Il Nome di Dio nell'Ebraismo/Conclusione: differenze tra le versioni

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E cos'è allora la soggettività? Il soggetto che conosce se stesso, conosce se stesso solo come Io, come Io che è: AHYH. Il soggetto non si nasconde a se stesso, ma dichiara la propria identità nel nome che descrive e annuncia l'informezza della materia prima. Tutta l'identità è Nulla; null'altro che identità. Come il terreno nascosto di Dio può essere espresso solo tramite termini come AHYH, ''Ain'' o ''Ein Sof'', così con ogni soggetto: l'interiorità che non è ''nel'' mondo (sebbene sia identica ad esso<ref>"Io sono il mio mondo" (Wittgenstein, 1974, 5.63).</ref>), è pura esistenza, roba informe — senza forma. Questa identicità di Dio e Umano, se vista dall'interno, è difficile da comprendere, ancora più difficile da collocare nei soliti luoghi comuni su differenza/separazione e religione ebraica. Eppure è lì.<ref>Vale la pena notare le scoperte di Lachter, che "la persona umana e la persona divina... sono entrambe incarnate come manifestazione dell'illimitatezza di ''ein sof''"(2004, 86); "secondo lo ''Zohar'', il nucleo del sé umano è il nucleo del sé divino. È il non-essere infinito che è il fondamento di tutto l'essere, espresso come ciò che è al di là di ogni demarcazione linguistica "(''ibid.'', 129); "Il cabalista è capace di unione mistica con Dio perché è, alla fine, già uno con Dio" (''ibid.'', 137).</ref>
 
L'essenza di Dio è presente come l'essenza di ogni cosa – ogni oggetto nella sua interiorità ha le stesse qualità di Dio – in effetti un'assenza di qualità che è allo stesso tempo unica, unificata e totale. La natura interiore – l'essenziale – è ciò che unisce tutti gli oggetti nella loro differenza l'uno dall'altro, un'interiorità che è possibile solo se proiettata come trascendente, un'interiorità che subito unisce ''e divide'' tutto.
 
Questo antiessenzialismo, il tessuto antistatico da cui è intagliata questa teoria, può essere meglio espresso dall'affermazione di Wittgenstein che: "le parole ''hanno significato solo nel flusso della vita''" (1996, 913). E così gli oggetti esistono – sono ciò che sono – solo nella loro presenza al soggetto. Gli oggetti sono sempre condizionati dai soggetti e, senza la funzione alterativa di un soggetto a formalizzare un oggetto in un'unità, esso rimane caotico e informe.
 
