Utente:Monozigote/sandbox5: differenze tra le versioni

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<nowiki>[[Categoria:Boris Pasternak e gli scrittori israeliani| ]]
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= ''Poesie di Živago'' =
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di follia, di dolore, di felicità, di pena.
 
DICHIARAZIONE.
 
La vita è tornata, così, senza motivo,
come allora che s'era stranamente interrotta.
E sempre in quella stessa strada antica,
sempre quello stesso giorno d'estate e a quell'ora.
 
La stessa gente e le ansie, le stesse,
e l'incendio del tramonto ancora acceso:
come allora, contro il muro del Maneggio
la sera di morte l'aveva in fretta inchiodato.
 
Donne in vesti da poco prezzo, come allora,
a notte strascicano le scarpe.
E poi sul tetto di lamiera,
come allora, le crocifiggono le soffitte.
 
Ecco lei che a passi stanchi
lentamente si fa sulla soglia,
e, risalendo dall'interrato,
taglia di traverso il cortile.
 
Di nuovo io mi preparo pretesti,
e di nuovo mi è tutto indifferente.
E la vicina, svoltando all'angolo,
ci lascia l'un l'altro di fronte.
 
Non piangere, non increspare le labbra tumefatte,
non gremirle di rughe.
Riaprirai le croste già secche
dello sfogo di primavera.
 
Togli il palmo della mano dal mio petto,
noi siamo cavi sotto tensione.
Attenta, l'uno verso l'altra, ancora
saremo spinti inavvertitamente.
 
Passeranno gli anni, ti sposerai,
dimenticherai i disordini.
Essere una donna è un grande passo,
fare impazzire è un'eroica impresa.
 
Pure, io, di fronte al prodigio delle mani di donna,
del dorso e delle spalle e del collo,
con la devozione d'un servo
tutta la mia vita benedico.
 
Ma per quanto la notte m'incateni
con anelli d'angoscia,
più forte al mondo è la spinta a fuggire
e la passione invita alle rotture.
 
ESTATE IN CITTA'.
 
Conversazioni a mezza voce,
e, d'un gesto impaziente,
in alto è raccolta la chioma
a treccia sopra la nuca.
 
Di sotto a un pesante pettine
guarda una donna col casco,
rovesciando la testa
indietro con tutti i capelli.
 
E nella via la caldissima
notte presagisce maltempo,
e strascicandosi si separano
per le loro case i passanti.
 
Si odono sussulti di tuono
che si ripercuotono di colpo,
e agita il vento
le tendine alla finestra.
 
Succede il silenzio,
ma come prima si soffoca,
e nel cielo come prima
i lampi frugano e frugano.
 
Ma quando lo sfavillante
mattino cocente
asciuga le pozze nei viali
dopo l'acquazzone notturno,
 
guardano accigliati
per il sonno interrotto,
secolari, odorosi
tigli ancora in fiore.
 
IL VENTO.
 
Io sono già morto e tu vivi ancora.
E il vento, con gemiti e pianto,
fa oscillare il bosco e la dacia (99).
E non per proprio conto ogni pino,
ma tutti insieme gli alberi
nella loro distesa sconfinata,
come armature di velieri
sulla superficie d'una baia.
E non per tracotanza
o per vano furore,
ma per trovare nell'angoscia le parole
d'un canto di culla per te.
 
EBRIETA'.
 
Sotto il salice avvinto dall'edera,
cerchiamo scampo all'intemperie.
Ci ripara le spalle un mantello,
intorno a te le mie braccia si avvincono.
 
Ma no. Le piante nel folto
non s'avvolgono d'edera, ma d'ebrietà.
Stendiamo, allora, questo mantello
sotto di noi in tutta la sua ampiezza.
 
ESTATE DI SAN MARTINO.
 
La foglia di ribes è ruvido tessuto.
In casa risate e tintinnano i vetri;
lì trinciano, fanno lievitare e impepano
e piantano chiodi di garofano nel marinato.
 
Come per burla, il bosco rilancia
questo rumore sullo scosceso pendio
dove nocciuoli riarsi al sole
stanno bruciacchiati come da un falò.
 
Qui la strada si butta in un dirupo,
qui si ha pena di questi vecchi
ceppi stecchiti e dell'autunno cencioso,
che tutto ammassa in questo burrone.
 
Ed è una pena che l'universo sia più semplice
di quanto supponga qualcuno più scaltrito,
che il bosco sia così depresso,
e che per ogni cosa arrivi la fine.
 
Che sia assurdo non voler capire,
quando tutto ti si è bruciato dinanzi,
e la bianca caligine autunnale
come una ragnatela si arrampica alla finestra.
 
Il recinto sfondato del giardino
apre un varco che si perde tra le betulle.
In casa risate e tramestio di faccende,
e lo stesso tramestio e risate anche lontano.
 
LO SPOSALIZIO.
 
Attraversato il bordo del cortile,
passarono nella casa della sposa
gli invitati a far baldoria
con l'armonica sino al mattino.
 
