Agape: la nozione di "amore" nel cristianesimo: differenze tra le versioni

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<small>Altra pratica di pasto in comune precedente all<nowiki>'</nowiki>''agape'' cristiana è il "Simposio", prima diffuso in Grecia e poi per tutto l'Impero romano.</small>]]
[[File:Banchetto (Museo archeologico nazionale di Egnazia).JPG|thumb|400px|right|<small>"Il banchetto". Scultura rinvenuta nella tomba a camera detta del "Banchetto" nel 1978 a Egnazia, in Puglia. Conservata al Museo archeologico nazionale di Egnazia. La tomba venne utilizzata dal IV al II secolo a.C. La scena illustrata è quella del "banchetto funerario" (περίδειπνον; ''perídeipnon''), successivo, insieme alle purificazioni, alla sepoltura.<br>
Il "simposio (συμπόσιον) era invece quel banchetto che seguiva, nella Grecia antica e nella Roma imperiale, la cena. I partecipanti indossavano ghirlande e dopo il canto di un inno si iniziava la bevuta di vino diluita con acqua e si avviavano i dialoghi, spesso seri, su argomenti filosofici o politici, e comunque eruditi. A volte di assisteva alla recitazione di poesie o a spettacoli di danza o di mimo accompagnati da una flautista. Il rito era coordinato dal "simposiarca" (συμποσιάρχης, ''symposiàrches''; a Roma ''rex convivii'').<br> Sulle differenze tra il ''simposio'' greco e l<nowiki>'</nowiki>''agape'' ebraico-cristiana, il grecista Domenico Musti osserva:</small> {{q|<small>Tra l’uso ebraico e quello greco del banchetto esistevano certo non poche differenze, a cominciare dalla rarità dell’uso del vino nel primo ambiente, eccezion fatta per le occasioni festive; ma notevoli restano le affinità, a cominciare dalla postura dei commensali, alla quale i Vangeli fanno costante riferimento col verbo ''anakéisthai'' (a cui si affianca ''anapíptein'') ''éis trápezan'', cioè "adagiarsi al tavolo", che è la forma evangelica per la posizione del commensale, che può significare solo lo "stare appoggiati al tavolo". E sono anche da considerare, in tema di analogie, la collocazione del commensale – che va dal posto più prestigioso, quello della ''protoklisía'', il primo letto accanto a quello del padrone, ai posti più lontani e perciò meno onorevoli – e il bere (alla spartana, si direbbe) "dalla stessa coppa", un atto che accentua l’aspetto comunitario della riunione, e, non da ultimo, la stessa lavanda dei piedi. Se il simposio è una convivialità di tipo individuale e – adottando una categoria sociologica forte – di carattere privato, ne consegue naturalmente che la bevuta comune, come tale, abbia un carattere individualistico. Vi partecipano infatti piccole e grandi individualità; ma il protagonista, che ha conosciuto nel convito una comunità e una gioia transeunti, è poi restituito alla sua solitudine. Sulla festosa notte del simposio platonico, "impregnata delle forze dionisiache della sessualità e del vino", come sottolinea lo Steiner, aleggia la tristezza perché, dopo la cena comune, il personaggio centrale è riconsegnato alla sua solitudine. Socrate si reimmette nel "mercato", nella ''agorà'', nella ''routine'' dei passi comuni e dei discorsi dell’uomo comune: non c’è misticismo, non c’è rivoluzione del tempo e del suo valore, si è ricondotti nelle braccia del tempo. Nel convito greco ciò è scontato, perché cosicosì è la vita; nel convito mistico è l’inizio di una redenzione, di una rivoluzione, un’esperienza e un cambiamento più radicali.</small> |Domenico Musti, ''Il simposio nel suo sviluppo storico'', Bari, Laterza, 2001}}]]
 
'''Àgape''' (dal latino tardo ''agăpe-ēs''; resa del greco ''ἀγάπη'', '''''agápē''''') è un termine che in lingua italiana possiede il significato di "amore", "affetto"<ref>Vocabolario Treccani.</ref> ma indica, in particolar modo, l'accezione cristiana del termine "amore"<ref>Alberto Nocentini, ''L'Etimologico''</ref>.
