 
Tuttavia, fu principalmente durante l'età severiana che il ''dekaprotia'' acquisì quella fisionomia che l'avrebbe caratterizzato nel III secolo. Come si sa, durante la sua visita in Egitto tra il 199 e il 200,<ref>87</ref> [[w:Settimio Severo|Settimio Severo]] estese l'ordine municipale anche a questa provincia, concedendo le ''[[w:Boulé|boulai]]'' alle ''metropoleis''.<ref>88In generale, cfr. P.F.A. Jouguet, ''La vie municipale dans l'Egypte romain'', Parigi, 1911, pp. 344ff.</ref> Tale riforma coinvolgeva un adattamento all'istituzione del ''dekaprotia'', ovviamente non conosciuto in precedenza alle istituzioni locali; questa funzione allora cominciò ad alterare le sue caratteristiche originali, e le cause devono essere ricercate nella peculiarità delle strutture amministrative egizie, anche dopo le riforme severiane. Le ''boulai'' infatti eleggevano gli amministratori delle ''metropoleis'' (rimpiazzando il ''Koinòn tôn arkhónton'' che scomparve) e designavano i funzionari liturgici al ''nomos'',<ref>89E.P. Wegener, ''Symb. van Oven'', p. 166 ''Mnemosyne'', 1948, pp. 15ff., 115; 297.</ref> tra loro specialmente i ''dekaprotoi''. Le loro competenze quindi, da questo momento, cambiarono da eccezionali e limitate a specifiche e definite: furono rese direttamente subordinate agli ''strategos'' – l'Egitto infatti, nonostante la creazione delle ''boulai'' nelle metropoli, mancava ancora di un'amministrazione civile<ref>90</ref> – per il controllo della riscossione delle tasse; la ''boulé'' era pertanto costretta non solo a selezionare i magistrati per l'amministrazione metropolitana, ma anche ad offrire gli organi liturgici a quella imperiale.<ref>91Grelle, ''Stipendium vel Tributum'', p. 81.</ref>
 
"Estremismi e illusioni della politica di municipalizzazione dei Severi" affermò [[:en:w:Jean Gagé|Jean Gagé]] in merito a quanto sopra. Mediante l'organizzazione municipale dell'Egitto si possono riconoscere tutte le caratteristiche della politica dell'imperatore africano: da una parte, le necessità della centralizzazione burocratica e autoritarismo di stato; dall'altra, il "democraticismo" e idealismo politico. Le strutture burocratiche locali rimangono inalterate: la metropoli è sempre inserita in un distretto territoriale, la cui area è determinata dalla giurisdizione dello ''strategos'', che continua a supervisionare in ''nomos'' nel suo insieme. Pertanto, la ''boulé'' stessa viene ad esser parte dell'apparato amministrativo imperiale, quale organo per la nomina di funzionari soggetti allo ''strategos''; e alle borghesie cittadine, espresse nelle ''boulai'', vengono estess le responsabilità degli atti eseguiti dai funzionari liturgici nell'amministrazione del ''nomos''.<ref>92</ref> In pratica i comuni si caricano di ulteriori oneri; tuttavia, almeno nelle intenzioni del ''Princeps'' e dei suoi consiglieri, la loro autonomia in linea di principio era riaffermata. Sempre in linea di principio, il ''dekaprotia'' – e la simpatia con cui le autorità romane consideravano la diffusione di tale istituzione – non può essere considerato, a differenza delle affermazioni di Rostovtzeff,<ref>93Rostovtzeff, ''SEHRE'', pp. 446ff.; 470ff.; 564; 568.</ref> il segno di una politica che tendeva nel II secolo a trasferire il peso dei tributi da ''civitates'' a ''collatores''; al contrario, assumendosi la responsabilità delle relazioni fiscali con lo Stato romano, il ''dekaprotia'' confermava decisamente l'autonomia tributaria della città, riguardo alla riscossione delle tasse.<ref>94</ref> In ogni modo, se uno considera le funzioni del ''dekaprotos'' nell'età pre-severiana (ignorando le modifiche successive), sarà chiaro che la rappresentazione fiscale della comunità, svolta sporadicamente, e la responsabilità correlativa dell'esazione tributaria, rappresentano segni evidenti di una vera riluttanza da parte della burocrazia imperiale ad organizzare un sistema diretto di relazioni tra organi fiscali e ''collatores'' senza passare attraverso le istituzioni amministrative della ''civitas''.<ref>95</ref> Le autorità locali e il governo centrale trovarono quindi un punto di equilibrio originale, che permise di evitare attriti fastidiosi sul piano politico e permise, in condizioni particolari, la "singolare coesistenza... di una tassa immediata con una riscossione immediata";<ref>96''Ibid''., p. 64, 81-83.</ref> ma impedì anche la risoluzione nelle istituzioni organiche del rapporto tra fisco e contribuenti.
 