Un filosofo ebreo a cui ho fatto riferimento solo brevemente è [[Baruch Spinoza]], che notoriamente ha scritto che Dio e la natura sono nomi intercambiabili per la stessa singola sostanza, di cui tutto partecipa.<ref>''Deus sive natura'', un concetto che può ben discendere dalla speculazione cabalistica; Abraham ibn Ezra creò l'equazione gematriale di ''elohim'' e ''ha-teva'' (86), che fu ripresa anche da Abulafia e più tardi da Abraham Herrera.</ref> L'essenza di Dio è quindi l'essenza di ogni cosa: Dio è tutto interiorità. Questo porta alla "visione epistemologica radicale secondo la quale la conoscenza dell'essenza di Dio è sia banale (EIIP47) sia l'unico inizio della conoscenza di tutte le cose (EIIP10S2)" (Melamed, 2012, 103). Allo stesso modo leggiamo in {{passo biblico2|Geremia|14:9}}: "Tu sei in mezzo a noi, O YHWH, e noi siamo chiamati con il Tuo Nome!" In tutta la tradizione cabalistica troviamo ripetuto questo concetto, che il Nome di Dio non si applica solo a Dio. In ''MMerk''§592: "Tutto ciò che Tu hai creato nel Tuo mondo recita al Tuo Nome." Moshe de Léon cita con approvazione {{passo biblico2|Isaia|43:7}}: "Quelli che portano il Mio Nome e che per la Mia gloria Io ho creato e formato e anche compiuto" (''Sefer ha-Mishkal'', 4r, Wijnhoven 1964, 166). Wijnhoven commenta: "Questo versetto rivela il mistero dell'uomo. È chiamato con "il nome del creatore", e fa parte del mondo della creazione, della formazione e del compiere" (''ibid.''). In effetti, la tradizione continuativa che il Messia e i Giusti condividono nel Nome di Dio, probabilmente gioca su questo motivo.<ref>Nello ''Zohar'' leggiamo che Adamo "è la forma che include tutte le forme... il nome che include tutti i nomi" (''[https://www.sacred-texts.com/jud/tku/index.htm Greater Holy Assembly]'', 3:135a). Rosenberg commenta che qui lo ''Zohar'' "considera ‘Adamo’ come uno dei nomi di Dio" (1973, 8). In un altro passaggio lo ''Zohar'' afferma che Adamo è un nome divino (1:34a). Sull'uso da parte di Gikatilla della versione enunciata del Tetragramma, יוד הא ואו הא, che gematrialmente è uguale ad ''Adam'' (45), vedi Blickstein (1983, 157-161). In alcuni testi tardoantichi il nome di ''Adam'' fu convertito in una variante di quattro lettere, forse riflettendo il Nome di quattro lettere di Dio: ''Syb.Or.''3:24-6 e ''2En.''30:13-14 — quest'ultimo rende ancora più strano il fatto che ''2 Enoch'', sebbene ora datato in modo convincente a pre-70CE (Böttrich 2012; Orlov 2012, ma si vedano le critiche offerte da Navtanovich 2012 e Suter 2012), non contiene alcuna indicazione di importanza per il Nome di Dio. Ciò suggerisce che il testo provenga da una comunità ebraica disinteressata alla teologia nominale e, sebbene attinga a gran parte della precedente speculazione Enochica, forse nemmeno a conoscenza delle ''Similitudini''. In contrasto, si consideri il fascino samaritano per il Nome – descritto in dettaglio nel Capitolo 1 – i Samaritani essendo una comunità che privilegia Mosè, ma non mostra alcun interesse per Enoch (e, naturalmente, la relazione tra Mosè e il Nome è ovvia). Ciò che è più interessante data l'ostentata assenza dalla tradizione di gran parte della letteratura Enoch, è che successivamente Enoch-Metatron verrà identificato come il Nome stesso.</ref>
 
Michael Fagenblat scrive che nel sistema maimonideo, "la conoscenza di Dio è un errore di categoria, poiché la struttura della conoscenza – basata su definizioni, attributi essenziali, attributi accidentali, predicati e relazioni – fallisce quando si tratta della assolutamente semplice, unica, e incomparabile unità di Dio" (2010, 116<ref>Cfr. [[Maimonide]] 1956, I.50–52, 58.</ref>). Ma se è così, allora fallisce anche quando si tratta dell'unità assolutamente semplice al centro di ogni identità; che, ora sappiamo, è essa stessa identica a Dio. Proprio come è il Nome che presenta e nasconde l'essenza di Dio, così tutti i nomi presentano e nascondono l'essenza, essendo così inestricabilmente legati alla natura dell'essenza e con l'essere che è sempre essere-a, essendo l'essenza in un certo senso un costrutto, una proiezione dall'uso dei nomi ma che assume una propria realtà metafisica; e mentre questo è il caso, è anche vero che i nomi sono tutto ciò che esiste, in quanto sono tutto ciò che c'è per differenziare ''Ain'' da se stesso, per dare l'apparenza di separazione; "affinché il desiderio oltre l'essere non sia un assorbimento, il desiderabile (o Dio) deve rimanere separato all'interno del desiderio: vicino, ma diverso — che è, inoltre, il significato stesso della parola ‘santo’" (Levinas, 2000, 223).
 