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===Utilizzo del termine ''agápē'' e il suo valore nel Nuovo Testamento===
{{nota|larghezza = 350px|contenuto=[[File:P52 recto.jpg|center|100px]]<div style="text-align:center">'''Il perdono: termine e nozione nella cultura classica, biblica e neotestamentaria'''</div><br> La nozione di "perdono" è presente nell'età classica e nella letteratura latina si riscontra, ad esempio, nei termini di ''clementia'', ''lenitas'', ''mansuetudo'' e ''misericordia''. Nel ''De Clementia'' di Seneca questa viene appellata come la virtù più "umana" in assoluto<ref>I, 3, 2 «Nullam ex omnibus virtutibus homini magis convenire, cum sit nulla humanior, constet necesse est».</ref>. D'altronde, nota Seneca, nessuno è esente da colpa, tanto meno coloro che giudicano, eppure colui che invoca il "perdono" difficilmente è in grado di riconoscerlo agli altri<ref>I, 6,2-4 «Quotus quisque ex quaesitoribus est, qui non ex ipsa ea lege teneatur, qua quaerit ? quotus quisque accusator vacat culpa ? Et nescio, an nemo ad dandam veniam difficilior sit, quam qui illam petere saepius meruit. Peccavimus omnes, alii gravia, alii leviora, alii ex destinata, alii forte impulsi aut aliena nequitia ablati ; alii in bonis consiliis parum fortiter stetimus et innocentiam inviti ac retinentes perdidimus ; nec deliquimus tantum, sed usque ad extremum aevi delinquemus. Etiam si quis tam bene iam purgavit animum, ut nihil obturbare eum amplius possit ac fallere, ad innocentiam tamen peccando pervenit.»</ref>. Inserendo la nozione della "clemenza" all'interno della scuola stoica, Seneca la differenzia dalle nozioni di "misericordia" e "perdono" in quanto sentimenti propri di chi non guardando il contesto dei fatti si limita a vivere il dolore degli sfortunati, perdendo in questo modo la tranquillità della mente e non restituendo a costoro una pari dignità umana<ref>«Adice, quod sapiens et providet et in expedito consilium habet; numquam autem liquidum socerumque ex turbido venit. Tristitia inhabilis est ad dispiciendas res, utilia excogitanda, periculosa vitanda, aequa aestimanda ; ergo non miseretur, quia id sine miseria animi non fit. Cetera omnia, quae, qui miserentur, volo facere, libens et altus animo faciet ; succurret alienis lacrimis, non accedet ; dabit manum naufrago, exuli hospitium, egenti stipem, non hanc contumeliosam, quam pars maior horum, qui misericordes videri volunt, abicit et fastidit, quos adiuvat, contingique ab iis timet, sed ut homo homini ex communi dabit ; donabit lacrimis maternis filium et catenas solvi iubebit et ludo eximet et cadaver etiam noxium sepeliet, sed faciet ista tranquilla mente, vultu suo. Ergo non miserebitur sapiens, sed succurret, sed proderit, in commune auxilium natus ac bonum publicum, ex quo dabit cuique partem. Etiam ad calamitosos pro portione improbandosque et emendandos bonitatem suam permittet ; adflictis vero et forte laborantibus multo libentius subveniet. Quotiens poterit, fortunae intercedet ; ubi enim opibus potius utetur aut viribus, quam ad restituenda, quae casus impulit ? Vultum quidem non deiciet nec animum ob erus alicuius aridum aut pannosam maciem et innixam baculo senectutem; ceterum omnibus dignis proderit et deorum more calamitosos propitius respiciet.» (Seneca De Clementia, II, 6, 1-3).