Anche in quest'area, l'operato di Settimio Severo è "epocale". Giustamente F. Grelle ha detto che il concetto di organizzazione territoriale che le modalità dell'Egitto ci permettono di riconoscere, sembrano alquanto distanti dai modelli federalisti proposti dal panellenismo della [[w:Seconda sofistica|Seconda sofistica]]; invece si traduce in istituzioni con consapevolezza di unità nell'impero che era già emersa all'inizio del secolo in quella legge pubblica più sensibile ai problemi di una nuova dimensione spirituale nella comunità romana. Tuttavia, mentre nella considerazione politica la congruenza della vita amministrativa delle ''civitates'' con quella dell'impero sembrava fosse cercata nell'adesione spontanea all'ordine romano, nel sistema egizio viene ottenuta tramite il posizionamento delle metropoli nell'ambito delle strutture burocratiche preesistenti, e per mezzo degli ''strategos''. Pertanto, mentre la partecipazione nella gestione degli affari pubblici era stata espressa nel diritto pubblico sottolineando specialmente la natura di interesse generale dei doveri individuali nell'ambito della propria comunità, nell'organizzazione egizia questa preoccupazione viene tradotta in un impegno di liturgie da svolgersi sotto la supervisione dello ''strategos''.<ref>97Grelle, ''op. cit.'', pp. 81-83.</ref> In un tentativo di superare il pluralismo amministrativo tramite un concetto unitario della vita pubblica dell'impero, l'imperatore africano, utopista nel suo riformismo proiettato verso il futuro, enfatizzava gli obblighi, piuttosto che le competenze, inerenti alle funzioni assegnate alle ''metropolites''. Ciò in sostanza non alterò le basi e la natura del tributo, ma fu riflesso in ogni modo nella sua riscossione e gestione: la presenza del ''dekaprotos'' nell'amministrazione tributaria del ''nomos'' mantenne l'immediatezza del rapporto tra contribuente e organi tributari centrali. Diversamente dalle altre province, la metropoli, in tale nuova organizzazione, non ebbe una funzione intermediaria tra ''collatores'' e autorità tributarie imperiali; il ''dakaprotos'' egizio, sebbene nominato dalla ''boulé'', fu direttemente responsabile allo ''strategos'' e svolgeva una liturgia imperiale. La peculiarietà del nuovo ordine in Egitto consisteva nel fatto che, sebbene trovasse la sua base in una relazione publicista, presupponeva comunque un collegamento diretto tra il singolo contribuente ed il ''Princeps''; rendeva quindi possibile la coesistenza di un'organizzazione municipale, in senso lato, con una tassazione e riscossione effettuata da organi burocratici provinciali;<ref>98</ref> e pertanto postulava le premesse per un'estensione delle esperienze egizie alle altre province, e per un riesame delle teorie dei legislatori imperiali in materie tributarie.<ref>99Grelle, ''op. cit.'', pp. 81-83.</ref>
 
=== ''Munus publicum'' ===
In ogni sistema politico esistono sempre le premesse per il suo ribaltamento; le realtà economiche e sociali sono sempre più fortuforti della volontà delle singole person. Sotto una prospettiva diversa, le modifiche severiane dell'istituzione del ''dekaprotia'' avevano un futuro davanti a loro; e a lungo termine furono adottate anche fuori dell'Egitto. Ma sarà soprattutto la loro funzione liturgica di ricossione tributaria, e la loro tendenza a dare risultati positivi per conto della comunità verso gli organi tributari centrali, che sarà esaminata dis eguito, con la giurisprudenza [[w:Diocleziano|diocleziana]] e post-diocleziana nel contesto dei ''munera publica''. Ci fu anche un altro aspetto importante, che nella dottrina dei ''munera publica'' si evolvé in un a direzione particolare, sotto la spinta delle pressioni socioeconomiche del III secolo: il concetto di servizio tributario come ''munus loci'', un vero ''munus'', imposto su cose e non su persone come ''munus patrimoniale'', connesso all'esercizio di funzioni pubbliche.
 
Se è vero che la giustizia rappresenta una cristallizazione sovrastrutturale ideologica degli interessi di classe concreti, nella legislazione dei Severi, e specialmente nell'età post-severiana,<ref>100Sui giuristi severiani, cfr. A.M. Honoré, "The Severan Lawyers: a preliminary survey", ''SDHI'', 1962, pp. 162-233. Si vedano anche gli scritti di P. Garnsey, ''JRS'', 1967, pp. 57-60; ''JRS'', 1968, pp. 51-59, ed il citato ''Social Status and Legal Privilege in the Roman Empire'', Oxford, 1970.</ref> notiamo in maniera più completa la destrutturazione della società "classica" del Primo Impero. Proprio il dilemma della giurisprudenza contemporanea in materia di ''munera'' è fortemente indicativo dei conflitti di interesse sociale che spingono ad una soluzione. Sebbene inizino da una necessità di sistematismo, i giuristi dell'epoca si spostano lungo posizioni non sempre assimilabili; al contrario, su certi punti, in realtà sono in disaccordo. Sintomatica è la definizione di [[:en:w:Callistratus (jurist)|Callistrato]] sul ''munus publicum'', nella sua analisi dei ''munera'' che fornisce una prefazione alla sua esposizione della ''cognitio'' in ''De Cognitionibus'':<ref>101Su questo argomento è utile la monografia di R. Bonini, ''I "libri de cognitionibus" di Callistrato. Ricerche sull'elaborazione giurisprudenziale della "cognitio extra ordinem"'', Milano, 1964.</ref>
{{q|'''D.50.4.14. pr. 1 (1.1 ''de cogn.'')''': Honor municipalis est administratio rei publicae cum dignitatis gradu, sive cum sumptu sive sine ergationes contingens. 1. Munus aut publicum aut privatum est. Publicum munus dicitur, quod in administranda re publica cum sumptu sine titulo dignitatis subimus. 2. Viarum munitiones, praediorum collationes non personae, sed locorum munera sunt.}}
Callistrato è abbastanza difficile da interpretare su questo punto.<ref>102F. Grelle, "''Munus Publicum''", pp. 336-337; ''Stipendium vel Tributum'', p. 85 e per i paragrafi successivi.</ref> In un tentativo di difendere il carattere tradizionale del ''munus'' in quanto ''administratio'', libera attività della ''civita'', tuttavia non identificando nessuna differenza sostanziale tra ''collatio'' e ''munitio'', egli "si esapera per entrambi, i caratteri inerenti alla ''res'' e al ''locus''; spersonalizza le caratteristiche del ''munus'' per giustificare l'autonomia sistematica relativa allo schema dualistico originale";<ref>103</ref> pertanto, riferendosi a ''locus'', a ''res'', il ''munus'' non coinvolge più un'attività, un ''facere'', ma viene ridotto a significare una resa di utilità da parte della terra tassabile, perdendo la sua natura originale e separandola dalla partecipazione comunque necessaria del possidente. Ciononostante, nella posizione di Callistrato ci sono nuovi aspetti, che scaturivano da una considerazione realistica delle situazioni socioeconomiche del tempo. Infatti, tale posizione, separando la tassa dalla sfera della proprietà, come anche dai possibili privilegi del proprietario, avrebbe goduto di grande fortuna presso la cancelleria imperiale già a metà del III secolo e avrebbe grandemente influenzato la giurisprudenza diocleziana e post-diocleziana. Per converso, la giurisprudenza severiana condividerà piuttosto i suoi motivi ispiratori, la preoccupazione di conservare al ''munus'' la sua caratteristica principale di partecipazione alla gestione della ''res publica'', più delle conclusioni sul suo carattere. In effetti, tenderà piuttosto ad accentuare il carattere personale degli obblighi, in modo da ricondurli al modello di ''munus publicum'', ormai posto quale forma paradigmatica di ogni funzione obbligatoria, vale a dire pubblica.
 
