Cambiamento e transizione nell'Impero Romano/Capitolo II: differenze tra le versioni

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Inoltre, si deve aggiungere che questo settore in effetti rappresentò un ponte tra Oriente e Occidente. Non solo, come spesso si potrebbe pensare seguendo le orme di Sir [[w:Mortimer Wheeler|Mortimer Wheeler]], per quei rinomati prodotti del commercio internazionale, i ''Grandi Cinque'': incenso dall'Arabia, avorio dall'Africa, pepe dai [[w:Tamil (popolo)|Tamil]] e seta cinese (escludendo naturalmente l'ambra, che veniva dal Baltico);<ref>111</ref> ma anche per molti altri articoli portati da carovane o navi dal mondo orientale.<ref>112</ref> In questa sfera, la Siria era in una posizione di assoluto privilegio: durante l'età imperiale, il mercante siriano sembra aver sostituito in ogni aspetto il ''negotiator'' italico, che aveva dettato legge sulla scena commerciale del mondo ellenistico. Gli imprenditori orientali sono presenti su tutti i mercati del mondo antico, pronti a confrontarsi con qualsiasi concorrente, disposti ad reinvestire immediatamente i profitti guadagnati. Sono sempre loro, che impongono sui mercati commerciali i prodotti delle proprie manifatture molto apprezzate: i broccati di lana e le belle lenzuola; e specialmente, la seta pregiata che gli artigiani siriani hanno imparato a lavorare, importando quindo solo la materia grezza. Molto abili anche nelle tecniche metallurgiche, producevano articoli alquanto richiesti da tutte le nazioni: gli armaioli fornivano l'Arabia, i produttori di bronzo fondevano e groffavano lastre per i Sassanidi; gli orafi creavano gioielli complessi indossati da tutte le donne del mondo romano.<ref>113</ref> Ma c'erano due attività industriali che mantenevano il monopolio incontestabile della Siria: la [[w:soffiatura del vetro|soffiatura del vetro]] e la [[w:Porpora|tintura in porpora]].<ref>114</ref> Sidone divenne ricca col primo prodotto, esportando il suo vetro in tutto il mondo romano, anche nella Germania libera;<ref>115</ref> il secondo rappresentava la specialità di [[w:Tiro (Libano)|Tiro]], le cui stoffe non avevano eguali ed erano vendute a prezzi altissimi. I ''mercatores'' fenici, e le loro società, detenevano il monopolio nelle nazioni orientali, il vasto commercio internazionale romano, i ''Grandi Cinque'', come ho già citato. Questo era il commecio che procurava la fortuna delle grandi città carovaniere, come Petra, Bostra e specialmente Palmira e Antiochia, quest'ultima essendo al capolinea di importanti vie commerciali terrestri.<ref>116</ref> E questo era in effetti il commercio che infiammava moralisti come Plinio il Vecchio, che si indignava alla vista dell'Impero Romano dissanguato finanziariamente a favore di "lavativi" orientali, a causa dei capricci di donne sconsiderate e uomini effemminati: secondo le sue fonti (o stime personali), l'Oriente sottraeva all'economia romana almeno 100 milioni di sesterzi ogni anno.<ref>117</ref> Sebbene questa cifra debba essere considerata con cautela,<ref>118</ref> e il cosiddetto "salasso dell'oro" verso le nazioni orientali non avesse una tale grande importanza come certi studiosi (Bratianu, Piganiol)<ref>119</ref> sembra gli abbiano dato, purtuttavia gran parte di tale flusso aurifero, quale che fosse l'ammonto reale, doveva finire nelle tasche di intermediari: in questo caso, alessandrini, siriani, palmirani; e, comunque, aggiunto aqlle altre entrate attive nel bilancio commerciale siriano, questo fatto di certo influenzava pesantemente la bilancia del commercio interno mediterraneo a favore delle province orientali. Tale trasferimento di capitali, innegabile nonostante certe posizioni prese da alcuni studiosi moderni,<ref>120</ref> deve essere stato uno dei fattori principali per la prosperità del settore orientale, e simultaneamente anche uno degli elementi determinanti nello squilibrio della struttura globale dell'economia imperiale. La decentralizzazione, se fattore dinamico di questa economia, alla fine fu compiuta tramite lo sfruttamento di certe province rispetto ad altre, e dalla creazione o peggioramento di tensioni socioeconomiche insite in essa.
 
Tale movimento decentralizzatore venne poi risolto dalla formazione, nell'ambito della totale area economica imperiale, di settori economici distinti, strutturati diversamente tra loro e quindi in potenziale concorrenza; infine, come notato precedentemente, dalla superiorità e dallo sfruttamento economico di certe zone economicamente più forti rispetto alle altre "sottosviluppate". Questo fu l'inevitabile risultato di una politica di liberalismo senza limiti e senza restrizioni, professata e sostenuta dall'autorità centrale; tuttavia, non fu l'elemento principale della recessione economica che iniziò ad emergere dopo il "boom" economico dei primi centociunquanta anni del Principato. Molto studiosi dell'economia antica,<ref>121</ref> indubbiamente sopravvalutando sui passi di Rostovtzeff l'importanza reale del fenomeno, hanno costruito su di esso una vasta, e a prima vista allettante, teoria di recessione del commercio interno, con il conseguente arresto di un capitalismo embrionale e la rispettiva rovina della borghesia — in sostanza, il declino dell'Impero Romano. E tutto ciò, di certo come conseguenza della decentralizzazione.
 