Poiché nominare (invece di descrivere) deduce unità e singolarità, Dio – secondo le tradizioni che abbiamo esaminato – è in qualche modo l’''unica'' cosa nominata piuttosto che descritta; Egli è l'unica vera unità. Ma è il principio di unità che rende possibile qualsiasi sostanza individuale, e così Dio-YHWH, unità stessa, è scritto nell'esistenza di ogni cosa che è, perché essere nominati è essere uno, essere più di un aggregato, e quindi partecipare all'unità di YHWH.<ref>Questa nozione della partecipazione universale all'Uno come garante dell'identità individuale era parte integrante del pensiero neoplatonico, e probabilmente da lì era nota ai primi cabalisti. Tuttavia, vale la pena ribadire il fatto sorprendente che l’''aleph'', che rappresenta il numero uno e quindi l'unità, funziona come la lettera iniziale di AHYH, e simboleggia anche graficamente il valore ventisei. La parola creativa YHY è venticinque, uno in meno della YVY di ''aleph''; e così intimando ''aleph'' (1) in sé.</ref> Ma, cosa più interessante, l'unità stessa è vuota: proprio come la matematica può essere ridotta tutta ad articolazioni del nulla tramite l'[[w:Insieme vuoto|Insieme Vuoto]], tutta l'esistenza individuale è riducibile all'identità tautologa di A = A che è anche ''Ain'', nulla: essere Io Sono (AHYH) è essere niente, che è ciò che è al centro dell'esistenza nominata (YHWH). Come ha detto Moshe de Léon:
{{q|[S]ince no one can contain God at all, it is called Nothingness, ''Ayin''... anything sealed and concealed, totally unknown to anyone, is called ''ayin'', meaning that no one knows anything about it. Similarly, no one knows anything about the human soul; she stands in the status of nothingness, ''ayin''... |''Sefer Shekhel ha-Kodesh'' 19–20, Fagenblat, 2010, 108}}
Un'importante implicazione della Teoria degli insiemi di Cantor è che anche all'interno di un infinito una parte (un sottoinsieme) può effettivamente essere più grande dell'insieme stesso. Ovviamente ogni unità è composta da elementi, ognuno dei quali è esso stesso un'unità<ref>Questo precetto controintuitivo che è stato un aspetto formativo di questo studio, che l'unità, quella dell'identità soggettiva, è costruita metafisicamente al di là della nozione non meno valida della divisibilità perpetua di qualcuno, è stato anche sostenuto per recentemente da [[:en:w:Katerina Kolozova|Katerina Kolozova]] in ''Cut of the Real: Subjectivity in Poststructuralist Philosophy'' (2014).</ref> — la descrizione qui data dell'unità nominale si basa esattamente sullo stesso precetto di Cantor, che un'unità (insieme) è infinitamente divisibile; non esiste un'unità ontologica di base, non viene mai raggiunto alcun livello atomico fondamentale, se non l'unità stessa. Per Cantor, i numeri sono essi stessi insiemi: iniziando con zero come l'Insieme Vuoto, l'insieme che non contiene nulla, si può avanzare automaticamente attraverso la sequenza numerica: l'insieme contenente l'Insieme Vuoto ha un membro, l'insieme che contiene quegli insiemi ne ha due, ecc. La sequenza numerica quindi, divisa per difetto, raggiunge solo il nulla: l'Insieme Vuoto, che in questo studio è identico al nome vuoto dell'identità, AHYH. Il fatto che un insieme infinito possa ancora essere limitato, cioè dato un'espressione finita e contenuto tra parentesi, replica efficacemente la mia tesi secondo cui il nome, pur indicando al di fuori del mondo finito, fattuale, è ancora interamente al suo interno come espressione di ciò che non può essere contenuto; il nominato può essere visto da tutte le angolazioni, è visibile nel mondo come un'entità, come qualcosa con confini finiti; e tuttavia non può essere scomposto, è opaco alla nostra vista; l'inesprimibile al suo interno è come l'infinito tra due numeri.
 
Per Wittgenstein, la logica è il trascendentale ultimo,<ref>A = A è trascendentale in Wittgenstein; ma non trascendente. È necessariamente immanente al mondo.</ref> non può esserci nulla di superiore o esterno alla logica che la condiziona; eppure c'è "qualcosa" non al suo interno, qualcosa che non è una cosa — l'illogico è l'indicibile, l'impensabile, ciò a cui si può solo fare riferimento e non descrivere. Essere una cosa, essere finiti, articolati e descrivibili pone immediatamente uno nel mondo come un fatto composto di oggetti. AHYH, manifestato tramite il Nome, è in definitiva indicibile (motivo per cui Mosè lo trasforma in YHWH). La divisione del mondo di Wittgenstein in dicibile e visualizzabile dimostra un punto importante: ciò che è descrivibile linguisticamente non ha uso del nome; quello chiamato, quello suggerito, è ciò che trascende il mondo.
 