L'ispirazione teorica sottostante all'intera giurisprudenza severiana in merito al ''munus publicum'', il pragmatismo idealistico della politica dell'imperatore africano, sono particolarmente chiari in [[w:Emilio Papiniano|Papiniano]].<ref>105</ref> Ma è proprio nel presentare questa materia che anche le contraddizioni sono rivelate in relazione al ''munus'' e il suo contesto socioeconomico. Infatti, Papiniano evidenzia che quel problema che intimoriva ogni contribuente, e specialmente quelli responsabili delle ''boulai'': le ''collationes ex improviso indictae'':
{{q|'''D. 50.5.8.3 Pap. 1.1 ''resp.''''': Qui muneris publici vacationem habet, per magistratus ex improviso collationes indictas recte recusat; las vero, quae e lege fiunt recusare non debet.}}
La premessa da cui inizia il ''responsum'' è che ormai le ''collationes'' sono tutte ''munera publica'', non solo quelle inerenti ai ''loca'', ma anche quelle inerenti alle persone. ''Collatio'' allora inizia ad essere distinta da ''intributio'', che verrà riferita alla rendita fondiaria; è in questi anni che la pratica della la riscossione dell'annonario viene generalizzata — in effetti, è una ''indictio ex improviso''. ''Annonae militares, cursus publicus, aurum tironicum'', queste sono le ''munera'' che si riversano sui comuni; e se il problema dibattuto dai giuristi è quello di trovare che veramente debba eseguire le riscossioni, rimane il fatto che diventano sempre più onerosi — e sempre di più aumenterà la riluttanza ad eseguirli. Uno dei migliori esempi per illustrare la direzione presa dalla società del terzo secolo è la considerazione della distanza che separa la costituzione di [[w:Gordiano I|Gordiano]] – che respirava ancora l'atmosfera spirituale dell'età antonina e di quella severiana – dalla costituzione di [[w:Decio|Decio]], in cui si possono intravedere i contorni del nuovo ordine che stabilisce la ''junta'' militare dei ''restitutores'' illirici, l'ordine della Tarda Antichità. Ecco le due costituzioni, di seguito:
{{q|'''CJ 10.2.1''': ''Imp. Gordianus A. Saturnio et aliis''. No iniusta ratione desideratis, repromissa fisco indemnitate, eos principali loco conveniri, qui reliqua contraxerunt, mox ad vos perveniri, qui ab his quaedam mercati estis.}}
Qui si sottolinea, nel clima spirituale della "restaurazione" gordiana, il carattere personale del debito fiscale, secondo l'ispirazione che vivifica la grande giurisprudenza dell'età severiana. Il proprietario è responsabile al pagamento solo in modo subordinato: il soggetto passivo dell'obbligo è sempre "qui reliquia contraxit".<ref>106Grelle, ''Stipendium vel Tributum'', p. 102.</ref> Gordiano riconosce ancora l'inerenza della persona e la possibilità di esenzione dalle ''indictiones'', in quanto sono ''munera extraordinaria patrimonialia''. Decio, l'imperatore-soldato, sotto pressione per le necessità militari, seguira la "linea Callistrato" ed evidenzierà il carattere reale delle ''indictiones'':
{{q|'''CJ 10.16.3''': ''Imp. Decius A. Citicio''. Indictiones non personis sed rebus indici solent...}}
Qui siamo in quella parte del secolo che segna la fine di un'epoca per la storia del mondo antico. Le aristocrazie cittadine, nella morsa del declino economico, iniziano ad abdicare le loro funzioni, i loro ''honores'' ed i loro ''munera'' (ormai facendone una distinzione tra questi);<ref>107</ref> come è stato giustamente osservato, si era aperta la via verso l’''onus'' ingiustificabile.<ref>108</ref>
 