La spiegazione è troppo semplicistica, e spiega l'effetto, non la causa. Le premesse di tale teoria chiaramente si basano sul concetto di una economia imperiale sostanzialmente capitalistica; e sulla sopravvalutazione del ruolo globale del commercio interno dell'impero: ragion per cui la sua contrazione avrebbe avuto ripercussioni letali sull'intera struttura economica. Entrambe queste premesse sono errate, o perlomeno valide solo parzialmente: l'economia imperiale non ebbe una struttura essenzialmente capitalistica (eccetto alcune occasioni peculiari), né il commercio interno ebbe l'estensione o l'importanza assegnatagli dai sostenitori di questa teoria. La decentralizzazione economica, quindi, non influenzò così radicalmente la vitalità economica dell'impero. Piuttosto, fu il risultato di quelle contraddizioni sulle quali fu costruita proprio la struttura economica e sociale dell'impero. La decentralizzazione non risolse, ma aggravò i problemi di produzione – sulle cui basi sorse: la tendenza dell'industria antica ad "esportare se stessa" (Rostovtzeff)<ref>123</ref> – che credo rappresenti veramente il problema centrale dell'economia romana (e antica); nel senso che tale tendenza verso un'autarchia regionale fu uno degli elementi che ostacolarono lo sviluppo di un'industria che si sareb be elevata dal livello di manifattura ad uno di "fabbrica", e quindi producendo su larga scala, aumentando gli indici di produttività e riducendone allo stesso tempo i costi. Si può quindi comprendere l'aspetto alquanto paradossale di sviluppo economico durante i primi secoli dell'impero, che fu, come dire, "inflazionistico" e non determinato da un aumento reale e sostanziale di produttività specifica. Si basò in gran parte si trasferimenti di capitale tramite attività commerciale, a beneficio di quelle classi che detenevano potere politico ed economico, piuttosto che sull'appropriazione in natura, per metterlo in termini marxisti, per la produzione su scala sempre maggiore di beni e servizi, e per la loro distribuzione a tutte le classi della società romana imperiale.
 
La diffusione dell'urbanizzazione, l'alto grado di civiltà materiale, e la vivace attività commerciale, danno veramente l'impressione che l'Impero Romano stesse godendo di una prosperità senza limiti. Ma era una facciata, sebbene una facciata splendida: in realtà l'impero, anche durante i secoli di tranquillità, non aveva mai superato quelle contraddizioni che l'avevano accompagnato sin dalla nascita e che in generale furono le contraddizioni dell'economia e società ellenistiche.<ref>124</ref> In pratica, l’''imperium romanum'', questo enorme organismo che comprendeva tutta la società civile mediterranea, non era riuscito a liberare nuove forze produttive;<ref>125</ref> non era nemmeno riuscito ad estendere l'uso di quelle già disponibili dall'età ellenistica. Di certo ci furono progressi tecnici, come cercò di dimostrare tempo fa Franz Kiechle con una ricerca meticolosa ed esauriente;<ref>[https://www.google.co.uk/books/edition/Sklavenarbeit_und_technischer_Fortschrit/QaTuzAEACAAJ?hl=en Franz Kiechle, ''Sklavenarbeit und technischer Fortschritt im Römischen Reich''], 1967.</ref> e non sarebbero stati ostacolati dall'uso degli schiavi, come ebbe ad affermare. Tuttavia, il problema non deve essere postulato in questi termini, perché lo sviluppo delle forze produttive non è solo progresso tecnico, nuove invenzioni, o il raffinamento di quelle esistenti: al contrario, è lo sviluppo di quelle forze ''che modificano la produttività del lavoro''; che veramente trasformano la natura a vantaggio dell'uomo, che creano vera ricchezza sociale, e non soltanto plusvalore.<ref>127</ref> L'aumento della ricchezza, attestata nei primi decenni dell'impero, fu il risultato dell'espansione superficiale del benessere materiale di un'economia basata sul commercio; e la conseguenza di una sospensione dello stato di guerra permanente in cui era vissuto fino allora il mondo greco-romano: avendo acquisito vaste aree scarsamente popolate, procedette ad una rapida colonizzazione interna;<ref>128</ref> e simultaneamente sfruttò, grazie alla sua supremazia politica, le economie della nazioni "barbare" e "sottosviluppate". Non fu il risultato di un vero cambiamento nella struttura delle forze produttive. Non ci fu una trasformazione sostanziale nella struttura e nel metodo del lavoro tecnico, di evoluzione da teoria scientifica a tecnologia, nel senso moderno della parola.
 
 
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