Ciò significa che l'indicibile di Wittgenstein in effetti è l'interiorità; l'interiorità di un altro che non è nel nostro mondo.<ref>Questa questione dell'interiorità si riferisce al problema filosofico delle altre menti. Il problema è che la loro interiorità pone un'alternativa alla propria, una prospettiva e una visione del mondo che sfida la validità immediata della nostra, e in questo senso non sono conciliabili. Un'interiorità alternativa minaccia allora di sopraffare, di annientare la propria. Deve essere stabilito il confine che possa impedire che ciò accada; secondo gli argomenti qui riportati, questo confine è il nome. Trovarsi faccia a faccia con un altro e non sentire la minaccia o il rischio di essere sussunti, consumati da quest'altro.</ref> Qualsiasi oggetto non è suscettibile di definizione in quanto la definizione lo nega come una cosa, rendendolo un aggregato di proprietà, una massa che può essere correlata con le parole e totalizzata nel mondo. Ciò significherebbe tagliare i germogli: non semplicemente la divisione delle potenze incarnate nelle sefirot, ma lo svuotamento dell'essenza divina ''nelle'' sefirot, l'essenza nelle qualità fenomeniche in modo che non ci sia aspetto sconosciuto; solo unificando le sefirot nel Nome Ein Sof viene proiettato oltre quel Nome. È solo attraverso il Nome che Dio può essere conosciuto perché è solo attraverso il Nome che Dio può essere unificato (come suggerisce lo ''[[w:shemà|shema]]''). Nel nominare creiamo un limite al finito/dicibile, e oltre questo può esserci solo il singolare — ciò che non è una cosa qualsiasi, ergo semplicemente ''"ehyeh"''. Io Sono non è riducibile o frammentabile.<ref>Si potrebbe sostenere che l'Io Sono è davvero frammentabile in Io ed esistenza. Respingo ciò su linee che credo Wittgenstein avrebbe approvato: affermare "Io" ne richiede già l'esistenza; il fatto che la parola abbia senso significa che il suo referente come irreale è illogico. In questo modo, anche l'inglese "I Am" (o l'italiano "Io Sono") è effettivamente una tautologia, un'affermazione ridondante, sebbene questo non sia grammaticalmente chiaro nell'ebraico, che è ciò a cui dovremmo aderire in questa discussione. ''Ehyeh'' è una singola parola che rappresenta un unico concetto.</ref>
 
C'è un punto importante qui che deve essere estrapolato. Kripke sostiene che un'identità non richiede essenza "dietro" le proprietà manifeste, a cui potrebbero aderire. L'identità come particolare incorpora qualità ma non è riducibile a esse e non è concepibile senza di esse.<ref>"What I do deny is that a particular is nothing but a ‘bundle of qualities’ whatever that may mean... [philosophers] have asked, are these objects behind the bundle of qualities, or is the object nothing but the bundle?" (Kripke, 1980, 52). Ma non è né l'uno né l'altro: l'oggetto particolare non può essere ulteriormente ridotto.</ref> Possiamo intenderlo come un rifiuto della metafisica tradizionale dell'identità e una riformulazione della questione in termini di visione del mondo fenomenica appiattita che ora ci è familiare: mentre parlare di essenza sembra fare un'affermazione ontologica, se consideriamo l'identità come un modello o un arrangiamento, è qualcosa che non esiste in sé ma lega insieme gli elementi che la costituiscono. In questo caso, non c'è chiaramente alcun ''oggetto'' in alcun senso diverso da quello metaforico; non c'è nessuna ''cosa'' che possiamo chiamare essenza. Piuttosto, ciò è evidente solo nel fatto che queste proprietà sono unite come un oggetto. Proprio come Wittgenstein sosteneva che non c'erano oggetti corrispondenti a termini grammaticali di relazione, piuttosto la relazione era la struttura altrimenti indescrivibile dimostrata dalla relazione tra gli elementi in un ''sachverhalte''. Parimenti, non esiste un'identità interna ''sostanziale''; tale deve sempre essere una questione di metafisica, e quindi non di ciò che esiste in senso letterale. C'è una sfortunata tendenza a prendere le affermazioni metafisiche come qualcosa di parallelo a quelle ''fisiche'', ma che descrivono solo un reame diverso, un ''tipo'' semplicemente diverso di sostanza. Ciò dipende dal privilegiare la materia fisica come paradigma della sostanza, e dall'idea che tutto ciò che è in un certo senso "reale" deve esistere in un modo simile al tipo peculiare di esistenza oggettiva che attribuiamo alla materia.<ref>"Reale" non è ovviamente altro che un termine di attacco: viene utilizzato per promuovere gli aspetti della realtà che riteniamo importanti e per denigrare quelli che non lo sono. Non è altro che polemico, e in termini filosofici è privo di significato come dire "il mondo esiste".</ref>
 