La rinuncia da parte delle oligarchie cittadine non fu un semplice atto di codardia politica, o egotismo corporativo; si originò da una situazione reale. La base economica delle aristocrazie era troppo fragile per sostenere i pesi richiesti dalla classe dirigente dell'impero durante il III secolo; non potè resistere alle contraddizioni che si svilupparono internamente. In effetti, la crisi delle oligarchie municipali rifletteva la crisi del mondo della produzione con schiavi, che costituiva il suo supporto economico. Nell'ambito del mondo degli schiavi sorsero delle forze produttive ad esso antagonistiche: il [[w:colonato|colonato]] parziale, la formazione di unità produttive come il ''latifundium'' gestito con sistema colonizzato esacerbato di contraddizioni interne, che ne provocarono il declino. I proprietari di fattorie piccole/medie gestite con schiavi, che rappresentavano la forza delle oligarchie municipali, non poterono sostenere la concorrenza dei grandi proprietari terrieri che sfruttavano il ''latifundium'' gestito da ''coloni''. Una delle conseguenze fondamentali di questo confronto in pratica fu lo sfaldamento della classe dirigente dell'impero e la formazione di una nuova classe che costituirà la classe dirigente della Tarda Antichità. La grande proprietà terriera si svilupperà dalle rovine delle aristocrazie urbane; cercherà di appropriare non solo terre private, ma anche terra civica, minando quindi ulteriormente la struttura cittadina. La coabitazione delle due modalità produttive, in sostanza antagonistiche, in definitiva significò la fine di una delle due: e quindi le città iniziarono a perdere terreno (o, meglio, terreni). La stuttura basilare del mondo classico, la ''poli'', perse preminenza; il ''latifundium'', e la grandi ''villae'' dei ''domini'' terrieri, divennero centri sociali e culturali. Mentre i proprietari di fattorie gestite con schiavi continuarono ad usare lavoro forzato, che stava gradualente perdendo la sua redditività, il colonato si sviluppava e diventava più forte nei ''latifundia'', preparando quindi ed inaugurando la nuova maniera di produzione "feudale", base economica della ''Spätantike''. La ''polis'' e le sue sovrastrutture ideologiche persero la loro supremazia.
Riga 109:
Celebrazione del regicidio non sembra il modo migliore di giustificare la monarchia; tuttavia nella realtà, l'assassinio del tiranno è, per così dire, l'ultima riserva mentale che l'ambiente culturale e sociale a cui apparteneva Flavio Filostrato, cioè le aristocrazie municipali dell'Oriente ellenizzato, ebbe prima della sua accettazione della monarchia ereditaria, e in molti modi assoluta. Proprio a causa della sua degenerazione in tirannia, Filostrato esprime le caratteristiche della monarchia che lui e il suo ambiente sono pronti ad accettare e sostenere, lasciandosi alle spalle qualsiasi rimasuglio di aspirazioni repubblicane: se la monarchia, ereditaria e assoluta, è ora un fatto inevitabile, allora la si accetti; purché allo stesso tempo ne siano dichiarate le caratteristiche e i limiti.
 
In realtà, la biografia di Apollonio di Tiana, il "pitagorico e mago" che due secoli fa [[w:Ferdinand Christian Baur|C. F. Baur]] interpretò quale "santo" del paganesimo, in opposizione al Cristo dei Vangeli,<ref>109F.C. Baur, "Apollonius von Tyana u. Christus. Ein Beitrag z. Religionsgesch. d. erst. Jahrh. n. Chr.", ''Drei Abhandl. z. Gesch. d. alt. Philosophie u. ihr. Verhältnisses z. Christentum'', , cur. E. Zeller, Leipzig, 1876 (rist. 1966); cfr. anche B.F. Harris, "Apollonius of Tyana. Fact and Fiction", ''JRH'', 1969, pp. 189-199.</ref> si sviluppa su piani differenti, non sempre in accordo. C'è il piano filosofico, con la determinazione dello stile di vita che alcuni pagani eruditi del III secolo cercarono di assegnargli; il ''pythagorikòs bíos''. Ma c'è anche il piano poltico, che potrebbe interessare allo storico del pensiero politico classico, quando quest'ultimo cerca di individuare la fasi formative dell'ideale monarchico nel mondo antico.
 
Da un punto di vista culturale, la biografia di Apollonio segna la vittoria di quella sorta di spiritualismo che costituì la forma predominante di filosofia del III secolo, di quel [[w:neoplatonismo|neoplatonismo]] in cui convergevano e trovavano risoluzione le esperienze spirituali contrastanti della cultura dell'età imperiale — una vittoria sullo [[w:stoicismo|stoicismo]] di quella società romana di formazione "repubblicana" e sul ''Vulgarkynismus'' della masse popolari. Questa crisi dello stoicismo "ufficiale" e la diffusione di questo spiritualismo "idealistico" di questo spiritualismo "idealistico" si connette con la sparizione della classe dirigente di formazione "illuminata", quella degli Antonini, e con l'emergere di nuove forse sociali come rimpiazzo — specialmente le aristocrazie provinciali, da cui infatti proveniva Filostrato. Da questo punto di vista, la biografia di Filostrato è veramente significativa: degno di nota è lo scenario politico e sociale in cui Apollonio di Tiana agisce e su cui egli cerca di intervenire concretamente. Non per caso, nella biografia, gli scontri del filosofo con l'autorità politica assume un'enfasi particolare, e contro di essa egli prende una posizione precisa. Tali scontri senza dubbio servono a fini apologetici, per accrescere la forza morale del filsofo; ma servono anche a manifestare le sue convinzioni politiche, che in effetti sono quelle di Filostrato e dell'ambiente da cui proviene il sofista e verso cui è principalmente dedicata la sua opera.
Riga 119:
Le aristocrazie municipali mantennero come fondamentale, nella loro prospettiva politica e sociale, il rapporto tra autorità centrale e le entità politiche locali, tra imperatore e consigli comunali. Ciò rappresentò un problema vitale per questa classe, e dovette necessariamente essere risolto in un senso particolare; dopo tutto, era in ballo la sopravvivenza di queste oligarchie municipali, in quanto erano una classe e un ordine di governo. Filostrato fu del tutto consapevole di ciò; come lo era anche il pubblico a cui era diretta la sua opera. Da qui l'importanza specifica e anche l'enfasi della biografia sulle relazioni tra Apollonio e gli imperatori; inoltre, una parte cospicua è dedicata al problema del governo monarchico, i doveri del sovrano riguardo ai suoi sudditi e allo stato; e, per converso, l'atteggiamento che il soggetto – in quetso caso l'uomo completamente realizzato, il "vero" filosofo e saggio, come Apollonio – deve prendere rispetto all'autorità monarchica, specialmente nel caso degeneri nell'odiata forma di tirannia.
 
