Pensare Maimonide/Filosofia ebraica: differenze tra le versioni
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Esaminiamo brevemente due punti pertinenti nella ricerca del significato sotto la superficie del pensiero filosofico ebraico.
Il primo punto è negativo. I filosofi dell'Emancipazione non afferrarono una caratteristica fondamentale della mente ebraica, vale a dire, la totale indivisibilità del suo essere interno, il fatto che perderebbe la sua identità se la particella più minuta ne fosse estratta. È più a maglia
Il secondo punto è positivo. Dalla drammatica lotta intellettuale dei filosofi ebrei medievali vediamo che il nostro passato antico non è una semplice entità statica da cui trarre alcune lezioni proficue. Funziona in modo dinamico in ogni fase. Nello scolasticismo ha giocato un ruolo anche nel proprio ragionamento tecnico più astruso. Qualunque nuova idea venisse prodotta ''doveva essere messa alla prova dalla Torah stessa'' o da una sua corretta interpretazione. Quindi Maimonide, il logico supremo, fu l'autore dell’''ani ma‘amin'' (io credo.) Questa non era un'incoerenza, come alcuni potrebbero pensare. Gli articoli di fede divennero per lui principi che lo guidavano nelle sue stesse perplessità. Quindi Gersonide, il più radicale tra loro, che era disposto ad accettare la verità da qualunque fonte venisse, si rivolse alla Bibbia come base dell'esperienza umana, come fonte primaria e valida. Dopo lunghe discussioni pro e contro, ringraziò Dio per averlo aiutato a trovare la verità nella Torah. Questa riverenza profondamente radicata per l'osservanza della Legge e l'impulso a rafforzare la recinzione attorno ad essa non si sovrapponevano alla loro filosofia dall'esterno, ma ne costituivano parte integrante.
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