Dietro le porte dell'ospite
rivestite di feltro,
tacquero dall'una alle sette
i frammenti del chiacchierio.
 
Ma all'alba, in pieno sonno,
- solo dormire e dormire -
cantò di nuovo l'armonica
congedandosi dallo sposalizio.
 
E dì nuovo il suonatore
diffuse col suo "bajàn" (100) lo sciabordio
d'un batter di mani, un brillio di collane,
e il chiasso e lo strepito della festa.
 
E ancora, ancora, ancora
il parlottio delle "chastushki"
direttamente irruppe dal festino
sul letto dei dormienti.
 
E una, bianca come neve,
nel chiasso, negli stridi, nello strepito,
di nuovo riprese a fluttuare
come una pavona, ancheggiando,
 
invitando con il capo
e con la mano destra,
in quel ballabile sul lastrico,
pavona, pavona, pavona.
 
A un tratto la foga e il chiasso giocoso,
il trepestio del ballo in tondo,
sprofondando nel baratro,
sparirono come nell'acqua.
 
Si svegliava rumoroso il cortile.
Un'eco di faccende
si mescolava ai discorsi
e agli scrosci di risa.
 
Nel cielo infinito, lassù,
in un turbine di macchie azzurrognole,
a stormo fuggivano i colombi
staccandosi dalle colombaie.
 
Come se, scuotendosi nel sonno,
li avessero mandati all'inseguimento
sulle tracce dello sposalizio
con un augurio di lunghi anni.
 
Anche la vita è un istante soltanto,
soltanto un dissolversi
di noi stessi in tutti gli altri,
come offertici in dono.
 
Solo uno sposalizio che dal basso
irrompe dentro le finestre,
solo una canzone, solo un sogno,
solo un colombo azzurrognolo.
 
AUTUNNO.
 
Ho lasciato disperdersi i miei cari,
tutti i miei sono da tanto chissà dove,
e, nel cuore e nella natura, tutto
è pieno della solitudine di sempre.
 
Ed eccomi qui con te in questo capanno,
nel bosco senza nessuno e deserto.
Come nella canzone, i viottoli e i sentieri
già quasi li cancella l'erba.
 
Ora noi soli guardano
rattristati i muri di tronchi.
Non promettemmo di assaltare ostacoli,
poi periremo a viso aperto.
 
Ci sediamo all'una e ci alziamo alle tre,
io con un libro, tu con il ricamo,
e all'alba non ci accorgiamo
che abbiamo cessato di baciarci.
 
Più sfarzose e più sfrenate ancora
stormite, scrollatevi, foglie,
e con l'odierna angoscia fate
che trabocchi l'amaro calice di ieri.
 
Attaccamento, trasporto, fascino!
Disperdiamoci nello stormire di settembre!
Immergiti tutta nel fruscio dell'autunno!
Vieni meno o esci di senno!
 
Tu l'abito lasci andare, così,
come il bosco lascia le foglie,
quando cadi nell'abbraccio
con la vestaglia dal fiocco di seta.
 
Tu sei il bene d'un passo funesto,
quando vivere dà più nausea d'un male.
Ma la radice della bellezza è l'ardire,
e questo l'un verso l'altra ci attrae.
 
FIABA.
 
Al tempo dei tempi, una volta
in un paese di fiaba,
andava un cavaliere,
correva fra le bardane.
 
Alla battaglia correva,
e nella polvere della steppa
un buio bosco incontro
gli cresceva da lontano.
 
Un presentimento stringeva
senza tregua il suo cuore:
«Guardati dall'abbeveratoio
e stringi forte la sella.»
 
Non l'ascoltò il cavaliere
e a spron battuto
si librò d'impeto
su un'altura boscosa.
 
Svoltò a un tumulo,
entrò in una valle inaridita,
traversò una radura,
superò una montagna.
 
E s'inoltrò in un vallone,
e, per un sentiero del bosco,
risbucò sulla pista
delle belve all'abbeveratoio
 
E sordo all'avviso,
senza dar retta al suo istinto,
spinse il cavallo
ad abbeverarsi al torrente.
 
Sul torrente una grotta,
davanti alla grotta il guado.
Come una fiamma di zolfo
ne illuminava l'entrata.
 
E nel fumo purpureo
che impediva la vista,
il bosco risuonò
di un lontano richiamo.
 
E allora, trasalendo
insieme col burrone,
si slanciò il cavaliere
verso il grido che invocava.
 
E il cavaliere vide,
e infisse la lancia
nella testa del drago,
nella coda e nelle squame.
 
Dalle fauci fiammeggianti
un bagliore irraggiava,
avvolgendo nelle spire
con tre nodi una fanciulla.
 
Il collo del drago,
come l'estremità d'una frusta,
le s'attorcigliava alla gola
di sopra le spalle.
 
Era uso in quella landa,
offrire in olocausto
una bella prigioniera
al mostro della foresta.
 
Quel tributo riscattava
dal drago-serpente
gli abitanti del luogo
e le loro capanne.
 