Nella n arrazione di Filostrato, la dolorosa esperienza della tirannia viene provata volontariamente da Apollonio a Roma, nel 66 e.v. Sebbene consapevole della persecuzione dei filosofi da parte di [[w:Nerone|Nerone]], e dell'imprigionamento di [[w:Gaio Musonio Rufo|Musonio Rufo]],<ref>110Filos., ''V. Apoll.'', IV, 35: secondo altre fonti, il filosofo fu esiliato da Roma dopo la scoperta della cospirazione (cfr. Tac. ''Ann.'', XV, 71; Cassio Dio., LXII, 27).</ref> Apollonio non esita a venire a Roma, seguito dai suoi discepoli; in verità, l'ostilitÀ del tiranno, e quindi i pericoli coinvolti, rappresentano la prova del fuoco per i suoi seguaci. Con il suo comportamento coraggioso, i suoi discorsi liberi ed aperti, egli indica l'atteggiamento che qualsiasi uomo di cultura che meriti il titolo di filsofo, deve mantenere difronte ad un tiranno. In effetti, richiamando la capacità superiore del saggio a superare qualsiasi potere mondano, ed enunciando la tesi che in realtà un tiranno non è altro che una bestia selvaggia – comuqnue incapace di piegare il vero filosofo – egli conforta e loda i discepoli che sono ancora con lui. Si può, anzi si deve, resistere al tiranno — Nerone che è più feroce di una bestia ed è capace di qualsiasi azione brutale: il saggio può quindi mostare la sua forza interiore, l'abilità fornitagli dalla vera filosofia. Apollonio è anche vittorioso contro [[w:Gaio Ofonio Tigellino|Tigellino]], il sanguinario ''praefectus praetorio'' di Nerone, senza mai aver perduto la sua calma o terreno difronte alla violenza irrazionale di quest'ultimo.
 
Al contrario, la natura del vero ''Princeps'' e le relazioni che si possono avere tra lui ed il saggio sono esposte da Filostrato in capitoli molto interessanti riguardo al soggiorno di Apollonio ad Alessandria ed il suo incontro con [[w:Vespasiano|Vespasiano]], il futuro imperatore, che si era già ribellato a [[w:Vitellio|Vitellio]] ed aveva occupato Alessandria per farne una base strategica delle sue azioni. Seguendo uno schema alquanto frequente nella tradizione culturale ellenistica,<ref>111</ref> ma che non ha corrispondenza con la realtà storica, Filostrato immagina Vespasiano che, appena arrivato ad Alessandria, incontra Apollonio, che sta pregando in un tempio, e gli chiede di consacrarlo imperatore.<ref>Filostr., ''V. Apoll.'', V, 28.</ref> Quella di Apollonio è una delle più seducenti ed abili risposte che un filosofo, persino un pitagorico, possa mai aver dato ad un monarca; e non delude per niente Vespasiano, che è d'accordo con Apollonio che la virtù del giusto mezzo (''Métriótes'') è essenziale per un monarca; e che è necessario che egli cerchi il consiglio dei filosofi.<ref>113''V. Apoll.'', ''loc. cit.''. Cfr. Weber, ''Josephus u. Vespasianus'', Berlino, 1921, pp. 164, 42; K. Scott, ''The Imperial Cult under the Flavians'', Stuttgart, 1936, p. 23; Grosso, ''Acme'', 1954, p. 398.</ref> Pertanto, Vespasiano non rifiuta queste proposizioni, e dopo aver consultato Apollonio sulla circostanza che un uomo di sessant'anni come lui debba aspirare al potere – e dopo aver fatto un’''apologia'' dei suoi anni giovanili, nonché un ''aperçu'' illuminante sugli imperatori precedenti<ref>114''V. Apoll.'', V, 32.</ref> – saluta Apollonio ed i filosofi, avendo ricevuto anche le assicurazioni che si aspettava.
 
Tuttavia, è specialmente nella grande scena del "consiglio" dei filosofi, tra Vespasiano e Apollonio, e presenziato anche dall stoico Eufrate e dal platonico Dione di Prusa, che culmina questo incontro tipico tra il monarca "illuminato" e la "filosofia". Da qui Filostrato coglie l'occasione di esporre le sue convinzioni personali sul programma di governo dell'imperatore ideale.
 
