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Con il termine '''Geofilosofia''' si indica, negli studi [[filosofia|filosofici]], quell'ambito, problematico, relativo al pensare della terra nell'epoca della [[globalizzazione]]<ref>[[Luisa Bonesio]], ''Geofilosofia'',
in "Enciclopedia filosofica", vol. 5 p. 4637. Milano, Bompiani, 2006</ref>, ossia al «tema della pluralità dei luoghi della terra a confronto con la crescente omologazione delle tecniche in un mondo globalizzato»<ref>Cfr. ''Geofilosofia'' in [http://www.treccani.it/enciclopedia/geofilosofia_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/ "Lessico del XXI secolo", Roma, Treccani, 2012].</ref>.
 
==Origine del termine e della problematica==
Il termine "geofilosofia" (dal francese: ''géophilosophie'') fu coniato dai filosofi francesi [[Gilles Deleuze]] e [[Félix Guattari]] e utilizzato per la prima volta nella loro opera ''Qu'est-ce que la philosophie?'' del 1991.
 
In questa opera, segnatamente nel capitolo 4 significativamente intitolato "Géophilosophie", i due filosofi francesi osservano:
 
{{q|Il soggetto e l'oggetto forniscono una cattiva approssimazione del pensiero. Pensare non è un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell'uno intorno all'altro. Il pensare si realizza piuttosto nel rapporto fra il territorio e la terra.|[[Gilles Deleuze]] e [[Félix Guattari]], ''Qu'est-ce que la philosophie?''. Parigi, Les Édition de Minuit, 2005 (1991), p. 82. Traduzione in lingua italiana di Angela De Lorenzis in [[Gilles Deleuze]] e [[Félix Guattari]], ''Che cos'è la filosofia''. Torino, Einaudi, 1996, p.77 |Le subject et l'objet donnent une mauvaise approximation de la pensée. Penser n'est ni un fil tendu entre un sujet et un objet, ni une révolution de l'un autor de l'autre. Penser se fait plutôt dans le rapport du territorie et de la terre|lingua=fr}}
 
Da qui la geografia diviene un contesto impreteribile per una filosofia che ritiene doveroso portare il territorio e la terra al pensiero, in analogo modo con cui altre discipline, come la "[[geopolitica]]" o la "[[geoeconomia]]", hanno inteso ripensare l'orizzonte della terra alla luce dell'affermazione planetaria della tecnoscienza<ref>Bonesio, p. 4637</ref>.
 
[[Luisa Bonesio]] nota che se diversi sono sono gli studi che hanno arricchito la ''geofilosofia'', essi possono essere ricondotti a due filoni apparentemente antitetici individuati da [[Massimo Cacciari]] nel suo ''Icone della legge''<ref>[[Massimo Cacciari]], ''Icone della legge''. Milano, Adelphi, 2002</ref> (precisamente nel capitolo ''Errante radice''), là dove il filosofo italiano individua due differenti letture della problematica.
 
La prima inerisce a una lettura del filosofo tedesco di cultura ebraica [[Franz Rosenzweig]], in particolar modo nell'opera ''Der Stern der Erlösung'' (1921, "La Stella della redenzione"), là dove viene individuata la tradizione ebraica dello sradicamento e quindi della interminabile ricerca della terra santa che obbliga il popolo ebraico alla erranza, per cui nessuna terra può mettere in quiete, in quanto esso è legato alla legge e all'ascolto dei suoi dettami. Per questa ragione l'ebreo risulterebbe la figura metafisica dello sradicamento<ref>Luisa Bonesio, p.4637</ref>, condizione che nella mistica ebraica è resa con l'immagine dell'albero rovesciato le cui radici sono nel cielo, nella ''Torah'', e che spiega l'unicità del popolo eletto:
 