Se tutte le verità sono identiche e vuote, A = A, l'affermazione di contenuto ricade quindi sul falso o sul nominale. Poiché il falso fa affermazioni che non riflettono la realtà, ci rimane il nominale che fa un'affermazione non fattuale, quella della relazione: una verità relativa e non-assoluta è quindi il modello di un'affermazione significativa, una parola che indica ma non raffigura, che ha un riferimento ma nessun significato, tuttavia può ancora essere usata in modo veritiero o meno. Poiché: i nomi servono alla conoscenza; una conoscenza di relazione... degli spazi tra quelle identità separate, mentre il falso non dà conoscenza e il vero dà conoscenza solo del vuoto dell'identità.
 
Ora possiamo rileggere la formula '''A = A''', dove '''A''' è AHYH (Nulla) e '''=''' è il Nome che sta in mezzo. Senza il Nome '''=''', ci sarebbe solo '''A''', che non è nemmeno un'affermazione ma solo l'inizio di un alfabeto.
 
Alla fine, quindi, tutto ciò che esiste sono i nomi; sono solo i nomi che esistono come punti di divisione all'interno della singola essenza universale, ''Ein Sof'', che è essa stessa nulla — la semplice piattezza della materia non ordinata. Come scrive Elliot Wolfson dell'ermeneutica cabalistica:
{{q|They portrayed the goal of the linear process as coming full circle; when one reaches the core at the end and returns thereby to the surface from the beginning, one realizes that where one ended up was where one had begun, and consequently one comes to see that the innermost secret was folded within the initial allusion.|Wolfson, 1999, 1981}}
Andando al nome l'umano può scoprire la nostra unità essenziale con l'essenza che ''sembra'' essere dall'altra parte. L'assenza è inconoscibile se non in e come presenza — l'assenza che costituisce l'individualità divina, la mancanza di ogni proprietà o complessità che è la natura dell'interiorità, non può per sua natura essere conosciuta da un altro ma solo come sé — vale a dire come presenza radicalmente immanente non mediata dalla complessità differenziale dell'alterità. AHYH può essere affermato solo in "presenza ''come''" (come sé) piuttosto che come "presenza ''a''" (a uno, come un altro). In particolare, se il nome è presenza, rimuovendolo o squarciandolo, non troviamo l'unione mistica con ciò che era nascosto dietro di esso; non troviamo niente.
 
Questa è forse l'implicazione più curiosa del mio studio: se Dio e il sé sono entrambi la stessa sostanza, e questa sostanza in realtà non è nulla, un vuoto costituito solo da ''prima materia'' assente, il male informe di ''tohu vavohu'', allora il Nome è il l'unica cosa che ha essere. Il Nome non solo ''consente'' l'alterità come è stato precedentemente suggerito, ma ''è esso stesso'' l'alterità, perché è l'unico altro-che-Nulla; è l'unica santità a parte il male della materia che pervade tutta l'individualità, anche il sé divino. Ecco perché è solo attraverso il processo di nominazione, di generazione di nomi, che la redenzione è possibile: i nomi redimono la sostanza da se stessa. È solo mediante la nominazione – in termini cantoriani, mediante la creazione di insiemi<ref>"By a manifold or a set I understand in general every Many that can be thought of as a One" (lettera a Richard Dedekind 1883, in Graham & Kantor, 2009, 26).</ref> – che il nulla progredisce in qualcosa e può ripetere il processo all'infinito, generando così la meta-sostanza della divinità; ''il'' Nome.
 
