Ceramica a Pisa/Vasai attivi in città: differenze tra le versioni

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Le cause di questo drastico decremento vanno ricercate nella riconquista pisana e nella fondazione della Seconda Repubblica (1495 -
1509) perché in questo periodo si assiste ad un crollo dei commerci.
Una timida ripresa si ha nei primi tre decenni del Cinquecento quando, a seguito degli incentivi fiscali promossi dopo la riconquista medicea volti a risollevare l'economia, arrivanoarrivarono a Pisa quattro nuovi ceramisti dal contado pisano e fiorentino<ref>Clemente 2017, p. 141. (Per quanto segue si veda Alberti - Giorgio 2013, p. 19) Una nuova crescita della popolazione pisana si avràebbe nei quattro decenni successivi alla riconquista fiorentina, arrivando a quasi 10.000 unità entro la metà del Cinquecento (Fasano Guarini 1991, p. 17).</ref>.
Le nuove famiglie di ceramisti sono i Paiti (o Paichi), i Da Sanminiatello e i Petri, mentre altre famiglie sono presenti in città già nel secolo precedente quali gli Arrighetti, i Berto, i Borghesi e i Lupo<ref>Clemente 2017, pp. 141-142; Alberti - Giorgio 2013, p. 34.</ref>.
 
==== Ceramisti e fornaci nella Pisa del XVI secolo ====
[[File:Ceramisti e fornaci pisani nel XVI secolo.jpg|thumb|I ceramisti pisani, le fornaci e le discariche nel XVI secolo.]]
 
I ceramisti attivi nel XVI secolo sono 82<ref>Clemente 2017, p. 141</ref>. Una concentrazione di ceramisti abbastanza alta si registra nelle cappelle di San Giovanni al Gatano e di San Paolo a Ripa d’Arno, ma vi è un numero altrettanto importante che dimoradimorava tra le cappelle di San Niccolò, San Donato, Sant’Eufrasia, San Iacopo degli Speronai e San Giorgio in prossimità del Ponte Nuovo.<ref>Clemente 2017, p. 142; Alberti - Giorgio 2013, pp. 34-36.</ref>.
La zona di San Marco in Chinzica, che prima ospitava diversi vasai, fu gradualmente abbandonata. Gli unici che abitanoabitavano e lavoranolavoravano in quest’area agli inizi del secolo appartengonoappartenevano tutti agli Arrighetti, ma nel corso del secondo quarto del XVI secolo anche loro si spostanospostarono verso la cappella di San Donato. Presso la cappella di San Pietro a Ischia, oggi nella zona di via Sant'Apollonia, spiccaspiccava la presenza dei Payti (o Paichi)<ref>Clemente 2017, p. 142; Alberti - Giorgio 2013, pp. 34-36.</ref>.
Con il passare del tempo i ceramisti si spostano dalla zona del Ponte Nuovo per ripopolare la cappella di San Vito, Santa Lucia e a sud dell'Arno a San Casciano. Alla fine del Cinquecento un'altra area produttiva si stabiliscestabilì nella cappella di Santa Marta<ref>Clemente 2017, p. 142; Alberti - Giorgio 2013, pp. 34-36.</ref>.
 
Una L'unica società risalente agli ultimi anni di questo secolo èera quella formata tra il ceramista Antonio di Bartolomeo Cappucci e Giustino di Casteldurante, pittore di maioliche<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 38; Fanucci Lovitch 1991, pp. 19-163.</ref>.
 
Le fonti scritte permettono di localizzare cinque fornaci del Cinquecento: una era situata vicino a Porta a Piagge in via delle Concette, due invece si trovavano in via Sapienza e appartevano alla famiglia Bitozzi<ref>Alberti - Stiaffini 1995; Alberti - Giorgio 2013, pp. 20, 36, 151-157, 179, 237.</ref>. Un'altra era posta nella cappella di San Paolo a Ripa d’Arno, in prossimità di Porta a Mare mentre l'ultima sorgeva nell'attuale Piazza Mazzini<ref>Clemente 2017, p. 142; Alberti - Giorgio 2013, p. 21.</ref>.
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[[File:Scodella - ingobbiata marmorizzata (scarto di prima cottura), XVII secolo (manifattura Bitozzi, via Sapienza, Pisa) - Museo nazionale di San Matteo.jpg|thumb|Scodella, ingobbiata marmorizzata (scarto di prima cottura - XVII secolo) - manifattura Bitozzi.]]
 
La collocazione centrale della fornace di via Sapienza è sicuramente curiosa in quanto si trovatrovava in un'area molto popolata.
La scelta di impiantare una fornace da ceramica in quel luogo può spiegarsi con la vicinanza al fiume che era certamente sfruttato come via di trasporto per le materie prime necessarie alla lavorazione e per i prodotti sfornati da immettere nel mercato. In generale, le fornaci sonoerano poste ai confini delle zone urbanizzate o in aree nettamente suburbane. Per le fornaci più centrali si può ipotizzare che esse fossero dedite ad una piccola produzione e che quindi necessitavano di poco spazio.
Probabilmente, a seguito degli scontri con Firenze e con un conseguente calo demografico l'espansione urbanistica che aveva interessato Pisa fino all'inizio del XV secolo subiscesubì una forte contrazione insieme all’abbandono di diverse unità abitative. Ciò ha portatoportatò i ceramisti ad operare in aree più centrali ma non densamente abitate, di modo da essere più vicini alle zone dei mercati e contemporaneamente non lontani dalle zone di approvvigionamento di argilla<ref>Alberti - Giorgio 2013, pp. 23, 36; Tongiorgi 1979, p. 17.</ref>.
 
