Cambiamento e transizione nell'Impero Romano/Capitolo II: differenze tra le versioni

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Tuttavia, l'opposizione è fittizia, a guardar più attentamente: infatti, questa storia acquisisce senso e significato solo nel contesto di una storia strutturale, la storia dei tempi lunghi, della "longue durée"; in essenza, una incorpora l'altra, pulsando con il grande respiro della vita e della natura. In essa dominano, invece degli eventi, le ''strutture'', questo termine ambiguo e complesso<ref>Il termine è al centro di una lunga lista di opere che ne cercano la definizione precisae l'analisi semantica; la letteratura francese su questo argomento è alquanto proligica, ''int. al.'', H. Febvre nella sua Prefazione a H. e P. Chanu, ''Séville et L'Atlantique'', I, Parigi, 1962, XI, p. 195; J. Piaget, ''Le structuralisme'', Parigi, 1968 e la sua vasta bibliografia. Per le sue relazioni col Marxismo, si veda il numero speciale di ''Annales'' dedicato a questo tema [''Annales ESC'', 3-4, 1971].</ref> in cui osservatori sociali vedono un'"organizzazione", una "coerenza", dei rapporti specifici tra realtà e masse sociali, ma che per gli storici – usando nuovamente le parole evocative di Braudel – "è indubbiamente ''assemblage'', architettura, purtuttavia una realtà che il tempo non riesce ad usare e che canalizza molto lentamente".<ref>Braudel, "Histoire et sciences sociales", p. 731.</ref> Tra queste realtà storiche, alcune si dissolvono alquanto velocemente; ma, più spesso, nel corso della loro lunga vita diventano gli elementi stabili di innumerevoli generazioni: occupano la storia, l'attraversano, dominano il suo progresso. Sono quelle che lo storico analizza veramente in quel ''temps révolu'' che è l'oggetto della sua ricerca, anche quando pensa o pretende di esaminare l'evento, anche quando pensa che sta cedendo alla magia evocativa del "documento", ricostruendo il passato attraverso una sequenza di fatti quasi auto-ordinatisi, per ricostruire l'unità del reale. Tuttavia, in effetti, le strutture sono sia ostacoli che supporti di questo tempo del reale, del passato: ostacoli molto duri, a volte impossibili, da superare (posizioni geografiche, certi fatti biologici, certi limiti di produzione — "anche schemi mentali sono ingabbiature durature", dice Braudel)<ref>Braudel, "Histoire et sciences sociales", p. 731. Non c'è bisogna di ribadire che questo aspetto del problema è centrale per la [[w:Nouvelle Histoire|Scuola di ''Annales'']], dall'opera di Febrvre a M. Bloch e il suo ''Rois thaumathurges'', a ''Cadres de la mémoire'' di M. Halbwachs, a [[w:Gaston Bachelard|Gaston Bachelard]], ''Dialectique de la durée'', per non citare i leader della Scuola stessa.</ref>; supporti, perché in loro si articola e sviluppa, fuori dalla causalità, la folla di eventi e individui; perché nella ''longue durée'', nei grandi cicli che determinano il movimento lento e regolare delle civiltà, uno può percepire le trasformazioni reali di una società, le sue fasi di cambiamento, il pulsare lento e regolare della sua vita più intima.
 
Allora, la storia delle strutture studia i "modelli"<ref>F. Braudel, "Storia e sociologia", p. 137; "Histoire et sciences sociales" ''cit.'', pp 740segg.; cfr. anche Braudel, "Les métaux monétaires et l'économie de XVI siecle", ''XI Congr. Int. Sc. St.'', Roma, 1955, IV, pp. 233-364; C. Lévi-Strauss, ''Bull. Int. Sc. Soc.'', UNESCO VI, n. 4. Per una discussione più pertinente alla prospettiva economic, cfr. W. Kula, "Historie et économie: la longue durée", pp. 294-312.</ref> che costituiscono i nuovi strumenti di conoscenza ed indagine, che mirano a superare l'aridità, diciamo anche la "estraneità" dei dati empirici, in un tentativo di spiegazione "scientifica"?<ref> W. Kula, "Historie et économie", pp. 300, 301 segg.</ref> In cui si ottiene la sintesi di diacroniscmo e sincronismo, che vivifica e muove il processo storico? In cui si realizza, come asserisce giustamente Witold Kula, la dialettica di struttura e sovrastruttura, in cui ogni marxista riconosce lo strumento privilegiato dell'indagine?<ref>Kula, "Historie et économie", pp. 303, 305.</ref> A questo punto lo storico del mondo antico inciampa nella prima difficoltà del suo mestiere — ogniqualvolta vuole liberarsi delle restrizioni della ''histoire événementielle'': la mancanza di documentazione continuativa che costituirebbe una serie omogenea valida a verificare i modelli di spiegazione da lui eventualmente proposti; si prova una profonda mortificazione nel sentirsi quasi rifiutato davasto campo delle "scienze sociali", dalle metodologie e innovazioni di una scienza che produce risultati rimarchevoli in altre aree. Cosa può fare lo storico moderno? Forse dichiarare, come fece A.H.M. Jones con chiarezza e concisione, che il problema principale della storia economica antica è che non esistono statistiche antiche; e tentare essenzialmente, come lui fece, un'esposizione descrittiva delle istituzioni economiche e giuridiche, con una sorprendente conoscenza delle fonti letterarie e papirologiche?<ref>A.H.M. Jones, ''Ancient Economic History, Londra, 1948, 1. Il metodo di Jones viene esemplificato in tre volumi del suo ''Later Roman Empire''; su economisti e teorici moderni e la loro prospettiva del problema, cfr. N. Georgesco-Roegen, ''Analytical Economics'', Cambridge, 1966.</ref> O lo storico, senza preoccuparsi troppo della teoria, ma mantenendosi ai "fatti" (tuttavia, in realtà, addottando criteri interpretativi per il periodo economico specifico al massimo prekeynesiani), scrivere solide opere di storia economica e sociale, in cui la ricerca descrittiva, intesa come storia, prevale sulla teoria, intesa come astrazione?
 