Le stringeva le braccia,
le annodava la gola,
pago di quella vittima
da torturare a sua voglia.
 
Guardò il cielo il cavaliere,
in un'invocazione:
e per il combattimento
la lancia brandì.
 
Palpebre serrate.
Altezze. Nubi.
Acque. Guadi. Fiumi.
Anni e secoli.
 
Il cavaliere senza più elmo,
disarcionato in battaglia.
Il fido cavallo con lo zoccolo
calpesta il serpente.
 
Il cavallo e il cadavere del drago
accanto sulla sabbia.
Il cavaliere è svenuto,
la fanciulla è esanime.
 
Splendeva la volta del mezzogiorno,
tenero l'azzurro.
Chi è lei? Figlia d'uno zar?
Figlia della terra? Principessa?
 
Ora, per la felicità,
lagrime a tre torrenti,
ora l'anima in preda
al sogno e all'oblio.
 
Ora, un ritorno di forze,
ora, immobilità di vene
per il troppo sangue perduto
e lo sfinimento.
 
Ma il loro cuore batte.
Ora lei, lui ora,
si sforzano di svegliarsi,
ma ricadono nel sonno.
 
Palpebre serrate.
Altezze. Nubi.
Acque. Guadi. Fiumi.
Anni e secoli.
 
AGOSTO.
 
Come promesso, sempre di parola,
il sole è filtrato di prima mattina
con un'obliqua striscia di zafferano
dalla tendina sino al sofà.
 
Ha ricoperto di calda ocra
il bosco vicino, le case dei borgo,
il mio letto, l'umido cuscino
e l'orlo del muro dietro lo scaffale.
 
Ho ricordato allora la ragione
di quelle umide tracce sul cuscino.
In sogno, per darmi l'ultimo addio,
mi seguivate in corteo per il bosco.
 
Andavate in fila, da soli e a coppie,
e a un tratto qualcuno rammentò che oggi
era il sei agosto del vecchio calendario,
la Trasfigurazione dei Signore.
 
Di solito una luce senza fiamma
emana in questo giorno dal Tabor,
e l'autunno chiaro come un presagio
richiama a sé tutti gli sguardi.
 
E voi passaste per il minuto, misero,
nudo e trepido ontaneto,
fino al bosco del cimitero, rosso-zenzero,
infuocato come un pan pepato nel forno.
 
Con le cime degli alberi azzittite
il cielo posava a vicino importante,
e delle voci dei galli
a lungo riecheggiavano gli spazi.
 
Nel bosco in mezzo al cimitero, stava,
agrimensore ufficiale, la morte
guardando nel mio volto inanimato
per scavarmi una fossa secondo misura.
 
Fisicamente ognuno percepiva
accanto a sé una pacata voce;
era la mia preveggente voce d'un tempo,
ora immune dalla decomposizione:
 
«Addio, azzurro della Trasfigurazione,
e oro della seconda festa del Salvatore.
Mitiga con un'ultima carezza
di donna l'amarezza dell'ora fatale.
 
Addio, terribili anni.
Donna che hai gettato una sfida all'abisso
delle umiliazioni, separiamoci!
lo sono il campo della tua battaglia.
 
Addio, slancio appena accennato dell'ala,
libera ostinazione del volo,
e immagine del mondo rivelata nella parola,
e creazione e dono dei miracoli!»
 
NOTTE D'INVERNO.
 
Tormenta, tormenta su tutta la terra
fino agli ultimi confini.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
 
Come uno svolio di moscerini,
d'estate, su una fiamma,
così i fiocchi da fuori irrompevano
sul telaio della finestra.
 
La tormenta imprimeva sul vetro
circoli e frecce.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
 
Sul soffitto illuminato
si coricavano le ombre.
Incroci di braccia, incroci di gambe,
incrocio di destini.
 
E due scarpette cadevano
con un colpo sul pavimento,
e dal lume la cera a lagrime
gocciolava sull'abito.
 
E tutto in una caligine di neve
canuta e bianca si perdeva.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
 
Da un angolo sulla candela un alito,
e la febbre della tentazione
come un angelo alzava due ali
a forma di croce.
 
La tormenta durò tutto febbraio,
e ininterrottamente
una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
 
SEPARAZIONE.
 
Dalla soglia un uomo guarda,
non riconosce la casa.
La sua partenza fu come una fuga.
Su tutto tracce di devastazione.
 
Dovunque nelle stanze un caos.
Non s'accorge per le lacrime
della gravità dei disastro,
e per un'improvvisa emicrania.
 
Dal mattino ha nelle orecchie come un rumore.
P, proprio in sé, o sogna?
E perché sempre in mente gli torna
un pensiero continuo del mare?
 
Quando di là dalla brina alla finestra,
più non traspare il mondo di Dio,
doppiamente una disperata tristezza
somiglia al deserto dei mare.
 
Gli era così cara, lei,
in qualunque suo tratto,
come al mare son vicine le sponde
lungo la linea' della risacca.
 