</ref>:{{q|<small>Aggiungi che il sapiente vede in anticipo la soluzione ed ha prontezza nel decidere. Quel che è trasparente e puro, d'altra parte, non viene mai da quel che è intorbidato: la tristezza è inadatta a discernere bene le cose, a trovare quelle utili, a evitare quelle pericolose, a valutare quelle equivalenti. Il sapiente non prova quindi compassione, poiché ciò non avviene senza infelicità. Egli compirà di buon grado e con animo elevato tutte le azioni che coloro che provano compassione intendono compiere: verrà in soccorso al pianto altrui, senza aderirvi; offrirà la mano al naufrago, all'esiliato il ricovero, al bisognoso l'elemosina, non quella insultante, buttata dalla maggioranza di coloro che vorrebbero sembrare pietosi, provando disgusto per quelli che aiutano e temendo il loro contatto, ma l'offrirà da uomo a uomo, dal patrimonio condiviso in comune; grazierà un figlio in virtù del pianto di sua madre, intimerà di slegare le catene, sottrarrà alla condanna dei giochi nel circo e farà seppellire un cadavere, anche se di un reo, ma compirà questi gesti con mente tranquilla, mantenendo in viso l'espressione che gli compete. Il sapiente non proverà compassione, quindi, ma verrà in soccorso e porterà giovamento, nato com'è per un'assistenza aperta a tutti e per il bene pubblico, dal quale offrirà a ciascuno la sua parte. Anche ai soggetti a rischio e riprovevoli, ma insieme meritevoli di correzione, egli dispenserà in proporzione la sua bontà; egli soccorrerà però molto di buon grado i disgraziati e quelli che per qualche caso si trovano in difficoltà. Tutte le volte che potrà farlo, emetterà un veto contro la fortuna: quando, infatti, farà uso delle proprie sostanze o delle proprie forze meglio che per risollevare ciò che le circostanza hanno fatto precipitare? Non distoglierà certo lo sguardo e neppure l'animo di fronte alla gamba rinsecchita di qualcuno o a una magrezza cenciosa e una vecchiaia appoggiata al bastone; egli porterà giovamento a tutti quelli che ne sono degni e alla maniera degli dèi si volgerà a guardare i soggetti a rischio con occhio più favorevole.</small>|Seneca ''De Clementia'', II, 6, 1-3; traduzione di Ermanno Malaspina}}
Nella Bibbia ebraica i termini relativi al perdonare sono ''sālaḫ''<ref>Ad es. Lv 4,20; 1 Re 8,34; Sal 86,5.</ref> nel significato di "perdonare"; ''nāsā''<ref>Ad es. Gn 18, 24-26; Nm 14, 18 e sgg.; Is 53,12.</ref>, nel significato di "eliminare, sottrarre"; e ''kippœr''<ref>Ad es. Lv. 4,20 e sgg.</ref> questo inerente soprattutto ai riti penitenziali e ai sacrifici riparatori. Questi termini ebraici sono resi, nella versione greca della Septuaginta, per lo più con i termini greci di ''aphienai'' (ἀφιέναι), ''aphesis'' (ἄφεσις). Tale ambito ebraico inerisce essenzialmente alla volontà di Dio di essere misericordioso con gli uomini<ref>Cfr. ad es. Os. 11,8</ref> anche se non manca un diretto riferimento all'"amore" che copre ogni "colpa":{{q|<small>L'odio suscita litigi, l'amore ricopre ogni colpa.</small>|''Proverbi'', 10,12; |<small>נאה תעורר מדנים ועל כל־פשעים תכסה אהבה׃</small>|lingua=he}}