Nella ricerca storica, la consapevolezza teorica è tanto necessaria quanto la verifica critica dei dati (la "critique", come direbbe [[w:Louis Robert|Louis Robert]]): l'uno acquisisce significato dall'altro, proprio come il primo è motivato dal secondo.<ref>Indispensabile Tenney Frank, ''Economic Survey'' e Rostovtzeff, ''Economic History''. A parte ''Il Capitale'', importante anche Knut Wicksell, ''Lectures on Political Economy, Londra, 1934.</ref> Se lo storico viene in qualche modo limitato dalla sua documentazione, egli ha comunque la possibilità, quasi l'obbligo, di provare "modelli" generati da altri settori e di non presupporre come prevalente l'analisi quantitativa dei dati: specialmente quando tratta periodi in cui la ''vécu historique'' ha le sue turbolenze, durante le epoche di trasformazione sociale. Altrimenti uno potrebbe finire col chiedersi domande come quelle di un illustre studioso recente: "La difficoltà maggiore incontrata nell'esame della crisi del III secolo consiste nello stabilire esattamente ciò che stiamo tentando di analizzare. In altre parole, cosa è successo? Che sorta di cambiamenti avvennero?..."<ref>Non c'è bisogno di citare lo studioso, quanto la debolezza teorica sostanziale delle sue e simili posizioni.</ref> E questo è ben giustificato per quanto riguarda le perplessità e i dubbi, ma trova il suo limite teorico nella definizione preliminare di "crisi" che vien data a questo "passato" storico.
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Lo storico deve allora rinunciare alla storia strutturale, all'analisi della ''longue durée''? Si deve limitare a quell'empirismo che accumula fatti su fatti, senza pretese di teorie esplicative?<ref>Si veda F. Mauro, "Théorie économique et historie économique", ''recherches et dialogues philosoph. et économiques'', IV, Parigi, 1959, pp. 45-75.</ref> O deve dichiarare insieme a [[w:Paul Veyne|Paul Veyne]],<ref>Paul Veyne, "Panem et Circenses: l'évergetisme devant les sciences humaines", ''Annales ESC'', 1969, pp. 785-825.</ref> in un articolo di cui condivido le premesse e gran parte del suo sviluppo, ma non le sue conclusioni, che la storia, descrizione del passato "vissuto", non può mai raggiungere una formalizzazione concettuale, e attingere alla scienza, ma rimane pur sempre un'arte, una sintesi provvisoria, un ''"compromis"'', in cui vengono alla ribalta le sue due componenti più preziose, l’''esprit théorique'' e l’''esprit critique''? E che un giorno si potrebbero separare nuovamente, quando tale ''"compromis"'' da cui la storia fu possibile come un "grand genre" da Voltaire in poi – insieme a tutto il XIX secolo – sarà esaurito?<ref>''Ibid.'', pp. 824-825.</ref>
 
Forse il marxista potrebbe essere meno disperato circa il futuro della storia. La dialettica di sovrastruttura e struttura, che è coessenzialeè al concetto storico marxista, potrebbe ripetergli la dialettica del tempo "breve" della storia ''événementielle'', e della "longue durée" della storia "strutturale".<ref>P.Vilar, ''Sviluppo economico e analisi storica'', Bari, 1970, pp. 172 segg. (partic. pp. 200segg.)</ref> In effetti sul fondamento di queste dialettiche ho tentato, nel primo capitolo di questa ricerca, una breve analisi delle posizioni teoriche — che implicavano l'interpretazione del III secolo come epoca o di "decadenza", o di "crisi"; e ho tentato di indicare la sostanza "ideologica" di queste interpretazioni, sia negli antichi che nei moderni. A questo punto, è necessario analizzare, entro i limiti dettati dalla documentazione dispnibile, le strutture entro cui si sviluppò il processo trasformativo dalla società "classica", quella ellenistico-romana, alla società ''Spätantike'', e le forze che la iniziarono; un processo che, come ho già affermato e che analizzerò in seguito, non si sviluppò – quindi non può essere compreso – ad un livello di storia ''événementielle'', ma solo nell'ambito del tempo esteso, "longue", delle strutture. La storia reale, "strutturata", del III secolo apparirà quindi come un processo di "destrutturazione" per una società in cui le forze produttive entrano in opposizione contro i rapporti produttivi esistenti, e contro le forme giuridiche che le distinguono, sconvolgendo quindi la loro base materiale di produzione. Allo stesso tempo apparirà come un'epoca in cui sorgono nuove forze produttive e si riformano nuove associazioni di produzione, ristrutturandosi in un nuovo ''modus'' produttivo non più antico ma, secondo la definizione ampiamente accettata, "feudale".<ref>K. Marx, ''Formen, die der kapitalistischen Produktion vergehen''; K. Marx-F. Engels, ''The German Ideology'', 1938.</ref>
 
 
 
 
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