Come affonda i giunchi
il mareggiare dopo la burrasca,
s'immersero così nel fondo della sua anima
quei lineamenti e le forme.
 
Negli anni delle traversie, nei tempi
di un'esistenza impensabile,
un'ondata del destino
gliel'aveva emersa dal fondo.
 
Fra ostacoli senza numero,
superando ogni insidia,
l'onda l'aveva sospinta, sospinta
e congiunta a lui strettamente.
 
Ed ecco, adesso è partita;
vi è stata costretta, forse.
Il distacco tutti e due consuma,
fino alle ossa l'angoscia li morde.
 
E l'uomo si guarda intorno:
al momento di partire
lei ha buttato tutto per aria
nei cassetti del comò.
 
Lui s'aggira e fin quando fa buio
ripone nei cassetti
le pezze di stoffa sparpagliate
e un modello di taglio.
 
E pungendosi con il cucito
a un ago dimenticato,
rivede a un tratto tutta lei,
e prende a piangere quasi di nascosto.
 
CONVEGNO.
 
La neve riempie le strade,
s'ammucchia sui tetti spioventi.
Uscendo a sgranchirmi le gambe,
io ti vedrò dalla porta:
 
sola nel paltò autunnale,
senza cappello e calosce,
che lotti col tuo turbamento
e mordi la neve alle labbra.
 
Gli alberi con gli steccati
s'allontanano nel buio.
Sola, sotto la nevicata,
là, all'angolo stai tu.
 
Dalla treccia ti scivola l'acqua
sulle maniche, dentro il risvolto.
E tra i capelli ti luccicano
goccioline di rugiada.
 
E c'è una ciocca bionda
che t'illumina il viso,
il "fichu" e la figura
e quel tuo paltoncino.
 
Neve acquosa sulle tue ciglia,
angoscia dentro i tuoi occhi,
e tutto il tuo aspetto è composto
come in un unico blocco.
 
Quasi che con un ferro
intinto nell'antimonio
t'avessero tracciata
a tratto sul mio cuore.
 
E lì, per sempre s'è incisa
la dolcezza di quelle linee,
ed ecco che non m'importa
che il mondo abbia un cuore di pietra.
 
Ed è così che si sdoppia
tutta questa notte di neve
e io non so tracciare un segno
di confine tra te e me.
 
Perché, chi siamo e di dove,
noi due già morti al mondo,
quando son solo le chiacchiere
quel che resta di questi anni?
 
LA STELLA DI NATALE.
 
Era pieno inverno.
Soffiava il vento dalla steppa.
E aveva freddo il neonato nella grotta
sul pendio della collina.
 
L'alito del bue lo riscaldava.
Animali domestici
stavano nella grotta,
sulla culla vagava un tiepido vapore.
 
Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio
e i grani di miglio,
dalle rupi guardavano
assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte.
 
Lontano, la pianura sotto la neve, e il cimitero
e recinti e pietre tombali
e stanghe di carri confitte nella neve,
e sul cimitero il cielo tutto stellato.
 
E lì accanto, mai vista sino allora,
più modesta d'un lucignolo
alla finestrella d'un capanno,
traluceva una stella sulla strada di Betlemme.
 
Bruciava come un pagliaio, in disparte
dal cielo e da Dio,
come il riverbero d'un incendio,
come una fattoria a fuoco e le fiamme in un granaio.
 
Si levava come un'infiammata bica
di paglia e di fieno
in mezzo a tutto l'universo
inquieto per quella nuova stella.
 
Un sempre più acceso bagliore rosseggiava
su di lei, intenso di presagio,
e accorrevano tre astrologi
all'appello dei fuochi sconosciuti.
 
Li seguivano cammelli che portavano doni.
E asinelli bardati, uno più piccolo
dell'altro, a passettini calavano dal monte.
E, in una strana visione dei tempi venturi,
appariva in lontananza ogni cosa che poi avvenne.
Tutti i pensieri dei secoli, tutti i sogni, i mondi,
tutto il futuro delle gallerie e dei musei,
tutti gli scherzi delle fate, tutte le opere dei maghi,
tutti gli alberi di Natale al mondo, tutti i sogni dei bambini.
 
Tutto il tremolio delle candele accese, tutti i festoni,
tutta la magnificenza del variopinto luccichio...
... sempre più aspro e furioso soffiava il vento della steppa...
... tutte le mele e i globi dorati...
 
Una parte dello stagno era dietro gli ontani,
ma l'altra anche di là si scorgeva,
oltre i nidi dei corvi e le cime degli alberi.
E potevano distinguere i pastori
gli asini e i cammelli lungo l'argine.
«Andiamo anche noi, inchiniamoci al prodigio,»
dissero legandosi le pelli.
 
Camminare nella neve li aveva riscaldati.
Tracce di piedi nudi, come fogli di mica,
guidavano alla capanna per la pianura luminosa.
Contro quelle tracce, come alla fiamma d'un moccolo,
ringhiavano i cani alla luce della stella.
 
