Il Nome di Dio nell'Ebraismo/I settanta volti di Dio: differenze tra le versioni

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== Analisi ==
[[File:Kripke.JPG|200px|thumb|<small>[[w:Saul Kripke|Saul Kripke]]</small>]]
Il celebre testo di Saul Kripke, ''[[c:Fileen:w:Naming and Necessity.jpg|Naming and Necessity]]'' (1980) presenta un'interpretazione analitica e prolungata del rapporto tra nomi e identità. In esso egli sostiene che i nomi non sono descrizioni e quindi non hanno senso, ma solo riferimento. Il nome proprio è un "designatore rigido" in quanto può riferirsi solo a un particolare individuo, qualunque siano le circostanze contingenti — un nome si riferisce a un'essenza non ontologica e non a un insieme di qualità che possono o meno essere attaccate al oggetto individuale in questione.<ref>Sebbene Kripke sia famoso come il creatore di questo concetto e il termine "designatore rigido", Graham Harman (2014) ha sottolineato che può essere trovato anche in Husserl, che scrisse:
{{q|For a proper name also names an object ‘directly’. It refers to it, not attributively, as the bearer of these or those properties, but without such ‘conceptual’ mediation, as what it itself is, just as perception might set it before our eyes. The meaning of a proper name lies accordingly in a direct reference-to-this-object...|1970, 198}}
Possiamo inoltre trovare qualche suggerimento in questa direzione nelle meditazioni di Rosenzweig sulla costanza sostanziale desiderata che non si trova da nessuna parte se non nei nomi (1999, 47-53).</ref> Kripke sostiene che un nome non è semplicemente un'entità linguistica, non soltanto una raccolta casuale di lettere o fonemi che sono attaccati arbitrariamente agli oggetti — invece, un nome designa un riferimento e come tale pone il soggetto e l'oggetto in relazione tra loro. Un nome quindi postula il soggetto tanto quanto l'oggetto, poiché deve essere collocato in termini di un riferitore specifico oltre che di un referente specifico. Per questo motivo un nome, anche se storicamente falso perché quello che stiamo usando non è quello con cui la persona era conosciuta, non può comunque essere errato perché riesce nella sua funzione di localizzarci/indicarci il referente. Kripke fa l'esempio di Socrate, di cui la forma scritta o pronunciata sarebbe completamente estranea alla figura storica per la quale la usiamo. Eppure il nome Socrate, per noi, indica quella figura. Quindi, un nome è intrinsecamente localizzato nel contesto del suo utilizzo e forma un punto di contatto tra chi parla e di chi si parla.<ref>Vale la pena notare che un dato nome storico sarebbe in realtà semplicemente una qualità dell'oggetto, e potrebbe effettivamente essere un segno arbitrario se nessuno utilizzasse effettivamente quel nome in riferimento ad esso. Quindi, 2 + 2 = 4 è necessariamente vero, nonostante il fatto che qualcun altro possa intendere il segno 4 a significare il numero 7, perché non sono i segni stessi che vengono discussi ma gli oggetti in relazione ai quali quei segni ci collocano, noi che ora li utilizziamo. Questo, aggiungerei per chiarezza, è il punto in cui i segni diventano nomi: quando sono usati per formare un legame tra un soggetto e un oggetto. Senza questo impiego nell'azione del nominare, un semplice segno è sempre arbitrario.</ref>
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== Note ==
{{Vedi anche|Serie maimonidea}}