Missione a Israele/Verità evangeliche: differenze tra le versioni

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{{q|Essi [la gente di Paolo] sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la ''gloria'', le alleanze, la promulgazione della Legge, l’''adorazione'', le promesse; ai quali appartengono i patriarchi, e da essi proviene il messia secondo la carne.|{{passo biblico2|Romani|9:4-5}}}}
Ho messo in corsivo le due parole nella lista di Paolo, "gloria" e "adorazione", perché l'italiano oscura la loro connessione immediata col Tempio. Per "gloria" il greco di Paolo ha ''doxa'' (δόξα); la parola ebraica che traduce è ''[[:en:w:K-B-D|kavod]]'', che nella [[w:letteratura ebraica|letteratura ebraica]] non si riferisce alla gloria di Dio in generale, ma specificamente alla ''[[w:Shekhinah|presenza]]'' gloriosa di Dio che dimora sulla terra nel Tempio di Gerusalemme. Come dice il Gesù di Matteo: "Chi giura per il Tempio, giura per esso ''e per Colui che l'abita''" ({{passo biblico2|Matteo|23:21}}). Inoltre, alla base della parola "adorazione" sta la parola greca di Paolo ''[[w:latria|latreia]]'' (λατρεία): ciò richiama l'ebraico ''[[:en:w:avodah|avodah]]'' (עֲבוֹדָה‎), l'adorazione di Dio. E come viene adorato Dio? Col culto che Egli ordinò a Israele tramite Mosè, che Israele conservò davanti lla presenza di Dio (nel Tempio) a Gerusalemme. "Adorazione " è una traduzione che non implica sangue, ma ciò che Paolo intende è "culto", specificamente il culto del sacrificio animale (che a sua volta, come abbiamo visto sopra, forniva cibo ai sacerdoti di Dio) che si svolgeva al Tempio, appunto.
 
Il Tempio e il relativo servizio ebraico per paolo rappresentano l'acme dell'adorazione umana di Dio. Pertanto, quando parla del proprio ruolo come apostolo, portando la colletta raccolta dalle comunità diasporiche gentili per i poveri di Gerusalemme, Paolo dice che Dio gli ha concesso la grazia di essere "un ''ministro'' di Gesù Cristo tra i Gentili, esercitando l’''ufficio sacro'' del vangelo di Dio perché i Gentili divengano una oblazione gradita" ({{passo biblico2|Romani|15:16}}). Alla base della versione italiana dei corsivi stanno le parole paoline ''leitourgos'' ("ministro") e ''hierourgeo'' ("ufficio sacro"). In greco, la prima parola significa specificamente "attendente di un sacerdote", qualcuno che assiste coi sacrifici; la seconda parola, letteralmente, significa "opera del sacerdote", cioè fare offerte all'altare. E poiché Paolo in questo passaggio nomina Gerusalemme come sua destinazione, riceviamo un altro indizio che queste immagini non sono sacrificali in maniera generica, vale a dire, correlate ad un qualsiasi ufficio sacro o culto sacerdotale del I secolo a favore di un qualsiasi dio, bensì esse evocano specificamente il culto del Dio di Israele. Per Paolo, dietro a ''hieros'', parola greca che traduce sacerdote, sta l'ebraico ''[[w:sacerdote (ebraismo)|cohen]]'' (כּהן ''kohèn''), il sacerdote che a Gerusalemme offre sacrifici al Dio di Israele.
 
Se Paolo, un ebreo della Diaspora e portavoce attivo della fede post-Risurrezione in Gesù quale Cristo, stimava così naturalmente e immediatamente il Tempio ed il suo culto, a maggior ragione dobbiamo aspettarci di vedere la stessa stima evidente nella missione e messaggio pre-Risurrezione di Gesù. Tuttavia le fonti evangeliche ne complicano la nostra visione in merito a questa problematica, perché sono scritte dopo, le guerre giudaiche contro Roma, e forse in un certo senso alla luce di tali eventi. Pertanto, sebbene il cobtesto narrativo dei Vangeli sia, approssimativamente, il primo terzo del primo secolo, dall'anno finale di Erode il Grande (m. 4 p.e.v.) al mandato di Ponzio Pilato (26-36 e.v.), il contesto storico degli scrittori evangelici è, approssimativamente, il terzo finale del primo secolo, c. 70-100 e.v. Tra questi autori e il loro soggetto ci fu la frattura irrecuperabile del culto tradizionale di Israele. La posizione degli evangelisti riguardo al Tempio è quindi più vicina alla nostra, nonostante i venti secoli che intervengono tra noi e loro, rispetto a quella delle generazioni che immediatamente li precedono. Loro, comed noi, ''sanno'' qualcosa che nessuna delle figure storiche di cui scrissero poteva sapere: cioè, che il Tempio di Gerusalemme non esisteva più.
 
Tale conoscenza non può non influenzare ciò che videro gli evangelisti, e ciò che vediamo noi, quando guardiamo indietro. Sia noi che loro siamo nella posizione di uno che legge un romanzo o guarda un film per la seconda volta. Gesti e azioni che la prima volta sembravano solo dare consistenza alla storia, ora pulsano di ora pulsano di un'intensità accresciuta, poiché sappiamo come finiranno le cose. L'appassionato sfogo di Giulietta quando Romeo si prepara a lasciare Verona in esilio – ''"O, think'st thou we shall ever meet again?"'' – sentito in tutta innocenza, sembra sia a Romeo sia ad un pubblico inconsapevole un'ansia esaggerata difronte alla separazione traumatica. Le sue assicurazioni che tutto andrà per il meglio – ''"All these woes shall serve / For sweet discourses in our times to come"'' – sono una reazione calmante e ragionevole. Ma la seconda volta, le parole di Giulietta assumono una terribile accuratezza, rendendo le parole di Romeo teneramente ingenue, persino patetiche.<ref>Da ''[[w:Romeo e Giulietta|The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet]]'', di William Shakespeare (1596).</ref> Sappiamo troppo per poterle udire allo stesso modo due volte...