Il Nome di Dio nell'Ebraismo/Conclusione: differenze tra le versioni

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== Analisi ==
{{q|It is as if the nothing said ''I am nothing'' and one were to ask then whether anything had come to pass.|Derrida, 2002, 217}}
Evidenzierò ora alcuni temi filosofici che emergono dallo studio precedente, che richiedono un collegamento. A questo punto vale la pena riaffermare una nozione a cui ho fatto riferimento in questo studio: sebbene io abbia esaminato principalmente il Nome di Dio, le conclusioni raggiunte hanno implicazioni molto più ampie per la nominazione in generale. La teologia mistica ebraica esamina la natura dell'essenza; la speculazione filosofica sulla natura di Dio, il rifiuto degli attributi alla ricerca della semplicità e dell'unità, e il tentativo di scoprire come poi gli esseri umani possano interagire o relazionarsi con Dio, fanno tutti parte di un progetto che mappa con sorprendente facilità interessi filosofici a-teistici e a-teologici. Poiché "il nome di Dio è solo un caso speciale del problema dei nomi in generale", (Rosenzweig, 1999, 89) la teologia stessa può essere vista come una meditazione su questioni di esistenza, essenza e relazione. Le conclusioni trovate riguardo a Dio possono quindi essere estese a tutte le questioni di soggetto e oggetto o internalità ed esternalità.
 
Bielik-Robson (2012; 2014) ha presentato la tradizione nominale ebraica come un rifiuto della metafisica greca, conclusione supportata da questo mio studio: nel nome, l'essere statico è sostituito dall'essere-con; è la presenza dell'oggetto. "Essere" è un'affermazione astratta, alla quale si potrebbe allegare solo un ordine limitato di verità. Linguaggio e nomi sono sempre parzialmente performativi piuttosto che portatori di informazione: nominare è chiamare in presenza, formando così un punto di contatto tra soggetto e oggetto. Designa la relazione, non l'essenza, rompendo la staticità sia della soggettività fenomenica kantiana che dell'essere eterno platonico. Ciò che Bielik-Robson chiama "nominalismo ebraico" è in contrasto con la tradizione filosofica greca che, "più o meno inizia con l'intuizione che una parola è solo un nome, cioè che non rappresenta il vero essere" (Gadamer, 2004, 366). Questo ''nominalismo negativo'', la convinzione che un nome si trovi in qualche parte di una scala di correttezza basata sul successo della sua correlazione con un oggetto, definisce l'approccio filosofico occidentale dominato dai greci d'allora in poi — almeno fino all'esplosione della filosofia ebraica secolare nel ventesimo secolo. Per quei filosofi, un nome o descrive o non riesce a descrivere — un approccio che sembra probabilmente essere basato su una particolare metafisica ereditata che incastona l'Essere come forma statica: una Natura impietrita, una sostanza che esiste veramente solo isolata da tutto l'altro. C'è una tradizione nel pensiero ebraico che vede l'Essere temporalmente, come qualcosa che accade piuttosto che essere localizzato; l'essere è presenza e come tale è sempre collegato a ciò a cui la cosa è presente; l'essere in questo senso è sempre relativo, sempre dichiarato nell'esperienza piuttosto che mascherato dall'esperienza.
 
Come afferma Handelman (1982, 7), il pensiero greco basa la verità sul metodo geometrico, vale a dire su un tipo spaziale di matematica — ma come sosteneva Rosenzweig, la matematica è silenzio. Non parla, non comunica nient'altro che una contorta tautologia — come in effetti deve, perché se la verità che si cerca è quella della trascendenza assoluta in un reame al di fuori di ogni conoscenza soggettiva, allora non si possono fare affermazioni significative e portatrici di contenuto. Rifiutando di rendere i nomi informativi, permettiamo la trascendenza di ciò che non è ''nel'' mondo, e non semplicemente fenomenico.
 
Quindi, laddove la filosofia greca cercò di rendere arbitrario il pensiero umano nel distaccare il nome dalla cosa (e terminando nella divisione dualistica kantiana tra l'ontologico e il fenomenico), il pensiero ebraico invece, secondo gli argomenti qui proposti, percepisce un continuum tra oggetto e soggetto, un continuum che si costituisce nel linguaggio. I nomi, che sono equiparabili alle nostre delineazioni ideologiche (dove un’''idea'' è un insieme unificato e semplice, in opposizione a un ''concetto'' empirico totalizzante), sono intesi sia come capacità del soggetto di identificare e relazionarsi a un oggetto, sia come capacità di quel particolare oggetto di apparire a un soggetto, quel particolare soggetto.
 
