Storia della letteratura italiana/Cesare Pavese: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Riga 24:
Pertanto ciò che interessa a Pavese veramente (e su questo argomento egli si sofferma più volte nel suo Mestiere di vivere) è quello di riuscire a rappresentare non tanto la realtà oggettiva delle cose ma quella che egli definisce la "''realtà simbolica''" <ref>Il riferimento si trova nello ''schema'' tracciato dallo stesso Pavese nel ''Mestiere di vivere'' il 26 novembre 1939</ref>, quella cioè che si nasconde al di sotto della esteriorità.
{{Quote|Ci vuole la ricchezza d'esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo. Tutta l'arte è un problema di equilibrio fra due opposti.<ref>da ''Il mestiere di vivere'', ''op. cit.'', pag. 166, 14 dicembre 1939</ref>}}
Occorre inoltre specificare che, come ha affermato il professor Guido D. Bonino, Pavese unisce il concetto di simbolo con quello di '''mito'''. Quest'ultimo, stando alla filosofia pavesiana, si profila come l'obiettivo cui la poetica deve tendere, il mistero arcano, oscuro da svelare, il lato selvaggio, truculento da domare, riscoprendolo con un secondo apprendimento, quello della memoria. Infatti tutti noi apprendiamo il mito nel periodo dell'adolescenza, facendo le nostre esperienze, in quella fase paragonabile a un limbo tra innocenza e maturità, in cui ogni scoperta ha influssi simbolici, appunto, permanenti ed estremamente significativi. Ma la scoperta, lo scioglimento dell'enigma mitico rappresenta la fine dell'arte, un arresto incontrovertibile, in quanto - mediante questo processo - subentra la storia, la realtà, che domina il simbolo e lo chiarifica, estinguendolo, esaurendolo.
 
Sono più d'uno gli scrittori del Novecento che adottano, nella propria arte, il mito. Questa è una caratteristica tipica degli scrittori americani, "importata" in Italia da intellettuali quali, appunto, Pavese, [[Elio Vittorini]], [[Beppe Fenoglio]]. In Pavese, inoltre, la giovinezza stessa è un mito, un'ossessione (termine molto caro, invece, a [[Pier Paolo Pasolini]]). Leggendo Pavese ci imbattiamo in un desiderio, in un costante rimpianto dell'adolescenza (fatto che lo rende accostabile, in un certo senso, a [[Giovanni Pascoli]]). Ma mentre per altri questo "ritorno" è cosa possibile o, comunque, non messa in discussione ma semplicemente attesa e ammirata, Pavese respinge questa possibilità, reputandola impossibile.
 
È questo il tema centrale del capolavoro pavesiano, "''[[La luna e i falò]]''". Il protagonista, Anguilla, si è allontanato dal paese natale, per far fortuna in America. Tornato, si trova di fronte a un senso di spaesamento, tenta di reintegrarsi ma non ci riesce. Tutti i legami che aveva con le proprie origini e con la propria adolescenza si sono scissi, eccetto quello con l'amico Nuto. In conclusione, il senso del ritorno (che riecheggia, in quanto Pavese era un grande appassionato di mitologia classica, il ''nostos'' dell'Ulisse omerico) è fallito, le illusioni di recuperare il tempo perduto si dimostrano tali.
E la storia (la guerra civile) ha sconfitto il mito, perché alla conclusione del romanzo, prendendo d'esempio il simbolo-chiave del romanzo, cioè il ''falò'', i significati simbolici cedono spazio a quelli reali: i falò, interpretati come uso tradizionale contadino per "risvegliare" la terra, diventano roghi di morte e distruzione, riecheggianti le devastazioni della guerra civile.