La notte di gelo somigliava a una fiaba:
dai monti nevosi, lungo tutto il cammino
scendeva, invisibile, qualcuno fra loro.
I cani esitavano, guardavano inquieti
e, in paurosa attesa, si stringevano ai pastori.
 
Per quella stessa via, per le stesse contrade
degli angeli andavano, mescolati alla folla.
L'incorporeità li rendeva invisibili,
ma a ogni passo lasciavano l'impronta d'un piede.
 
Una folla di popolo si accalcava presso la rupe.
Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri.
E a loro, «chi siete?» domandò Maria.
«Noi, stirpe dì pastori e inviati del cielo,
siamo venuti a cantare lodi a voi due.»
«Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia.»
 
Nella foschia di cenere, che precede il mattino,
battevano i piedi mulattieri e allevatori.
Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo;
e accanto al tronco cavo dell'abbeveratoio,
mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini.
 
Albeggiava. Dalla volta celeste l'alba spazzava,
come granelli di cenere, le ultime stelle.
E della innumerevole folla solo i Magi
Maria lasciò entrare nell'apertura rocciosa.
 
Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia,
come un raggio di luna dietro un albero cavo.
Invece di calde pelli di pecora,
le labbra d'un asino e le nari d'un bue.
 
I Magi, nell'ombra, in quel buio di stalla,
sussurravano, trovando a stento le parole.
A un tratto qualcuno, nell'oscurità,
con la mano scostò un poco a sinistra
dalla mangiatoia uno dei tre Magi;
e quello si voltò: sulla soglia, come in visita,
alla vergine guardava la stella di Natale.
 
L'ALBA.
 
Tutto significavi tu nel mio destino.
Poi venne la guerra, lo sfacelo,
e per tanto, tanto tempo, di te
non una notizia, non una parola.
 
E dopo tanti, tanti anni
di nuovo la tua voce mi ha turbato.
Tutta la notte ho letto il tuo messaggio
riprendendomi come da un deliquio.
 
Ho voglia d'andare fra la gente, nella folla,
fra la loro animazione mattutina.
Sono pronto a mandare tutto in schegge
e a mettere tutti in ginocchio.
 
E corro giù per la scala,
come se uscissi per la prima volta
su queste strade di neve,
sul lastrico deserto.
 
Dovunque ci si alza, luci e intimità,
e chi prende il tè, chi s'affretta ai tram:
bastano pochi minuti
e la città ha tutto un altro volto.
 
Nei portoni la tormenta tesse
una rete di fiocchi fitti fitti,
e per fare in tempo tutti corrono,
senza finir di bere e di mangiare.
 
Io per loro, per tutti sento
come se fossi nella loro pelle,
anch'io mi sciolgo come si scioglie la neve,
anch'io come il mattino aggrotto le ciglia.
 
E' come me gente senza nome,
alberi, bambini, persone casalinghe.
'''Da loro tutti io sono vinto,
e solo in questo è la mia vittoria.'''
 
degli angeli andavano, mescolati alla folla.L'incorporeità li rendeva invisibili,ma a ogni passo lasciavano l'impronta d'un piede.Una folla di popolo si accalcava presso la rupe.Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri.E a loro, «chi siete?» domandò Maria.«Noi, stirpe dì pastori e inviati del cielo,siamo venuti a cantare lodi a voi due.»«Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia.»Nella foschia di cenere, che precede il mattino,battevano i piedi mulattieri e allevatori.Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo;e accanto al tronco cavo dell'abbeveratoio,mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini,Albeggiava. Dalla volta celeste l'alba spazzava,come granelli di cenere, le ultime stelle.E della innumerevole folla solo i MagiMaria lasciò entrare nell'apertura rocciosa.Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia,come un raggio di luna dietro un albero cavo.Invece di calde pelli di pecora,le labbra d'un asino e le nari d'un bue.I Magi, nell'ombra, in quel buio di stalla,sussurravano, trovando a stento le parole.A un tratto qualcuno, nell'oscurità,con la mano scostò un poco a sinistradalla mangiatoia uno dei tre Magi;e quello si voltò: sulla soglia, come in visita,alla vergine guardava la stella di Natale.L'ALBA.Tutto significavi tu nel mio destino.Poi venne la guerra, lo sfacelo,e per tanto, tanto tempo, di tenon una notizia, non una parola.E dopo tanti, tanti annidi nuovo la tua voce mi ha turbato.
Tutta la notte ho letto il tuo messaggioriprendendomi come da un deliquio.Ho voglia d'andare fra la gente, nella folla,fra la loro animazione mattutina.Sono pronto a mandare tutto in scheggee a mettere tutti in ginocchio.E corro giù per la scala,come se uscissi per la prima voltasu queste strade di neve,sul lastrico deserto.Dovunque ci si alza, luci e intimità,e chi prende il tè, chi s'affretta ai tram:bastano pochi minutie la città ha tutto un altro volto.Nei portoni la tormenta tesseuna rete di fiocchi fitti fitti,e per fare in tempo tutti corrono,senza finir di bere e di mangiare.Io per loro, per tutti sentocome se fossi nella loro pelle,anch'io mi sciolgo come si scioglie la neve,anch'io come il mattino aggrotto le ciglia.E' come me gente senza nome,alberi, bambini, persone casalinghe.Da loro tutti io sono vinto,e solo in questo è la mia vittoria.
MIRACOLO
 