Mentre sembra che il pensiero cabalistico, attingendo alla tradizione neoplatonica che ha ereditato da Maimonide, suggerisca una natura interna al di fuori della relazione che si articola come l'AHYH, l'Io Sono di un oggetto, è diventato evidente che questa natura è '''''allo stesso tempo''''', quella del vuoto assoluto, l’''Ain'' che è nascosto nell’''Ein Sof'', il caos inarticolato di ''tohu vavohu'' che non ha natura nella sua aggregazione disordinata di materia di base; '''''e''''' una che è condivisa da tutti gli esseri, quel caos di informezza che è nascosto dietro la forma del nome. Mentre ciò da un lato suggerisce un'unità cosmica che è divisa solo da nomi, un Nulla che crea l'illusione prima dell'unità singola (AHYH o ''Keter'') e poi della differenza (YHWH), da cui tutte le identità emergono come nomi che separano il Nulla da se stesso, d'altra parte possiamo trovare in questa dottrina il nocciolo di una nuova metafisica della relazione. Se l'essenza interna non è nulla, allora gli oggetti si trovano resi reali solo nella loro relazione reciproca, e tuttavia questo rapporto dipende sempre dalla presenza trascendentale suggerita dell'alterità; mentre i nomi definiscono e creano questa alterità, l'alterità non si basa su una natura trascendentale statica, ma piuttosto sull'apparenza in relazione al soggetto.<ref>Il popolo di Babele disse: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra" ({{passo biblico2|Genesi|11:4}}). Naturalmente, il popolo fu disperso; il loro tentativo del nome venne frantumato in settanta frammenti, dimostrando che non possiamo creare nomi per noi stessi; la nominazione è un processo che dipende dall'alterità.</ref> Così la natura è sia trascendentalmente che fondamentalmente relativa, articolata in e come nome. Quando Gikatilla sosteneva che AHYH, sebbene sia la radice dell'Albero, non è la vera fonte perché quella è il Tetragramma che è il tronco, questo è il modo in cui dovremmo leggerlo: è il nome dell'altro (YHWH), non il nome di identità (AHYH), che è veramente l'affermazione dell'Essere di Dio ed è irrevocabilmente unito alla Sua natura. E nel senso più ampio, l'essere si trova ''nel'' nome: l'essere di qualcosa si identifica attraverso la sua relazione, ma ''senza essere sussunto come tale relazione''.<ref>7 Judith Butler ha puntato in questa direzione sostenendo che la realtà politica (cioè la metafisica socialmente costruita) di alcuni gruppi di minoranze sessuali è impossibile se "non c'è un contesto, una storia e un nome per una tale vita" (2004, 25). Questo rifiuto o incapacità di comprendere è quindi un tipo di violenza che dovrebbe essere più correttamente contrastata dalla natura immediatamente sociale del corpo; ed è questa natura socialmente integrata ("porosa") che per Butler definisce la possibilità di identità; non dall'interno ma dall'esterno, dalla rete all'interno della quale esiste.</ref>
 
Che il Nome/Metatron sia determinato tanto dall'umano, è evidente: prima che il mondo fosse creato Dio e il Suo Nome erano uno; cioè erano identici, erano una cosa. Ma una volta che la creazione è avvenuta, il Nome diventa non-identico a Dio, perché mentre il Nome è conosciuto, Dio non lo è. ''Ein Sof''/AHYH si differenzia dall'essere fenomenale e ''mentale'' di Dio, che è il Nome YHWH.
 
Ho affermato che i nomi occupano un posto speciale nel linguaggio, anzi, un posto ''al di fuori di'' esso. Mentre il linguaggio può descrivere, facendo affermazioni fattuali (che possono o non possono essere vere) sul mondo e quindi esistenti in un rapporto di correlazione graduale con esso, i nomi non hanno un contenuto significativo, e come tali sono intenzionali: un'azione diretta da un soggetto verso un oggetto. I nomi propri si presentano come i buchi neri all'interno del linguaggio, esistenti al suo confine; sono parole non letterali, parole che non possono descrivere ma solo riferirsi, e così facendo rimandano a ciò che non è descrivibile: identità, l'identità di un altro.
 