Il dibattito si apre con la critica da parte di Vespasiano – continuando un modulo già sviluppato precedentemente – in merito agli imperatori, da Tiberio a Vitellio, che hanno fallito il test: chiede ai filosofi di aiutarlo nel difficile momento. Il primo a parlare è [[:en:w:Euphrates the Stoic|Eufrate]], lo [[w:Stoicismo|stoico]]: egli approva la guerra di Vespasiano contro il dissoluto Vitellio; ma lo rimprovera di non aver iniziato prima la ribellione contro il "tiranno" Nerone. Vespasiano deve considerare effettivamente concluso il suo nobile compito solo quando egli abbia ridato ai romani le istituzioni democratiche (''tò demokrateîsthai'') sotto cui essi hanno conquistato il mondo; deve porre termine al governo di uno, ed offrire ai romani il governo dei molti, un governo popolare, e per se stesso la gloria di inaugurare il regno della libertà.<ref>115''V. Apoll.'', V, 33.</ref> Il rinomato Dione di Prusa inizia dalle stesse posizioni teoriche di Eufrate, ma con una differenza fondamentale: deplora il fatto che sia stato perso del tempo a combattere contro gli ebrei; egli poi approva l'azione contro Vitellio, poiché è megli distruggere la tirannia sul nascere, invece di terminarla una volta che si sia stabilita. Dione, tuttavia, sebbene sia d'accordo con l'idea di una restaurazione della democrazia – che è di certo inferiore ad un governo aristocratico, ma comunque preferibile a tirannia e oligarchie – teme che la tirannia possa aver corrotto i romani, e che essi non siano più adatti alla democrazia. Dione propone che allora Vespasiano, dopo la vittoria su Vitellio, debba permettere ai romani di scegliere da soli la forma di governo. Se scelgono la democrazia, egli la deve concedere; se vogliono l'impero, essi devono darlo a Vespasiano, che sarà quindi più glorioso dei [[w:tirannicidio|tirannicidi (τυραννόκτονοι, ''tyrannoktonoi'')]] [[w:Armodio e Aristogitone|Armodio e Aristogitone]].<ref>116''V. Apoll.'', V, 34.</ref>
 
L'intervento di Apollonio emerge da una situazione effettiva: i discorsi di Eufrate e Dione – egli osserva – non colpiscono il bersaglio, perché Vespasiano è in realtà un vincitore, che chiede ai filosofi come usare la propria vittoria; stanno parlando ad un console e un leader, che non può perdere il suo potere senza perdere anche la vita. Non si deve indurlo a rinunciare ai frutti della sua vittoria, ma si deve consigliarlo su come regnare. Inoltre, egli ha due figli, che comandano eserciti: se rinuncia all'impero, non incontrerà forse l'ostilità della sua famiglia? Se invece accetta il trono, egli userà i propri figli com guardie del corpo sicure, non comprate con denaro, ma a lui vincolate da sangue e amore filiali.<ref>117''V. Apoll.'', V, 35.</ref> Chiunque viva in sottomissione agli dei, continua Apollonio, non si preoccupa del tipo di costituzione; ma non può tuttavia tollerare la vista di uomini che muoiono per mancanza di un pastore buono e saggio.<ref>118</ref> Non è una questione di forme costituzionali, ma di uomini: infatti, come l'uomo singolo che sorpassa gli altri in virtù, cambia la democrazia cosicché appare come la guida di uno solo, così anche la guida di uno solo, quando porta tutto a vantaggio della comunità, è democrazia.<ref>119''V. Apoll.'', V, 35.</ref> È quindi legittimo opporsi al tiranno, anzi è un obbligo:<ref>120''V. Apoll.'', V, 35.</ref> ma uno deve usare i mezzi ed i modi a lui disponibili. Il filosofo ha l'obbligo di dire a tutti ciò che pensa, sebbene con discrezione: un console che intenda deporre un tiranno ha l'obbligo di concepire un piano intelligente e di nasconderlo fino al momento dell'azione; deve essere dispensato da rimproveri nel caso infranga un giuramento per assumersi una giusta causa; e deve inoltre ottenere molti amici fedeli, denaro e mezzi sufficienti, vale a dire: una preparazione lunga e ponderata. Vespasiano non può rinunciare al potere, a meno che non desideri farsi nemici proprio tra quei soldati che gli hanno dato l'impero. Deve lottare contro il tiranno.
 
Pertanto Apollonio defende Vespasiano e le sue azioni di ribellione contro l'imperatore legittimo. E, su richiesta di Vespasiano, procede – anche se con riluttanza poiché Apollonio non crede che l'arte di regnare possa essere insegnata – a fornirgli una serie di consigli, che tracciano il profilo del monarca ideale, come concepito da Filostrato. Di certo, questi precetti non sono singolari' al contrario, sembrano abbastanza banali e ingenui. Concepiti in chiave "idealistica", insistono sulla "moderazione" del ''Princeps'' e sulle sue virtù morali, piuttosto che su disposizioni concrete di ordine sociale e politico. Tendono infine ad evidenziare la conservazione dei privilegi delle classi dirigenti, senza distruggere le classi inferiori: che, non c'è bisogno di dirlo, era un compito impossibile, veramente "idealistico". Il ''Princeps'' – suggerisce Apollonio – non deve sovraccaricare la popolazione di tasse e imposte, deve aiutare i bisognosi, ma anche mantenere costantemente sicura la ricchezza dei ricchi. Deve temere l'assolutezza del suo potere ed esercitarlo con grande moderazione: non deve opprimere i potenti.<ref>121''V. Apoll.'', V, 36.</ref> È megli cancellare l'odio dai cuori piuttosto che intervenire; intimorire coloro che meditano la rivoluzione<ref>122''V. Apoll.'', V, 36.</ref> assicurando loro che saranno puniti, piuttosto che punirli veramente. Egli deve essere il primo ad obbedire le leggi, a rispettare gli dei, a non abusare del proprio potere, di vivere secondo i dettami della morale. Anche i suoi figli devono osservare l'obbedienza, più di qualsiasi altro dei suoi sudditi: poiché i loro misfatti ricadrebbero automaticamente sull'imperatore, contaminandolo.<ref>123In effetti, Apollonio avvisa Vespasiano di minacciare persino i propri figli di escluderli dall'impero, che non deve essere per loro parte di un'eredità, ma un premio di merito.</ref> L'obbedienza dei sudditi deve essere totale e senza riserve.<ref>124''V. Apoll.'', V, 36 e ''passim''.</ref>
 