Nelle scritture cristiane il tema dell'amore nei confronti del prossimo, e quindi del perdono dell'offesa, diviene centrale nel messaggio religioso: solo perdonando, persino l'offesa del nemico, l'uomo può sperare nel perdono di Dio e quindi nella salvezza:
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{{q|1. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi '''amore''', sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. 2. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi '''amore''', non sarei nulla. 3. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi '''amore''', non mi gioverebbe a niente. 4. L<nowiki>'</nowiki>'''amore''' è paziente, è benevolo; l<nowiki>'</nowiki>'''amore''' non invidia; l<nowiki>'</nowiki>'''amore''' non si vanta, non si gonfia, 5. non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, 6. non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; 7. soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. 8. L<nowiki>'</nowiki>'''amore''' non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; 9. poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; 10. ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. 11. Quand'ero bambino, parlavo come un bambino, avevo il senno di un bambino, ragionavo come un bambino; quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. 12. Ora infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto. 13. Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, speranza e '''amore'''; ma la più grande di esse è l<nowiki>'</nowiki>'''amore'''.|Paolo di Tarso, ''1 Corinzi'' 13,1-13|1. Ἐὰν ταῖς γλώσσαις τῶν ἀνθρώπων λαλῶ καὶ τῶν ἀγγέλων, '''ἀγάπην''' δὲ μὴ ἔχω, γέγονα χαλκὸς ἠχῶν ἢ κύμβαλον ἀλαλάζον. 2. Καὶ ἐὰν ἔχω προφητείαν, καὶ εἰδῶ τὰ μυστήρια πάντα καὶ πᾶσαν τὴν γνῶσιν, καὶ ἐὰν ἔχω πᾶσαν τὴν πίστιν, ὥστε ὄρη μεθιστάνειν, '''ἀγάπην''' δὲ μὴ ἔχω, οὐθέν εἰμι. 3. Καὶ ἐὰν ψωμίσω πάντα τὰ ὑπάρχοντά μου, καὶ ἐὰν παραδῶ τὸ σῶμά μου ἵνα καυθήσωμαι, '''ἀγάπην''' δὲ μὴ ἔχω, οὐδὲν ὠφελοῦμαι. 4. Ἡ '''ἀγάπη''' μακροθυμεῖ, χρηστεύεται· ἡ '''ἀγάπη''' οὐ ζηλοῖ· ἡ '''ἀγάπη''' οὐ περπερεύεται, οὐ φυσιοῦται, 5. οὐκ ἀσχημονεῖ, οὐ ζητεῖ τὰ ἑαυτῆς, οὐ παροξύνεται, οὐ λογίζεται τὸ κακόν, 6. οὐ χαίρει ἐπὶ τῇ ἀδικίᾳ, συγχαίρει δὲ τῇ ἀληθείᾳ, 7πάντα στέγει, πάντα πιστεύει, πάντα ἐλπίζει, πάντα ὑπομένει. 8. Ἡ '''ἀγάπη''' οὐδέποτε ἐκπίπτει· εἴτε δὲ προφητεῖαι, καταργηθήσονται· εἴτε γλῶσσαι, παύσονται· εἴτε γνῶσις, καταργηθήσεται. 9. Ἐκ μέρους δὲ γινώσκομεν, καὶ ἐκ μέρους προφητεύομεν· 10. ὅταν δὲ ἔλθῃ τὸ τέλειον, τότε τὸ ἐκ μέρους καταργηθήσεται. 11. Ὅτε ἤμην νήπιος, ὡς νήπιος ἐλάλουν, ὡς νήπιος ἐφρόνουν, ὡς νήπιος ἐλογιζόμην· ὅτε δὲ γέγονα ἀνήρ, κατήργηκα τὰ τοῦ νηπίου. 12. Βλέπομεν γὰρ ἄρτι δι’ ἐσόπτρου ἐν αἰνίγματι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον· ἄρτι γινώσκω ἐκ μέρους, τότε δὲ ἐπιγνώσομαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην. 13. Νυνὶ δὲ μένει πίστις, ἐλπίς, '''ἀγάπη''', τὰ τρία ταῦτα· μείζων δὲ τούτων ἡ '''ἀγάπη'''.|lingua=grc}}
 