Quando tutto è chiaro, la trasparenza prevale sul significato; il senso si perde nel meccanismo dei fatti. In un quadro ridotto ai suoi elementi, la relazione tra questi elementi è resa diafana, cosicché non solo il visto (l'oggetto) diventa un mero aggregato ma anche lo spettatore (soggetto) si perde attraverso la sua integrazione in quel tutto; ripercorrendo il nome invece di fermarsi su di esso e rispettarlo come confine, il soggetto si dissolve in un'unica apparente complessità, piatta e priva di significato come la [[w:Morte termica dell'universo|morte termica]] proiettata che si trova alla fine dell'universo. L'[[w:entropia|entropia]] è solitamente definita come ordine completo, ma è anche assenza di complessità: tutto è piatto, disconnesso, la rappresentazione di una cosmologia che nega causa ed effetto: tutte le cose separate e non correlate; ''senza metafisica''. Questo sarebbe il punto finale della progressione ''attraverso'' il Nome: un disordine in estensione. Solo tornando al Nome ma fermandosi a quel punto si può intravedere il rapporto con l'unità, e quindi si può trattenere l'unità di ogni organismo, ricordandoci che nell'essere uno si partecipa all'Uno, l'Uno del Nome che è il Nome dell'Uno. Il Nome che esiste come sospensione di tutti i nomi, in entrambi i sensi del termine: sospensione in attesa, ma anche permanenza pensile in cui tutti sono conservati. È anche qui che ci rendiamo conto che l'interiorità è l'unico vero universale, e ciò che trascende l'individualità minaccia sempre di prevalere su di noi come particolari, di strappare e squarciare i confini protettivi forniti dai nomi singolari; la minaccia è sia dentro che fuori, acque sopra e sotto.
È curioso che in questa lettura Metatron si trovi a cavallo della divisione, essendo l'umano che incontra Dio e il Dio che incontra l'umano, evidenziando così la simmetria del Nome. Come membrana tra il finito e l'infinito, Metatron rappresenta il ruolo del nome nella comunicazione e il fatto che un nome indichi sempre non solo l'oggetto ma anche il soggetto — nella rilettura di Husserl da parte di Graham Harman, il terzo "oggetto intenzionale" che viene ad essere come due esseri distinti formano un sistema.<ref>Harman sostiene che non l'etica ma l'estetica è la prima filosofia, asserendo che "l'etica divide ingiustamente il mondo tra umani a tutti gli effetti e pedine robotiche causali, in un modo poco diverso da [[w:Cartesio|Descartes]]" (2012). Pur essendo profondamente consapevole del pericolo di sussumere l'etica a qualsiasi altro approccio filosofico, sono solidale con la richiesta di un fondamento pre-etico per l'etica, concepibile come la possibilità di una soggettività non-senziente di cui estetica ed etica sono uno sviluppo. L'apparente attacco all'etica sarebbe quindi solo di un'etica che privilegia il soggetto umano, e la base delle relazioni umano-umano nella struttura della coscienza si troverebbe nella struttura delle relazioni oggetto-oggetto in sé stesse.</ref> Il nome che Dio dà all'umanità è lo stesso che l'umanità dà al Nome di Dio dimostra che questa simmetria è stata stabilita; l'implicazione è che in qualsiasi atto di relazione, il mio nome per un altro è identico al nome dell'altro per me, un nome che afferma il rapporto di noi due, nello stato di relazione con l'altro.
 
Infine va detto: poiché il nome esiste solo come relazione, e poiché senza nome tutto è caos, è allora solo in relazione, in relazione con gli altri, che si trova l'identità e si garantisce la creazione; come Dio e Umano si trovano l'uno attraverso l'altro, così tutti gli umani si trovano solo in relazione agli altri umani, nominandosi l'un l'altro. Questo è il segreto dell'identità umana e della natura — Benjamin ha affermato che l'umano esprime la sua essenza nel nominare altre cose, ma la nostra essenza come individui si trova solo nel processo di nominarsi l'un l'altro, vale a dire, di formare legami con gli altri.
 
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== Note ==
{{Vedi anche|Abulafia e i segreti della Torah|Serie maimonidea|Serie misticismo ebraico}}
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[[Categoria:Il Nome di Dio nell'Ebraismo|Conclusione]]