Nonostante il disaccordo di alcuni studiosi, non c'è dubbio che le opinioni di Apollonio fossero dirette non tanto all'età di Vespasiano, quanto a quella dei Severi, che è quella che concerne Filostrato. Alcune misure si trovano chiaramente in un altro storico ed ideologo dell'età severiana, [[w:Cassio Dione|Cassio Dione]].<ref>125Grosso, ''Acme'', 1954, pp. 406ff. Cfr. anche E.M. Staerman, ''Die Krise'', p. 259.</ref> È evidente che la menzione dei figli di Vespasiano da parte di Apollonio richiama immediatamente la tragica situazione degli eredi di Settimio Severo: chiunque, sotto le spoglie di Tito, potrebbe riconoscere [[w:Geta|Geta]]; parimenti, sotto il profilo di Domiziano si può facilmente vedere la crudeli caratteristiche di [[w:Caracalla|Caracalla]]. Tuttavia, e soprattutto, sono gli ideali del circolo di Giulia Domna che qualsiasi lettore, antico e moderno, può percepire leggendo i noiosi brani proposti come il pensiero neopitagorico del taumaturgo di Tiana.
 
Il tema dell'opposizione al tiranno è portata all'estremo nell'ultima parte della biografia. L'esperienza politica di Apollonio in effetti culmina nel conflitto con Domiziano, il ''calvus Nero''. Con l'accesso al trono del tiranno della [[w:Dinastia flavia|dinastia flavia]], che impose oneri insopportabili su tutto l'impero, anche Apollonio si unisce alla lotta. In un epoca di tirannia, quando il sovrano legittimo minaccia la vita dei suoi cittadini, il dovere del saggio è quello di unirsi direttamente alla lotta; nella rappresentazione di Filostrato, lo scontro tra Apollonio e Domiziano diventa paradigmatico: è il conflitto di filosofia contro tirannia, dello spirito contro la forza. Il filosofo, il saggio, può veramente combattere contro il tiranno;<ref>126''V. Apoll.'', VII, 1; cfr. anche III, 1. Poi segue un elenco di filosofi che si sono opposti a tiranni (VII, 2ff.).</ref> e può vincere. Domiziano è una bestia: ancor più pericoloso e abietto di Nerone.<ref>127''V. Apoll.'', VII, 4.</ref> Confrontandolo, Apollonio appare come un uomo di coraggio deliberato; come filosofo, egli può opporsi direttamente al tiranno; può confrontare senza armi l'uomo che governa mari e terre. E Apollonio dimostra tale coraggio consapevole incitando gli elementi più giovani del Senato, e i governatori provinciali, a ribellarsi, affermando che il potere del tiranno non è eterno né invincibile;<ref>128''V. Apoll.'', VII, 4.</ref> Fa dichiarazioni pubbliche contro la tirannia nel teatro di Efeso, in presenza di un debolo proconsole asiatico; e afferra altre occasioni analoghe per dichiarare apertamente i crimini del ''Princeps''<ref>129''V. Apoll.'', VII, 6; 7.</ref> e per mostrare pubblicamente di non temere il potere del tiranno.<ref>130''V. Apoll.'', VII, 9.</ref> Complotta insieme a Orfito e Rufo contro Domiziano, a favore di Nerva, inviando lettere ed incitandoli ad unirsi al partito anti-Domiziano.<ref>131''V. Apoll.'', VII, 8.</ref>
 
La "testimonianza"politica di Apollonio non si ferma nemmeno davanti al rischio della propria vita: in effetti, quando viene informato che Domiziano, a causa della sua coraggiosa azione di opposizione, intende gettarlo in carcere e giudicarlo, Apollonio bruscamente rifiuta qualsiasi consiglio di salvarsi la vita fuggendo. Filostrato, infatti, dà il suo ultimo tocco alla figura di Apollonio facendogli emulare [[w:Socrate|Socrate]].<ref>132Su questo ''Sokrates-paradeîgma'' di Apollonio, cfr. R. Hirzel, ''Der Dialog II'', Leipzig, 1895, pp. 339ff.; A.D. Nock, ''Conversion'', p. 195; F. Solmsen, ''RE'', XXI, p. 148.</ref> Il dovere del saggio, afferma Apollonio, è anche quello di morire per i propri valori e credenze; chi è veramente saggio non deve temere il tiranno; né deve comportarsi come le persone comuni. E quindi Apollonio va in galera: lì incontra molte vittime innocenti della tirannia di Domiziano, e assersce che la peggior forma di tirannia è quella che si si cela sotto un'apparenza di giustizia.<ref>133''V. Apoll.'', VII, 22.</ref> Le conversazioni di Apollonio in carcere coi suoi compagni di sventura, con un ricco [[w:Cilici|cilicio]], con un greco dell'[[w:Acarnania|Acarnania]], illustrano la sordida natura della persecuzione di Domiziano; e sembrano formare, in antitesi, un'esemplificazione delle teorie sulla condotta dello Stato proposte nel discorse a Vespasiano. Ma è nel confronto diretto con Domiziano che Apollonio dimostra come il vero filosofo deve comportarsi verso la tirannia: di fronte alla violenza del persecutore, egli dimostra equilibrio e coraggio, e audacemente contrasta le insinuazioni del ''Princeps'' senza dar adito a ira o risentimento, anzi riaffermendo il potere e la superiorità della filosofia. La scena culmina nella appassionata difesa di [[w:Nerva|Nerva]], in cui Apollonio, ribadendo coerentemente le sue convinzioni, intreccia l'eulogia di bontà, giustizia, devozione all'impero che l'anziano senatore ed i suoi amici sostennero costantemente durante la loro vita, persino ora che Domiziano aveva iniziato a perseguitarli.
 