Andava da Betania a Gerusalemme,oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.Sull'erta, un cespuglio riarso;fermo, lì su una capanna, il fumo,e l'aria infocata e immobili i giunchie assoluta la calma del Mar Morto.E, in un'amarezza più forte di quella del mare,andava con una piccola schiera di nuvole
Andava da Betania a Gerusalemme,
per la strada polverosa verso un qualche alloggio,in città, a una riunione di discepoli.E così immerso nelle sue riflessioni,che il campo per la melanconia prese a odorare d'assenzio.Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.E la contrada giaceva inerte in un deliquio.Tutto si confondeva: il calore e il deserto,e le lucertole e le fonti e i torrenti.Un fico si ergeva lì dappressosenza neppure un frutto, solo rami e foglie.E lui gli disse: «A cosa servi?Che gioia m'offre la tua aridità?Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,e l'incontro con te è più squallido che col granito.Come è offensiva la tua sterilità!Resta così, dunque, sino alla fine degli anni.»Per il legno passò il fremito della maledizionecome la scintilla del lampo nel parafulmine.E il fico divenne cenere all'istante.Avessero avuto allora un attimo di libertàle foglie, i rami, le radici e il tronco,le leggi della natura sarebbero forse intervenute,Ma un miracolo è un miracolo e il miracolo è dio.Quando siamo smarriti, allora, in preda alla confusione,istantaneo ci coglie alla sprovvista.LA TERRA.Nelle palazzine di Moscairrompe d'impeto la primavera.Svolazzano via le tarme dall'armadioe strisciano sui cappelli estivi,mentre si ripongono le pellicce nei bauli.Lungo i mezzanini di legnovengono esposti vasi di fioricon violacciocche d'ogni colore,e le stanze respirano aria aperta,e sanno di polvere le soffitte.
oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.
La via è in rapporti molto familiaricon quella finestra mezzo cieca,e la notte bianca e il tramontonon riescono a incontrarsi presso il fiume.E si può udire nel corridoiociò che succede nella vastità,di cosa aprile discorracon la goccia in casuale colloquio:lui conosce mille storiea proposito di pene umane.E sugli steccati continuano a gelarele luci dell'aurora e del crepuscolo,con l'aria di tirarla ancora in lungo.Ed è un eguale misto di fuoco e di sgomentoall'aperto e nell'intimo delle dimore.E dappertutto l'aria non è più se stessa.Così i trasparenti rami dei salici,così i turgori delle bianche gemme,sia alla finestra che al crocevia,per la strada e nell'officina.Perché mai piange lo spazio in una brumae ha un odore amaro la terra?Proprio in questo è la mia vocazione,che non immalinconiscano gli spazi,che oltre l'ultima periferianon soffra in solitudine la terra.Per questo, appena è primavera,gli amici si raccolgono da me,e le nostre serate sono commiati,i nostri festini ultime volontà:perché la segreta corrente del doloreriscaldi il freddo dell'esistenza.GIORNI CATTIVI.Quando nell'ultima settimanalui entrò a Gerusalemme,gli osanna gli risuonavano incontro,dietro gli correva la gente con rami di palma.
Sull'erta, un cespuglio riarso;
Ma poi, giorni sempre più cupi e crudeli,quando i cuori sono sordi all'amore,il disprezzo solleva i sopraccigli,ed ecco ch'è l'epilogo, la fine.Con tutta la sua pesantezza di piomboil cielo si schiacciava sulle strade.I farisei cercavano le provestrisciandogli dinanzi come volpi.E dalle oscure forze del tempiofu dato in giudizio alla feccia:con l'ardore con cui prima lo esaltavano,maledizioni gli lanciavano adesso.Quelli dei quartieri intornosbirciavano oltre i cancelli;s'accalcavano spingendosi a ondate,attendendo la conclusione.E, bisbigliate, corsero vocinel vicinato e in molte altre parti.E la fuga in Egitto e l'infanziagià ricordavano come in un sogno.Ricordavano il pendio maestosodel deserto e il dirupo da doveSatana lo tentò con l'offertadell'impero dell'universo.E il banchetto di nozze a Cana,e la tavola stupita del miracolo,e il mare su cui camminandotra la nebbia raggiunse la barca.E la ressa dei poveri nel tugurio,e la discesa con la candela nel sotterraneo,che a un tratto s'era spenta atterritaquando il resuscitato si levò...
fermo, lì su una capanna, il fumo,
MADDALENA.1E' appena notte ed ecco qui il mio demone,l'espiazione per il mio passato.Vengono e mi mordono il cuorei ricordi della dissolutezza,quando, schiava dei capricci maschili,ero una stolida ossessae la strada era il mio asilo.Rimangono pochi minuti,poi verrà un silenzio di sepolcro.Ma prima che i minuti trascorrano,la mia vita, arrivata all'orlo,come un vaso d'alabastroinfrango dinanzi a te.Oh, dove mai sarei adesso,Maestro mio e mio Salvatore,se durante le notti accanto al tavolonon mi aspettasse l'eternità,come un nuovo cliente, adescatoda me nella rete del mestiere.Ma di' cosa vuol dire peccatoe morte e inferno, e fiamma e zolfo,quando sotto gli occhi di tutti,con te, come un pollone a un tronco,mi sono congiunta nella mia angoscia senza fine.Quando, Gesù, poggiatii tuoi piedi alle mie ginocchia,apprendo forse ad abbracciarela trave quadrangolare della crocee, nello smarrimento dei sensi, sul tuo corpomi precipito preparandoti al seppellimento.MADDALENA.2Prima delle feste la gente fa le pulizie.In disparte da tutto il tramestio,
e l'aria infocata e immobili i giunchi
e assoluta la calma del Mar Morto.
 