Ben documentate sono le notizie relative ad una famiglia in particolare, i Bitozzi (originari di Ponte a Signa), che sono stati protagonisti della scena ceramica pisana coinvolgendo tre generazioni. Il primo Bitozzi, Leonardo (1552 ca. - 1615 ca.), arrivato a Pisa già dal 1578 vi trasferiscetrasferì la sua attività di scalpellino. Solo dopo il suo arrivo in città iniziainiziò la vendita e poi la produzione di vasi<ref>Alberti - Giorgio 2013, pp. 153-154 (ricerca di Daniela Stiaffini).</ref>.
 
Ebbe tre figli: Sebastiano (detto Bastiano), Domenico e Antonio che seguirono le orme paterne diventando scalpellini.
Fu un personaggio piuttosto noto nella Pisa della seconda metà del XVI secolo in quanto poco affidabile nel lavoro. Si trovatrovò spesso chiamato in causa dai suoi committenti e dai suoi collaboratori. Ad esempio, nel 1579 Giulio de’ Medici, figlio naturale del duca Alessandro de’ Medici e cavaliere dell’ordine di Santo Stefano, commissionò a Leonardo Bitozzi la fornitura di tutte le pietre lavorate per la decorazione della facciata della villa che stava costruendo ad Arena, località prossima a Pisa. Lo scalpellino allora consegnò in ritardo il materiale cosicché il duca lo citò in giudizio <ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 161/nota 22.</ref>. Nonostante ciò il Bitozzi godeva di una situazione economica importante. La sua può essere considerata una figura imprenditoriale in quanto egli molto probabilmente investiva denaro e mezzi di lavoro accordandosi con altri vasai che da parte loro fornivano l'arte. Ad esempio, nel 1587 è nota la società con Paolo di Pietro per la vendita di maioliche di Montelupo e orci da olio<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 162.</ref>; nel 1593 il Bitozzi cerca di ottenere a livello un fondo per introdurre a Pisa, in società con Niccolò Sisti, la produzione di maioliche faentine<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 163. Non si sa con esattezza se il Bitozzi conoscesse di persona il Sisti, ma è sicuro che egli mandò una supplica al Granducato affinché fosse finanziato per tale impresa</ref>; risale agli inizi del Seicento l’accordo con Maestro Filippo del fu Giovanni Garaccini da Forlì per gestire una bottega di maiolica<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 165.</ref>.
Sebastiano Bitozzi succedette al padre, lavorando anche lui dapprima come scalpellino poi come stovigliaio, ampliando l'impresa famigliare prendendo a livello nuovi lotti per l'attività e continuando a produrre ceramica fino al 1651. Dopo di lui gestirono l'attività i figli che la mantennero fino al 1661<ref>Alberti - Giorgio 2013, pp. 165-167</ref>.
 
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Analisi archeometriche<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 23. Le analisi archeometriche sui manufatti ceramici attribuiti al XVI secolo sono esposte in a p. 239, a cura di Claudio Capelli.</ref> hanno permesso di stabilire che l'argilla usata per creare i manufatti ceramici veniva cavata dai depositi alluvionali del fiume Arno, in zone prossime alle sponde. I documenti citano cave di argilla nelle cappelle di San Marco, di San Giovanni al Gatano e San Michele degli Scalzi.
 
Un cambiamento nei luoghi di approvvigionamento potrebbe essere avvenuto dopo la metà del Cinquecento quando il governo mediceo vietò il prelievo dell’argilla nelle vicinanze delle mura cittadine e nel centro urbano<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 24; Berti 2005, p. 143. Le analisi archeometriche sono state ancora condotte da Claudio Capelli sugli scarti ceramici di Villa Quercioli e di Via Sapienza e hanno dimostrato che alcune terre furono cavate probabilmente nella piana del Serchio.</ref>.
 
Probabilmente come combustibile per le fornaci in parte veniva usata ancora la paglia, raccolta nelle zone paludose caratteristiche delle campagne pisane. Dalle fonti scritte si evince che alcuni terreni in località Sangineto e San Piero a Grado, già citati nel XIII secolo, sono ancora di proprietà di alcuni ceramisti pisani negli anni ‘50 e ‘70 del XVI secolo<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 36; Berti - Renzi Rizzo 1997, pp. 497 - 498.</ref>.
 
Era invece più complicato il rifornimento di legna. Intorno alla metà del XVI secolo, alcuni provvedimenti dell’amministrazione civile vietarono il taglio degli alberi senza uno specifico permesso delle autorità<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 36 - Archivio di Stato di Pisa, Fiume e Fossi, f. 98, cc. 111 r., 132 v. - 133 r. AAd esempio il vasaio Domenico di Bartolomeo da Samminiatello è costretto a chiedere un permesso all’Ufficio dei Fiumi e dei Fossi per poter tagliare alcuni alberi in un suo terreno.</ref>.
Questa regolamentazione era molto severa e puntuale nelle sanzioni, come dimostra una multa inflitta allo stovigliaio Bartolomeo di Cesare del Turchino che venne sorpreso trasportare legna raccolta senza autorizzazione<ref>Alberti - Giorgio 2013, p. 36-37 - Archivio di Stato di Pisa, Fiumi e Fossi, f. 14, cc. 95 v., - 96 r.; Berti 2005, p. 143.</ref>.