Un nome, quindi, non parla: indica. E nel non trasmettere nessuna informazione sul nominato, il nome tace; silenzioso come quello che è nominato. Come ha sostenuto Rosenzweig (1971), il significato è qualcosa che arriva solo attraverso il linguaggio umano: il discorso non scientifico, non assoluto che esiste negli interstizi tra gli individui. Il linguaggio significativo è in un certo senso sempre una sorta di errore, perché si fonda sull'incertezza della conoscenza soggettiva, ammettendo un divario epistemico tra conoscitore e conosciuto. Nel tentativo di tradurre la natura presumibilmente assoluta dell'essere non soggettivo di un oggetto, usiamo parole e termini che provengono dalla soggettività relazionale, e quindi falliamo nel compito di avvicinarci all'in-sé. L'interiore nascosto dell'obiettivo non può essere descritto per mezzo del linguaggio popolare; per tentare affermazioni su questo reame oscuro potremmo usare solo i linguaggi rigidi della matematica e della logica; lingue che ammettono solo, in ultima analisi, identità. La logica parla sempre di A = A (quella stessa rubrica che Rosenzweig usava per descrivere il terreno oscuro di Dio nel suo sistema); mentre il soggetto non può raggiungere questa interiorità, il nome dà qualche possibilità di riferimento significativo; permette all'oggetto trascendente di entrare nel mondo mentale, rompendo il campo autistico della soggettività; creando un portale per l'alterità. È il nome che permette la relazione, che nel non tentare di descrivere, provvede al contatto con l'altro.
Questa è l'intuizione di Lévinas. Ma c'è di più di ciò nel nome. In questa attività simile a una membrana, il nome fornisce presenza e tuttavia afferma un confine. Il nome non si può andare oltre: anche quando [[Abulafia]] si avvicina alle vette di ''unio mystica'', non sostiene mai che il mistico diventa più di Metatron.<ref>Contemplando il Nome Superno, il mistico si identifica con esso, svuotato e riempito con il Nome; ma come tale non è assorbito nell'identità formale di AHYH, rimanendo proprio sul bordo, il punto a dimensione zero del Nome YHWH come punto in cui Dio e l'umano si incontrano.</ref> Cosa c'è oltre il nome? C'è il Nulla; un nulla essenziale; un nulla che non è una cosa, ma solo la ''prima materia'' informe, una sostanza di base che attende l'identità, attende l'unità, un'unità che è conferita dal dare un nome. Ciò che costituisce gli oggetti di cui Dio enuncia in esistenza, la loro sostanza interna, è sempre esistita. Ma pronunciando i loro nomi Egli dà loro forma, dando loro identità, solidità ed esistenza significativa. Un nome sigilla una cosa in un'unità; l'indivisibilità del nome puntiforme è direttamente in concerto con l'indivisibilità dell'oggetto unificato.
 
La nominazione, in quanto atto che il soggetto compie, si costituisce tramite la soggettività. Il soggetto poi viene portato anche nel nome, come hanno visto Abulafia (e Benjamin dopo di lui): il soggetto si muove sempre verso il Nome, parte della sua natura. Gli esseri umani, nel creare altri soggetti mediante il processo di nominazione, progrediscono verso ''il'' Nome. Sono innalzati verso di esso nella generazione dell'ordine, della metafisica, mediante oggetti che nascondono, disinnescano e ''sigillano'' il male della materia informe.
 
E cos'è allora la soggettività? Il soggetto che conosce se stesso, conosce se stesso solo come Io, come Io che è: AHYH. Il soggetto non si nasconde a se stesso, ma dichiara la propria identità nel nome che descrive e annuncia l'informezza della materia prima. Tutta l'identità è Nulla; null'altro che identità. Come il terreno nascosto di Dio può essere espresso solo tramite termini come AHYH, ''Ain'' o ''Ein Sof'', così con ogni soggetto: l'interiorità che non è ''nel'' mondo (sebbene sia identica ad esso<ref>"Io sono il mio mondo" (Wittgenstein, 1974, 5.63).</ref>), è pura esistenza, roba informe — senza forma. Questa identicità di Dio e Umano, se vista dall'interno, è difficile da comprendere, ancora più difficile da collocare nei soliti luoghi comuni su differenza/separazione e religione ebraica. Eppure è lì.<ref>Vale la pena notare le scoperte di Lachter, che "la persona umana e la persona divina... sono entrambe incarnate come manifestazione dell'illimitatezza di ''ein sof''"(2004, 86); "secondo lo ''Zohar'', il nucleo del sé umano è il nucleo del sé divino. È il non-essere infinito che è il fondamento di tutto l'essere, espresso come ciò che è al di là di ogni demarcazione linguistica "(''ibid.'', 129); "Il cabalista è capace di unione mistica con Dio perché è, alla fine, già uno con Dio" (''ibid.'', 137).</ref>
 
 
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== Note ==
{{Vedi anche|Abulafia e i segreti della Torah|Serie maimonidea|Serie misticismo ebraico}}
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{{Avanzamento|5075%|13 aprile 2021}}
[[Categoria:Il Nome di Dio nell'Ebraismo|Conclusione]]