E, in un'amarezza più forte di quella del mare,
andava con una piccola schiera di nuvole
per la strada polverosa verso un qualche alloggio,
in città, a una riunione di discepoli.
 
E così immerso nelle sue riflessioni,
che il campo per la melanconia prese a odorare d'assenzio.
Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.
E la contrada giaceva inerte in un deliquio.
Tutto si confondeva: il calore e il deserto,
e le lucertole e le fonti e i torrenti.
 
[[Un fico secco|Un fico]] si ergeva lì dappresso
senza neppure un frutto, solo rami e foglie.
E lui gli disse: «A cosa servi?
Che gioia m'offre la tua aridità?
 
Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,
e l'incontro con te è più squallido che col granito.
Come è offensiva la tua sterilità!
Resta così, dunque, sino alla fine degli anni.»
Per il legno passò il fremito della maledizione
come la scintilla del lampo nel parafulmine.
E il fico divenne cenere all'istante.<ref>Cfr. il Wikibook: ''[[Un fico secco]]'', 2020.</ref>
 
Avessero avuto allora un attimo di libertà
le foglie, i rami, le radici e il tronco,
le leggi della natura sarebbero forse intervenute,
Ma un miracolo è un miracolo e il miracolo è dio.
Quando siamo smarriti, allora, in preda alla confusione,
istantaneo ci coglie alla sprovvista.
 
LA TERRA
 
Nelle palazzine di Mosca
irrompe d'impeto la primavera.
Svolazzano via le tarme dall'armadio
e strisciano sui cappelli estivi,
mentre si ripongono le pellicce nei bauli.
 
Lungo i mezzanini di legno
vengono esposti vasi di fiori
con violacciocche d'ogni colore,
e le stanze respirano aria aperta,
e sanno di polvere le soffitte.
 
La via è in rapporti molto familiari
con quella finestra mezzo cieca,
e la notte bianca e il tramonto
non riescono a incontrarsi presso il fiume.
 
E si può udire nel corridoio
ciò che succede nella vastità,
di cosa aprile discorra
con la goccia in casuale colloquio:
lui conosce mille storie
a proposito di pene umane.
E sugli steccati continuano a gelare
le luci dell'aurora e del crepuscolo,
con l'aria di tirarla ancora in lungo.
 
Ed è un eguale misto di fuoco e di sgomento
all'aperto e nell'intimo delle dimore.
E dappertutto l'aria non è più se stessa.
Così i trasparenti rami dei salici,
così i turgori delle bianche gemme,
sia alla finestra che al crocevia,
per la strada e nell'officina.
 
Perché mai piange lo spazio in una bruma
e ha un odore amaro la terra?
Proprio in questo è la mia vocazione,
che non immalinconiscano gli spazi,
che oltre l'ultima periferia
non soffra in solitudine la terra.
 
Per questo, appena è primavera,
gli amici si raccolgono da me,
e le nostre serate sono commiati,
i nostri festini ultime volontà:
perché la segreta corrente del dolore
riscaldi il freddo dell'esistenza.
 
GIORNI CATTIVI
 
Quando nell'ultima settimana
lui entrò a Gerusalemme,
gli osanna gli risuonavano incontro,
dietro gli correva la gente con rami di palma.
 
Ma poi, giorni sempre più cupi e crudeli,
quando i cuori sono sordi all'amore,
il disprezzo solleva i sopraccigli,
ed ecco ch'è l'epilogo, la fine.
 
Con tutta la sua pesantezza di piombo
il cielo si schiacciava sulle strade.
I farisei cercavano le proves
trisciandogli dinanzi come volpi.
 
E dalle oscure forze del tempio
fu dato in giudizio alla feccia:
con l'ardore con cui prima lo esaltavano,
maledizioni gli lanciavano adesso.
 