Con questo confronto, Apollonio sembra aver finalmente assolto la sua missione politica. Durante il processo, il filosofo continua a mantenere il suo atteggiamento coraggioso ed aperto verso l'autorità imperiale, correlandola con alcune dimostrazioni delle sue capacità soprannaturali. Alla fine, dopo aver denunciato la decadenza morale e materiale che affligge correntemente l'impero,<ref>135''V. Apoll.'', VIII, 5.</ref>, Apollonio scompare di fronte al tribunale senza pronunciare la sua apologia.<ref>136</ref> Ritorna in Grecia, si unisce nuovamente ai suoi fedeli amici, e continua a partecipare all'opposizione del tiranno;<ref>137''V. Apoll.'', VII, 16.</ref>a Efeso vede per chiaroveggenza la morte di Domiziano a Roma, e proclama al popolo la liberazione dalla tirannia.<ref>138Sull'episodio e le sue fonti, cfr. Grosso, ''Acme'', 1954, pp. 499ff.</ref> Infine, c'è la sua morte misteriosa — ora però nella pacifica atmosfera del regno di Nerva, l'imperatore costituzionale, di cui Apollonio, mantenendo i propri principi, rifiuta l'invito di andare a Roma come consigliere.
 
L'ideale politico di Filostrato, e quello della classe che egli tipicamente rappresentava, appare definito con chiarezza nella sua opera; è quello di uno Stato basato sull'autonomia municipale, come esisteva sotto gli Antonini. Esprimeva la volontà politica delle oligarchie municipali, specialmente quelle orientali, che durante i primi due secoli venne ad assumere un ruolo sempre più determinante nell'ambito dell'impero, fino al punto di costiture la spina dorsale della struttura socioeconomica. Queste oligarchie avevano acquisito funzioni particolarmente onerose, sia verso la collettività sia verso lo Stato; ma non furono mai pronte a rinunciare ai propri diritti. Furono d'accordo a svolgere i loro pesanti compiti riguardo alle loro proprie città e collettività che rappresentavano socialmente e politicamente: fintanto che venisse loro data una certa autonomia sia economica che finanziaria.
 
Tale organizzazione poteva essere assicurata solo da un forte potere centrale. L'ideale politico di queste oligarchie municipali segna la crisi dell'antico concetto di ''libertas''<ref>139Si veda Staerman, ''Cah. hist. mond.'', IV, 2, 1958, pp. 317ff.</ref> e la dissoluzione di tale concetto dalla stato magistrale. Per loro il problema monarchico si presenta in maniera alquanto differente rispetto alla soluzione prospettata da quella aristocrazia stoica o di tipo stoicizzante che costituiva l'opposizione sotto la [[w:Dinastia giulio-claudia|dinastia giulio-claudia]], e che ebbe una parte così importante nella caduta di Nerone e nell'accessione di Vespasiano:<ref>140Cfr. E. Hohl, ''Klio'', 1939, pp. 307ff.; P. Zancan, ''La crisi del Principato'', 1939, spec. pp. 83ff.</ref> ad una monarchia per adozione – in sostanza, una monarchia elettiva – come è stato ipotizzato dagli "ideologi" delle età flaviana e antonina (ma che aveva lasciato aperto il problema della successione) – venne opposta una monarchia erditaria, che presentava maggiori garanzie di permanenza e continuità.<ref>141Si veda la contrapposizione tra imperatore per ereditarietà e imperatore eletto, nel discorso di Commodo (Herod., I, 5): cfr. B. Keil, ''Klio'', 1938, pp. 293ff.; Mazzarino, ''Imp. rom.'', pp. 402ff.</ref>
 
Naturalmente, il risultato politicamente più prevedibile di un monarca ereditario e centralizzante è l'assolutismo: da ciò consegue l'altro tema basilare del tessuto ideologico di Filostrato, l'odio contro il "tiranno". Le aristocrazie municipali sicuramente volevano un monarca energetico e autorevole, ma non volevano un "tiranno". Non c'è bisogno di dire che le aspirazioni sono illusioni, in politica. Poiché queste aristocrazie non erano in grado di risolvere il problema sul piano istituzionale, cioè politico, venne riformulato, mistificato, su un altro piano: vale a dire, sul piano etico. Per cui fiorirono tutti quei trattai sulle virtù del ''Princeps'', sulle sue qualità necessarie di saggezza, sul suo portamento "regale". Il punto di rottura, la reazione e rivoluzione contro il monarca degeneratosi in tiranno, avverrà solo a livello di interessi personali e di classe: cioè, quando il monarca inizierà ad interferire in faccende private, nelle credenze religiose o etiche dell'individuo; quando prenderà posizione a favore delle classi inferiori favorendo l'emancipazione/avanzamento dei ''liberti'' e darà loro accesso persino agli uffici più alti; quando ascolterà le richieste dei soldati e accetterà le accuse degli schiavi contro i loro padroni: allora, diverrà un diritto, o anzi un dovere, del cittadino di combattere contro il tiranno. Ma mentre l'interesse delle classi dirigenti è garantito, quando i suoi privilegi sono conservati, quando il sovrano tiene ognuno al proprio posto giusto, illuminato da una saggezza superiore; quando rifiuta, con giustizia suprema l'accessione delle classi inferiori, ''allora'' uno può sicuramente giurare la sua obbedienza al monarca assoluto, al ''Dominus et Deus''; in definitiva, quando manterrà e difenderà la divisione della società in classi, la società "bifocale" della ''Spätantike''.