{{q|Perciò la saga delle origini del popolo eterno non comincia, come quelle dei popoli del mondo, con la narrazione della sua autoctonia. [...] il padre progenitore di Israele invece è migrato; la sua storia, com'è narrata nei libri sacri, inizia con il comando divino di uscire dalla terra della sua nascita e di recarsi in una terra che Dio gli mostrerà. E sia agli albori della sua remota antichità, sia anche più tardi, nella chiara luce della storia, il popolo diviene popolo attraverso un esilio, quello egiziano prima e quello babilonese poi. E la patria, in cui la vita di un popolo del mondo prende dimora e scava il suo solco nella terra, fin quasi a dimenticare che essere un popolo vuol dire anche qualcos'altro che non il semplice essere insediati in un paese, per il popolo eterno la patria non diviene mai sua in tal senso; a lui non e concesso incanaglirsi a casa propria, ma mantiene sempre l'indipendenza di un viaggiatore e per la sua terra è un cavaliere più fedele quando si trova fuori di essa per viaggio avventure, sospirando la patria lasciata, che non nel tempo che trascorre a casa. La terra è sua, nel senso più profondo, proprio soltanto come terra della sua nostalgia, come terra santa. E per questo, diversamente, ancora una volta, da quanto accade agli altri popoli della terra, la piena proprietà della sua terra gli viene contestata, egli stesso è soltanto uno straniero ed un meteco sulla sua terra. [...] e la santità della terra sottrae il paese alla sua spregiudicata presa di possesso, finché poteva ancora impossessarsene; essa accresce all'infinito la sua nostalgia della terra perduta e di conseguenza non gli permette di sentirsi mai più totalmente a casa propria in nessun'altra terra. Essa lo costringe a concentrare l'intero peso della sua volontà di essere popolo in un unico punto, che presso gli altri popoli del mondo è solo un punto tra gli altri, nel punto puro e semplice della vita; nella comunanza del sangue. [...] |[[Franz Rosenzweig]], ''Der Stern der Erlösung''. Francoforte, Kauffmann Verlag, 1921, pp. 377-378; traduzione di Gianfranco Bonola, in ''La Stella della redenzione''. Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp.321-322.|Deshalb beginnt die Stammessage des ewigen Volks, anders als die der Völker der Welt, nicht mit der Autochthonie. [...] der Stammvater Israels aber ist zugewandert; mit dem göttlichen Befehl, herauszugehen aus dem Lande seiner Geburt und hinzugehen in ein Land, das Gott ihm zeigen wird, hebt seine Geschichte, wie sie die heiligen Bücher erzahlen, an. Und zum Volke wird das Volk, so im Morgendämmer seiner Urzeit wie nachher wieder im hellen Licht der Geschichte, in einem Exil, dem egyptischen wie nachher dem in Babel. Und die Heimat, in die sich das Leben eines Weltvolks einwohnt und einpflügt, bis es beinahe vergessen hat, daß Volk sein noch etwas andres heißt als im Lande sitzen, — dem ewigen Volk wird sie nie in solchem Sinn eigen; ihm ist nicht gegönnt, sich daheim zu verliegen; es behält stets die Ungebundenheit eines Fahrenden und ist seinem Lande ein getreuerer Ritter, wenn es auf Fahrten und Abenteuern draußen weilt und sich nach der verlassnen Heimat zurücksehnt, als in den Zeiten wo es zuhause ist. Das Land ist ihm im tiefsten Sinn eigen eben nur als Land seiner Sehnsucht, als — heiliges Land. Und darum wird ihm sogar wenn es daheim ist, wiederum anders als allen Völkern der Erde, dies volle Eigentum der Heimat bestritten: es selbst ist nur ein Fremdling und Beisaß in seinem Lande; [...] die Heiligkeit des Landes entrückt das Land seinem unbefangenen Zugriff, solange es zugreifen konnte; sie steigert seine Sehnsucht nach dem verlorenen ins Unendliche und laßt es hinfürder in keinem andern Land mehr ganz heimisch werden; sie zwingt es, die volle Wucht des Willens zum Volk in den einen Punkt zu sammeln, der bei den Völkern der Welt nur einer unter andern ist, dem eigentlichen und reinen Lebenspunkt, der Blutsgemeinschaft; [...] |lingua=DE}}
 
La seconda lettura è propria dell'opera ''Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum'' (1950) del filosofo tedesco [[Carl Schmitt]], dove alla de-localizzazione (''Entortung'') presente nella prima, viene opposta la nozione greca di ''nomos'', ossia della spartizione secondo le regole della terra decidendone possedimenti e quindi i confini. In questa opera, Schmitt rileva che, a differenza del mare e del deserto, solo sulla terra è possibile abitare, solo per mezzo di essa si esprime la legge, il diritto:
 
{{q|La terra è legata al diritto in tre modi. Essa lo ripone in sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come fermo confine; lo sostiene su di sé, quale atto pubblico dell’ordinamento. Il diritto è legato alla terra e riferito alla terra. Questo è ciò che il poeta intende quando, parlando della terra infinitamente giusta, la definisce ‘justissima tellus’. |[[Carl Schmitt]], ''Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum''. Berlino, Duncker & Humblot, 1974 (1950), p.13 |So ist die Erde in dreifacher Weise mit dem Recht verbunden. Sie birgt es in sich, als Lohn der Arbeit; sie zeigt es an sich, als feste Grenze; und sie trägt es auf sich, als öffentliches Mal der Ordnung. Das Recht ist erdhaft und auf die Erde bezogen. Das meint der Dichter, wenn er von der allgerechten Erde spricht und sagt: justissima tellus.|lingua=DE}}
 
Dal che per lo Schmitt la terra è la radice del diritto, mentre lo sradicamento in atto causato dalla delocalizzazione planetaria è causa del nichilismo e della fine di quel ''ius publicum europaeum'' che era in grado di regolare e limitare i conflitti. E, come sintetizza Luisa Bonesio, per Carl Schmitt «La crisi del ''nomos'' è il prodromo dell'era attuale, di quel processo di globalizzazione che ha travolto gli ordinamenti statali e terranei, ma segna anche l'inizio di una più vasta perdita di radicamento che comporta la fine della memoria culturale, delle identità, dei paesaggi tradizionali, rimettendo tutto nel flusso indifferenziato, distruttore e omologante della tecnica, della sua forza delocalizzatrice astraente e nichilistica.»<ref>Luisa Bonesio, p. 4638.</ref>.
 
==Le radici nietzschiane della geofilosofia==
{{q|Cosí Nietzsche ha fondato la geo-filosofia, cercando di determinare i caratteri nazionali della filosofia francese, inglese, tedesca.|[[Gilles Deleuze]] e [[Félix Guattari]], ''Qu'est-ce que la philosophie?''. Parigi, Les Édition de Minuit, 2005 (1991), p. 98. Traduzione in lingua italiana di Angela De Lorenzis in [[Gilles Deleuze]] e [[Félix Guattari]], ''Che cos'è la filosofia''. Torino, Einaudi, 1996, p.96|Ainsi Nietzsche a fondé la géo-philosophie en chercant à detérminer les caractères nationaux de la philosophie française, anglaise et allemande.|lingua=FR}}
 
==Note==
<references/>
 
 
==Collegamenti esterni==