Quelli dei quartieri intorno
sbirciavano oltre i cancelli;
s'accalcavano spingendosi a ondate,
attendendo la conclusione.
 
E, bisbigliate, corsero voci
nel vicinato e in molte altre parti.
E la fuga in Egitto e l'infanzia
già ricordavano come in un sogno.
 
Ricordavano il pendio maestoso
del deserto e il dirupo da dove
Satana lo tentò con l'offerta
dell'impero dell'universo.
 
E il banchetto di nozze a Cana,
e la tavola stupita del miracolo,
e il mare su cui camminando
tra la nebbia raggiunse la barca.
 
E la ressa dei poveri nel tugurio,
e la discesa con la candela nel sotterraneo,
che a un tratto s'era spenta atterritaquando il resuscitato si levò...
 
MADDALENA
 
1
E' appena notte ed ecco qui il mio demone,l'espiazione per il mio passato.Vengono e mi mordono il cuorei ricordi della dissolutezza,quando, schiava dei capricci maschili,ero una stolida ossessae la strada era il mio asilo.Rimangono pochi minuti,poi verrà un silenzio di sepolcro.Ma prima che i minuti trascorrano,la mia vita, arrivata all'orlo,come un vaso d'alabastroinfrango dinanzi a te.Oh, dove mai sarei adesso,Maestro mio e mio Salvatore,se durante le notti accanto al tavolonon mi aspettasse l'eternità,come un nuovo cliente, adescatoda me nella rete del mestiere.Ma di' cosa vuol dire peccatoe morte e inferno, e fiamma e zolfo,quando sotto gli occhi di tutti,con te, come un pollone a un tronco,mi sono congiunta nella mia angoscia senza fine.Quando, Gesù, poggiatii tuoi piedi alle mie ginocchia,apprendo forse ad abbracciarela trave quadrangolare della crocee, nello smarrimento dei sensi, sul tuo corpomi precipito preparandoti al seppellimento.MADDALENA.2Prima delle feste la gente fa le pulizie.In disparte da tutto il tramestio,
io lavo con l'unguento dell'anforai tuoi purissimi piedi.Cerco e non trovo più i sandali.Non vedo nulla per le lagrime.Sugli occhi in un velo mi sono ricadutele ciocche dei capelli disciolti.Sul lembo della sottana ho posto i tuoi piedi,li ho bagnati di lagrime, Gesù,ho intrecciato intorno a loro il filo di perle,nei capelli li ho nascosti come in un burnus.Vedo il futuro così nitidamentecome se tu l'avessi fermato.Mi sento adesso di presagirecon fatidica chiaroveggenza di sibilla.Domani cadrà la tenda nel tempio;noi ci raccoglieremo tutti insieme, in disparte,e vacillerà la terra sotto i piedimossa forse a pietà di me.Si ricomporranno le file della scorta,e cominceranno a muoversi i cavalieri.Come tromba d'aria, sopra la testaverso i cieli si tenderà questa croce.Mi getterò ai piedi della crocifissione,mi gelerà il cuore, mi morderò le labbra.Per un troppo grande amplesso le bracciatu allargherai alle estremità della croce.Per chi al mondo tanta ampiezza,tanto tormento e così grande forza?Tante anime e vite sono al mondo?Tanti i luoghi abitati e i fiumi e i boschi?Ma trascorreranno tre giorni talie apriranno un cosi grande vuoto,che in questo terribile frattempoavrò raggiunto la massima pienezzaper il momento della resurrezione.
L'ORTO DEL GETSEMANI.Lo scintillio di lontane stelle un'indifferenteluce gettava alla curva della strada.La strada aggirava il Monte degli Ulivi,giù, sotto di lei, scorreva il Cedron.A metà strada la radura era interrotta.Dietro cominciava la Via Lattea.Canuti, argentei ulivi tentavanonell'aria passi verso la lontananza.In fondo, c'era un orto, un podere.Lasciati i discepoli di là dal muro,disse loro: «L'anima è triste fino alla morte,rimanete qui e vegliate con me.»E rinunciò senza resistenza,come a cose ricevute in prestito,all'onnipotenza e al dono dei miracoli,e fu allora come un mortale, come noi.Le distanze della notte ora parevanola landa dell'annichilimento e dell'inesistenza.La distesa dell'universo disabitata,e solo l'orto un luogo capace di vita.E guardando quei neri sprofondi,vuoti, senza principio né fine,perché quel calice di morte via da lui passassein un sudore di sangue pregò il padre suo.Lenito dalla preghiera lo spasimo mortale,tornò di là dalla siepe. Per terrai discepoli, vinti dal sonno,giacevano nell'erba sul ciglio della strada.Li destò: «Il Signore vi ha scelti a viverenei miei giorni, ed eccovi crollati come massi.L'ora del figlio dell'uomo è venuta.Egli si darà in mano ai peccatori.»E aveva appena parlato che, chissà da dove,ecco una folla di servi, una torma di vagabondi,torce e spade e, davanti a tutti, Giuda