Ceramica a Pisa/Tecniche di produzione ceramica adottate a Pisa: differenze tra le versioni

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Il secondo trattato è quello che Cipriano Piccolpasso scrisse nei primi anni della seconda metà del Cinquecento. In esso sono presenti precise indicazioni per la preparazione delle vetrine piombifere e degli smalti stanniferi. Piccolpasso non si limita soltanto ad indicare le giuste proporzioni necessarie alla creazione delle coperture vetrose ma, ad esempio, descrive il modo di stendere le miscele sui recipienti che già hanno subito la prima cottura<ref>Berti - Renzi Rizzo 1997, p. 67; Conti 1976, pp.115 - 116, 141 - 145, 177 - 180: <small>({{cita libro|cognome=Piccolpasso|nome=Cipriano|titolo=I tre libri dell'arte del vasajo: nei quali si tratta non solo la pratica, ma brevemente tutti i secreti di essa cosa che persino al di d'oggi è stata sempre tenuta nascosta, del cav. Cipriano Piccolpasso Durantino|città=Roma|editore=dallo Stabilimento tipografico|anno=1857}})</small>.</ref>.
 
Una volta ricoperte con lo smalto e la vetrina per immersione o aspersione (le sostanze vetrificanti erano disciolte in una miscela acquosa), le ceramiche, ad eccezione delle monocrome, potevano essere ornate con disegni di vario genere, per essere poi poste di nuovo nei forni per una seconda cottura<ref>La doppia cottura era una prassi conosciuta e adottata per varie categorie di ceramiche in numerosi paesi. Gli esempi a conferma sono molti: per quanto concerne le produzioni islamiche medio-orientali la doppia cottura è attestata a Samarcanda fino dal X secolo, si veda: Samarcande 1992, pp. 35, 77/21. A Palermo, ad Agrigento e in altri siti siciliani, sono stati trovati manufatti della seconda metà del X, dell’XI e del XII secolo che hanno subito la doppia cottura (si rimanda a D’Angelo 1984; Fiorilla 1990, p. 31-34. Le ceramiche rinvenute ad Agrigento sono esposte al Museo di Caltagirone).
A Maiorca queste ceramiche sono state trovate tra i materiali risalenti al XI secolo presso il Testar Desbrull (Rossello Bordoy 1978, p. 321/4201, 4209).</ref> che doveva consentire la vetrificazione con il conseguente fissaggio di colori ed eventuali ornamenti. I recipienti aperti, venivano impilati, separati l’uno dall'altro per mezzo di distanziatori costituiti da tre estremità equidistanti, detti “zampe di gallo”. Il loro impiego è testimoniato dal recupero degli stessi fra gli scarti delle fornaci, ma è provato anche dalle tracce lasciate quasi sempre dai tre piedini nell'area centrale dei vasi o dalla loro fusione con il pezzo ceramico qualora la temperatura di cottura fosse troppo elevata<ref>Berti - Renzi Rizzo 1997, p. 68.</ref>.