Missione a Israele/Gerusalemme: differenze tra le versioni

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Il primo messaggio cristiano di non-resistenza non era una chiamata a tollerare l'ingiustizia o sopportare indefinitivamente l'aggressione. Al contrario, enuncia la convinzione che motiva l'intero movimento: il Regno era in arrivo; Dio avrebbe presto dato il giusto castigo ai malvagi. Pertanto ai cristiani di Roma, Paolo conclude la sua esortazione di rispettare le autorità governanti e di pagare le tasse invocando precisamente la prossimità della Fine. "Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino" ({{passo biblico2|Romani|13:11-12}}; si vedano i dieci versetti precedenti in merito all'insegnamento di Paolo). E dopo aver esaminato le persecuzioni che i suoi seguaci dovranno sopportare ("Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia"), il soliloquio apocalittico del Gesù di Marco conclude: "Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria... In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute" ({{passo biblico2|Marco|13:9,26,30}}). Se Marco qualche tempo dopo il 70 e.v., e Paolo a metà secolo, rimangono fermamente convinti della prossima Fine del Mondo, allora sicuramente Gesù, fonte di tale convinzione, proclamò il suo messaggio con la stessa urgenza.
 
Ma il Regno che predicava Gesù si sarebbe realizzato con un atto di Dio, non con un'azione umana e con la forza delle armi. Pilato sapeva che Gesù insegnava in questo modo. Altri profeti – Teuda, l'Egiziano, i profeti dei segni – proclamavno messaggi simili a loro volta: era Dia, non gli uomini. che avrebbero fatto spartire le acque del Giordano, o crollare le mura di Gerusalemme, proclamato "segni di liberazione" (''AJ'' 20.97-98, 168-170; cfr. [[Missione_a_Israele/Paolo_e_Gesù#"Cristo"_nei_Vangeli|"Cristo nei Vangeli"]]). Ma questi uomini richiamavano grandi folle, provocando manifestazioni di massa nel deserto. Non importa quanto si aspettassero che la realizzazione del loro messaggio fosse sovrannaturale, Roma riteneva che il loro effetto immediato fosse dirompente e potenzialmente incendiario. L'esercito li abbatteva. In contrasto, Gesù faceva il suo insegnamento sul posto, ''in situ'': nelle sinagoghe dei villaggi o al Tempio, dove la gente già si riuniva comunque e, nel caso di Gerusalemme durante le feste, dove la sorveglianza romana era già lì. "Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel Tempio" (così dice il Gesù marciano al momento del suo arresto, {{passo biblico|Marco|14:49}}). "Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto" (così afferma il Gesù giovanneo ad Anna, {{passo biblico|Giovanni|18:20}}). Stessa cosa qui. Nonostante il suo ingresso tumultuoso, Gesù fu lasciato in pace sia dalle autorità ebraiche che da quelle romane a predicare nel Tempio, come aveva fatto in passato e ora nei giorni prima della festività.
 
Cosa insegnava? Che il Regno di Dio si stava avvicinando. Cosa rese differente questa Pesach da tutte le altre feste in cui aveva insegnato lo stesso messaggio? Questa volta le folle di pellegrini, con esuberanza e convinzione, proclamarono Gesù il messia. Cosa li spinse ad acclamarlo in questa particolare Pasqua? L'intensità della loro aspettativa del Regno. Qui, prima di procedere oltre, dobbiamo considerare tre fattori preventivi: l'identità di queste folle; il lororagionamento nel proclamare Gesù il messia, ed il ruolo dei capi sacerdoti durante la settimana finale di Gesù a Gerusalemme.
 
Chi erano queste folle? Marco li identifica semplicemente come "molti" (''polloi'', {{passo biblico|Marco|11:8}}). Procedendo prima e dopo Gesù, lo lodano come colui che "viene nel nome del Signore" e benedicono l'avvento del "regno del nostro padre Davide" ({{passo biblico|Marco|11:9}}). Luca, da solo, riduce questa moltitudine a "tutta la folla ''dei discepoli''" ({{passo biblico|Luca|19:37}}). Matteo e Giovanni implicano semplicemente che la folla è composta da un numeroso gruppo di pellegrini. Matteo dice che "la folla numerosissima" saluta Gesù (presumibilmente sono pellegrini che entrano in città, {{passo biblico|Matteo|21:8-9}}). Giovanni suggerisce che queste persone erano già giunte a Gerusalemme, e si erano poi radunate e uscite di nuovo specificamente per celebrare l'ingresso di Gesù. "Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui" ({{passo biblico|Giovanni|12:12-13}}).
 
I Vangeli a questo punto rappresentano la folla che grida celebrando Gesù stesso quale "figlio di Davide£, e quindi Messia ({{passo biblico2|Matteo|21:9}}) e Re ({{passo biblico2|Luca|19:38}}; {{passo biblico2|Giovanni|12:13}}). Tutte queste persone erano quei galilei e giudei avevano già familiarità con Gesù ed il suo insegnamento? Forse, sebbene proprio perché lo conoscevano, non avrebbero avuto ragione di iniziare l'acclamazione. Più probabilmente penso che l'autorevole proclamazione da parte di Gesù della subitanea imminenza del Regno fece scattare per quei pellegrini da poco consci della sua missione, la convinzione che, se il Regno stava per arrivare, Gesù stesso ne sarebbe stato il leader. L'entusiasmo per l'arrivo del Regno, esplodendo a causa di questa miscela combustibile di nuovi ascoltatori eccitati e fedeli seguaci (che ricordavano forse la loro propria esperienza dell'autorità di Gesù e dei suoi esercismi e guarigioni) si sarebbe presto tramutata in un'entusiasta acclamazione di Gesù come messia. E l'entusiasmo si espande contagiosamente.
 
E perché avrebbe dovuto iniziare? A causa del modo in cui l'idea dell'era messianica o del Regno, nella tradizione ebraica in generale e nella tradizione ebraica ''cristiana'' in particolare, è così talmente vincolata all'idea dell'arrivo del messia. Questa convinzione non era condivisa universalmente, come rivela una veloce revisione dei testi intertestmentali. L'ebraismo del tardo periodo del Secondo Tempio era caratterizzato da una varietà vigorosa e vociferante, e alcuni ebrei erano perfettamente capaci di concepire un regno di Dio senza associarlo ad una figura umana speciale che lo realizzasse. Negli scritti apocalittici di questo periodo, messia è opzionale sia come termine che come consetto.
 
Ma chiaramente, primi cristiani si annoveravano tra quegli ebrei che in effetti avevano collegato l'arrivo dell'era messianica con l'arrivo del messia. Le testimonianze su questo punto sono abbondanti e attestate in vari modi: le pressioni del pensiero messianico tradizionale ebraico sono proprio ciò spingono le prime revisioni cristiane, espresse nell'aspettativa della ''Seconda'' Venuta di Gesù. In Paolo, in ''Q'', in Marco, l'arrivo definitivo del Regno viene rimandato fino al ritorno in gloria del Figlio. Grandi schiere di angeli, che discendono al suono di trombe, radunano gli eletti: Gesù di Nazareth, in vita la figura meno militare possibile, si trasforma nelle tradizioni della sua Seconda Venuta in una figura messianica riconoscibile – e quindi tradizionale – il cui avvento stabilirà il Regno del Padre suo.
 
Quanto fossero diffuse tali speranze tra gli ebrei del Secondo Tempio non si può sapere, ma proprio la nascita e crescita del movimento cristiano post-Risurrezione è di per sé una prova del suo vigore.