Questi sono i versi contenuti nella ''Prima lettera ai Corinzi'' redatta da Paolo di Tarso nel I secolo<ref>Va tenuto presente che le ''Lettere'' di Paolo di Tarso, unitamente a quella di Giacomo e alla ''Didaché'', sono i testimoni più antichi della letteratura cristiana, antecedenti alla redazione degli stessi Vangeli. Delle quattordici lettere contenute nel Nuovo Testamento solo sette sono considerate senza alcun dubbio, e unanimamenteunanimemente, opera di Paolo. Tra queste lettere figura la ''Prima lettera ai Corinzi'' che, come le altre sette (''Prima lettera ai Tessalonicesi'', ''Seconda lettera ai Corinzi'', ''ai Galati'', ''ai Romani'', ''ai Filippesi'' e ''a Filemone''), è stata scritta in un arco di circa dieci anni intorno all'anno 50. Queste lettere sono in assoluto i documenti più antichi del cristianesimo.</ref>, conosciuti anche come "Inno all'amore" o "Inno alla carità"<ref>"Carità" in questo caso e non "amore" ma solo in quanto il testo latino rende ''caritas'' e per alcuni renderebbe meglio in questo caso la nozione: «1 si linguis hominum loquar et angelorum caritatem autem non habeam factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens 2 et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam et habuero omnem fidem ita ut montes transferam caritatem autem non habuero nihil sum 3 et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas et si tradidero corpus meum ut ardeam caritatem autem non habuero nihil mihi prodest
4 caritas patiens est benigna est caritas non aemulatur non agit perperam non inflatur 5 non est ambitiosa non quaerit quae sua sunt non inritatur non cogitat malum 6 non gaudet super iniquitatem congaudet autem veritati 7 omnia suffert omnia credit omnia sperat omnia sustinet
8 caritas numquam excidit sive prophetiae evacuabuntur sive linguae cessabunt sive scientia destruetur 9 ex parte enim cognoscimus et ex parte prophetamus 10 cum autem venerit quod perfectum est evacuabitur quod ex parte est 11 cum essem parvulus loquebar ut parvulus sapiebam ut parvulus cogitabam ut parvulus quando factus sum vir evacuavi quae erant parvuli 12 videmus nunc per speculum in enigmate tunc autem facie ad faciem nunc cognosco ex parte tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum 13 nunc autem manet fides spes caritas tria haec maior autem his est caritas.»</ref>, considerato dagli esegeti il punto più alto dell'interpretazione paolina dell<nowiki>'</nowiki>''agape'' neotestamentaria, una specie di "cristologia velata" in quanto sarebbe stato proprio il Cristo, per Paolo, a fondare questo ideale di ἀγάπη/amore/caritas<ref>Rota Scalabrini 166</ref>.
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* Nella ''Prima lettera ai Corinzi'' del vescovo di Roma Clemente I, scritta in greco probabilmente a cavallo tra il I e il II secolo, il tema dell<nowiki>'</nowiki>''agape'' viene indagato e approfondito nel suo significato fondante cristiano:
{{q|49,1. Chi ha l’amore in Cristo pratichi i suoi comandamenti. 2. Chi può spiegare il vincolo dell’amore di Dio? 3. Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? 4. L'altezza ove conduce l’amore è ineffabile. 5. L’amore ci unisce a Dio: "L’amore copre la moltitudine dei peccati". L’amore tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale, nulla di superbo nell’amore. L’amore non ha scisma, l’amore non si ribella, l’amore tutto compie nella concordia. Nell’amore sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza amore nulla è accetto a Dio. 6. Nell’amore il Signore ci ha presi a sé. Per l’amore avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima. 50, 1. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa l’amore, e della sua perfezione non c'è commento. 2. Chi è capace di trovarsi in essa se non quelli che Dio ha reso degni? Preghiamo dunque e chiediamo alla sua misericordia perché siamo riconosciuti nell’amore, senza sollecitazione umana, irreprensibili. 3. Sono passate tutte le generazioni da Adamo sino ad oggi, ma quelli che con la grazia di Dio sono perfetti nell’amore raggiungono la schiera dei più, che saranno visti nel novero del regno di Cristo. 4. Infatti è scritto: "Entrate nelle vostre stanze per pochissimo, finché passa la mia ira e il mio furore; mi ricorderò del giorno buono e vi risusciterò dai vostri sepolcri". 5. Siamo beati, carissimi, se eseguiamo i comandamenti di Dio nella concordia dell’amore, perché ci siano rimessi i peccati per l’amore. 6. E'È scritto: "Beati quelli cui furono rimesse le malvagità e i cui peccati sono stati coperti; beato l'uomo del quale il Signore non considererà il peccato, né l'inganno è sulla sua bocca". 7. Questa beatitudine è per quelli scelti da Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen. |Clemente, ''Prima lettera ai Corinzi'', 49-50|49,1. Ὁ ἔχων ἀγάπην ἐν Χριστῷ ποιησάτω τὰ τοῦ Χριστοῦ παραγγέλματα. 2. τὸν δεσμὸν τῆς ἀγάπης τοῦ θεοῦ τίς δύνατια ἐξηγήσασθαι; 3. τὸ μεγαλεῖον τῆς καλλονῆς αὐτου τίς ἀρκετὸς ἐξειπεῖν; 4. τὸ ὕψος, εἰς ὃ ἀνάγε ἡ ἀγάπη, ἀνεκδιήγητόν ἐστιν. 5. ἀγάπη κολλᾷ ἡμᾶς τῷ θεῷ, ἀγάπη καλύπτε πλῆθος ἁμαρτιῶν, ἀγάπη πάντα ἀνέχεται, πάντα μακροθυμεῖ· οὐδὲν βάναυσον ἐν ἀγάπῃ, οὐδὲν ὑπερήφανον· ἀγάπη σχίσμα οὐκ ἔχει, ἀγάπη οὐ στασιάζει, ἀγάπη πάντα ποιεῖ ἐν ὁμονοίᾳ· ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐτελειώθησαν πάντες οἱ ἐκλεκτοὶ τοῦ θεοῦ, δίχα ἀγάπης οὐδὲνεὐάρεστόν ἐστιν τῷ θεῷ. 6. ἐν ἀγάπῃ προσελάβετο ἡμᾶς ὁ δεσπότης· διὰ τὴν ἀγάπην, ἣν χεν πρὸς ἡμᾶς, τὸ αἷμα αὐτοῦ ἔδ ἔσ ωκεν ὑπὲρ ἡμῶν Ἰησοῦς Χριστὸς ὁ κύριος ἡμῶν ἐν θελήματι θεοῦ, καὶ τὴν σάρκα ὑπὲρ τῆς σαρκὸς ἡμῶν καὶ τὴν ψυχὴν ὑπὲρ τῶν ψυχῶν ἡμῶν. 50,1. Ὁρᾶτε ἀγαπητοί, πῶς μέγα καὶ θαυμαστόν ἐστιν ἡ ἀγάπη, καὶ τῆς τελειότητος αὐτῆς οὐκ ἔστιν ἐξήγησις. 2. τίς ἱκανὸς ἐν αὐτῇ εὑρεθῆναι, εἰ μὴ οὓς ἂν καταξιώσῃ ὁ θεός; δεώμεθα οὖν καὶ αἰτώμεθα δίχα προσκλίσεως ἀνθρωπίνης, ἄμωμοι. 3. αἱ γενεαὶ´πᾶσαι ἀπὸ Ἀδὰμ ἕως τῆσδε τῆς ἡμέρας παρῆλθον, ἀλλ’ οἱ ἐν ἀγάπῃ τελειωθέντες κατὰ τὴν τοῦ θεοῦ χάριν ἔχουσιν χῶρον εὐσεβῶν, οἳ φανερωθήσονται ἐν τῇ ἐπισκοπῇ τῆς βασιλείας τοῦ Χριστοῦ. 4. γέγραπται γάρ· Εἰσέλθετε εἰς τὰ ταμεῖα μικρὸν ὅον ὅσον, ἕως οὗ παρέλθῃ ἡ ὀργὴ καὶ ὁ θυμός μου, καὶ μνησθήσομαι ἡμέρας ἀγαθῆς, καὶ ἀναστήσω ὑμᾶς ἐκ τῶν θηκῶν ὑμῶν. 5. μακάριοί ἐσμεν, ἀγαπητοί, εἰ τὰ προτάγματα τοῦ θεοῦ ἐποιοῦμεν ἐν ὁμονοίᾳ ἀγάπης, εἰς τὸ ἀφεθῆναι ἡμῖν δι’ ἀγάπης τὰς ἁμαρτίας. 6. γέγραπται γάρ· Μακάριοι, ὧν ἀφέθησαν αἱ ἀνομίαι καὶ ὧν ἐπεκαλύφθησαν αἱ ἁματίαν, οὐδέ ἐστιν ἐν τῷ στόματι αὐτου δόλος· 7. οὗτος ὁ μακαρισμὸς ἐγένετο ἐπὶ τοὺς ἐκλελεγμένους ὑπὸ τοῦ θεοῦ διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου ἡμῶν, ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. ἀμήν.|lingua=grc}}
 
* Nella ''Lettera di Barnaba'', uno scritto in greco raccolto anche nel Codice ''Sinaiticus'' (IV secolo), ma databile intorno alla metà del II secolo e attribuita a Barnaba, a partire da Clemente Alessandrino,